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I SEMI DELLA RIVOLUZIONE
ELENA LAURENZI
Seminari Filosofia i Gènere
Le donne sono state le prime vittime dei Talebani e dei Jehadi. E’ loro compito essere un
coltello nel cuore del fondamentalismo.
RAWA
Dopo l’11 settembre 2001, la propaganda di guerra ha portato bruscamente sulla
scena le donne dell’Afghanistan prigioniere della barbarie fondamentalista: novelle
eroine che, come nella migliore tradizione dei kolossal made in USA, la guerra dei
Giusti avrebbe liberato e consegnato a un sicuro happy end. La menzogna dei
diritti delle donne come giustificazione della guerra è stata usata –anche da molti
intellettuali di sinistra– contro le cosiddette “anime belle” del pacifismo e contro le
stesse femministe contrarie alla guerra.
Ma si sa che la verità della guerra si rivela solo nel “dopo”. Quando si
spengono i riflettori e le fanfare della propaganda. Quando si contano i morti e le
case distrutte, e sulla scena si riaffacciano i potenti di sempre.
A distanza di più di due anni, la guerra in Afghanistan che si voleva chirurgica
non è ancora conclusa e il bilancio dei suoi effetti è agghiacciante: decine di
migliaia di morti, di profughi, di mendicanti; un paese devastato, costellato di
macerie e di mine, abbandonato a se stesso; la popolazione vive aggrappata alle
macerie in attesa degli aiuti umanitari, mentre sono enormi i profitti delle
multinazionali delle armi e del petrolio, dei mercanti di organi e di schiavi, delle
mafie della droga e del terrore.
Solo Kabul è sotto l’effimero controllo delle truppe dell’ONU. Il resto del paese
è percorso dalle milizie al soldo dei vari signori della guerra che si contendono il
territorio e governano con l’avallo degli USA, grazie all’appoggio dato alla “guerra
al terrorismo”. Vane sono state le insistenze dei civili perché il controllo delle forze
internazionali dell’ISAF fosse esteso a tutto il territorio e si procedesse al disarmo
delle fazioni in lotta. La sicurezza, denunciano i rapporti dello Human Right Watch,
è stata abbandonata nelle mani di coloro che la minacciano maggiormente
(Analysis of, 2002). Pulizie etniche sono state denunciate in varie zone del nord del
paese. Le scuole riaperte in almeno cinque province sono state bombardate o
bruciate. Il governo presieduto da Karzai sotto l’egida dell’ONU ha, come suo
primo atto, confermato la sharia (la legge islamica che risale al VII secolo) legge di
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stato. La commissione incaricata di riscrivere il sistema penale e restaurare i diritti
umani lavora senza mezzi e senza reali poteri. I ministeri più importanti sono in
mano ai vecchi-nuovi alleati degli USA: i Mujahiddin dell’Alleanza del Nord.
Per le donne afghane, poco o nulla è cambiato. In molte località i funzionari
che amministravano per conto dei Talebani sono rimasti al loro posto. Questo
comporta il mantenimento di codici sociali estremamente repressivi che hanno un
impatto devastante sulla vita delle donne. A Kabul, opera la Squadra Vizi e Virtù
(rinominata ‘‘Insegnamento Islamico’’). E’ un plotone di circa novanta donne sotto
la guida del Ministero degli Affari religiosi, che minaccia per le strade le donne
accusate di “comportamenti anti-islamici”. E’ anti-islamico anche il fatto di essere
truccate. Fuori da Kabul, l’incolumità fisica di donne e bambine è seriamente
minacciata. Nel nord tre fazioni rivali hanno violentato intere famiglie comprese
bambine di meno di quattordici anni. A Herat, sotto il governatore Ismail Khan, ogni
aspetto della vita delle donne e delle ragazze è sotto il controllo della polizia. Le
donne non possono guidare né viaggiare in macchina con uomini non familiari,
neanche con i tassisti. Non possono incontrare da sole uomini stranieri né lavorare
con loro. Vengono aggredite per strada se non indossano il burqa e portate in
ospedale per abusivi “controlli di castità”.
In tutto il paese i casi di stupri e violenze perpetrati dalle milizie si moltiplicano,
ma la maggior parte delle vittime tace per paura o per vergogna (We Want, 2002;
Afghanistan, 2002; Sippi, 2002).
Molte donne, soprattutto le vedove, sono costrette a mendicare o a prostituirsi,
o a vendere le proprie figlie in cambio di un sacco di farina, magari quella degli aiuti
umanitari rivenduta al mercato nero.
I matrimoni forzati sono all’ordine del giorno, come anche le violenze
domestiche. Le donne non hanno modo di difendersi: la fuga da casa si risolve
quasi sempre con l’arresto e con la condanna, e le galere sono piene di giovani
incarcerate per essere scappate dalla casa coniugale.
In un ospedale del paese, nel 2001, trenta ragazze si sono immolate dandosi
fuoco, in preda alla disperazione. Il numero di quelle che ricorrono al suicidio
aumenta di giorno in giorno.
La vendita dei burqa è salita alle stelle. Le donne possono attualmente uscire
senza la sorveglianza di un parente maschio, ma hanno paura, e il burqa è un
fragile scudo contro le minacce, le aggressioni, gli stupri
1
.
Dopo la presa di Kabul e la nomina del nuovo governo, sull’Afghanistan è
calato il silenzio, interrotto soltanto da scarne notizie su scontri e bombardamenti
ancora in atto, o da subdole campagne pubblicitarie che presentano squarci di una
normalità costruita negli studi fotografici. L’Occidente, dopo aver fomentato e
finanziato i regimi sanguinari che si sono susseguiti negli ultimi venticinque anni,
continua oggi a ignorare e delegittimare ogni movimento di opposizione
democratica, con il pretesto di un malinteso pluralismo culturale che vorrebbe le
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“Give me security, then I will remove my burqa” (The News, 2002).
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donne afghane compiacenti con le norme ferree della sharia che incatenano le loro
vite.
Per contrastare questa visione, nel marzo 2002 una delegazione di donne
italiane si è recata a Peshawar, in Pakistan, per incontrare le donne afghane di
RAWA.
RAWA, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan, è attiva da
venticinque anni. E’ stata fondata a Kabul nel 1977 da un gruppo di donne
intellettuali sotto la guida di Meena, una insegnante e poetessa assassinata nel
1987 dagli agenti afghani dell’allora KGB in connivenza con i fondamentalisti di
Gulbuddin Hekmatyar. E’ l’associazione femminile afghana che con più chiarezza e
determinazione sostiene una posizione politica in difesa della laicità e della
democrazia e contro ogni forma di fondamentalismo. Accanto al lavoro politico,
RAWA svolge un’azione sociale capillare sia in Afghanistan che tra i profughi in
Pakistan: scuole, orfanotrofi, corsi di alfabetizzazione per le donne adulte, gruppi di
sensibilizzazione sui temi della salute, dei diritti, della democrazia, equipe medico
sanitarie mobili, attività di microimprenditoria per le donne e assistenza legale e
sociale alle famiglie dei prigionieri politici, alle donne maltrattate, alle vedove, ai
bambini traumatizzati.
In una popolazione femminile sofferente per gravi problemi depressivi –le
statistiche parlano di percentuali che rasentano il 98%– le donne di RAWA hanno
cercato di mantenere viva la consapevolezza dei diritti e la speranza di un
cambiamento. E nella desertificazione della società civile devastata dalla guerra,
dal fanatismo, dall’esilio, hanno preservato semi di cultura e di civiltà che
rappresentano la sola prospettiva di futuro.
Quello che segue non è propriamente un diario di viaggio. Piuttosto alcune
tappe di un percorso di conoscenza che ha l’obiettivo di rompere gli steccati e di
stabilire nuovi canali di comunicazione, di sinergia, di intesa.
I semi della rivoluzione
Peshawar viene comunemente definita “la più grande città afghana”. Dei quattro
milioni di abitanti, tre sono infatti profughi fuggiti dall’Afghanistan in una
processione drammatica che si è sviluppata in ondate successive: la resistenza
contro l’occupazione sovietica, la guerra civile tra le fazioni dei Mujahiddin del
Nord, il regime dei Talebani, la siccità, le bombe americane, e, oggi, lo strapotere
dei Signori della Guerra. Molti profughi sono qui da oltre venti anni, senza alcuna
prospettiva di inserimento: il Pakistan è uno dei paesi più poveri del mondo, e la
disoccupazione tocca la soglia del 65%. La maggior parte non gode dello statuto
politico dei rifugiati, e vive sotto la minaccia del reimpatrio o della galera.
Abitano nei campi o in quartieri sordidi come Kachaghari, Arbabroad o Afghan
Colony, dove le capanne di fango sorgono tra i cumuli dei rifiuti, spesso manca la
corrente, il cibo, l’acqua potabile, l’aria è intrisa dell’odore nauseante delle fogne a
cielo aperto, le strade sconquassate sono impraticabili per le pozzanghere, e si
respira la tensione e la paura per la presenza dei fondamentalisti. Molti ne sono
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arrivati dopo la guerra, ancora più biechi e violenti, e oggi, grazie al sostegno dei
partiti fondamentalisti pakistani al potere nella regione, tengono in ostaggio la
popolazione e la terrorizzano con i paranoici editti di sempre: è vietato per le donne
uscire di strada senza l’hijab, farsi curare da medici di sesso maschile, truccarsi. E’
vietato ai negozianti esporre biancheria intima, vendere profumi e altri prodotti di
bellezza. Vietato l’uso di contraccettivi e la pianificazione familiare, perché “anti-
islamica”.
A 30 km da Peshawar sorge il più grande campo profughi del Pakistan, il
campo di Jalozai, che ha la fama di essere uno dei più orrendi campi profughi del
mondo. Lo chiamano anche “Plastic City”, a motivo delle tendopoli che sorgono al
suo interno. La mortalità è altissima, la gente e soprattutto i bambini muoiono di
freddo, di malattie, di stenti, di inedia. Vi si arriva attraverso un cammino desolato e
desertico. L’aria è irrespirabile, la polvere gialla copre tutto. Ai lati della strada,
avvolte dal fumo nero dei pneumatici che servono da combustibile, prosperano le
fabbriche di mattoni dove lavorano, dall’alba al tramonto, gli uomini e i bambini del
campo. Sotto il sole rovente modellano i mattoni con le mani, e poi li trasportano
sulla schiena fino ai forni. La polvere e il fumo che respirano dimezza la loro
prospettiva di vita.
Il nucleo originario del campo, costruito nel 1980 per accogliere i primi profughi
fuggiti dalla guerra contro l’occupazione sovietica, si apre in questa desolazione
come un’oasi. Qui operano infatti le donne di RAWA, che grazie a un accordo con
l’amministrazione gestiscono varie attività: la scuola primaria, i corsi di
alfabetizzazione per le donne, un pronto soccorso, due orfanotrofi. I passaggi tra le
capanne di fango sono puliti e ombreggiati. Le abitazioni cinte da muretti, hanno
all’interno piccoli orti, capre, galline. Molte case dispongono di un telaio, fornito da
RAWA, dove le donne tessono tappeti che poi vengono venduti nel bazar del
campo. Le due scuole funzionano a tempo pieno: la mattina ospitano novecento
bambini che frequentano la scuola elementare; il pomeriggio le circa cento donne
che ricevono i corsi di alfabetizzazione. Gli orfanotrofi, dove vivono circa quaranta
ragazze dai sei ai diciotto anni, sono poveri ma accoglienti. Dopo la scuola le
bambine sono seguite nello studio e hanno ogni giorno lezione di karatè. Al centro
del campo, su uno spiazzo terroso c’è una piccola altalena e qualche gioco. RAWA
è riuscita a trasformare un campo profughi in un villaggio.
Le attiviste di RAWA conoscono le famiglie una per una, le seguono,
intervengono dove è possibile, usando anche l’autorità che conferisce loro la
disponibilità di un minimo di risorse economiche: un telaio alle donne che
accettano di frequentare i corsi di alfabetizzazione; del riso alle famiglie che
mandano le figlie a scuola; un lavoro al marito che promette di non picchiare più
sua moglie o di disintossicarsi dall’oppio. La forza di RAWA sta nel fatto che
l’attività umanitaria e sociale è sempre intrecciata con la attività politica, l’aiuto
sempre accompagnato da un tentativo di cambiamento delle coscienze e delle
abitudini di vita. È un lavoro puntuale, paziente, continuo. La via per il reclutamento
delle bambine nelle scuole passa quasi sempre per il rapporto con le madri che
seguono i corsi di alfabetizzazione, dove si affrontano i temi dei diritti, della
contraccezione, della violenza domestica.
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Il programma pedagogico che RAWA svolge nelle scuole contempla “il rispetto
delle differenze religiose, etniche, sessuali”; “la premura per gli anziani, i deboli, i
portatori di handicap”; “la cura per l’ambiente”; “l’amore per la vita, la felicità e la
libertà”; “la difesa dei diritti individuali, il rifiuto della violenza” (“Policy”).
Negli istituti per le ragazze che vengono affidate alla associazione, il
programma è molto avanzato: lezioni di lingua, di matematica, di storia (con
particolare attenzione alla storia del fascismo e del nazzismo), di biologia
(comprensiva delle informazioni sul sesso e sulla contraccezione), di inglese,
indispensabile per comunicare con il mondo. Ogni giorno le allieve ascoltano le
notizie della BBC, e si abituano a prendere note e appunti (Follain e Cristofari,
2002).
Se le ragazze decidono di restare nell’organizzazione, vengono a poco a poco
coinvolte nelle sue attività. Devono prepararsi a una esistenza semiclandestina, a
usare un nome falso, a rinunciare a una professione remunerativa, a subordinare
la sfera privata a quella politica in una “doppia militanza” che ha costi altissimi per
la vita affettiva e familiare.
Le donne di RAWA sono unite da un patto di militanza che non viene reciso
neanche quando abbandonano l’organizzazione: rimangono comunque legate dal
vincolo del segreto. Ognuna di loro ha responsabilità precise e definite, ma ruota
su più compiti. Non credono nella gerarchia, non c’è una leader, e gli incarichi
vengono distribuiti tra le aderenti, così che tutte condividono la responsabilità
politica, organizzativa e di gestione, e il lavoro di base. Abbiamo visto donne
autorevoli fare i lavori più umili, e donne con l’aria dimessa dirimere con autorità le
situazioni più complesse e controverse.
L’8 marzo con RAWA
L’8 marzo di RAWA si svolge in una grande sala stile Casa del Popolo anni ‘50,
che le donne hanno addobbato con i loro striscioni. Slogan chiari, risoluti: “Lotta
contro i fondamentalisti e i loro maestri di ogni colore e sfumatura”; “Non esiste
democrazia senza laicità”. Sul palco, l’immagine di un corpo femminile che si libera
dalle catene, in un gesto potentissimo di forza, fisicità, libertà.
Circa duemila donne sono arrivate dalle città pakistane, dai campi profughi,
dall’Afghanistan. Attiviste, allieve dei corsi di alfabetizzazione, madri dei bambini
delle scuole, simpatizzanti. Gli uomini, numerosi, siedono, un po’ decentrati, sulla
sinistra. Sono i sostenitori di RAWA, e lavorano a tempo pieno per
l’organizzazione: medici, istruttori di karatè, maestri, informatici, traduttori e
moltissime guardie del corpo, che sorvegliano costantemente le scuole, gli
orfanotrofi, le riunioni, e accompagnano ogni donna di RAWA nei suoi spostamenti.
La cerimonia si apre con una musica di sottofondo. E’ “L’estaca”, la canzone
antifranchista del cantautore catalano Lluís Llach, che i ragazzi di RAWA hanno
appreso dagli amici e sostenitori spagnoli e hanno tradotto e adattato alla propria
storia. Un piccolo grande esempio di comunicazione “interculturale” tra popoli che
lottano contro la tirannia.
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Il messaggio delle attiviste di RAWA che si alternano al microfono è nitido e
vibrante: “Le nostre donne soffrono, vivono avvolte dai burqa e sotto i colpi degli
uomini, che non le considerano come esseri umani ma come oggetti. In uno degli
ospedali del paese, trenta donne si sono immolate dandosi fuoco, in preda alla
disperazione. Ma il loro atto non ha riscosso alcuna solidarietà, non una lagrima è
stata versata per il loro sacrificio”. L’intervento centrale della serata ricorda che, se
è vero che l’oppressione che le donne soffrono in Afghanistan “non ha eguali nel
mondo”, in ogni angolo del pianeta le donne sono ancora “incatenate”: “in Iran le
ragazze di quattordici anni sono state prima violentate e poi uccise dalla Polizia
Religiosa. In Palestina ogni giorno le donne sono testimoni dei massacri dei loro
bambini per mano dell’esercito israeliano. Nelle prigioni della Turchia le torture più
brutali sono esercitate sui corpi delle donne. Le donne del Kashmir sopportano il
peso della lotta per la liberazione del loro paese. In Pakistan ogni giorno le donne
si immolano dandosi fuoco. L’Europa dell’est è diventata uno dei più grandi mercati
del sesso delle donne”. E’ una evocazione sintetica ma potente, che stabilisce un
vincolo di solidarietà, di empatia. Di lotta comune.
Celebrare l’8 marzo con RAWA non è stato per noi solo un atto di solidarietà,
ma un gesto politico necessario in un momento storico in cui il vento del
fondamentalismo spira sempre più forte e da direzioni diverse. Alle posizioni di
RAWA ci unisce la convinzione che la difesa della libertà delle donne passa per la
lotta ai fondamentalismi “di ogni colore e sfumatura”, perchè la violenza sulle
donne, la negazione dei loro diritti e della loro libertà di scelta, la soppressione
della loro autonomia fisica, rappresenta un nodo che accomuna tutti i
fondamentalismi, e che spesso li vede costruire pericolose alleanze.
Un coltello nel cuore del fondamentalismo
La “R” di RAWA sta per “rivoluzionaria”. Le donne dell’associazione si rifiutano di
eliminare questa scomoda dizione, che spesso pregiudica la loro immagine tra i
ben pensanti della cooperazione internazionale. Sostengono che in una società
medievale dominata dagli uomini, il lavoro di una organizzazione di donne che
combatte contro il fondamentalismo non può che essere definito rivoluzionario.
In Afghanistan le attività di RAWA sono ancora oggi clandestine, molte attiviste
sono state uccise, imprigionate, torturate, violentate. E anche in Pakistan sono
esposte ad attacchi, aggressioni, ingiurie di ogni tipo. Le chiamano atee, infedeli;
nemiche dell’Islam, vendute all’Occidente. E l’argomento della differenza tra culture
trova stonate risonanze anche nell’Occidente che ha bisogno di placare la propria
cattiva coscienza. Nel nome del multiculturalismo sempre più spesso si legittimano
autoritarismi politici e religiosi che si arrogano il diritto di parlare e decidere nel
nome di presunti gruppi omogenei, occultando e delegittimando le voci e le
posizioni dei soggetti oppressi, le loro opposizioni, le resistenze, le lotte.
Le critiche di RAWA al relativismo culturale sono drastiche. La “cultura” o “la
tradizione”, non costituiscono un argomento. “Se in Afghanistan la tradizione è
comprare o vendere le bambine, dovremmo rispettarla solo perché è la nostra
tradizione? Ebbene, non è una buona tradizione!” (Reilly, 2002). Prima della salita
al potere dei Mujahiddin, le donne in Afghanistan avevano dei diritti. Alcune
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ricoprivano cariche di governo, e oltre il 70% delle insegnanti, il 40% dei medici, il
50% degli studenti universitari erano donne. Chi decide allora cos’è cultura e cos’è
tradizione? Che “la cultura” del popolo afghano è quella di chi impone il burqa, la
clausura o la lapidazione, e non quella di chi combatte contro tutto ciò?
Ci accusano di essere vendute all’Occidente. Ma i valori laici e democratici
che proclamiamo sono universali. Gli ideali di liberazione non possono
essere classificati come “occidentali” o “orientali”. Nessuno dei grandi
pensatori occidentali ha mai presentato i propri valori come qualcosa che
apparteneva al ‘proprio continente’. La democrazia è semplicemente un
bisogno basico, come l’acqua, il cibo, l’aria fresca. (ibid)
“Libertà, Democrazia, Giustizia sociale, Laicità” (“RAWA slogans”). Sembrano
obiettivi impossibili, utopici, fuori dalla realtà. Ma per le donne di RAWA sono
l’unico possibile, realistico scenario contro i propugnatori dello Stato Teocratico.
Solo un cambiamento radicale può sconfiggere la logica perversa del sistema che
si alimenta del fanatismo.
Per molti, in occidente, il realismo vuole invece che si tratti con i
fondamentalisti dell’Alleanza del Nord e con i vari Signori della Guerra perché
“sono già lì”. “Con questo argomento -ricordano le donne di RAWA- gli USA
pretendevano di farci accettare le loro negoziazioni con i Talebani mentre erano
ancora al potere […]. E ora pretendono di farci accettare il potere dell’Alleanza del
Nord. Ma come è possibile pensare che la soluzione per l’Afghanistan sia
rimpiazzare un manipolo di criminali con un altro? L’unica differenza tra la Alleanza
del Nord e i Talebani è la lunghezza della barba. La mentalità è la stessa!” (Reilly,
op. cit.).
I crimini dei Jehadi (i guerrieri della Jihad) dell’Alleanza del Nord sono
tristemente noti a tutti gli afghani, memori delle violenze perpetrate nei quattro anni
di guerra civile che seguirono la cacciata dei Sovietici, dal ‘92 al ‘96, quando
l’Alleanza del Nord controllava Kabul e aveva proclamato la nascita dello Stato
Islamico dell’Afghanistan. Pulizie etniche, rapine, saccheggi, stupri, distruzioni,
reclutamento forzato di bambini. Si calcola che i morti, in quei quattro anni, siano
stati più di 50000. E furono i mujahiddin allora al governo che imposero, prima dei
Talebani, le norme e le pratiche allucinanti contro le donne che hanno reso
tristemente noto l’Afghanistan in tutto il mondo. Fatti noti, documentati dai rapporti
di organismi internazionali, come Amnesty International e lo Human Right Watch
che oggi allertano l’opinione pubblica internazionale sul rischio di una nuova guerra
civile in Afghanistan (Women in, 1995; RAWA, Marginalised, 2000; Backgrounder,
2001; Afghanistan, Human Rights…, 2002).
La denuncia della “strategia di Frankenstein” che ispira la politica
internazionale degli USA rende scomode le posizioni di RAWA. Vezzeggiate e
corteggiate dalla stampa di tutto il mondo nelle prime settimane di guerra, quando
servivano a propagandare la “libertà duratura”, ricevute, consultate e citate dalle
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Nazioni Unite, le donne di RAWA sono attualmente ripiombate nell’ombra. Da dove
ci chiedono di non smettere di lottare.
www.rawa.org
Il viaggio che ci porta a RAWA possiamo anche intraprenderlo dalle nostre case.
Basta collegarsi al sito www.rawa.org.
Come ogni viaggio, anche questo viaggio virtuale produce uno spiazzamento.
Ci avevano detto che l’Afghanistan è un paese ripiombato nell’età della pietra; che
è popolato solo da fanatici, analfabeti, barbari; che i campi profughi sono solo
dimenticate terre di nessuno dove non cresce nessun sogno, nessun progetto, e la
vita non è che il susseguirsi senza fine dei giorni tutti uguali; che le donne sono
fantasmi vaganti sotto la cappa dei burqa, animali spaventati, schiave ignare del
resto del mondo.
Eppure da questo mondo fuori dal mondo arriva un segnale: un sito web,
interamente prodotto e gestito da donne afghane, che offre immagini e una
quantità enorme e aggiornatissima di informazioni: rapporti, rassegne,
pubblicazioni, news. Documenti raccolti con meticolosità e precisione, e diffusi
regolarmente, quasi ogni giorno, attraverso una puntualissima news letter inviata a
migliaia di indirizzi in tutto il mondo.
La realtà più reale, più nuda, più brutale rompe lo spazio virtuale. Da sotto i
burqa, con cineprese e macchine fotografiche, le donne di RAWA hanno
documentato le atrocità, le sofferenze, le assurdità degli ultimi venticinque anni di
guerre. Sullo schermo compaiono le immagini delle donne lapidate, fucilate,
frustate, dei bambini malati, abbandonati e disperati, delle esecuzioni sommarie,
degli impiccati lasciati come monito nella pubblica piazza, dei mutilati, dei
mendicanti, dei barbuti armati di fucili e fruste che viaggiano su grandi macchinoni,
delle scuole e gli edifici pubblici ridotti in macerie. Scorrono i racconti delle vite
della gente. Le donne che vivono nel terrore, ma ancor più nel dolore e
nell’umiliazione per i maltrattamenti e gli insulti che penetrano nell’anima e si
incollano come una pece di nero avvilimento. La vita che scorre grigia nella ricerca
disperata dei generi di prima necessità. Le migliaia di vedove disperate, costrette a
sfidare la frusta dei Talebani per andare a mendicare o a prostituirsi. I laureati e i
professionisti cacciati dai posti di lavoro, ridotti ai mestieri più umili o a chiedere la
carità. I bambini cresciuti per le strade nella familiarità con la morte e la violenza
più brutale, senza scuole, senza giochi. Le esecuzioni di massa, le estorsioni, i
bombardamenti, le rapine, gli stupri. La polvere della guerra e della distruzione che
offusca i bei tramonti di Kabul.
Un lavoro certosino. Il sito RAWA è forse la testimonianza più bella e più
eloquente dell’intelligenza testarda di queste donne che, anche dopo venti anni di
oppressione e di esilio, non hanno rinunciato a lottare per essere ascoltate, viste,
comprese. Per molte donne e molti uomini degli altri paesi, questo sito è uno
strumento insostituibile di informazione per capire quanto succede in Afghanistan e
per riconoscere il pericolo incombente della diffusione del fondamentalismo in tutto
il mondo.
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Grazie al sito, molte organizzazioni di volontariato si sono interessate
all’Afghanistan e al lavoro di RAWA. Sono arrivati i primi inviti e le donne hanno
iniziato a viaggiare e a raccontare. Sono nati rapporti, progetti, finanziamenti, e
piano piano attorno a RAWA si è intessuta una rete di sostenitori che abbraccia
tutti i continenti.
Mahmooda, una delle portavoci di RAWA, sostiene che insegnare l’uso del
computer, soprattutto ai giovani, è attualmente uno degli obiettivi fondamentali: “Il
nostro obiettivo è quello di portarlo dappertutto, anche nei villaggi più sperduti.
Perché sappiamo che il fondamentalismo non si combatte con le bombe,
uccidendo o arrestando questo o quel leader. Si combatte con le idee, con
l’informazione, con la conoscenza. La vera democrazia è l’accesso per tutti alla
conoscenza” (Laurenzi).
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Afghanistan, Gender Guidelines; Afghanistan “all our hopes are crushed”: Violence
and Repression in Western Afghanistan, Human Rights Watch Report, ottobre
2002.
Analysis of New Cabinet. Warlords Emerge from Loya Jirga more Powerful than
Ever, Human Rights Watch Report, 20 giugno 2002.
Backgrounder of United Front/Northern Aliance, Human Rights Watch Report,
ottobre 2001.
FOLLAIN, John e CRISTOFARI, Rita (2002), Zoia, la mia storia, Milano, Sperling &
Kupfer.
LAURENZI, Elena, Intervista a Mahmooda, in www.wforw.it
“Policy of Teaching in RAWA Schools”, in www.rawa.org.
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“RAWA slogans”, in www.rawa.org.
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Sippi Azaebaijani-Moghaddam, UE Report, aprile 2002.
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Report, London, 1995.