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European Diversity and Autonomy Papers
EDAP 04/2010
Oltre il locale e il globale: il senso
glocale dell’appartenenza
contemporanea
Riccardo Giumelli
Managing editors:
Emma Lantschner / Francesco Palermo / Gabriel N. Toggenburg
Editorial Board:
In alphabetical order:
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Values and the Case of Cultural Diversity”, 1 European Diversity and
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Giumelli – Oltre il locale e il globale
Abstract
Globalisation is constantly redefining the processes of individual and collective
identity construction. What we are experiencing is a transition period whose
consequences are not clear and may be totally unexpected. What appears more
clearly is the deconstruction of a world, which has been built by the modern
concept of nation-states, which over the last three centuries gave rise to any
form of sense of belonging to a collective identity.
If the State suffers blows from all directions, however, it holds and reacts;
probably because there is no clear conceptualization, in institutional terms, of
the new effective and post-modern centers of powers. Nowadays, identity and
sense of belonging assume sense only in a glocal dimension that sums up the
tensions in the direction of local and global at the same time.
Author
Riccardo Giumelli, sociologist, conducts research for DISPO (Department of
Sociology and Political Science) at the Faculty of Political Science “Cesare
Alfieri”, University of Florence. Since 2005 he has taught “Theory and Practices
of Journalism”, “Strategies of Journalistic Communication” and “Sociology of
Cultural Processes” at the University of Florence. Actually he teaches, always in
Florence, “Theory and Practices of Communication”. He worked for the Italian
Representation of OEDC in Paris, and currently he has a collaboration with the
association Globus et Locus in Milan, on the themes of glocalism, directed by
Piero Bassetti, , and he is responsible of the editorial office for a cultural
Florentine magazine named “Il Fuoco”.
He writes for national and international cultural journals and in 2010 he
published his book “Lo Sguardo italico. Nuovi orizzonti del Cosmopolitismo”, on
the issues of Italian identity.
The author can be reached at: e–mail riccardo.giumelli unifi.it
Key words
Individual and collective identity - sense of belonging – localism - nation-state -
globalisation – glocalisation - modernity and post-modernity.
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Giumelli – Oltre il locale e il globale
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Indice
1. Premessa ............................................................................. 5
2. Oltre il locale e il globale: il senso glocale dell’appartenenza
contemporanea .......................................................................... 7
3. Appendice: Manifesto dei Glocalisti ........................................... 25
Giumelli – Oltre il locale e il globale
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Oltre il locale e il globale: il senso glocale
dell’appartenenza contemporanea
Riccardo Giumelli
1. Premessa
In questo testo, che ha natura prettamente sociologica, focalizzeremo
l’attenzione, in particolar modo, su due temi strettamente connessi tra loro:
l’identità e il senso dell’ appartenenza. Adottiamo un punto di vista
sociologico, non tanto perché crediamo che esso debba spiegare, come la
tradizione insegna, i movimenti collettivi ma in quanto il lavoro del sociologo
è quello d’interpretare l’esperienza della condizione umana, al tempo stesso,
nei suoi percorsi collettivi e individuali. Uno sguardo che nelle difficoltà
d’interpretazione dei fatti contemporanei può essere di aiuto.
L’ identità e il senso di appartenenza rappresentano due facce della stessa
medaglia. Possiamo rispondere alla domanda chi sono e/o chi siamo se
riconosciamo elementi comuni, se è possibile definire la distinzione dall’altro
e dagli altri, se si percepisce coerentemente l’unicità del proprio io e del
proprio gruppo, se principi ordinatori di natura escatologica riescono ad
eliminare quel caos esistenziale nel quale l’uomo si trova immerso. Tuttavia,
la stessa parola identità è oggi più che mai abusata. Essa viene utilizzata
continuamente, non solo in ambiti più prettamente sociologici, ma nei vari
settori mediatici: articoli giornalistici, cinema, consigli di esperti di vario
genere ecc… La formula è sempre più o meno la stessa: raccontare come
conquistarsi un’identità, sia individuale che collettiva. Identità come fine,
percorso da compiere, ma che paradossalmente diviene irraggiungibile, mai
perfettamente chiara. La ricerca è un cane che si morde la coda, più sfugge
più ostinatamente viene inseguita. E’ un sistema a circuito chiuso, senza vie
di uscita, tanto che poco alla volta essa può diventare ossessione.1
Un’ossessione che nasce nell’incertezza e nella frammentazione del
quotidiano e che spinge a consumare sempre più energie per trovare ripari
solidi, un’ alcova lontana dalla cacofonia esistenziale degli stili di vita post-
moderni.
E’ in questo contesto, seppur brevemente accennato, che proveremo a
comprendere, attraverso uno sguardo dall’alto, come in volo, osservando e
fotografando il panorama sotto i nostri occhi, il modo nel quale tale relazione
si sia modificata. Non ci sarà possibile descrivere gli interstizi, i particolari al
microscopio, le sottigliezze, che ovviamente non potrebbero essere trattate
1 Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 2007.
Giumelli – Oltre il locale e il globale
per un argomento così vasto. Preferiamo provare a suscitare interesse nel
lettore, rimandando alla sua curiosità di cercare nelle letture bibliografiche e
altrove quelle fessure qui appena intraviste.
Ripercorreremo alcuni dei processi sociali che a tali temi hanno dato
significato nel corso del tempo e, soprattutto, le grandi trasformazioni
storico-culturali che con essi sono sopraggiunte. Lo faremo descrivendo tre
momenti tra loro contigui e non divisi da cesure temporali dettate da
particolari eventi o fatti storici spartiacque. Il primo momento è quello delle
società caratterizzate dal loco, cioè dal locale; il secondo momento dal
nazionale ed infine dal globale che, nel nostro caso preferiamo, distinguendo,
definire glocale.
Infine abbiamo pensato di aggiungere in appendice, il Manifesto dei
Glocalisti pensato e redatto da Piero Bassetti, presidente dell’Ass. Globus et
Locus di Milano, che di questi temi si occupa. Facciamo questo perché
riteniamo che esso possa essere un modo per riconoscere e definire quelle
pratiche glocali, che altrimenti potrebbero sembrare solo frutto di percorsi di
pensiero. E’ quindi un modo per rendere più intellegibile quanto qui di seguito
descritto, e per fornire uno strumento assertivo e diretto a chi volesse avere
più chiara la riflessione glocalista ma soprattutto trovare le chiavi adatte per
metterla in pratica.
2. Oltre il locale e il globale: il senso glocale dell’appartenenza
contemporanea
Le grandi civiltà del passato si sono collocate e hanno agito su territori
piuttosto estesi, basta pensare a quella egiziana, a quella greco-macedone
sotto Alessandro Magno o a quella romana. Malgrado questo, l’organizzazione
della vita sociale ed il sentimento di appartenenza degli individui resta
fortemente localizzato, anche se gli scambi, soprattutto commerciali, dei
prodotti e degli schiavi, che mettono di fronte compratori e venditori
provenienti dalle zone più remote, può far pensare ad un raggio d’azione
ampio e capillare. Tuttavia, tale raggio riguarda solo una piccola elite. La
maggior parte della popolazione abita nelle mura cittadine, sempre più alte e
robuste, che distinguono un fuori da un dentro, designando lo straniero che
può venire in pace, magari accolto con tutti gli onori del caso, oppure che
mostra nuove merci o, ancora, tenta di conquistare la città. I centri abitativi,
quindi, normalmente di piccole dimensioni, s’identificano con la comunità
che, a sua volta, li rappresenta e protegge, esercitando un forte controllo
sociale sui propri abitanti, i quali rispettano le leggi non solo perché imposte,
ma perché strutturanti una tradizione dell’agire sociale consolidato nel
tempo, fondato su consuetudini e memorie comuni. Il luogo che si abita è il
proprio mondo, nel quale ognuno si riconosce e da senso alla propria identità.
Allontanarsi da esso diviene un vero e proprio trauma perché svanisce
l’appartenenza che da ordine agli eventi quotidiani. La crisi emerge nel
momento in cui scompare l’elemento simbolico di confine tra le proprie
certezze ed il disagio esistenziale, come il campanile del proprio villaggio, la
propria casa, le facce conosciute ecc…
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Giumelli – Oltre il locale e il globale
Ciononostante, se quella che abbiamo descritto è stata ed è ancora, per
certi versi, una realtà diffusa, non possiamo non tenere in conto che Roma,
Gerusalemme e Atene, nell’antichità, sono luoghi dove l’elemento
universalistico trascende quello territoriale che rappresentano. I confini non
costituiscono, nella maggior parte dei casi, le colonne d’Ercole invalicabili ma
piuttosto la sfida e la conquista. Roma li attraversa con le avventure militari e
di conquista, alle quali affianca un’ organizzazione del potere e della
partecipazione alla struttura politico-sociale, prima nella Repubblica e poi
nell’Impero, attraverso un’organizzazione legislativa sui diritti e doveri dei
cittadini, sulla base del più ampio concetto di persona. Lo fa anche
Gerusalemme, per motivi prettamente religiosi e per tutto il grande lavoro
ermeneutico e di interpretazione dei testi al quale da inizio. Infine Atene, per
i principi filosofici, come tutti sappiamo, che non solo ispirano qualsiasi
modello di democrazia pensato nella storia dell’uomo ma introducono il
concetto di paideia, come ideale di formazione umana e di consapevolezza
del sé in armonia con il mondo. Tuttavia, anche se queste città incarnano, più
di altre, la spinta ad andare oltre ogni forma locale della vita dell’uomo,
perché esaltano la tendenza dell’uomo ad uscire dall’ hic et nunc per porsi in
una dimensione trascendente, totale, universalistica; gran parte della vita
sociale è ancora dominata da piccole comunità distinte, rivali tra loro, in
pochi casi cooperative, che si distinguono su territori, come abbiamo detto,
piuttosto limitati. La costruzione dell’appartenenza avviene attraverso un
modello centro/periferia tipico soprattutto degli imperi. Questi sono a loro
volta divisi in piccoli loci che mantengono un loro ordine, o meglio, forme
quotidiane di controllo sociale.
E’ la stanzialità determinatasi con l’agricoltura e la pastorizia, cominciata
circa 9.000 anni prima della nascita di Gesù Cristo, che costruisce un mondo
fatto di popoli raggruppati intorno a piccoli territori. Società tradizionali che
nel corso dei secoli continuano ad identificarsi localmente, dove prevale la
partecipazione collettiva al rito, la dimensione del latifondo di concessione
imperiale che determina mansioni e ruoli per le aristocrazie ed i lavoratori
della terra, mentre in città ai notabili si affiancano mercanti e nuovi artigiani
sempre più specializzati. Dove la religione cristiana, sia nella versione
cattolica che in quella protestante – in particolar modo nel contesto europeo -
assume il compito di dare senso ai misteri più profondi dell’uomo nella piccola
comunità di riferimento: la vita e la morte in primo luogo.
Nelle comunità tradizionali, la vita appare come preordinata, costruita a
priori da ruoli che richiedono di essere ricoperti per tutto il corso della
propria vita, dove nascere in una famiglia povera significa esserlo per sempre
e viceversa. La gestione del potere è fortemente gerarchica pertanto, la
mobilità sociale, diremmo oggi, non esiste o è molto limitata. Le identità non
sono mutevoli, ma rigide. Non ci sono scelte, ad ogni uomo tocca un destino
già stabilito secondo regole predeterminate.
L’ordine sociale è garantito da forme quasi automatiche, quella “solidarietà
meccanica”, come la definisce Emile Durkheim, caratteristica della bassa
divisione del lavoro, dove la coesione collettiva è garantita attraverso
l’imposizione di forze repressive. Il senso dell’appartenenza è riconosciuto
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Giumelli – Oltre il locale e il globale
soprattutto alla comunità di riferimento, Gemeinschaft nei termini del
sociologo Ferdinand Tonnies. In primo luogo alla famiglia, al coniuge, ai figli,
ai parenti più stretti; ma anche al vicinato, agli amici con i quali si
condividono esperienze e memorie comuni, linguaggi, abitudini, vicinanza
fisica e di spirito.
A questo punto il passaggio che a noi interessa, dal punto di vista
sociologico, è quello dalle società tradizionali a quelle moderne, dal quale
prende forma la stessa sociologia: da Comte allo stesso Durkheim, da Spencer
a Weber, da Tonnies a Marx e Simmel, ecc… E’ il passaggio che muove da
identità fortemente localizzate ad altre caratterizzate nazionalmente.
Si tratta del passaggio verso la modernità, con i suoi stili, le sue
organizzazioni sociali ed economiche, le sue strutture politiche. Tuttavia, a
noi servono solo alcune nozioni, che possano far capire come le identità
collettive vadano a riconfigurarsi nel loro farsi auto-determinante nel
contesto di processi sempre più complessi ed ampi.
Seguendo le idee sull’evoluzionismo del francese Comte, si presume che le
società raggiungano progressivamente stadi sempre più evoluti. Ciò significa
maggiore complessità, e quindi necessità di una migliore organizzazione
sociale.
E’ tuttavia, nei termini durkheimiani, che tale passaggio si chiarisce verso
una nuova forma di solidarietà, detta organica. L’industrializzazione di massa,
la concezione del progresso dell’attività umana diventano i motori della
modernizzazione e pertanto i legami sociali mutano. Non più forme di
solidarietà costituite da elementi più o meno simili ed egualmente sottoposti
a poteri superiori, ma attori sociali via via sempre più differenti, divisi dalla
collocazione nel nuovo mondo del lavoro. La divisione e la specializzazione
delle mansioni lavorative, tipiche poi del sistema fordista e taylorista,
determinano le differenze della modernità. Il sistema sociale si fa più
complesso, ognuno vi svolge ruoli specifici in relazione a quelli degli altri.
Ossia, la modernità costruisce equilibri di convivenza più ampi di quella
previsti dalla solidarietà meccanica. Ogni individuo si specializza ma per il
proprio benessere necessita di un numero sempre maggiore di altri individui
specializzati a loro volta in altri settori. La divisione del lavoro impone forme
di società allargate. Esse vengono definite come masse, caratteristiche
proprio della modernità, contraddistinte da un aumento voluminoso di scambi
sociali e dall’anomia dei singoli individui, distanti l’uno dall’altro. Società che
implicano non più forme di controllo garantite dalla parola o dalla spada, ma
da una costruzione contrattualistica del potere, come già aveva previsto
Rousseau, e dall’adozione di un diritto definito restituivo piuttosto che
repressivo. Un diritto, quello restituivo, come quello commerciale e civile,
che intende ristabilire la situazione ottimale, cioè quella antecedente alla
trasgressione della legge. Non più quindi espiazione o punizione ma bensì
riparazione o patteggiamento. Tutto questo per dire che le vecchie forme
tradizionali della gestione del potere vengono a sbriciolarsi. Sono necessarie
nuove istituzioni: un potere ampio che trascenda il loco, moderno,
democratico, centralizzato, autonomo, che si fondi sul consenso delle masse e
che soprattutto sappia dare loro appartenenza. Allo stesso modo sappia
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riconoscere i nuovi individui moderni, consapevoli sempre più della loro
unicità ma che vivono la nuova appartenenza all’interno di una visione più
impersonale e contrattualistica. L’uomo moderno, nelle parole di del
sociologo tedesco Simmel,2 è come le cifre delle casseforti, composto da
elementi simili ma che insieme e mescolati formano una precisa e
inconfondibile combinazione. Scrive a tal proposito Tonnies: “La teoria della
società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che
solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in
essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre
nella comunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li
separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori
che li uniscono”3. La gestione di quei fattori appartiene allo Stato-nazione.
Similmente il sociologo tedesco Norbert Elias4 scorge la funzione
dell'interdipendenza sociale, approdo del passaggio di potere dal disporre
della terra al disporre dei mezzi finanziari. Si tratta del grande monopolio
centralizzato, non più disgregato localmente in unità territoriali piccole come
nel periodo feudatario, ma come strumento dell'intera società in cui le
funzioni sono divise. L'organo centrale è lo Stato, che assume il ruolo di
coordinamento e regolamentazione di tutto il complesso dei processi.
L’apparato politico nazionale, allora, prende in carico il compito,
attraverso gli strumenti che vedremo, di ricollocare l’ individuo ed i gruppi
all’interno di un noi più allargato ma che non sempre appare chiaro,5 almeno
per i singoli. Essi possono percepirsi distanti, sconosciuti, diversi e
irraggiungibili. Tuttavia, la società moderna può e deve costruirsi sulla
diversità, sulla non essenziale conoscenza degli individui tra loro, capaci
tuttavia di scendere al fianco in guerra se necessario. Lo Stato, in termini
sociologici, guida la missione funzionalista della società. Come un organo,
ogni settore sociale concorre a far sopravvivere il corpo nel suo complesso.
Seppur allargato e anomico, lo spazio sociale della modernità è quello
costituito dal sistema dei fattori di produzione e dall’aumento degli scambi,
come detto. Il motore di tutto questo risiede nei valori e nei processi
incarnati dall’ascesa della nuova classe borghese, che accumula capitali e li
investe, che fa muovere le merci, che amplia i mercati, compete nell’arena
politica del potere con un’aristocrazia in declino, destinata alla gloria di titoli
ed onorificenze che non sono più in grado di concorrere con i privilegi
economici e politici che i borghesi stanno accumulando. La classe borghese si
sente portatrice di valori per tutti, dall’emancipazione dell’individuo e dei
2 Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Armando Ed., Roma 1995.
3 Ferdinan Tönnies, Teoria della comunità e della società, 1957.
4 Norbert Elias, La società degli individui, Il Mulino, Bologna 1990.
5 Come per esempio lo è per molti italiani dopo l’Unità d’Italia, in particolar modo quando devono
fare i conti con gli obblighi amministrativi imposti: nuove tasse, la leva e la scuola. Molti italiani
rimangono dubbiosi sul senso di appartenenza ad una patria per la quale combattere, come durante
la Prima guerra mondiale. Pensiamo, ad esempio, anche al caso dei referendum per l’annessione,
come in Toscana, al quale si presentano meno del 20% degli aventi diritto di voto, e molti di questi,
braccianti, vengono accompagnati ed obbligati a votare da piccoli proprietari terrieri che vedevano
di buon occhio l’Unità.
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suoi diritti che trovano forma, in particolare, nella “Dichiarazione dei diritti
dell’uomo” del 1789 che da l’avvio alla Rivoluzione Francese, allo
smantellamento della monarchia assoluta e al tentativo d’instaurazione,
fallito, della monarchia-costituzionale.
Lo Stato-nazione diventa il risultato politico ed istituzionale di tutta una
serie di eventi che muovono dall’evoluzionismo culturale e sociale a quello
filosofico, a quello giuridico e amministrativo. Ogni elemento si muove
insieme agli altri, andando a ridefinire una diversa arena politica, dove prima
di tutto i borghesi chiederanno la tutela dei propri interessi e successivamente
la classe operaia, attraverso un processo di consapevolezza del proprio status
– nei termini marxiani -, farà altrettanto.
La modernità costruisce le proprie fondamenta sull’Illuminismo e prima
ancora sull’Umanesimo e il Rinascimento italico. Lo fa rivalutando le
possibilità di auto-consapevolezza dell’uomo, e la capacità di agire per sé
stesso e nel mondo. La ragione diventa universalmente strumento di
conoscenza, possibilità di emancipazione e libertà. La ragione è il nuovo
ancoraggio sul quale costruire una nuova società, disillusa da una sacralità
apparsa sempre più misteriosa e troppo repressiva. E’ così che nel XVIII e nel
XIX secolo le identità collettive si cristallizzano in un sentimento – la nazione –
e in un’organizzazione politica – lo Stato di diritto - sulla base delle riflessioni
e interpretazioni, tra le altre, di Montesquieu e Rousseau e delle conseguenze
della pace di Westfalia (1648).
Due parole merita questo trattato che, mettendo fine alla guerra dei
trent’anni, modifica gli assetti politici europei dando vita ad una nuova fase
istituzionale. Sulle rovine degli universalismi dell’Impero e del Papato, sorge
un nuovo ordine creato dal pluralismo degli Stati nazionali, territoriali e
sovrani. Si tratta di una sovranità esercitata internamente al territorio
amministrato, nei confronti dei propri cittadini; ma anche verso l’esterno,
attraverso l’idea di un’indipendenza internazionale, stabilendo che nessuno
Stato può immischiarsi negli affari interni di un altro. La sovranità nazionale si
definisce quale suprema potestas superiorem non recognoscens, non
riconoscendo valore giuridico a soggetti esterni al territorio controllato. Jean
Bodin aveva già teorizzato nel 1576 nei Les six Livres De la Republique,
tradotti in italiano con il titolo Dello Stato, che la summa potestas di un
sistema politico efficace, come la monarchia assoluta, riconosce sopra di se
solo la legge naturale, come legge morale e divina. Distingue pertanto quello
che è un sistema politico di Stato da quello locale di famiglie, clan, tribù,
comunità che al primo devono essere sottomesse.
Si tratta dello spirito repubblicano che contraddistingue successivamente i
principi della Rivoluzione Francese, che prevedono l’originarietà del potere,
nel senso che non discende né da concessioni divine, né monarchiche per
eredità familiare. Lo Stato-nazione è quindi una sorta di costruzione artificiale
e autoreferenziale del potere sovrano. La concezione razionalista istituzionale
post-rivoluzionaria si sposa poi con l’intraprendenza, in particolar modo, della
corrente scientista positivista, che progressivamente secolarizza la società,
scalzando i determinismi teologici delle verità umane. La scienza, attraverso
il metodo scientifico infallibile, diventa paradigma di riferimento. Esso quindi
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muove dalle spiegazioni dei fenomeni naturali a quelli umani e sociali. E ci
vorrà molto tempo per capire, e forse non li si è ancora compreso, che tali
metodi non possono essere utilizzati allo stesso modo per spiegare del tutto
l’attività umana.
In ogni caso, stabilizzatosi nel corso del XVIII e del XIX secolo, il paradigma
dello Stato-nazione diviene universale, da senso ad ogni forma di costruzione
identitaria collettiva che in esso si riconosce. E’ per questo che, seppur
concepito in Europa, lo Stato diventa un modello esportabile, accolto, con
tutte le differenze del caso, ovunque nel globo. Gli Stati emersi in Africa, ad
esempio, hanno caratteristiche ben diverse rispetto a quelle di Stati “ideal-
tipici” come la Francia o gli Stati Uniti.
In alcuni casi lo Stato-nazione si configura su elementi etnici profondi, su
quell’ethnos, che contraddistingue per sangue e memoria, oppure su elementi
di portata civilizzatrice, come nel caso francese, dove a contare sono le idee
e la loro forza coercitiva, in grado di assimilare chiunque nel territorio
amministrato. Esso rappresenta una particolare forma organizzativa politico-
sociale che si basa su un determinato equilibrio tra territorio, popolo ed
istituzioni. E’ delimitato da confini, più ampi di quelle delle città, che mano a
mano non necessitano più di mura, ma che continuano a distinguere,
specialmente in Europa, il noi dal loro, cioè uno Stato da un altro.
Anche i nuovi mezzi dell’informazione, in particolare la stampa, avviano un
processo riformatore verso la modernità. I caratteri mobili di Gutemberg
rivoluzionano la diffusione della conoscenza. La Riforma protestante, che da
vita alle guerre di religione e la cui fine è sancita proprio con quel trattato di
Westfalia, muove dalla propagazione crescente della Bibbia di Gutemberg6. Le
tesi di Lutero hanno successo perché trovano un humus culturale più
consapevole, capace di accoglierle e farle proprie. La stampa, ma soprattutto
il giornalismo, cambiano ancor più la percezione dei legami sociali.
Specialmente a partire dalla seconda metà dell’800, negli Stati Uniti e poi nel
resto dell’Europa, con le innovative tecnologie linotype ed in particolar modo
con il nuovo mercato delle notizie, vendute come altri prodotti. Tuttavia, il
sistema dei grandi media tradizionali diventa, nella maggior parte dei casi e
soprattutto in Europa, strumento della propaganda politica del potere
organizzato nazionalmente piuttosto che libero commercio delle notizie. La
gestione dell’informazione passa attraverso il controllo partitico o degli organi
istituzionali, che riconoscono come loro interlocutori audience nazionali.
L’informazione mediatizzata può crescere nel contesto dell’anomia
durkhemiana o in quella società degli individui, descritta da Norbert Elias,
proprio perché si fa processo socializzante, legame sociale, si rivolge alle
masse e le legittima come parte costitutiva della società moderna, seppur
composta da individui isolati.
L’avvento del paradigma dello Stato-nazione muta anche la gestione delle
guerre. Da eserciti di eroi, condottieri, abili combattenti che si preparano
6 La Bibbia a quarantadue linee, che riproduce il testo tradotto in latino da San Gerolamo, la
cosiddetta Vulgata, con i testi del Vecchio e del Nuovo Testamento.
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quotidianamente per la battaglia, delimitata nel tempo e nello spazio, si
passa ad eserciti più ampi con intorno un apparato socio-economico funzionale
alla macchina da guerra. Il contributo dato dalla società alla gestione del
conflitto aumenta enormemente, e lo si rileva già dalla decisione politica di
una leva obbligatoria, di un reclutamento che tende a non distinguere tra
professionisti e dilettanti. La Prima guerra mondiale, la grande guerra tra
Stati-nazione, coinvolge non solo i militari ma anche, come mai prima, la
popolazione civile, in quanto è il sistema nazionale nel suo complesso ad
essere trascinato nel conflitto, e non solo gli eserciti. Nuove armi da fuoco e
nuovi mezzi di trasporto più potenti, prodotti nelle industrie della guerra,
dilatano il numero delle vittime civile. Mai come prima il paradigma moderno
nazionale evidenzia le capacità distruttive e auto-distruttive generate dalla
bellicosità e rivalità tra Stati.
Un’altra guerra mondiale “calda” ed una “fredda”, quest’ultima
combattuta perlopiù senza scendere sul campo della lotta armata,
evidenziano i continui antagonismi tra Stati, che seppur carichi di una
particolare tensione ideologica trascendente (socialismi e comunismi, fascismi
e nazismi), che non può che deflagrare in un scontro totale, rimangono attori
protagonisti. Il filosofo tedesco Habermas7 sostiene che, dopo la fine delle
guerre balcaniche della post-Jugoslavia, le spinte nazionalistiche sono ormai
esaurite e non è più pensabile che in futuro possano scoppiare guerre di tipo
tradizionale.
Tuttavia, la tragedia della seconda guerra mondiale, la caduta delle
ideologie totalitarie nazi-fasciste prima e comuniste quasi cinquant’anni dopo,
rendono la popolazione mondiale consapevole della forza auto-distruttiva
dell’uomo. Non solo della sua potenziale aggressività e violenza ma
soprattutto delle conseguenze di possedere l’arma della propria distruzione: il
nucleare. Esso, paradossalmente, si fa deterrente del conflitto globale. La
consapevolezza che distruggere il nemico possa significare comunque
distruggere se stessi non può che cambiare tutte le regole del gioco. L’uomo si
rende conto che ha il destino del mondo, cioè di se stesso, nelle proprie mani.
Il XX secolo è quello di massima espansione globale di un mondo diviso in
nazioni. E’ quindi momento della fine del colonialismo, che al tempo stesso
coincide con i primi sintomi di decadenza del sistema politico nazionale. Non
esiste un evento preciso, con il quale il modello di Stato-nazione comincia il
suo lento declino. Si può pensare alla fine della Prima guerra mondiale con
l’istituzione della Società delle Nazioni, oppure all’entrata in vigore del
rispettivo Statuto nel 1945 o della Dichiarazione dei diritti dei diritti
dell’uomo del 1948, sempre promossa dall’ONU. Oppure all’insieme di tutti
questi eventi con altri che concorrono via via a far emergere più chiaramente
processi, sovrannazionali, cioè globali.
Ci stiamo muovendo, allora, verso la terza fase: quella della
globalizzazione o meglio, a nostro avviso, della glocalizzazione. Essa
7 Jürgen Habermas, L’occidente diviso, Laterza, Roma-Bari 2005.
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naturalmente è sempre più dato di fatto ed evidente agli occhi di tutti8. Un
processo che ne accelera il moto è indubbiamente la caduta del muro di
Berlino e successivamente il definitivo sgretolamento del comunismo
nell’estate del 1991. Si tratta di grandi successi, che portano un diffuso
entusiasmo e accresciute speranze. E’ la fine di un’ epoca di contrapposizioni
segnata dalla Guerra fredda, dai missili a testata nucleare puntati addosso,
dalle guerre ideologiche. Nel mondo, almeno in quello occidentale,
s’intravedono nuovi spazi di libertà. Il liberal-capitalismo ne esce vincitore e,
per alcuni come Francis Fukuyama,9 che descrive la fine della storia stessa,
sembra che il mondo abbia raggiunto lo stadio ultimo, oltre il quale non è
possibile andare e dove l’agire umano non si storicizza più. Invece, a molti
pare che per l’uomo sia giunto il momento e la maturazione, come mai
prima, del fare la propria storia nei nuovi spazi mostrati dalla libertà. In
particolare, con gli anni’80 e ’90 non solo il mercato è straordinariamente
globale, ma a renderlo tale sono i mezzi di comunicazione di massa sempre
più potenti, pervasivi e diffusi (radio, televisione, stampa) ma anche i
cosiddetti new media che nel volgere del millennio s’impongono creando la
cosiddetta società dell’informazione o meglio della comunicazione per tutti. Il
settore dei trasporti diventa sempre più efficace, gli aerei sempre più
accessibili in grado di collegare qualsiasi località del mondo.
Gli individui e i simboli culturali si muovono apparentemente nello spazio
con grande facilità, le frontiere divengono più facilmente valicabili. Il turismo
si diffonde senza limiti, le emigrazioni dai paesi poveri sono sempre più
consistenti. Tuttavia, nuovi problemi sorgono, come quelli che derivano da
una mobilità dilatata: l’incontro tra le diversità culturali può facilmente
divenire scontro e la necessità della coesistenza e convivenza tra diversi è
ormai la questione centrale in tempi di post-modernità, come definita dal
sociologo polacco Zygmunt Bauman.10 Una questione rilevante non solo in
Europa ma in tutto il globo.
Quello a cui assistiamo oggi è uno straordinario passaggio d’epoca, come lo
ha definito il sociologo italiano Alberto Melucci,11 un momento di svolta che
possiamo paragonare per forza, cambiamento e conseguenze sugli assetti
politici e sociali, alla caduta dell’Impero Romano o alle guerre di religione
europee post-riforma luterana che portarono al già citato Trattato di
Westfalia.
Ed è proprio in questo momento che il punto centrale di questo scritto –
l’identità - emerge con grande forza. Perché oggi ne parliamo tanto? Qual’ è il
suo significato? E in quale modo questo tema si inserisce negli attuali processi
di trasformazione? Il paradosso è che il tema dell’identità viene
8 Nei termini, ad esempio, di Ulrich Beck quando parla di cosmopolitismo e/o di globalizzazione
banale, propri delle multinazionali che vendono il loro brand e i loro prodotti ovunque nel mondo,
delle squadre di calcio composte ormai più da stranieri che da connazionali, della finanza globale
ecc… Vedi Ulrich Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005.
9 Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Bur, Milano 2003.
10 Zygmunt Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006.
11 Alberto Melucci, Passaggio d’epoca, Feltrinelli, Milano 1994.
Giumelli – Oltre il locale e il globale
concettualizzato proprio nel momento in cui essa diviene sfuggente. Le
identità non sono più cristallizzate in un modello, in una teoria, o ancor più in
un paradigma, come per lungo tempo lo sono state nelle società pre-moderne
o anche in quelle nazionali. La novità dell’oggi è che esse sono caratterizzate
da una visione di processo, sia per le identità individuali che collettive. Non
sono più fisse e rigide, determinate a priori ma divengono mutevoli, cangianti,
contraddistinte dal rischio e dall’incertezza e pertanto difficili da cogliere
chiaramente.
Tuttavia, una riflessione contestuale sui significati attribuiti al termine
globalizzazione si fa necessaria. Non solo per fornire interpretazioni più
precise a chi sta leggendo, per quanto lo spazio a disposizione lo renda
possibile, ma anche per porre l’attenzione su quanto esse siano diverse ed in
alcuni casi in contrasto. Minimo comune denominatore in questa polisemia
concettuale è il riconoscimento di essere in una fase post-nazionale, cioè
post-moderna, dove la globalizzazione diventa nuovo paradigma. L’arena di
discussione è quella del great globalisation debate, dove studiosi di ogni
disciplina tentano di apportare il proprio contributo per rendere il tema più
chiaro, nella consapevolezza dell’impossibilità, vista la complessità
intrinseca, di definirne i contorni una volta per tutti. Il paradosso, poiché
percepiamo la situazione di processo, è che la ricerca affannosa dell’ordine
diventa vana. Non è possibile, epistologicamente parlando, riproporre quanto
il modello moderno nazionale proponeva valido per tutti, perché oggi il
pluralismo, la distinzione e la diversità, pongono l’ordine a confronto continuo
con il caos. Anzi l’universalismo che tale modello, soprattutto quello
francese, faceva passare tra le sue fessure, in qualche modo lo condannava
dall’inizio. Dichiarava tra le righe, cioè, il suo oltrepassamento. Ogni
tentativo di proporre contenitori solidi, anche se ampi e dotati di senso,
rischia di venire spazzato via da situazioni impreviste, da contenitori cioè più
malleabili e capaci di modificarsi. Pertanto, la necessità comunicativa,
dialogica e interpretativa, è oggi sempre più necessaria, in quanto le
situazioni sono in movimento, si trasformano continuamente.
La parola globalizzazione ha dato adito a tutta un’altra serie di termini
nuovi che ad essa fanno riferimento: koiné culturale, planetarizzazione,
mondializzazione, cultura globale, global civil society, villaggio globale,
opinione pubblica mondiale, crossfertilisation, Mcdonaldizzazione,
ibridazione, transnazionalismo, imperialismo, creolizzazione, glocalizzazione
ecc… Come d’altra parte aveva fatto il paradigma nazionale: etnia, nazione,
sovranità, frontiere, confini, ideologia, territorio, popolo, ecc.. Già da questo
possiamo scorgere la difficoltà ermeneutica del tema, che, probabilmente,
anche per questi motivi, appare ancora più affascinante e stimolante.
Gli eventi a cavallo tra la fine del millennio scorso e quello attuale, come
quanto avvenuto l’11 settembre, hanno diffuso massicciamente, attraverso
processi mediatici imponenti, la percezione di una nuova era, sebbene molte
circostanze precedenti si fossero già rivelate indicatori della trasformazione.
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Non a caso è proprio Amartya Sen12 (2002) a pensare che la globalizzazione
abbia i suoi germi nelle grandi scoperte geografiche extra-europee, come
quella del “nuovo mondo”, e nel Rinascimento italico. E’ la percezione del
globo nella sua interezza, nel continuum colonialismo, postcolonialismo e
globalizzazione, che assume senso per alcuni studiosi.13 Si tratta dell’idea di
un evoluzionismo sociale che presuppone il paradigma nazionale, come tappa
intermedia. La globalizzazione è anche vista come processo influenzato dalle
nuove tecnologie della comunicazione,14 in particolar modo internet, la
rivoluzione informatica, alla quale si affianca l’implementazione dei sistemi di
trasporto. E’ lo scambio delle informazioni, della conoscenza che non conosce
più barriere né territoriali né spaziali. La contiguità geografica – già ce lo
diceva Marshall McLuhan15 – diviene sempre meno importante. E’ il mondo a
disposizione attraverso lo schermo che riconfigura appartenenze collettive,
attraverso libere scelte, che prescindono da quella nazionale, ma si collocano
su piani culturali, d’interesse, di affinità, cioè di affiliazione volontaria. Il
nuovo “muro di Berlino” è allora quello innalzato dal global digital divide, che
distingue tra info-rich e info-poor.16
Proprio sul tema del tempo e spazio zero si sofferma Antony Giddens
(2001).Egli ritiene che la globalizzazione coincida con la massima espressione
della modernizzazione, che nei suoi termini diviene tarda, di tutti i fattori
caratterizzanti la civiltà occidentale: mercato, tecnologie, politica
internazionale, strategie militari. Il mondo è così interconnesso, nella
necessità della mutua responsabilità, dagli attori che vi fanno parte.
L’interconnessione viene riconosciuta anche da altri autori come Saskia
Sassen,17 tuttavia essi ritengono, soprattutto Clark, che i processi di
globalizzazione siano caratterizzati da forte discontinuità, conflitti,
instabilità. Si tratta delle conseguenze di due tendenze che si muovono
simultaneamente: quella dell’interdipendenza, del pluralismo,
dell’integrazione, dell’apertura; e quella dell’omogeneizzazione, della
compressione spaziale, dell’egemonia culturale occidentale. Nel secondo caso
il riferimento è a chi ha teorizzato Il mondo alla Mc Donald18 cioè quella
mcdonaldizzazione globale, uniforme, che però produce resistenze,
opposizione, che proprio alla fine dello scorso millennio hanno dato vita ai
cosiddetti movimenti no global. Le due tendenze vengono approfondite da
Roland Robertson, che cogliendo da un lato l’idea The world as a whole e
dall’altro localismi che resistono o che si inseriscono nella dialettica globale,
propone il termine glocalizzazione.19
12 Amartya Sen, Globalizzazione e libertà. Mondadori, Milano 2002.
13 John Beynon and David Dunkerley (ed.), Globalization: The Reader, London 2002.
14 Manuel Castells, Comunicazione e potere, Egea, Milano 2010.
15 Marshall McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, Critical Edition, Gingko Press,
Berkeley 2003.
16 Danilo Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari 2006.
17 Saskia Sassen, Globalizzati e scontenti. Il destino delle minoranze nel nuovo ordine mondiale, Il
Saggiatore, Milano 2002.
18 George Ritzer, Il mondo alla Mc Donald’s, Il Mulino, Bologna 1997.
19 Roland Robertson, Globalizzazione: teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste1999.
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Ricordiamo poi l’idea, diffusa dagli economisti ma non solo, di una
globalizzazione determinata dagli sviluppi inevitabili di mercati sempre più
ampi. E’ l’universalismo economico, accentuato dalla finanza senza più
barriere. Così sostiene Luciano Gallino quando dice che “la globalizzazione è
un fenomeno primariamente economico”.20 Ci sono poi sociologi, come Ulrich
Beck, che pongono l’accento sull’inevitabile decostruzione del progetto
nazionale a favore di nuove spinte della seconda modernità, che dovrebbero
muovere verso la consapevolezza cosmopolita. Si tratta di lavorare,
mediaticamente ma anche nei processi educativi, sul cambiamento
dell’orizzonte di riferimento cognitivo e simbolico di ogni identità. La seconda
modernità impone un nuovo sguardo, non più quello esclusivo del noi contro
voi proprio degli Stati nazioni, ma del noi e voi del cosmopolitismo
responsabile, che implica, tuttavia, non buonismi e ingenua fiducia, ma
conflitti, turbolenze, discontinuità e assestamenti. Oppure chi come Zygmunt
Bauman ritiene che la globalizzazione sia un fenomeno impersonale, mosso
dalle grandi energie umane che plasmano identità individuali e collettive
liquide, che altro non possono che provare a governare al meglio tali forze.
Partendo dall’assunto che ognuno è come un pattinatore su ghiaccio di sottile
spessore, l’unico modo per non affondare è continuare a muoversi, a spostarsi
da un punto all’altro. Il disagio post-moderno nasce dalla difficoltà di capire
le situazioni del mondo e dalla problematicità inevitabile di dover
continuamente scegliere. Ogni forma di prevedibilità viene scalzata
dall’incrociarsi di situazioni impreviste, mutevoli sia immediate che mediate.
“L’io-guardo-te-tu-guardi-me”, tipico delle società tradizionali è defraudato
della sua funzione di controllo sociale a favore di situazioni impersonali,
tipiche della metropoli,21 dove gli incontri si fanno frequenti ma brevi, tra
diversi ma superficiali. La globalizzazione accentua questa tendenza. Essa è
essenza, non bussa la porta per chiedere di entrare; sta nella nostra
quotidianità e diventa dissonante, cognitivamente, provare a rifiutarla.
C’è infine una componente, altrettanto ampia di studiosi da Antonio Negri a
Michael Hardt22 , allo stesso Pierre Bourdieu, che pensa che il termine
globalizzazione abbia sostituito quello di modernizzazione, incarnando
tendenze imperialiste. E’ lo stesso Bourdieu a scrivere che essa è “la forma
più completa dell'imperialismo dell'universale, quella che consiste, per una
società, a universalizzare la propria particolarità istituendola tacitamente a
modello universale”23 . E continua, è “pseudoconcetto allo stesso tempo
descrittivo e prescrittivo”:24 da un lato si tratta dell’ “unificazione del campo
economico mondiale”, dall'altro si fa “performativo”, designando “una
politica economica mirante a unificare il campo economico attraverso una
serie di misure giuridiche e politiche volte ad abbattere tutti i limiti che tale
20 Luciano Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 2000.
21 Simmel Georg, La metropoli e la vita dello spirito, Armando Ed., Roma 1995.
22 Michael Hardt and Antonio Negri, Impero: il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano
2002.
23 Pier Bourdieu , Contre-feux, Liber, Paris 1998; e P. Bourdieu, L. Wacquant, «Les ruses de la raison
impérialiste», Actes de la recherche en sciences sociales, 121-122 (1998)
24 Pier Bourdieu, Contre-feux 2, Liber, Paris 2001, 95. Nostra traduzione.
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unificazione si trova di fronte, tutti gli ostacoli a questa estensione, che per
lo più sono legati all’ esistenza dello Stato nazione”.25
Quello che noi pensiamo, e che certo non sfugge alla maggior parte degli
attenti osservatori dei fenomeni sociali, è che tutte queste componenti, con
alcune differenze, coesistono.
Se guardiamo, tuttavia, al fenomeno del glocalismo rispetto alle prime
interpretazioni, il quadro di riferimento sta mutando. Nel libro di Edward
Goldsmith e Jerry Mander Glocalismo. L’alternativa strategica alla
globalizzazione (1998),26 tra i primi a trattare questo tema, esso è inteso
soprattutto come forma di resistenza alla valanga globale, che omogeneizza e
tutto spazza. Non a caso si parla di alternativa. Si tratta di un tentativo,
fondato su elementi ecologisti, di difesa identitaria. Seppure tale idea sia
ampiamente diffusa, spesso anche sottostrato di movimenti politici, riteniamo
che rappresenti solo un momento iniziale dell’attività di analisi, oggi
difficilmente riproponibile.
Il concetto di glocalismo, segue ma al tempo stesso si posa sopra ed ingloba
quello di globalizzazione. Lo sostituisce perché lo complessifica, gli da nuovo
senso e linfa. Il glocalismo si alimenta parallelamente del globale e del locale
in un intreccio reciproco e in un rapporto di contatto e scambio diretto fra le
due dimensioni. Le realtà locali entrano in gioco nel globale e ne escono
necessariamente modificate, assumendo una nuova dimensione27 . Roland
Robertson,28 tra i primi a concettualizzare il significato di glocalizzazione,
ritiene che essa sia simile ad una grande matrice delle possibilità, nella quale
si producono tutta una serie di soluzioni e combinazioni altamente
differenziate, con le quali vengono intrecciate e tessute identità distinte e
slegate. E’ una situazione simile a quella di sovrapposizioni di fili, che si
incrociano, si spezzano e riprendono il loro corso, in tensione reciproca
formano un corpo composito, variegato localmente ma integrato a livello
globale29 Chi sostiene che il mondo con la globalizzazione si stia riducendo,
rimpicciolendo, commette l’errore di non comprendere l’infinita serie di
diversità, di nuovi mondi possibili che essa invece porta con sé. Si tratta di
pensare che gli scenari glocali stanno aprendo nuove opportunità, rendendo il
mondo più ampio e vasto.
E’ questo il grande cambiamento che impone una riflessione più attenta
nella costruzione di nuovi assetti politici ed istituzionali. E se ciò è vero,
dovremmo comprendere quali sono i problemi e le virtù delle nuove identità
individuali e collettive.
Per quanto riguarda quelle individuali, ci avviamo verso l’idea di definire,
soprattutto nella costruzione del modello occidentale, dei “cittadini del
25 Ibid.
26 Edward Goldsmith e Jerry Mander Glocalismo. L’alternativa strategica alla globalizzazione Arianna
Editore, Bologna 1998.
27 L’Italia per tradizione e cultura potrebbe essere un grande laboratorio glocale: forti realtà locali
immerse nei flussi globali (turismo, arte, commercio ecc..).
28 Roland Robertson, Globalizzazione: teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste1999.
29 Clifford Geertz, Mondo globale, mondi locali, Il Mulino, Bologna 1999.
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mondo”, che si muovono nello spazio, che agiscono simultaneamente con altri
in luoghi lontani e in tempi rapidissimi, esponendoli però ad incertezze, rischi
e pericoli di un mondo impossibile da gestire e riconoscere a priori. Gli
individui sono costretti a giocare con il proprio io, come ci ricorda ancora
Alberto Melucci.30 Un gioco fatto di osservazioni del proprio agire e di quello
altrui, dei contesti nei quali ci troviamo volenti o nolenti, operando
strategicamente e riflessivamente per modificarli, costruendosi spazi di
manovra e di libertà.
Per quanto riguarda le identità collettive, a noi pare, che ci troviamo di
fronte ad un’altra grande trasformazione. Se esse sono state configurate o
comunque eguagliate allo Stato-nazione per lungo tempo, come abbiamo
scritto, dal punto di vista glocalista oggi risultano in forte crisi. Non è più
possibile pensare che siano portatrici del potere che Westfalia e la modernità
le hanno assegnato. Il problema, oggi, è quello dell’appartenenza:
appartenere ad un’identità collettiva significa avere una carta d’identità?
Avere, quindi, dei diritti e doveri solo perché nati in un determinato Stato
piuttosto che in un altro? Ovviamente l’appartenenza sta mutando, siamo nel
bel mezzo delle trasformazioni. I processi di denazionalizzazione sono in atto
e gli apparati burocratici non sono in grado di svolgere il loro classico ruolo –
come nella gabbia weberiana tecno-burocratica – perché nuovi enti
sovrastatali (EU, ONU, WTO, OCSE, G8, Banca Mondiale ecc…) ed altri locali:
regioni, comuni, macroaree d’interessi condivisi, associazioni di vario genere;
assumono potere e visibilità mediatica.
La globalizzazione non eliminerà certamente né gli spazi politici né quelli
amministrativi, ma nelle idee di Ulrich Beck, essi saranno sempre più fuori
dall’orizzonte dello sguardo cosmopolita. Su questo lo storico tedesco
Wolfgang Reinhard nel suo interessante libro: Storia dello stato moderno, è
estremamente categorico31 “Lo stato moderno,..., ha cessato di esistere.” 32
E’ potuto accadere perché sono proprio le fondamenta politiche della
modernità che stanno mostrando le crepe: quel rapporto stretto, simbiotico
tra il popolo, il potere statale, tra il territorio e la sovranità dello stato. I
problemi sociali, finanziari, economici, comunicativi non possono prescindere
dalla dimensione globale, e proprio per questo diventano irrisolvibili se
trattati nazionalmente o anche solo localmente. Le classiche categorie del
diritto internazionale possono rivelarsi insufficientemente inadeguate a
risolvere situazioni di questo tipo, soprattutto quando oggi sviluppo
economico e finanziario dipendono ormai dagli scambi con i paesi del
cosiddetto BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), che certo non rappresentano
modelli di Stato simili a quelli europei. Continua a scrivere Reinhard che
ormai: “la politica statale non è più in grado di creare alcunché, né di
risolvere alcun problema: essa può solo arrabattarsi alla meglio...La politica
diventa uno sport da spettatori, le elezioni si riducono alla misurazione
30 Alberto Melucci, Il gioco dell’io. Il cambiamento di sé in una società globale, Feltrinelli, Milano
1991.
31 Wolfgang Reinhard, Storia dello stato moderno, Il Mulino, Bologna 2010.
32 Ibid., 105-106.
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dell’intensità dell’applauso”.33 Tutto questo non significa che lo Stato smetta
di esistere, si estingua del tutto, è probabile – sempre nelle idee dello storico
– un processo dialettico e di concorrenza con altre istanze. Perché “In fin dei
conti, c’è ovunque una classe statale la cui esistenza dipende dalla
sopravvivenza dello stato”.34
Ci preme sottolineare l’interessante idea della situazione concorrenziale
dello Stato e delle sue istituzioni con altre istanze. Ma, innanzitutto, che cosa
intendiamo per queste altre istanze? Sono, da un lato, tutte quelle spinte
eccessivamente centripete che vanno verso l’alternativa alla globalizzazione,
cioè la localizzazione difensiva: la comunità, il paese, la regione, in grado di
dare punti di riferimento tangibili e senso di appartenenza ai cittadini, che si
costruiscono nel quotidiano, cosa che spesso lo Stato-nazione non è in grado di
fare. Dall’altro le stesse spinte globali, quelle sovranazionali sia a livello
politico-istituzionale, che dei mercati, della finanza, dei simboli e delle
informazioni che non riconoscono confini, fluttuanti nell’era dei nuovi media e
dei trasporti veloci.
Il glocalismo si nutre del concetto di rete e del dinamismo sociale. E’
fluttuante, liquido, aperto, cosmopolita; un processo che si muove tra
continuità e discontinuità. Si scrive dovrebbe, perché molte sono le forze che
contrastano tale visione positiva, che vede il glocalismo come una risorsa.
Quali sono queste forze? Innanzitutto il complesso Stato-nazione, ma anche un
localismo troppo chiuso, che alza le barriere al globale, come detto, perché
preoccupato dalla sua forza travolgente. A questo si può aggiungere un
globalismo fortemente orientato dal mercato, dal consumo, dalla tecnica, dai
prodotti, dai brand, che lascia poco spazio alla “persona” e alla sua identità.
Cioè, la forza, sintetizzando quanto già accennato, che omogeneizza e
uniforma.
Siamo dell’idea che tale competitività, seppur negata dalle parole del
politicamente corretto, sia in realtà molto più forte di quanto appaia.
Probabilmente prevale ancora l’idea dell’alternativa. Si fa fatica a
riconoscere la glocalizzazione come significato intrinseco della
globalizzazione. Noi pensiamo, invece, che il locale ed il globale non siano
necessariamente in competizione, anche se certe tendenze – soprattutto
politiche – lo fanno sembrare, ma al contrario possano convivere in maniera
simbiotica. E’ piuttosto la figura dello Stato-nazione che pare metterle in
competizione, proprio perché ad esso sembrano sfuggire in direzione diverse.
Quando invece sono facce della stessa medaglia.
Se così è, e proprio a partire dal progetto Unione Europea che la
glocalizzazione potrebbe avere terreno fertile, strutturandosi in un reale
progetto politico d’integrazione e di sviluppo. Quindi un’ Europa sempre più
laboratorio di idee e di pratiche politiche affinché il glocalismo venga
promosso sia nella sua versione micro: il locale, come differenza, minoranza,
che in quella macro: come universalismo, comunità di destino globale.
33 Ibid.
34 Ibid.
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Paradossalmente i buoni propositi culturali, politici e ideologici fanno spesso i
conti con quella che è la realtà politica, non solo europea ma di altri paesi
che all’UE non appartengono. Il concetto di Stato-nazione deve essere
abbandonato a favore di nuove istanze sovranazionali, proprio da chi quel
modello lo ha inventato e praticato: gli europei. Oltretutto nel momento in
cui altri Stati: Cina e India, ma anche il Brasile, diventano attori economici e
politici sempre più potenti dell’arena globale, ma attraverso la loro
“qualifica”, seppur particolare, di Stato. L’idea che non esistano progetti
paragonabili a quello europeo in altri parti del mondo, darebbe all’UE un
vantaggio competitivo e politico enorme, ma nei fatti i paesi che oggi
crescono di più sono proprio quelli del BRIC. L’Europa si assesta su un 3%,
oltretutto mal proporzionato fra i vari membri. La sfida europea è proprio
quella di far passare buona parte del potere degli Stati ad altre mani, nello
stesso modo in cui gli uomini sono riusciti ad affrancarsi dallo stato di natura
rinunciando all’utilizzo individuale della forza, per delegarla allo Stato. Si
tratta del grande tema, che vede tuttavia coinvolti interessi particolari,
nazionali, di lobby, che ovviamente non vedono di buon occhio un tornado che
spazi via anni ed anni di costruzione culturale degli assetti politici-istituzionali
moderni.
Non si può non costatare che nel corso degli ultimi secoli il baricentro
culturale si sia spostato geograficamente: nel XVIII e nel XIX in Europa, nel XX
negli Stati Uniti, nel XXI in Asia. Questo è il contesto di riferimento, e non
considerarlo come base di ogni ulteriore riflessione parrebbe ingenuo. La sfida
europea, quindi, non è solo di costruire un futuro con un orizzonte nuovo, ma
è innanzitutto di non rimanere imbrigliata da quelle idee che l’hanno fatta
diventare grande. La riflessione, quasi d’istinto, di fare una grande nazione
europea è il grosso errore da evitare. L’Europa è diversità e pertanto
necessita di nuovi quadri cognitivi per farla stare insieme.
Se così è chi sono oggi i paladini del paradigma dello Stato-nazione, cioè i
competitori del glocalismo? Cosa ricorda che questo mondo è ancora suddiviso
in nazioni? Potrà sembrare banale e scontato ma innanzitutto le cartine
geografiche. Potremmo pensare ad un mondo come un'unica terra senza
confini, divisa, o meglio, unita dal mare? Le linee nette e marcate che
separano, danno al tempo stesso ordine, orientano. Poi la stessa classe
politica, proprio per il ruolo fortemente auto-referenziale, che vive e
sopravvive solo in un assetto di tipo nazionale, perché rappresenta un certo
tipo di istituzioni dello Stato e non può che difenderle, riconoscendosi in tutto
e per tutto in esse ed identificando i temi del glocalismo come una
“provocazione”. La classe politica moderna dello Stato-nazione si riconosce
internazionale e non transnazionale, come detto. A questo si aggiunge che il
monopolio della violenza è detenuto principalmente dallo Stato, soprattutto
nelle questioni interne e difficilmente, anche se la faccenda è molto
complessa, può essere delegata ad elementi esterni. L’ONU sarebbe l’organo
internazionale che dovrebbe stabilire guerre e paci, ma sappiamo bene che
questo non accade, se non di rado. Al tema politico si collega poi quello delle
politiche fiscali, ancora determinate da decisioni nazionali, anche se
l’unificazione monetaria dell’Euro, ha indubbiamente cambiato gli assetti
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finanziari dei paesi membri, nel cosiddetto patto di stabilità. Altro fattore
importante sono i media, soprattutto la stampa, la televisione e la radio, che
costruiscono agende setting – in particolar modo in Italia ma non solo – per
audience nazionali, in grado di far parlare i cittadini dei temi che riguardano
la loro nazione. L’importanza dei media è straordinaria, se ne pensiamo il
carico simbolico e strategico nella costruzione dell’arena informativa in grado
di distinguere il noi dal loro, attraverso la conoscenza quotidiana diffusa. Non
a caso, pare strano, che un’ Europa che voglia essere tale non abbia organi
d’informazione propri: non esistono telegiornali europei, non esistono canali
d’intrattenimento, fiction che nascano per un pubblico europeo. Il sistema
mediatico è normalmente pensato e ridotto dentro i confini nazionali.
Ovviamente, su questo tema la rete sta modificando gli assetti di fruizione dei
contenuti mediatici, accelerando processi di affiliazione volontaria ad idee,
progetti, situazioni con accesso transnazionale. C’è poi la burocrazia, nelle
sue prerogative, che ricorda con i suoi atti quali sono i diritti e quali i doveri,
soprattutto chi li può avere e a chi no, anche attraverso la semplice dicitura
della cittadinanza nella carta d’identità. Questo tema si fa sempre più
importante nei dibattiti, soprattutto nel momento in cui ci si chiede se lo jus
sanguinis (cittadinanza per sangue, cioè per il fatto che un genitore possegga
una certa cittadinanza), oppure jus soli (cittadinanza per nascita), siano atti
amministrativi adeguati alle realtà contemporanee. Si tratta di elementi che
riconducono nel primo caso all’etnia, nel secondo alla territorialità. Sono
quindi elementi della prima modernità che assumono senso nel contesto
nazionale. Tuttavia, a noi pare che le trasformazioni in atto, dovute ai
processi di mobilità, dovranno prima o poi ridefinire il significato di
cittadinanza nella direzione di comprendere fino a che punto la territorialità
diventi un limite nel percorso di costruzione identitaria. Oggi, infatti, sono già
presenti forme di quasi cittadinanza, denizenship, uno status che deriva dalla
cittadinanza a paesi membri di forme, in particolar modo, sovranazionali
come il Commonwealth o la stessa Unione Europea, che riconoscono diritti
entro un territorio più ampio di quello nazionale. E’ una cittadinanza di
“secondo ordine”, che tuttavia può essere utilizzata come status alternativo a
quello della cittadinanza nazionale. Si comprende come questo muti la
situazione: cittadini, ad esempio, argentini, brasiliani che possono avere la
doppia cittadinanza (ad esempio quella italiana) perché oriundi, allo scopo di
essere riconosciuti come europei e quindi muoversi verso la Spagna.
Così si pone la questione: quale tipo di cittadinanza nella società
postmoderna? E quale giurisprudenza è in grado di legittimare nuove forme
complesse di cittadinanza? Nel dibattito politico e mediatico si parla
diffusamente, come ricorda Maurizio Ferrera,35 di jus domicilii, cioè la
cittadinanza riconosciuta per la residenza accompagnata da tutta una serie di
controlli sui livelli d’integrazione (frequenza scolastica, lavoro, conoscenza
della lingua ecc..). Si tratterebbe di un atto, quest’ultimo al passo con i
tempi.
35 Maurizio Ferrera, dal Corriere della Sera 2 Agosto 2010 “Una nuova politica della cittadinanza
eviterà il dilagare della xenofobia”.
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Ma pensiamo poi, sempre per quanto riguarda quegli elementi che
caratterizzano tutt’oggi lo Stato-nazione all’importanza dello sport.
Soprattutto nelle competizioni internazionali come i campionati europei o
mondiali, dove le nazionali si sfidano con le loro bandiere, inni, colori ma
delle quali facciamo fatica a riconoscere i valori profondi (meglio magari fare
il tifo per la squadra, ad esempio, della propria città). Il riconoscimento dello
sport come attività socializzatrice nazionale era stato compreso già a partire
dal fascismo, attraverso un’ organizzazione in grado di generare
appartenenza, antagonismo, orgoglio, disciplina ecc..
A livello diplomatico l’internazionalismo che scaturisce dalla Società delle
Nazioni, la futura Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), nell’ambito della
conferenza di Pace di Parigi del 1919-20, continua a caratterizzare il sistema
di relazioni internazionali odierno, che, seppur mosso dall’ideale di superare
gli interessi nazionali, si poggia ancora sul paradigma dello Stato-nazione.
Sarebbe meglio provare a parlare di transnazionalismo, evocando un passaggio
di consegne del potere nazionale ad altre mani.
Tutto questo, ovviamente, fa pensare ad uno Stato che regge. I suoi
“difensori”, come descritto, sono tangibili, hanno parola, stanno nella
quotidianità, e non è chiaro per tutti chi potrebbe prenderne il posto.
Reggono in certi casi i suoi simboli, profondamente radicati nelle essenze
dell’identità collettiva e individuale, che continuano a rispondere alla
domanda del chi siamo e del chi sono; riunendo il singolo cittadino nel gruppo
dei cittadini e soprattutto all’interno delle istituzioni che lo rappresentano. I
simboli, entro i confini del territorio, richiamano all’ordine, ricordano a quale
popolo si appartiene e soprattutto, nel caso di una guerra, motivano i cittadini
a difendere la patria, la loro patria, che giustifica l’arruolamento obbligatorio
per tutti superando la divisione tra gli specialisti della guerra e i cittadini che
si occupano di altre funzioni.
Ecco allora i simboli dell’appartenenza: le bandiere, le divise,
l’architettura, le immagini, gli inni, i padri della patria, le statue, ma anche e
soprattutto la lingua.
Ciò nonostante, lo Stato non può più rimanere lo stesso, con i medesimi
poteri e caratteristiche. Non si può pensare con la stessa logica ottocentesca,
inseguendo cioè un mito che oggi appare un anacronismo illogico. Dare
risposte locali a problemi locali, oppure risposte nazionali a problemi globali è
un’ assurdità fuori questione. Le crisi finanziarie sono globali ma gli effetti
diventano locali, oppure una nube tossica, sia di natura radioattiva
(Chernobyl) oppure vulcanica, nasce locale, si globalizza per poi estendere le
sue conseguenze di nuovo localmente. Per non parlare poi di quanto accade
attraverso un’informazione che si fa sempre più libera, accessibile,
informatizzata e deterritorializzata, in grado di destabilizzare le normali
attività diplomatiche internazionali, come nel caso di Wikileaks. Oppure
l’impossibilità di porre qualsiasi forma di speculazione finanziaria
internazionale sotto controllo, in particolar modo dopo la fine del regime dei
cambi fissi. Si tratta di quella deregulation finanziaria cominciata negli
Settanta del’900 da parte del governo americano che ha portato ad un
incremento di scambi di valute contro valute, oppure valute contro titoli,
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Giumelli – Oltre il locale e il globale
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azioni od obbligazioni. Il problema è che in tutto questo gli Stati non sono
riusciti, fino ad adesso, ad imporre una reale politica fiscale sulle transazioni
valutarie internazionali. C’è voluta una crisi globale, come quella comparsa
nel 2008, per far comprendere che il sistema globale ed interconnesso ha
bisogno di risoluzioni collegiali che trascendono quelle nazionali.
La difficoltà sta nel fatto che le istituzioni politiche realizzate dalla
modernità hanno senso se collegate al concetto di Stato-nazione, alla volontà
popolare e a un territorio dove tale volontà è sovrana. Che cos’è quindi un
paese se non è una nazione? Glocalmente la grande sfida, che è soprattutto
europea, diventa riprodurre quanto cognitivamente e sociologicamente
interpretato in un assetto di natura politico-istituzionale.
La riflessione tocca il tema delle nuove identità collettive. Lo straordinario
libro di Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà (2000),36 che ha seguito un
proprio articolo, ha dato vita ad un dibattito globale e con punti di vista
contrastanti. Le guerre del XXI secolo sono e saranno guerre di civiltà? Al di là
di quanto affermano studiosi e intellettuali, quello che a noi pare degno di
attenzione e che sono e saranno le civiltà, intese come unioni di stili di vita,
appartenenze a culture, modi di vedere e di concepire il mondo, ad affermarsi
come le nuove identità collettive. Si tratta di melange culturali dettati dalle
mobilità umane e simboliche (forzate o meno), in grado di ridefinire i processi
culturali umani. Il significato di civiltà fa proprio quello di forme di
socializzazione più complesse, mutevoli perché nell’arena globale, ma che
allo stesso tempo riconoscono delle radici. In particolare potremmo azzardare
parlando di civiltà glocali. Saprà quindi l’Europa riconoscersi in questo
sentimento di civiltà, teorizzato da molti ma poi praticato con i metodi
burocratici della modernità weberiana? Saprà quindi trovare equilibri politici
ed istituzionali che non ne facciano Stato di Stati, ma giustapposizione e
coordinamento tra diversità e minoranze? Il glocalismo è la chiave, muoverlo
dai confini teorici a quelli pratici è la sfida cognitiva ed epistemologica del XXI
secolo.
Il nostro, tuttavia, rimane un tentativo per cogliere quale ruolo potranno
giocare tali identità sul palcoscenico del cambiamento. E in tutto questo quali
saranno i cambiamenti che si potrebbero manifestare in Europa. Il paradigma
cosmopolita, compreso nella sua accezione glocalista, non può che fare leva
sulla pluriappartenenza identitaria. Il senso dell’appartenenza si diversifica,
non è più solido ma nei termini del sociologo Z. Bauman diventa liquido, e
soprattutto si costruisce intorno a tante nuove variabili compresenti. E’
questo che in Europa possiamo notare continuamente, afferrando l’air du
temps, cioè le tensioni verso il locale e il globale.
Siamo consapevoli, che poniamo molte domane, le cui risposte, anche a noi
rimangono incerte. Al tempo stesso siamo certi che solo le analisi di quanto è
accaduto e di quanto accade possono metterci sulla strada per comprendere
quanto accadrà.
36 Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2000.
Giumelli – Oltre il locale e il globale
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Per concludere, siamo nel terreno delle interpretazioni, e possiamo
muoverci da una all’altra piuttosto che, dogmaticamente, dall’errore alla
verità. Tutto è in gioco e tutto può assumere trasformazioni diverse,
sbaragliando le previsioni. D’altra parte lo stesso Michel de Montaigne scriveva
che “c’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le
cose”.37 Interpretazioni però utili per proporre un diverso paradigma, un
“ombrello” di senso sotto il quale collocare le varie situazioni della vita
sociale, con la consapevolezza che siamo solo all’inizio di un immenso lavoro
e dove, a nostro parere e al momento, prevalgono le interpretazioni
decostruttive, negative dei processi globali piuttosto che quelle costruttive e
speranzose. Tuttavia, la posizione che vogliamo assumere è quella dialogante
di chi sa che ricette chiare da utilizzare non esistono, proponendo piuttosto
temi di discussione alla ricerca di risposte, che non possono essere più
rimandate, in quanto le sfide dell’oggi si fanno sempre più incalzanti.
37 Michel De Montaigne, Viaggio in Italia, Bompiani, Milano 2003.
Giumelli – Oltre il locale e il globale
3. Appendice
Manifesto dei Glocalisti
Noi siamo glocalisti:
1. perché sappiamo che la tecnologia, cambiando le nostre idee di tempo e di
spazio, ha cambiato il mondo e l’ha reso uno
2. perché sappiamo che in un mondo della conoscenza è l’innovazione il
momento nel quale sapere e potere si incontrano per fare il costume, i valori,
la storia
3. perché sappiamo che innovazione vuol dire opportunità ma anche minacce
4. perché sappiamo che tempo e spazio zero vogliono dire dominio della
mobilità sulla stanzialità
5. perché sappiamo che mobilità vuol dire flussi, reti, nodi di relazioni
indipendenti dal territorio e dai suoi confini
6. perché sappiamo che relazioni senza confini cambiano il significato di
luogo, lo avvicinano a quello di nodo e aprono un nuovo rapporto tra globale e
locale: attraverso le reti il globale entra in tutti i loci e ogni locus fa parte
direttamente della dimensione globale
7. perché sappiamo che questo nuovo mondo glocale sarà il nostro mondo e il
nostro destino
Ma noi non ignoriamo:
8. che glocalismo non deve voler dire uniformità apolide, macdonaldizzazione,
squilibri, ecodrammi
9. che per evitare queste minacce ci sarà sempre più bisogno di nuove
politiche e nuove istituzioni
10. che nuove politiche e nuove istituzioni vogliono dire nuovi poteri
11. che in un mondo di mobilità il ricorso alla violenza legittima e il controllo
del territorio conteranno sempre meno
12. che per fruire del globale ma nello stesso tempo difendere i nostri spazi
locali non servono frontiere, cittadinanze, sovranità e localismi subalterni
13. che la fine dei nazionalismi non deve voler dire fine delle identità
culturali etniche territoriali
14. che nel villaggio globale protagonisti sono i movimenti sociali
15. che gestione della mobilità e gestione del territorio devono trovare nuove
relazioni politiche
16. che nella mediazione tra convivenze ed economia l’istituzione centrale è
l’impresa
17. che l’impresa è regolata dai mercati globali
18. che su tali mercati le popolazioni di imprese operano per reti di funzioni
tra loro intrecciate secondo logiche di scala globale
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19. che tali funzioni determinano flussi di mobilità di beni, persone, relazioni
in parte sganciati da considerazioni territoriali
20. che le tradizionali istituzioni politiche nazionali o regionali sono sempre
più in difficoltà nel condizionare tali relazioni
21. che solo nuove istituzioni glocali capaci di raccordare imprese globali e
popolazioni di imprese locali possono mediare economia globale e convivenze
locali
22. che la crisi dello stato nazione nella sua capacità regolatrice è
irreversibile e solo una profonda innovazione istituzionale potrà salvarci
Noi perciò rivendichiamo:
23. una nuova statualità nella quale individui, etnie, nazioni diverse possano
convivere in parità; comunità territoriali e comunità di pratica possano
intrecciare i loro interessi e le loro funzioni; reti e territori siano organizzati
senza condizionamenti nazionalisti o localisti
24. una nuova cittadinanza basata sulla pluri-appartenenza
25. la conseguente possibilità di sentirci insieme cosmopoliti, italici, europei,
mediterranei, italiani, padani, milanesi, cattolici, musulmani, liberali,
socialisti, tecnici, umanisti, milanisti, interisti, ecc., senza perdere il nostro
senso di identità politica
26. la possibilità di coltivare come singoli e come comunità tali nuove
appartenenze
27. una nuova sorta di laicità spaziale che sia presidio alle nuove mobilità
nella consapevolezza che una vita fruita tra molte appartenenze e in molti
loci è assai più vera e più ricca di ogni settarismo monocorde
28. la possibilità di operare liberamente nella ricca e dinamica struttura di
reti funzionali e territoriali che il mondo glocale si appresta ad offrirci
29. una nuova governance cosmopolita indispensabile per assicurare, in un
mondo glocale, ambiente, pace, diritti, giustizia
Per tutto questo siamo disposti a mettere in gioco:
30. la nostra attuale identità e soggettività politica per poter raggiungere
nuovi assetti di rappresentanza e governabilità
31. il nostro tradizionale rapporto col territorio per prepararci all’avvento dei
migranti che la mobilità di massa ci fa già incontrare
32. le nostre attuali istituzioni locali e nazionali per trasformarle e adattarle
alle esigenze che il tramonto dello stato-nazione e l’avvento di un mondo
glocale inesorabilmente ci porranno
Vogliamo lavorare all’avvento:
33. del nuovo pensiero, dei nuovi soggetti, delle nuove istituzioni e pratiche
politiche che dovranno assumere il ruolo di ispiratori e attori della nuova era
glocale
34. delle nuove aggregazioni che tale percorso dovranno soggettivare
35. di nuovi rapporti tra stanzialità e mobilità di cose, persone, idee
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36. di regole di convivenza capaci di conciliare efficienza e democrazia nelle
nuove comunità funzionali e di pratica a scala globale e locale
37. della riorganizzazione urbana animata dalle glocal-cities che stanno
nascendo laddove nuovi plessi di reti funzionali si incontrano in modi nuovi
con preesistenti aggregazioni civiche
38. della nuova geografia politica sub-nazionale che le aggregazioni regionali
stanno disegnando quasi dovunque
39. delle relative istituzioni e dei loro nuovi poteri
40. dei nuovi livelli di statualità metanazionale che stanno emergendo nel
mondo a cominciare dall’Europa
Lanciamo questo appello da Milano:
41. perché siamo consapevoli che l’Europa è il continente che ha inventato la
Città
42. perché la ricostruzione della unità europea non avverrà componendo la
sue realtà regionali e metropolitane secondo gli schemi imposti dall’avvento
degli stati-nazione
43. perché l’integrazione e il riequilibrio tra le aree forti e meno forti
d’Europa non sarà più affidato al solo potere unificante degli stati nazionali
ma alla costruzione di nuove reti funzionali interregionali non
necessariamente contigue
44. perché il modo in cui l’Italia farà parte dell’Europa sarà articolato: il
Nord, il Centro, il Sud, le Isole si relazioneranno in modi nuovi con le
omologhe realtà continentali e anche con quelle globali
45. perché in queste condizioni la glocal city nella quale viviamo, che noi
chiamiamo Milania e che altro non è se non un pezzo della più vasta
dimensione padana. non può sottrarsi alle sue responsabilità di aggancio
all’Europa dell’intera realtà nazionale
C’è un grande lavoro da fare:
46. per meglio capire, disegnare, organizzare, istituzionalizzare la grande
area metropolitana nella quale viviamo
47. per marcarne la nuova anche se ancora confusa identità
48. per raccordarla in modo nuovo col resto d’Italia e d’Europa
49. per consentire alle nuove istituzioni potenzialmente glocali come Camere
di Commercio, Fondazioni bancarie, Provincie, Regioni, Agenzie di meglio
raccordarsi con le multinazionali, le grandi banche, i raggruppamenti di
piccole e medie imprese che già sono immerse nella sfida glocalista
50. per far sì che le migliaia di strutture associative e di servizio che ne
animano i localismi apprendano a interconnettersi con la trama sempre più
fitta di reti funzionali che le attraversano a scala glocale
51. per stimolare i nostri centri di vita culturale a rendersi sempre più
consapevoli dell’alto tasso di innovazione che un processo di glocalizzazione
comporta
52. per dare alla miriade di reti che la innervano, alle migliaia di imprese che
la animano, alle mobilità che la vivificano efficacia e ordine
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53. Un lavoro attorno al quale noi chiamiamo tutti coloro che condividono le
nostre idee e i nostri propositi
54. Perché c’è bisogno di meglio capire le realtà nelle quali stiamo operando
55. C’è bisogno di formare intere generazioni alle nuove sfide che
chiaramente intravediamo
56. C’è bisogno di veder nascere nuove realtà capaci di animare politicamente
il nuovo mondo glocale
57. C’è bisogno che i milanesi si sveglino alle sfide della glocal-city in cui
vivono
58. C’è bisogno che gli italici di tutto il mondo si ritrovino nel riconoscimento
di una appartenenza che trascende, senza rinnegarla, quella di italiani,
ticinesi, titani, dalmati, per ricongiungersi a chi – canadese, statunitense,
latino-americano, australiano, extracomunitario immigrato in Italia, ecc. – è
disposto per origini, interessi, cultura, valori, a riconoscersi italico
59. C’è bisogno di avviare insieme la costruzione delle nuove istituzioni e
della nuova governance che il mondo glocale richiede
60. C’è bisogno cioè di una politica glocalista
Ad essa noi ci impegniamo a lavorare!
Piero Bassetti, Presidente Globus et Locus
Milano, 7 Gennaio 2008
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4/2004
Rostam J. Neuwirth, “The ‘Cultural Industries’: A Clash of Basic Values? A
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Diversity and Autonomy Papers – EDAP (2004), at www.eurac.edu/edap.
3/2004
Anna Herold, “EU Film Policy: between Art and Commerce”, 3 European
Diversity and Autonomy Papers – EDAP (2004), at www.eurac.edu/edap.
2/2004
Maria Teresa Bia, “Towards an EU Immigration Policy: Between Emerging
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1/2004
Gabriel N. Toggenburg, “The Debate on European Values and the case of
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