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Materiali di discussione
Viale Jacopo Berengario 51 – 41100 MODENA (Italy) tel. 39-059.2056711Centralino) 39-059.2056942/3 fax. 39-059.2056947
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Dipartimento di Economia Politica
\\ 605 \\
Sebastiano Brusco e la scuola
Italiana di sviluppo locale
di
Margherita Russo*
Anna Natali**
Ottobre 2008
* Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Dipartimento di Economia Politica
Via Berengario, 51
41100 Modena, Italy
e-mail. margherita.russo@unimore.it
** Studiare Sviluppo srl
Dipartimento Politiche di Sviluppo, Roma
e-mail: anna.natali21@libero.it
Margherita Russo e Anna Natali
“Sebastiano Brusco e la scuola italiana di sviluppo locale” *
Margherita Russo Anna Natali
Università di Modena e Reggio Emilia Studiare Sviluppo srl
Dipartimento di Economia Politica
margherita.russo@unimore.it
Dipartimento Politiche di Sviluppo, Roma
anna.natali21@libero.it
:
* Questo testo presenta un rielaborazione della lezione su “Sebastiano Brusco e la scuola italiana
di sviluppo locale” tenuta nella sessione plenaria della Summer School di Sviluppo Locale “Se-
bastiano Brusco”, 1ª edizione, Seneghe 7-9 luglio 2006, presso la Casa Aragonese.
Ringraziamo Daniela Bigarelli, Giovanni Bonifati, Andrea Ginzburg, Sergio Paba, Giovanni So-
linas e Nando Vianello per le discussioni sui temi presentati in questo contributo. Un caloroso
ringraziamento a Lidia Bonifati, che ci ha accompagnato pazientemente in questo percorso crea-
tivo, e a Gioia Ottolini, per il sostegno affettuoso e la generosa ospitalità che ci ha consentito
una immersione particolarmente intensa e una discussione assai proficua sui temi di questa le-
zione.
2
ABSTRACT
The essay, presented as opening lecture at the first edition of the Summer School
of Local Development “Sebastiano Brusco” (Seneghe, July 2006), outlines the
original contribution of Sebastiano Brusco on two related issues: theory and tools
for analyzing the industrial structure and for designing development policy. Her
we enlighten some distinctive elements apparently running through all Brusco’s
work, from the youth years in Sardinia, spent in cultural and political activities
alongside Antonio Pigliaru, till the more mature studies on industrial districts. In
Brusco’s thought, a central role is played by knowledge, competence, informa-
tion, education and training: as far as small firms productive systems, industrial
districts, and also less developed areas are concerned. An innovative approach to
policy design and intervention stems from this view, stressing mechanisms able to
diffusely affect capacity, learning and perception of opportunities.
Il saggio, proposto come lezione inaugurale alla prima edizione della Scuola esti-
va di sviluppo locale “Sebastiano Brusco” (Seneghe, luglio 2006), delinea
l’originalità del contributo di Sebastiano Brusco all’analisi della struttura indu-
striale e alla politica di sviluppo, dando rilievo ad alcuni elementi distintivi che
con evidenza corrono attraverso tutto il suo lavoro, dagli anni della giovinezza in
Sardegna, e l’impegno culturale e politico espresso a fianco di Antonio Pigliaru,
sino agli studi più maturi sui distretti industriali. Nel pensiero di Brusco un ruolo
cruciale è svolto dalla conoscenza, la competenza, l’informazione, l’istruzione e
la formazione, con riferimento sia ai sistemi produttivi di piccole imprese o ai di-
stretti industriali, sia alle aree meno sviluppate. È una visione che porta a disegna-
re la policy con un taglio innovativo, nel quale hanno massimo rilievo i meccani-
smi capaci di incidere diffusamente sulle capacità, l’apprendimento, la percezione
delle opportunità.
Classification JEL: R11
Keywords: development policy; regional policy
3
Un filo conduttore: dall’analisi delle condizioni oggettive dei sistemi territo-
riali e dei saperi locali, alle politiche per lo sviluppo locale
Quali sono le ragioni che spiegano perché, in Italia ma non solo in questo
paese, alcune regioni siano assai più sviluppate di altre?
È questo un punto di partenza dell’attività di ricerca di Brusco. Di questo
scrive nel novembre del 1993 in una lettera a Rina e Francesco Pigliaru in occa-
sione di un convegno di studi su Antonio Pigliaru. Un testo autobiografico che
traccia a mano libera un percorso intellettuale che affonda nella formazione più
profonda di Brusco maturata nel vivace clima intellettuale della Sardegna di I-
chnusa1.
È Antonio Pigliaru che, nel 1963, assegnò al giovane Brusco l’incarico di
formulare le sei domande su cui aprire un ragionamento pubblico attorno al Piano
di Rinascita dell’isola2. Politici, amministratori locali, intellettuali, dirigenti sinda-
cali, vennero chiamati a presentare un breve testo, di una decina cartelle al mas-
simo, che rispondesse ai temi che Sebastiano Brusco aveva tracciato. Le domande
erano pensate per stimolare un ampio inventario di punti di vista3. Rileggendo le
sei domande e le discussioni attorno al Piano di Rinascita si trovano molti dei temi
che attraversano l’attività di ricerca di Brusco: dalla Sardegna, dei primi anni Ses-
santa, all’Emilia, in cui venne chiamato alla fine del decennio ad insegnare nella
nuova facoltà di Economia di Modena.
Nella nota scritta trent’anni dopo Brusco connette in modo esplicito il pro-
prio percorso intellettuale a quel passato di ricerche e analisi, all’esperienza for-
mativa nel gruppo di Ichnusa e alle discussioni con Pigliaru. Di quelle discussioni
si trova traccia, nel modo tutto originale con cui Brusco affronta il tema delle re-
gole e delle sanzioni all’interno del distretto industriale, ma un’altra traccia altret-
tanto profonda segna la continuità tra quella esperienza giovanile e la tensione
continua che si avverte nei lavori di Brusco sul nesso tra formazione e sviluppo
economico e sociale. Quel nesso infatti non si gioca tanto sul fronte generico della
necessità di aumentare le dotazioni di «capitale umano» per sostenere lo sviluppo,
quanto sul terreno concreto delle modalità con cui radicare nuovi saperi in un tes-
suto sociale, o usare il sapere locale quale molla di sviluppo.
Questo ambito di discussione, che contraddistingue l’esperienza del progetto
OECE per la Sardegna, era al centro di un ampio progetto su scuola, società e cul-
ture che animava la riflessione del gruppo di collaboratori di Ichnusa. E quando
nel 1961 la rivista fu invitata a partecipare ad un convegno nazionale sui temi
dell’istruzione, fu Brusco a sintetizzare in 13 tesi i risultati delle discussioni, già
avviate a Nuoro nel 1960 su una scuola adeguata ai bisogni di un paese democra-
tico4. Su questi temi Pigliaru chiamava a confrontarsi gli insegnanti con i quali or-
ganizzava occasioni di discussione, analisi e studio5.
Maturata nell’esperienza con Ichnusa e rafforzata negli anni di studi eco-
nomici a Cambridge, l’elaborazione sui temi dell’istruzione, dell’educazione degli
adulti e dello sviluppo locale spiega come mai Brusco, al suo arrivo a Modena alla
fine degli anni Sessanta divenne un punto di riferimento nel fervore intellettuale
assai ricco, proprio su quelle pratiche di formazione degli adulti6. Resta memora-
bile tra i partecipanti il ricordo delle sue lezioni in cui spiegava con linguaggio
semplice e efficace che cosa è l’economia. Un impegno che quindi anticipava i
4
grandi corsi di economia per sindacalisti, politici e amministratori − che resero
nota la Facoltà di Economia di Modena a livello nazionale sin dal primo corso di
Economia del 1973 [Vianello, 2004)] e che certamente attingevano a quei corsi
per adulti già sperimentate nel confronto con Waller e l’esperienza OECE in Sar-
degna, e nella più generale attività di Ichnusa.
Quello della formazione − che è anche formazione tecnica e professionale −
a Modena era stato un terreno principe dello sviluppo nel secondo dopoguerra, af-
frontato con determinazione e lungimiranza da un’amministrazione locale che non
si era limitata a riconoscere i limiti delle proprie competenze istituzionali, ma a-
veva sfruttato tutti gli interstizi legislativi per creare opportunità alle proprie capa-
cità progettuali: fu così dato avvio non solo a scuole tecniche di alto profilo, ma
anche ad un sistema di istruzione offerto ai bambini dai tre mesi di età. Istruzione
− non assistenza − perché nel progetto dell’amministrazione comunale di Modena
i servizi all’infanzia miravano ad accompagnare lo sviluppo del bambino in un
contesto di pratiche democratiche di partecipazione e di apprendimento, di condi-
visione di valori e di reciprocità.
Quel mondo, dove si praticava in modo fecondo l’intreccio tra istruzione e
sviluppo locale, doveva apparire a Sebastiano ancora più affascinante se confron-
tato con la sua esperienza degli anni Cinquanta e Sessanta in Sardegna.
E i temi del confronto sono quindi giocati sulle ragioni che creano opportu-
nità di sviluppo, ma anche sulle politiche che in alcuni casi sembrano efficaci vet-
tori del cambiamento.
Nell’analizzare quali siano le cause delle differenze di sviluppo, Brusco se-
gnala che il riferimento alla storia ed alle tradizioni deve essere accompagnato «da
una analisi di quali siano, oggi, gli spazi per una politica di interventi che mirino a
cambiare la situazione esistente» [Brusco 1994].
È questo il contributo originale di Sebastiano Brusco alla “Scuola italiana di
sviluppo locale”.
Nella sua analisi dello sviluppo locale, Brusco propone metodologie e stru-
menti interpretativi che consentono di migliorare la conoscenza delle differenti
forme dello sviluppo locale e dei sistemi produttivi locali. Questa conoscenza è
essenziale per individuare le politiche più appropriate ai differenti contesti produt-
tivi e sociali, politiche che valorizzino le risorse locali, facendo leva sulla capacità
di progettare che i policy maker devono sapientemente coltivare.
In questa lezione proponiamo una lettura dei punti salienti di quella rifles-
sione. Altri temi non vengono qui presi in esame per ragioni di brevità della pre-
sentazione.
Per una visione ampia del contributo di Brusco alla scuola italiana sullo svi-
luppo locale rinviamo al volume, in preparazione per i tipi de il Mulino, che rac-
coglie una selezione di saggi di Sebastiano pubblicati dopo il 19897.
Lì ritroviamo le sue acute riflessioni, peraltro molto attuali, sulla posizione
della sinistra italiana, e in particolare del Partito Comunista, nei confronti delle
imprese minori e della politica industriale ad esse rivolta (un tema su cui Brusco
ha offerto riflessioni preziose per interpretare una posizione caratterizzata da una
straordinaria, pervicace resistenza al cambiamento).
Troviamo anche il complesso intreccio tra cooperazione, partecipazione e
innovazione che collega l’analisi dei fenomeni indagati e le politiche per lo svi-
luppo locale ad una riflessione più ampia di carattere teorico.
5
La lezione si snoda lungo due direttrici.
Presenteremo innanzitutto la varietà di strumenti di analisi che esemplifica-
no le innovazioni metodologiche che Brusco propose sin dagli anni Settanta nello
studio della struttura industriale e della competitività dei sistemi produttivi locali.
Metodi e strumenti innovativi che consentono un’analisi delle condizioni di
sviluppo, necessario sfondo per intraprendere politiche per lo sviluppo locale, di
cui discuteremo nell’ultima parte di questa presentazione.
Prima parte: Struttura industriale, competitività e sviluppo
Sistemi produttivi a confronto: struttura industriale e fabbisogni formativi
Sin dagli anni Settanta Brusco partecipava ad una vasta rete internazionale
di ricerca che si confrontava su quali dovessero essere gli strumenti più efficaci
per analizzare la struttura produttiva in modo da consentirne una comparazione tra
diversi paesi e nel tempo. L’analisi tra luoghi diversi della produzione era neces-
saria per evidenziare in che misura differenze di produttività che si osservavano a
livello aggregato nel confronto tra settori nei diversi paesi fossero il risultato di
differenze nei modi di produrre (nella tecnologia e nell’organizzazione del lavoro)
o nei tipi di prodotti effettivamente realizzati nei diversi luoghi. La lettura delle
statistiche ufficiali non ci consente infatti di distinguere la produzione di abiti di
Valentino dal pronto moda che sarà venduto nei mercati degli ambulanti o nei
grandi magazzini: in queste condizioni non è possibile condurre alcun ragiona-
mento attorno alle differenze di produttività o di competitività tra paesi o regioni
all’interno dello stesso paese.
Conoscere che cosa viene prodotto è quindi essenziale per valutare
l’efficienza del modo in cui si produce, ovvero della tecnologia adottata e
dell’organizzazione del lavoro, e per valutare la condizione operaia: elementi es-
senziali per una valutazione delle potenzialità competitive di una struttura indu-
striale.
Il ragionamento va quindi nella direzione opposta a quella seguita da gran
parte della ricerca di economia industriale e dell’innovazione che adotta tassono-
mie settoriali (quella che viene attribuita a Pavitt [1984] è la più nota) e che in ba-
se ai dati della composizione settoriale degli occupati in una paese, o in una re-
gione, punta diritto alle conclusioni sui punti di forza e di debolezza della struttura
economica.
Brusco scelse una strada diversa e i tra i suoi numerosi saggi quelli sulla
produzione della maglieria e confezione (pubblicati a metà degli anni Novanta) ne
sono un esempio eccellente.
Nella sua formazione di economista applicato Brusco aveva attinto alla
scuola di Cambridge gli strumenti essenziali dell’analisi della struttura produttiva,
ma quando alla fine degli anni Settanta contribuì alla stagione di indagini europee
sulla struttura industriale, Brusco aveva alle spalle anche una densa stagione di ri-
cerche empiriche. Basti ricordare l’indagine sull’industria metalmeccanica a Ber-
gamo, del 1972, da cui scaturì una lettura nuova della dimensione d’impresa in re-
lazione alla specializzazione di fase e quindi alla impossibilità di parlare di di-
mensione d’impresa senza averne specificato il livello di integrazione verticale. E
ancora, sono dei primi anni Settanta le ricerche sul lavoro a domicilio nella ma-
glieria a Carpi che mettevano in luce la necessità di rilevare la fitta trama di rela-
6
zioni sociali e familiari per dar conto di un modo di produrre altrimenti non com-
prensibile dal punto di vista economico con la sola analisi di dati tecnico-
produttivi.
In quelle esperienze aveva delineato una nuova metodologia di rilevazione
che, attraverso questionari in parte aperti, affrontava i temi principali dell’organiz-
zazione del lavoro, della tecnologia e della struttura produttiva dell’impresa, oltre
che i temi della condizione operaia: salari e qualifiche, turni e orario di lavoro, de-
scrizione delle mansioni e percorsi di carriera. È con questo bagaglio di riferimen-
ti che si aprivano le discussioni con un vasto gruppo di ricercatori italiani, france-
si, inglesi. Nelle lunghe discussioni con Frank Wilkinson, Bruno Courault, Vitto-
rio Capecchi, Paola Villa, Giovanni Solinas, Daniela Bigarelli e Paolo Crestanello
si cercava di tradurre dall’italiano al francese e all’inglese il questionario da uti-
lizzare nella rilevazione sulla struttura produttiva.
La traduzione era il terreno del confronto più estremo in cui i ricercatori si
misuravano per trovare un modo comune per rilevare le caratteristiche della strut-
tura produttiva a partire dalla loro conoscenza di fatti tecnici specifici che sareb-
bero stati preziosi nella rilevazione8. È da tale confronto di lingue, di lessico e di
tecnologie e organizzazioni sociali e produttive che scaturivano anche i particolari
aspetti su cui focalizzare la rilevazione9.
Nello studio di Brusco in facoltà vi sono molti dei materiali intermedi pro-
dotti in quelle indagini che poi costituirono l’ossatura dei progetti di Osservatori
strutturali che Brusco ideò negli anni Ottanta. Gli Osservatori dovevano anche far
fronte all’assenza di fonti ufficiali di informazioni che imponeva ai ricercatori e-
laborazioni su archivi amministrativi difficilmente accessibili per ragioni di costo,
ma anche per il complesso intervento di pulitura dei dati che è indispensabile per
trarre informazioni adatte per l’analisi economica.
E se la comparazione tra sistemi produttivi locali era in quegli anni un nuo-
vo terreno metodologico, altrettanto innovativo era il metodo della costruzione di
un’indagine campionaria che adottava nell’analisi della struttura industriale la
tecnica panel (Lalla (1999). Con queste indagini si ottenevano stime attendibili
dell’universo delle imprese e si poteva quantificare il numero di imprese che lavo-
ravano in conto proprio e di quelle che operavano in conto terzi. Nei sistemi pro-
duttivi di piccola e media impresa, basati sulla divisione del lavoro fra imprese,
questa distinzione è fondamentale per poter sviluppare una corretta analisi della
dimensione aziendale, della propensione all’export, della capacità innovativa.
Malgrado l’importanza di questa variabile, ancora oggi le fonti statistiche ufficiali
non producono statistiche di questo tipo.
L’obiettivo era quello di offrire una base conoscitiva sistematica, a costi
molto contenuti, che consentisse un aggiornamento periodico della conoscenza
delle caratteristiche strutturali e dei meccanismi di funzionamento dei settori presi
in esame, della capacità competitiva e innovativa delle imprese e della dinamica
dei sistemi di produzione.
Si tratta di un’analisi complessa, che sposta l’attenzione dall’analisi
d’insieme delle caratteristiche delle singole imprese alla dimensione sistemica
delle relazioni tra imprese. Occorre innanzitutto studiare in quali modi si produce
un certo prodotto: e il prodotto sarà definito rispetto alla lunghezza della serie, alla
dimensione del campionario, ai canali di commercializzazione e, in particolare, al-
le relazioni tra le imprese impegnate nella produzione di quei prodotti lungo la fi-
7
liera produttiva che va dalle fasi di approvvigionamento delle materie prime e dei
semilavorati alla vendita del prodotto finito.
L’unità di analisi della struttura produttiva che Brusco sceglie nelle sue ri-
cerche empiriche è il sistema di imprese omogeneo per quel che riguarda la spe-
cializzazione produttiva finale del sistema. Omogeneo al punto che lo studio del
comparto dell’abbigliamento distingue tra l’abbigliamento per uomo da quello per
donna e quello per bambino. Le imprese che operano in questi comparti possono
infatti essere specializzate in uno solo di questi prodotti che hanno calendari di
produzione, dimensione dei campionari, rapporti con i canali di commercializza-
zione assai diversi. E diverse ancora saranno le imprese che, a parità di tipo di
prodotto operano in fasce di mercato di qualità alta , media o bassa. Del sistema
fanno parte anche le imprese subfornitrici che consentono di analizzare l’intera fi-
liera di produzione rilevante nel sistema produttivo locale, un sistema che integra
in mix particolari i prodotti finali delle imprese.10
Nell’analisi condotta da Brusco, ciò che mette in relazione il committente e
il subfornitore è un sistema di regole non scritte, fiducia e sanzioni. È l’analisi di
queste regole che evidenzia in quali condizioni esse influenzino positivamente il
saggio di profitto, aumentino la competitività delle imprese, riducendo la dipen-
denza dei subfornitore e aumentando la capacità innovativa delle imprese.
Un altro elemento innovativo dell’analisi condotta sui sistemi produttivi lo-
cali è l’analisi comparata: un’analisi molto complessa che si deve fondare, ci ri-
corda Brusco, non sull’immaginario di chi si occupa di particolari tipi di produ-
zioni, o tipi di imprese, ma sulla valutazione quantitativa e qualitativa dei feno-
meni oggetto di indagine.
La qualità dei dati raccolti nella ricerca empirica è quindi un punto cruciale:
l’analisi quantitativa basata su una ricerca campionaria che consenta di raccoglie-
re una descrizione minuziosa della struttura produttiva dovrà essere arricchita da
una grande mole di considerazioni che qualificano i risultati, frutto di discussioni
con esperti, tecnici, ricercatori, operai, amministratori locali.
Qualità dei dati e metodologie sofisticate sono letti e utilizzati all’interno di
una teoria economica e sociale che affonda le radici nella teoria classica a cui
Brusco attinge nella singolare interpretazione che offre dei fenomeni economici.
Questo modo di fare ricerca consente di evidenziare le diversità tra sistemi
produttivi locali e di riconoscere quanto siano differenti le forme organizzative, il
calendario di produzione, i mercato di sbocco, le relazioni verticali e orizzontali
tra le imprese che operano nel sistema produttivo.
Sebbene nella indagine campionaria l’unità di rilevazione dei dati sia
l’impresa, l’ancora del ragionamento − senza la quale il confronto spaziale non
tiene − è il sistema produttivo locale.
Talvolta la scala spaziale sarà la provincia, in qualche altro caso saranno i
comuni di un sistema locale del lavoro, ma il confronto dovrà spostarsi anche sul-
la scala regionale perché quello è uno dei livelli in cui si progettano politiche di
sviluppo territoriale.
Quali sono i risultati di una lettura così articolata della struttura produttiva?
Consideriamo ad esempio che cosa ci dice Brusco del confronto tra un si-
stema produttivo di piccole imprese (Carpi) e una impresa «grande» (Benetton),
non un'impresa verticalmente integrata di tipo fordista, ma piuttosto un esempio di
coordinamento gerarchico di una rete di imprese11 che in gran parte erano localiz-
8
zate a Treviso, vicino a Benetton, come accadeva fino a dieci anni fa, o le une vi-
cino alle altre attorno alle piattaforme logistiche, nei paesi dell’Est, come succede
oggi [Tattara, 2006].
La sintesi di quel confronto è assai istruttiva [Brusco, Bigarelli et al. 1991,
p. 6]: nel complesso il fatturato del distretto di Carpi sembra essere confrontabile
con quello del sistema di imprese che fa capo a Benetton.
Rispetto ai dati del 1987, di «Carpi» ci viene detto che in un anno realizza
110 mila modelli per un fatturato medio a modello di 15 milioni di lire (che corri-
sponde appunto ad un fatturato totale di 1.650 milioni di lire), mentre Benetton
con circa 2 mila modelli all’anno realizzava un fatturato medio di 600 milioni di
lire.
E nel confronto tra le due strutture produttive viene evidenziato il nesso tra
utilizzo della capacità produttiva, dimensione d’impresa e organizzazione della
produzione: elementi cruciali per descrivere le condizioni di flessibilità che ren-
dono i due sistemi produttivi efficienti, dal punto di vista dei costi, anche se con
relazioni tra imprese e strutture di coordinamento assai diverse.
Che cosa accomuna Carpi, Thiene e Benetton, luoghi in cui vi è una elevata
concentrazione di addetti e imprese impegnati nella produzione di maglieria? Non
molto, se li si guarda attraverso l’analisi di Brusco, Bigarelli e Crestanello. E se
questi luoghi − che pure hanno una simile specializzazione produttiva − sono così
diversi tra loro, e si badi bene diversi ma efficienti, quali politiche di sviluppo e
quali politiche per la formazione saranno le più appropriate?
Perché in fondo è questo l’obiettivo delle analisi condotte da Sebastiano sul-
la struttura produttiva locale: contribuire alla progettazione delle politiche di svi-
luppo locale. E Brusco, proprio come Waller e Pigliaru, considera le politiche del-
la formazione strettamente collegate alle politiche dello sviluppo.
Negli anni Cinquanta del nesso istruzione-sviluppo veniva valorizzata la
possibilità che l’istruzione offriva perché le donne e gli uomini diventassero attori
consapevoli di scelte, per far consolidare un contesto di partecipazione democrati-
ca che si considera favorevole ad un processo di trasformazione sociale più equa.
Negli anni Settanta la tensione sui temi dell’istruzione è ancora alta nel pae-
se e chi progettava politiche a sostegno della formazione si misurava con un si-
stema dell’istruzione e della formazione inadeguato a rispondere ai fabbisogni
della struttura produttiva italiana: questo lo dicevano le associazioni di imprese,
che lamentavano carenze di operai e dirigenti qualificati.
Ma la strada da intraprendere per progettare tali politiche richiedeva non
soltanto un disegno educativo e formativo adeguato, ma anche la necessità di in-
dividuare gli strumenti più appropriati per i vari settori produttivi, nei diversi luo-
ghi.
Se una struttura produttiva è composta da microimprese in cui
l’imprenditore è sostanzialmente uno dei due o tre addetti alla produzione, diffi-
cilmente si potrà pensare che il problema dell’aggiornamento o della riqualifica-
zione riguardi solo i dipendenti.
Anzi, ci ricorda Brusco, dovrà essere centrale la formazione dell’imprendi-
tore perché solo così si alimenterà quella tensione creativa al cambiamento che è
foriera di sviluppo.
La nozione di sviluppo che attraversa la ricerca di Brusco è proprio il cam-
biamento qualitativo delle condizioni di lavoro e di vita degli operai, degli im-
9
prenditori, delle loro famiglie: è frutto di un mutamento delle aspettative, della
capacità di intravedere opportunità di profitto, di una forte mobilità sociale.
Per analizzare i fabbisogni formativi occorre quindi conoscere la struttura e i
meccanismi di funzionamento dei settori: il ruolo delle microimprese, la dimen-
sione minima efficiente delle fasi di produzione e commercializzazione, le caratte-
ristiche del mercato locale, di quello non locale e del mercato estero; la varietà di
modelli di decentramento e di relazioni committenti-fornitori, il ruolo delle regole
non scritte.
Nel caso del tessile e abbigliamento, la ricerca sul campo consentì di far lu-
ce sull’esistenza di strutture differenti nelle diverse regioni e nei diversi sistemi
locali. E se le regioni hanno strutture produttive differenti, allora sono necessarie
differenti politiche regionali per la formazione e differenti misure di politica indu-
striale. Qui la riflessione ci conduce su due punti originali dell’elaborazione di
Brusco sulle politiche: uno riguarda l’offerta di informazioni alle imprese di pic-
cole dimensioni, l’altro evidenzia l’intreccio tra politiche della formazione e poli-
tiche industriali.
Brusco è tra i primi a segnalare che il bisogno di conoscenza delle piccole
imprese spesso resta inconsapevole, non esprimendosi in domanda pagante nem-
meno in presenza di contributi alle imprese: è per questo che occorrono interventi
specifici rivolti a bisogni inespressi delle piccole imprese. Tali interventi non pos-
sono che essere interventi pubblici perché le informazioni «non si sa quanto val-
gano sino a quando non le si conosce, e quando le si conosce e se ne capisce il va-
lore non vale più la pena di acquistarle»: è questo il paradosso dell'informazione,
presentato per la prima volta da Arrow nel 1960, che viene richiamato da Brusco
per giustificare la necessità di offrire alle piccole imprese non contributi, ma i
«servizi reali» di cui hanno bisogno, «non le risorse per comprare le informazioni,
ma le informazioni stesse». E offrendo informazioni, la politica industriale «svol-
ge di fatto anche una attività formativa».
Politiche dei centri di servizio reali − che hanno a che fare con le “informa-
zioni” e la “formazione”, e quindi con i saperi − sono secondo Sebastiano Brusco
più efficace volano dello sviluppo rispetto a politiche basate sulla sola erogazione
di contributi ai singoli soggetti.
I saperi locali diventano un tema importante per le politiche di intervento.
Scrive Brusco:
«Non si tratta, mai, di imporre strategie diverse da quelle che gli operatori
del settore scelgono, luogo per luogo. Occorre, invece, allargare l’arco del-
le alternative che il sapere disponibile a livello locale rende praticabili, ed
impedire che la mancanza di conoscenza impedisca di muoversi su sentieri
innovativi»
Ed è questo un tema centrale delle politiche di sviluppo locale proposte da
Brusco, le cui implicazioni saranno discusse nella seconda parte di questa presen-
tazione. Ma questo tema si collega a un altro elemento di analisi, quello dei saperi
locali, a cui rivolgiamo ora l’attenzione.
Su connessioni, competenze e sviluppo locale
Nel saggio «Connessioni, competenze e capacità concorrenziale
dell’industria in Sardegna» (1992), scritto con Sergio Paba, Brusco affronta espli-
citamente i problemi dello sviluppo di aree arretrate.
10
Come in molti altri lavori di Brusco, i contributi teorici originali emergono
dal tentativo di spiegare fenomeni a cui la teoria e i dati disponibili non offrono ri-
sposte soddisfacenti. L’obiettivo del saggio è individuare quali sollecitazioni
«specifiche» abbiano consentito all’economia della Sardegna di trasformarsi, nel
corso di tre decenni, da economia agricola pastorale, quale era negli anni Cin-
quanta, ad un’economia più diversificata con una nuova componente di attività
industriale.
L’analisi di sollecitazioni «specifiche» è un punto rilevante per una ricerca
sulle economie arretrate. In tali economie, infatti, le opportunità di profitto sono
meno visibili (non solo agli attori economici, ma anche agli osservatori dei feno-
meni economici e sociali) e le forze di mercato agiscono meno efficacemente che
nelle economie avanzate, nelle quale la fitta trama di relazioni interindustriali faci-
lita l’identificazione di opportunità di investimento e alimenta il processo di cre-
scita.
Su questi problemi di analisi, il saggio propone contributi originali su temi
che punteggiano tutta la produzione scientifica di Brusco e riguardano il modo in
cui misurare il livello tecnico delle imprese, la loro capacità concorrenziale, i loro
collegamenti con attività che richiedono competenze simili, ma anche la rileva-
zione e l’analisi dei processi di acquisizione delle competenze e delle abilità che
hanno reso possibile la creazione delle attività imprenditoriali. Tutti questi dati
vennero raccolti attraverso interviste alle imprese realizzate nell’ambito di una ri-
cerca, promossa dalla Regione, sulla diffusione dei servizi reali nell’industria ma-
nifatturiera in Sardegna.
Nella ricerca, Brusco aveva sperimentato una metodologia di rilevazione dei
servizi alle imprese messa a punto in precedenti ricerche. L’insieme di servizi uti-
lizzati dall’impresa venne considerato come proxy del livello tecnico
dell’impresa; la qualità dei servizi utilizzati venne scelta come indicatore della
competitività delle imprese.
I cinque tipi di connessioni presi in esame (dalle connessioni di produzione,
a quelle fiscali, di consumo, con le grandi società di servizi, con la domanda pub-
blica e l’edilizia) miravano a identificare il processo che aveva sollecitato la nasci-
ta dell’imprese sorte in Sardegna dopo il Piano di Rinascita che prese avvio nel
1960 (per imprese sorte prima di quella data sarebbe stata necessaria un’analisi
storica che esulava dagli scopi della ricerca). Per le imprese intervistate vennero
rilevate accuratamente le competenze che avevano reso possibile la costituzione
dell’impresa.
L’idea di classificare le imprese in base ad una tipologia di competenze era
già stata sperimentata da Brusco nella rierca sull’industria casearia sarda svolta al-
la fine degli anni Sessanta con Antonietta Campus (Brusco e Campus, 1971)12
Il saggio su Competenze e connessioni contribuisce all’analisi dello sviluppo
locale proponendo un uso originale di due strumenti analitici fino a quel momento
non utilizzati congiuntamente nella analisi economica.
Alla nozione di connessioni, introdotta da Hirschman nei lavori sullo svi-
luppo economico (Hirschman, 1958, 1977, 1987), veniva infatti affiancata quella
di competenze, che Becattini (1987 e 1989) e Brusco (1989) avevano discusso in
relazione allo sviluppo dei distretti industriali. Oltre che per il contributo metodo-
logico nell’analisi dei servizi alle imprese, questo saggio è diventato un classico
nel dibattito sullo sviluppo del Mezzogiorno perché presenta una tesi sull’im-
11
portanza della grande impresa nei processi di sviluppo, controcorrente rispetto al
dibattito italiano sul Mezzogiorno.
Sebbene il ruolo delle connessioni fosse divenuto molto popolare nella lette-
ratura sullo sviluppo economico, pochi studi applicavano l’approccio delle con-
nessioni su settori industriali (mentre, come aveva notato Hirschman, ve ne sono
stati su prodotti primari − petrolio e pesca − o su infrastrutture di investimenti −
ferrovie e energia idroelettrica). Tra i settori industriali, la produzione petrolchi-
mica − che è nella Sardegna il più importante investimento industriale della Cassa
del Mezzogiorno − è un tipico esempio di impianto con le minime connessioni a
monte e a valle, che richiede uno stringente bilanciamento tra le fasi del processo
di trasformazione e che può quindi operare in assenza di un tessuto produttivo in-
dustriale preesistente, quella che si direbbe una «cattedrale nel deserto».
Dalla ricerca emerse che il polo petrolchimico in Sardegna aveva alimentato
connessioni a monte relative sia alla carpenteria metallica che alla manutenzione.
Nel processo di sviluppo, l’efficacia del potere induttivo delle connessioni è
espresso dalla misura in cui le nuove attività indotte dalle connessioni a monte o a
valle coinvolgono attori diversi («esterni») da quelli inizialmente attivi.
Ciò che si genera sono infatti abilità tecniche e organizzative [Brusco e Pa-
ba, 1992] che vengono poi sfruttate in produzioni che condividono tecnologie si-
mili o che condividono lo stesso clima politico sociale, o per le quali sono state
rese visibili opportunità di profitto.
La ricerca riuscì anche a quantificare, in termini di occupazione, l’effetto di
induzione:
«Se si considera l'incidenza di tutte le competenze importate e acquisite
sul totale dell'occupazione post-1960, ben l'87% dell'occupazione manifat-
turiera della Sardegna appare come il prodotto di competenze e capacità
che erano del tutto estranee alla regione prima del 1960» e il riferimento è
«alla diffusione di capacità di fare che si è sedimentata nel tessuto socia-
le.» e a «competenze specifiche necessarie per «vedere» le opportunità di
profitto», ed è proprio «la capacità di vedere le opportunità di profitto, e
dunque le competenze di base per poter individuare i possibili investimenti
nei vari settori produttivi, che costituisce la vera, fondamentale, risorsa
scarsa delle aree arretrate».
Nel saggio si mostra che la SIR portò competenze nelle attività di costruzio-
ne degli impianti (carpentieri, edili), ma accadde anche che − conclusa l'esperien-
za SIR − ci furono sindacalisti che si misero a fare gli imprenditori nella produ-
zione della gomma, altri diventarono operatori turistici.
Nei progetti di sviluppo vi sono connessioni il cui effetto di induzione è
quantificabile ex ante, come nel caso di quelle connessioni di produzione in cui
prevale la natura tecnica delle relazioni (è questo il caso delle connessioni di pro-
duzione a monte − anche con la produzione di beni capitali − e a valle, in qualche
misura anche di connessioni fiscali).
Vi sono invece connessioni il cui effetto di induzione è più difficile da quan-
tificare ex ante, ma che ex post possono avere un effetto di induzione anche supe-
riore a quello degli iniziali investimenti associati ai progetti di sviluppo. Si tratta
di connessioni generate dal processo sociale di sedimentazione delle competenze.
Mentre per le prime è più facile individuarne le cause e tracciare il processo di in-
duzione, per le seconde possiamo immaginare che siano attivabili, ma la misura in
12
cui saranno effettivamente efficaci o la loro estensione dipende da relazioni uma-
ne, e non solo tecniche, le cui potenzialità e limiti sono difficilmente prevedibili in
termini di tempi, qualità e struttura delle relazioni che si genereranno.
«I lavoratori della grande impresa non guadagnano soltanto un salario ma
imparano contemporaneamente a conoscere il funzionamento di un proces-
so produttivo. Essi osservano, seppur con approssimazione, le relazioni
che l'impresa instaura con altre imprese e con il mercato, e possono for-
marsi un'idea di cosa significa una organizzazione produttiva, di quali sono
le sue regole principali di funzionamento, di quali competenze ha bisogno
per sopravvivere. Questo insieme di conoscenze, di capacità tecnico-
produttive e gestionali, rappresenta un complesso di competenze acquisite
dai dipendenti della grande impresa che, sotto alcune condizioni, può dar
luogo a nuove attività produttive in settori simili o complementari a quelli
della grande impresa. »
Si tratta di competenze che alimentano la dinamica dello sviluppo attraverso
processi non lineari, nei quali è difficile stabilire ex ante quali meccanismi saran-
no più efficaci per ottenere un maggiori effetti di induzione. Resta il convincimen-
to (che deriva dall’importanza delle competenze tacite nello sviluppo dei distretti
industriali) che
«le competenze apprese nei posti di lavoro possano essere più facilmente
insegnate e diffuse».
Qui il tema della formazione non è più la risposta ai fabbisogni formativi
che avevamo evidenziato nella analisi dei diversi sistemi produttivi locali. La ri-
flessione si sposta piuttosto sul tema della formazione in quanto capability, come
la chiama Amarthya Sen, costituzione di capacità nel rispondere in modo creativo
e consapevole al contesto. Nella visione di Brusco un elemento essenziale di que-
sta capability è la capacità di cogliere opportunità di profitto.
Seconda parte: La politica industriale per lo sviluppo locale
L'altro contributo originale di Brusco alla scuola italiana di sviluppo locale è
il suo modo di concepire le politiche per lo sviluppo locale. Due sono i temi su cui
focalizzeremo la presentazione. Il primo tema riguarda le misure di politica indu-
striale efficaci per le piccole imprese organizzate in distretti. Il secondo tema met-
te in luce che la capacità di innovare e competere con successo − nei distretti in-
dustriali come nei sistemi produttivi locali economicamente arretrati − dipende
non tanto dall'abilità dei singoli agenti ma dalla rete di relazioni che lega questi
agenti in sistema, da cui la necessità di superare la politica rivolta alle imprese
singole, ancora oggi prevalente, a favore di una politica di incentivo alla coopera-
zione rivolta ai sistemi di imprese.
Secondo Brusco, nei distretti industriali la politica ha il compito di agire in
modo mirato sui punti deboli strutturali, quei colli di bottiglia che impediscono al
sistema di dispiegare le proprie potenzialità. La sfida è trasformare i vincoli in op-
portunità. L'intervento è leggero, applicato ai punti sensibili, modellato lungo le
linee di minore resistenza così che possa essere assimilato nel modo più rapido dai
virtuosi circuiti riproduttivi del distretto.
Nei contesti non distrettuali e deboli, ove non sono disponibili schemi vir-
tuosi, ma si tratta anzi di scardinare perversi equilibri di sottosviluppo, è compito
13
della politica combattere una difficile battaglia contro l'arretratezza, facendo leva
sull'immissione di competenze e sulla diffusione di nuovi codici di comportamen-
to. In questa battaglia, le strategie perseguibili appaiono più d'una.
Una via è quella prospettata nel saggio Connessioni e competenze già com-
mentato: l'ingresso dall'esterno di una grande impresa, la quale non solo immetta
una quantità di competenze tecniche prima assenti, insieme a conoscenza dei mer-
cati e capacità di riconoscere le opportunità di profitto, ma che contribuisca anche
a diffondere desideri, intuizioni, stili di comportamento propulsivi di cambiamen-
to.
Un'altra via è data da quei sistemi di incentivazione che, per mezzo di premi
e sanzioni, siano in grado di incoraggiare alla cooperazione e penalizzare l'oppor-
tunismo, creando l'effettiva convenienza individuale al ben operare (molto più ef-
ficace di ogni richiamo retorico all'etica e ai valori). Ed è lungo questa linea che a
fine anni Novanta − grazie a un contesto istituzionale improvvisamente più favo-
revole − matura anche la proposta di promuovere nel Mezzogiorno contratti di
programma di distretto, come azione che collega territori. Se ne dirà nelle pagine
che seguono.
La politica industriale per i distretti
Brusco spiega come la politica industriale adatta a sostenere i distretti è
quella che riconosce le strozzature, i bottlenecks, i vincoli del sistema e, seguendo
la lezione di Hirschman, cerca le strade per trasformare i vincoli in opportunità. In
particolare le tappe sono tre: (i) considerare quali stadi di produzione sono rappre-
sentati nel sistema e come sono configurati i rapporti tra le imprese; (ii) auspica-
bilmente, svolgere un confronto con altri sistemi che competono sugli stessi mer-
cati; (iii) compiere una diagnosi dei punti deboli strutturali, molto circostanziata,
da cui ricavare la scelta delle iniziative giuste da intraprendere. [Brusco 1992a]
Questo percorso è da fare distretto per distretto, sistema per sistema: la poli-
tica adatta non è quella che prescrive ricette generiche. Essa si distingue per la sua
discrezionalità, da intendersi non come facoltà di decidere al di fuori delle regole,
ingiustificata informalità, opacità dei criteri di decisione e di azione – tutti aspetti
negativi e da evitare – ma come capacità di elaborare una decisione "a occhi aper-
ti": mirata, che rilevi le specificità del contesto e si assuma la responsabilità di in-
teragire con esse in modo altrettanto specifico.
Un secondo profilo importante riguarda il modo nel quale la politica è attua-
ta. Una volta che si sia compreso su quali punti deboli strutturali è necessario agi-
re, gli interventi sono congegnati in modo tale da realizzarsi “nella maniera più
indolore possibile”, affinché essi siano rapidamente e facilmente accettati.
Il messaggio di fondo è che sia opportuno riconoscere e sfruttare l'autono-
mia del distretto, la sua capacità di impadronirsi, reinterpretare, rilanciare a modo
proprio gli elementi di innovazione che vi sono introdotti.
La politica dà impulso alla trasformazione, non la realizza. La politica crea
le condizioni perché altri pongano in essere la trasformazione. Ed è questo, secon-
do Brusco,
“una delle ragioni - forse la principale - per cui questi interventi sono, ad
un tempo, molto difficili e poco costosi. Molto difficili, perché si tratta di
convincere e non di ordinare; poco costosi perché una volta iniziato, il
meccanismo cammina sulle proprie gambe.”
14
Le indicazioni che ne derivano sono dunque chiare:
(i) nei distretti la politica si attua non come direttiva, ma per appropria-
zione e assimilazione;
(ii) ne segue che è cruciale non solo che cosa si progetta, ma come si favo-
risce l’appropriazione;
(iii) e l’appropriazione comporta sempre reinterpretazione, e genera tra-
sformazione, evoluzione non compiutamente prevedibile (col linguag-
gio di oggi diremmo che l’appropriazione è associata ad un processo di
apprendimento).
Brusco ci propone quindi una visione del ruolo della politica e del cambia-
mento profondamente inconciliabile con l’idea che sia determinante un singolo
decisore, fattore, o punto propulsivo. Questi semmai rappresentano stimoli, solle-
citazioni, mentre la risposta la costruisce il distretto per come esso è strutturato e
funziona.
È in sostanza la pluralità degli attori a essere determinante, le relazioni
complesse che tra loro si stabiliscono, in “un organismo non coordinato da
un’unica centrale gerarchica ma mosso dalla spinta di molti agenti consapevoli”.
Questo approccio propone un modello di politica industriale che, mai riusci-
to a imporsi nella pratica, resta tuttora assai distante dalle esperienze e dalle di-
scussioni più diffuse.
In Brusco la politica è la risposta che il decisore pubblico modella, respon-
sabilmente, sulla base di una analisi che distingue tra una configurazione produtti-
va e l'altra, e relativi bisogni e opportunità d'intervento, guidando il decisore oltre
la domanda, spesso inadeguata, espressa dalle imprese, e sollecitandolo a rimedia-
re a cruciali fallimenti del mercato (tra i quali, come già ricordato, quello che ri-
guarda la domanda e l’offerta di informazioni).
Pertanto la politica consiste nel progettare soluzioni per criticità definite e
nello scegliere i mezzi più efficaci dati i funzionamenti locali.
Per contro la politica industriale reale non ha mai considerato i distretti nella
loro specificità e nei loro meccanismi di funzionamento, ma ha sovrapposto ad es-
si l'impostazione tradizionale, tanto segmentata negli obiettivi quanto uniforme
negli schemi di attuazione: i beneficiari sono di norma individuati nelle imprese
singole; gli strumenti idonei negli aiuti monetari, impiegati in via ordinaria per
una varietà di scopi: dalla realizzazione di investimenti, al rinnovo delle attrezza-
ture, all'introduzione di innovazioni.
La politica di sviluppo locale
Quando Brusco va negli Stati Uniti nell'autunno 1988 con una delegazione
emiliana per parlare dei distretti industriali, si è in una fase di grande notorietà del
modello, e la questione all'ordine del giorno è: “sono replicabili i distretti?”.
L'interrogativo è di forte interesse per tutti quei contesti poco sviluppati o in
forte ritardo contro i quali le armi della politica poco hanno potuto: ci si chiede se
incamminarsi sulle orme dei distretti possa essere una risposta alle loro difficoltà.
Qualche anno dopo Brusco proporrà il punto ai lettori di Affari&Finanza: la
lezione di policy che si può apprendere dai distretti è che lo sviluppo non è soltan-
to problema delle imprese, ma di tutta la comunità interessata, ed è su questo pia-
no che deve essere affrontato.13
La questione, in sostanza, non è solo o strettamente economica.
15
Brusco affronta più in generale una riflessione sulle misure di politica eco-
nomica adeguate per tutti i sistemi locali, definiti come aree subregionali in cui si
trova “una comunità coesa di cittadini e di produttori, che operano in uno stesso
territorio ed hanno in comune valori, regole e saperi.” [Brusco 1995]
Le regole sono “reticoli di norme informali che integrano le norme cogenti
della legislazione”, criteri di azione interiorizzati che guidano il comportamento
degli individui e lo rendono prevedibile. Esse rappresentano tratti distintivi dei si-
stemi locali, perché si impongono nell’ambito di una “rete di relazioni [che] cre-
sce con concrezioni stabili su aree relativamente piccole, ciascuna con propri ca-
ratteri, ciascuna fortemente segnata dalle proprie avventure e dalla propria sto-
ria.”14. Nelle stesse aree, i saperi sono quelle competenze diffuse che si sono se-
dimentate in rapporto a definite pratiche produttive: conoscenze sulle tecniche, sui
funzionamenti del mercato, sui funzionamenti sociali.
Il rilievo attribuito a regole e saperi deriva dallo scarto di consapevolezza
che lo studio sui distretti ha reso possibile: “la discussione sui distretti ha spostato
l’accento dalle caratteristiche dei soggetti a quelle delle relazioni tra i soggetti”.
[Brusco 1995]
Quelle forme di relazione che, per la loro stabilità, permettono di osservare
sistemi di imprese, si rivelano più importanti delle caratteristiche delle imprese
singole (tra cui la piccola dimensione).
Sono le relazioni che generano regolarità nei comportamenti e conoscenze
diffuse, che si propongono quali tratti distintivi della comunità locale.
In positivo sono dunque le relazioni e i nessi gli elementi rilevanti di cui oc-
cuparsi, da studiare e comprendere nel loro funzionamento.
A inizio anni Novanta, ad Artimino, Brusco spiega come studiare tali rela-
zioni per fare un piano di sviluppo. Ed egli dice che, innanzitutto:
«deve cambiare in maniera radicale la maniera di fare un piano di sviluppo
locale. Nel senso che prima un piano di sviluppo locale si faceva censendo
risorse, adesso lo si fa censendo relazioni sociali, che è una cosa radical-
mente diversa.Il problema decisivo per fare un piano di sviluppo diventa il
capire qual è il rapporto fra i politici e gli imprenditori, come funzionano
le associazioni imprenditoriali, come funziona la CNA, come facciamo
una ricerca per andare a prendere i saperi lontani. Il censimento dei saperi
diventa storia, il censimento delle risorse diventa il censimento delle rela-
zioni sociali e analisi delle relazioni sociali». [Brusco 1992b]
In tale analisi va tenuto presente che le relazioni sono espressione di un di-
venire storico, non un'eredità intangibile.
Le regolarità che si osservano restano regolarità grazie al fatto che si rigene-
rano e ridefiniscono a contatto con contingenze sempre nuove.
Non vengono passivamente subite come un destino, ma attivamente ripro-
dotte ogni giorno. Se anche la cooperazione si presenta in alcune aree così diffusa
da apparire addirittura connaturata a una presunta indole della popolazione, e in
altre così poco praticata da apparire profondamente aliena alla cultura locale, non
bisogna dimenticare che questi esiti riflettono il modo in cui sono continuamente
risolte le interdipendenze che, nel tessuto sociale, legano gli individui tra loro.
C'è dunque spazio per intervenire e nell’orientare gli individui hanno gran-
dissimo peso i premi e le sanzioni che l’organizzazione sociale commina ai suoi
membri, attraverso l’operare del mercato o attraverso le politiche.
16
Questa leva può essere usata anche intenzionalmente, allo scopo di indurre
comportamenti più adeguati:
“tutte le iniziative volte ad agevolare le condizioni della collaborazione
ponendo ostacoli alla scorrettezza ed all'opportunismo giocano un ruolo di
primo piano.
E, per converso, tornano assai utili tutte le misure che premiano quei com-
portamenti corretti e perbene che di un clima di collaborazione facile sono
il presupposto.” [Brusco 1995] 15
Incentivi
È interessante che Brusco parli continuamente di incentivi.
Non si tratta degli incentivi finanziari spesso al centro dell'attenzione, a pro-
posito della legge 488 o di altri provvedimenti simili di sostegno agli investimenti
privati.
Gli incentivi evocati sono di natura del tutto diversa, tendenzialmente non
hanno bisogno di grandi risorse finanziarie (torna il motivo del "molto difficile e
poco costoso"); disegnati col criterio discrezionale di cui già si è detto, sono diretti
a favorire quei comportamenti di cui il contesto ha bisogno ma che spontaneamen-
te non produce.
Brusco ci sollecita a pensare che la qualità dell’azione pubblica non risieda
tanto in quello che realizza, ma nel grado in cui riesce a rendere ciò che realizza
desiderabile per chi vi si trova coinvolto.
Ragionare di incentivi è, al fondo, un modo per riconoscere questo punto.
L’intervento pubblico è sì importante, ma non tanto quanto le conseguenze scate-
nanti che riesce ad avere.
Nelle aree arretrate la politica ha soprattutto il compito di modificare le ra-
gioni di convenienza degli individui: le ragioni per fare o non fare, cooperare o di-
struggere fiducia. Che cosa ne verrà di conseguenza, è scarsamente prevedibile.
Ma ciò che conta è invertire il modo di rispondere alle sollecitazioni, impegnarsi
in ogni modo perché le interdipendenze siano risolte creando società, comunità,
sistema, beni pubblici.
In che modo si può agire in questa direzione? Come modificare le ragioni di
convenienza degli individui? Come creare interdipendenze che possano coinvol-
gere territori?
Sebastiano ne parla in un articolo nel 1998 su Affari&Finanza dedicato al
progetto dei contratti di distretto:
"La linea più semplice è quella di realizzare soltanto investimenti indu-
striali, con le poche iniziative che a questi investimenti sono strettamente
connesse (per esempio, la formazione). Si può pensare, però, a cose più
complesse, che coinvolgano l’intera società civile. Potrebbe organizzarsi
una collaborazione stabile tra i teatri comunali delle due aree. I gruppi del
volontariato attivi nelle due aree potrebbero decidere di lavorare insieme.
Si possono prevedere scambi di esperienze tra le case per anziani o tra le
scuole." 16
Il brano testimonia nel modo più eloquente su quali piani Brusco vede avan-
zare il cambiamento che conta a fini di sviluppo.
17
Non è solo questione di imparare a produrre maglie o mobili, per andare sui
mercati e aumentare il reddito della famiglie senza dipendere più così tanto dai
trasferimenti pubblici.
Il punto è più complicato, più profondo.
La battaglia contro l'arretratezza si combatte dando spazio al senso di comu-
nità e al gusto del progetto comune, dentro e fuori le fabbriche, ovunque.
Un'ultima notazione si allontana dalla storia recente per ricollegarsi a vicende di
più lunga durata
Come ricordato poco sopra, Brusco definisce gli interventi di politica − ap-
propriati per i distretti come per le aree arretrate “ad un tempo, molto difficili e
poco costosi”. Questo modo di descrivere l'azione pubblica efficace tocca corde
profonde in chi opera nella pubblica amministrazione o a contatto con essa, per-
ché evoca una discontinuità che molti riformatori avvertono necessaria.
Ma non è la discussione sulle riforme lo sfondo di queste parole.
Altre genealogie, altre radici sono rintracciabili.
“Molto difficile e poco costoso” è spesso, in Sebastiano, saper essere in-
fluenti senza essere direttivi o imperativi; esercitare autorevolezza senza necessa-
riamente essere investiti di autorità; coltivare e applicare una capacità di giudizio
che sappia distinguere, arrivare con limpidezza al punto delle cose.
Sono, questi, temi molto cari a Brusco, che tutti i suoi allievi sanno ricono-
scere al cuore del suo insegnamento. E anche su questo piano è forse possibile rin-
tracciare l'influenza dell'Antonio Pigliaru educatore, oltre che giurista, già ricorda-
ta in apertura di questa lezione.
E crediamo non sia forzato supporre che un prototipo di intervento pubblico
“molto difficile e poco costoso” sia rimasto per Brusco, tra i mille possibili riferi-
menti, quel progetto OECE di fine anni Cinquanta in Montiferru nel quale si trovò
a lavorare appena laureato, e al quale dedica solo un rapidissimo cenno nella sua
raccolta di saggi degli anni Ottanta (Brusco 1989), ma di cui, a voce, ha racconta-
to molto.
Fu quello un progetto importante, rappresentativo di un approccio e una ge-
nerazione di azioni di “sviluppo di comunità” andate poi rapidamente disperse, in
cui contava moltissimo, più delle risorse finanziarie mobilitate (che pure c'erano),
la competenza di chi lavorava sul campo.17
Di quella stagione restano alcune, poche, testimonianze, e la sensazione che
abbia anticipato di decenni buona parte dell'odierna sensibilità ai temi dello svi-
luppo.
Ed è proprio la riflessione su quella esperienza che ci ha sollecitato, in que-
sta Summer School intitolata a Sebastiano Brusco, a mettere in evidenza quelle
che ci sembrano le radici profonde delle sue proposte di analisi e proposte di poli-
tiche per lo sviluppo locale.
Valle dell’Erica, 6 luglio 2006
18
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21
Note
1 La lettera fu poi pubblicata nel volume che raccoglie gli atti di quel convegno [Brusco 1994a].
2 Presentato nel 1962, il Piano di Rinascita dell’isola − legge 11 giugno 1962, n. 588 − era un pia-
no straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna attraverso un pro-
gramma di interventi economici finanziari proposto in attuazione dell'articolo 1 della legge co-
stituzionale 26 febbraio 1948, n. 3. Sul «Piano» si veda il numero 56-57 di ichnusa 1964, che
contiene una cronologia del «Piano» (pp. 27-32) e i saggi di Soddu [1988, pp. 993-1038] e Ruju
[1988, pp. 775-992, in particolare le sezioni I.6 e II.1] nel volume a cura di Berlinguer e Mattone
[1988].
3 Le domande, presentate in forma integrale nell’editoriale del n. 56-57 di ichnusa, vengono rias-
sunte così nel frontespizio della rivista: «1) Deriva dalla formula la capacità di iniziativa della
Giunta? 2) Qual è il ruolo delle piccole e medie aziende nell’ industrializzazione? 3) La Regione
può fare la lotta ai monopoli? 4) Che posto tocca all’agricoltura? 5) Concentrazione o diffusione
sul territorio per gli interventi di sviluppo? 6) Le zone omogenee sono ancora giustificate?».
4 Cfr. Tola (1994, p. 171) e Brusco (1963, pp. 119-23).
5 Cfr. Tola (1994), Puliga (1996). Il volume del 1999 a cura della Provincia di Sassari,
dell’Istituzione “Cultura e Società” e della Cooperativa “Iniziative Culturali”sulla mostra docu-
mentaria “Gli anni di Ichnusa”, riporta una selezione delle attività di ichnusa e contiene, fra
l’altro, uno schema dei compiti didattici ed educativi della scuola unica (dai 3 ai 18 anni), i pro-
grammi dei corsi di formazione per gli insegnanti, i temi affrontati nelle iniziative culturali, co-
me i “dibattiti del sabato”e gli interventi a Orune e Nuoro che si intrecciano con quelle del pro-
getto OECE per la Sardegna. È in quell’intreccio che si rafforza il legame di Pigliaru con Ross
M. Waller (Cfr Tola, 1994, p. 172) e di questi con Brusco (cfr. Brusco, 1989, p. 155). Per Wal-
ler, direttore dell’Istituto di educazione degli adulti dell’università di Manchester, educazione
per gli adulti e sviluppo erano “due poli legati a doppio filo” (cit. in Tola, 1994, p. 173).
6 Ad animare il dibattito sulla formazione degli adulti erano i gruppi dei cattolici di base che si
riunivano attorno alle comunità della chiesa di San Francesco e dei preti operai della chiesa del
villaggio artigiano di Modena Ovest.
7 Distretti industriali e sviluppo locale. Una raccolta di saggi di Sebastiano Brusco (1990-2002),
a cura di D. Bigarelli, A. Natali, M. Russo e G. Solinas
8 Vedi ad esempio l’analisi della scomposizione delle fasi del processo produttivo, o delle relazio-
ni tra imprese.
9 Le domande con risposte chiuse richiedono una grande conoscenza dei casi significativi in modo
da limitare l’opzione «altro» a pochi casi da esaminare in modo dettagliato per far emergere
nuove categorie da impiegare nelle elaborazione dei dati.
10 La filiera non è il settore verticalmente integrato, categoria assai astratta dell’analisi economica,
ma molto evocativa delle relazioni tecniche ed economiche che collegano le varie fasi del pro-
cesso di trasformazione manifatturiera, né è la global value chain.
11 Non viene mai usato nel testo il termine «impresa-rete», che pure in quegli anni era di gran mo-
da per indicare il caso di Benetton.
12 Ragionare in termini di tipologia di competenze è quindi un elemento assai familiare che Brusco
ritrova nella analisi proposta da Richardson nel 1972.
13 Distretti sette mosse verso Sud, pubblicato il 13 luglio 1998 su "la Repubblica-Affari&Finanza",
oggi in Brusco 2004.
14 Brusco non ama l’espressione ‘capitale sociale’. Anche se questo passo (con altri simili) sembra
ricordare molto più la concezione di capitale sociale di J. Coleman che non quella di R. Putnam,
che di regola le è opposta, sarebbe una forzatura schierare il pensiero di Brusco sotto le insegne
22
dell’uno o dell’altro autore.
15 Tra queste misure, la pratica della certificazione ha secondo Brusco implicazioni assai interes-
santi e andrebbe molto sostenuta anche "mediante la diffusione di semplici guide (simili alle dif-
fuse e spesso autorevoli guide per gli alberghi e i ristoranti)”. [Brusco 1994b]
16 Distretti sette mosse verso Sud, in Brusco 2004.
17 Anfossi 2000. Su altri progetti, condotti in Abruzzo e in Sicilia, cfr. Mazzoleni 1995 e 1997. Per
una percezione del clima e degli ambienti intellettuali familiari a chi lavorava, allora, a quei
progetti, cfr. Fofi 1993.
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