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Filoso(e)Semiotiche, Vol. 11, N. 2, 2024
ISSN 2531-9434
Stereotipi e hate speech nei media videoludici: la responsabilità
dei videogiochi tra regolamentazione e risignicazione
del “genere”. Una riessione a partire dal paradigma
fallogocentrico derridiano
[Stereotypes and hate speech in video game media: the
responsibility of video games between regulation and re-
signication of “gender”. A discussion starting from the
Derridean phallogocentric paradigm]
Alberto Grandi
Università degli studi di Bari “Aldo Moro”.
alberto.grandi@uniba.it
Abstract:
[IT] Nel corso degli ultimi decenni i videogiochi sono emersi come uno dei
prodotti mediali più inuenti della cultura popolare, veicolando una moltitudine
di messaggi e simboli che riettono nonché plasmano la realtà sociale. Questo
lavoro si propone di esplorare il modo in cui i videogiochi contribuiscono alla
costruzione e alla perpetuazione degli stereotipi di genere all’interno di un
contesto culturale dominato dal paradigma fallogocentrico. Attraverso l’analisi
delle teorie di Jacques Derrida sul paradigma logocentrico e sulla diérance,
insieme alle riessioni di Judith Butler sulla performatività di genere, verrà
approfondito come il linguaggio e le rappresentazioni videoludiche fungano
da atti performativi coproduttori della realtà. Atti, che non solo consolidano
le norme sociali, producendo hate speech e discriminazioni nei momenti
in cui vengono rappresentate immagini non “consone”, ma possono anche
orire possibilità di riscrittura e resistenza a tali strutture. L’introduzione del
concetto di iterabilità, applicato alla sfera del linguaggio sia in relazione alla
performatività di genere che alle dinamiche videoludiche, apre una stimolante
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riessione sulla potenzialità sovversiva intrinseca ai videogiochi stessi, i quali
non sono meri riessi della cultura dominante, bensì strumenti attivi nella
denizione e ridenizione delle “identità” di genere. L’analisi qui proposta
intende quindi analizzare non solo le rappresentazioni di genere stereotipate
e fallogocentriche all’interno dei videogiochi, ponendo l’attenzione sui casi
di diusione d’odio; bensì le occasioni in cui tali prodotti mediali si pongono
come strumenti di resistenza, sdando i binarismi tradizionali e orendo
nuovi modelli identitari.
Keywords: Fallogocentrismo, Videogiochi, Performatività, Hate Speech,
Risignicazione.
Abstract:
[EN] Over the past decades, video games have emerged as one of the
most inuential media products in popular culture, conveying a multitude
of messages and symbols that reect as well as shape social reality. This
paper aims to explore how video games contribute to the construction and
perpetuation of gender stereotypes within a cultural context dominated by the
phallogocentric paradigm. Through the analysis of Jacques Derrida’s theories
on the logocentric paradigm and diérance, together with Judith Butler’s
reections on gendered performativity, it will be explored how language and
video game representations act as performative acts co-producing reality.
Acts, which not only consolidate social norms, producing hate speech and
discrimination at times when images that are not “appropriate” are represented,
but can also oer possibilities for rewriting and resisting such structures. The
introduction of the concept of iterability, applied to the sphere of language
in relation to both gender performativity and videogame dynamics, opens up
a stimulating reection on the subversive potential inherent in videogames
themselves, which are not mere reections of the dominant culture, but active
tools in the denition and redenition of gender “identities”. The analysis
proposed here is therefore intended to analyse not only the stereotyped and
phallogocentric gender representations within video games, focusing on
instances of hate-spreading, but rather the occasions in which these media
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products pose as instruments of resistance, challenging traditional binarisms
and oering new identity models.
Keywords: Phallogocentrism, Video Games, Performativity, Hate Speech,
Resignication.
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0. Introduzione
Nel corso degli ultimi decenni, i videogiochi sono emersi come uno dei
prodotti mediali più inuenti della cultura popolare, veicolando messaggi
e rappresentazioni simboliche che riettono e, simultaneamente, plasmano
la realtà sociale. Questo lavoro si propone di esplorare il modo in cui i
videogiochi contribuiscono sia alla catalizzazione d’odio, sia alla costruzione
e perpetuazione degli stereotipi di genere all’interno di un contesto culturale
dominato dal paradigma fallogocentrico. Attraverso l’analisi delle teorie di
Derrida sul fallogocentrismo e le riessioni di Butler sulla performatività di
genere, verrà approfondito come le rappresentazioni videoludiche fungano
da atti linguistici performativi che non solo consolidano le norme sociali,
ma, al contrario, possono orire possibilità di riscrittura e resistenza. Il
concetto d’iterabilità, infatti, inteso come possibilità di rottura del contesto e
produzione di nuovi signicati (DERRIDA 1972c), applicato sia in relazione
alla performatività di genere che alle dinamiche videoludiche, apre una
stimolante riessione sulla potenzialità sovversiva intrinseca ai videogiochi
stessi, potendo divenire strumenti attivi nella ridenizione delle “identità” di
genere.
In questo elaborato si tenterà, dunque, di mettere in luce la relazione tra
paradigma fallogocentrico, prodotti videoludici e regolamentazione di genere,
rimarcando come i videogiochi stessi compartecipino alla modellazione
del genere. Partiremo, dunque, da una delineazione del paradigma
fallogocentrico in relazione al genere, specicandone gli elementi costitutivi,
ossia: da un lato il logocentrismo, che vede una binarizzazione essenzialistica
della realtà; dall’altro il fallocentrismo, ovvero la gerarchizzazione dei
dualismi basato su un posizionamento specico. Tale postura verrà messa
sotto critica a partire dalla performatività butleriana, secondo cui il genere
non è un’essenza immutabile, bensì l’iterazione di atti – o performance –
all’interno di una prassi storico-culturale (BUTLER 1990). Proprio in vista
dell’iterabilità, che vede l’opportunità di una risignicazione, il genere deve
essere continuamente regolamentato dal paradigma fallogocentrico, evitando
così di poterlo contrastare. In questa dinamica, i videogiochi si inseriscono
come co-estensioni della realtà sica, producendo e ri-producendo quelle
stesse regolamentazioni nonché fungendo da dispositivi di colpevolizzazione
verso chiunque esca dai canoni. In questo senso essi, in quanto linguaggi
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mediali, possono diventare promotori di hate speech, scagliandosi contro
tutte le gurazioni non fallogocentricamente conformi. I videogiochi, infatti,
in quanto media rappresentativi, forniscono modelli per il riconoscimento
sociale, implicando due criticità. Da un lato tale riconoscimento può risultare
discriminante, come nel caso delle persone transgender spesso ritratte con
ironia o come “una soerenza innaturale” (CAPUZZA & SPENCER 2017).
Dall’altro, invece, ripropongono continuamente dei modelli binarizzati che
rinsaldano gli stereotipi, a.e.1 una ragurazione sessualizzata del “femminile”.
Rappresentazioni che arrivano a generare campagne sessiste nel momento in
cui non rispettano le apparenze fallogocentriche-sessualizzanti, divenendo
momenti di diusione d’odio, ma anche di disciplinamento-regolarizzante
di genere. Tuttavia, i videogiochi hanno anche la possibilità di sdare lo
sguardo stereotipico, permettendo la creazione di nuove direttrici. Lo scopo
nale di quest’analisi, dunque, sarà quello di mettere in luce la relazione
tra media videoludici e regolamentazione sociale, analizzando non solo le
rappresentazioni di genere fallogocentriche all’interno dei videogiochi – e
le conseguenti discriminazioni – ma anche le occasioni in cui tali prodotti
si pongono come strumenti di resistenza, sdando i binarismi tradizionali e
orendo nuovi “linguaggi” identitari.
1. Il paradigma fallogocentrico: la radice dicotomico-gerarchica delle
discriminazioni mediali
Per iniziare la riessione è sostanziale ragionare su alcuni capisaldi della
cultura occidentale, in quanto essi inuenzano la creazione videoludica stessa,
anzitutto nella dimensione rappresentativa del “genere”. Il primo elemento
da analizzare, pertanto, riguarda il paradigma che DERRIDA denì come
logocentrismo (1967a: 19-20), ovvero la tendenza a privilegiare il logos come
principale mezzo di espressione della verità. Questo implica un’elevazione
della parola e della presenza immediata di signicato come centrali nella
produzione del sapere, creando l’illusione di essenze monolitiche quali
“maschio” o “femmina”.
1 Ad esempio
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Tuttavia, tale posizionamento è problematico, in particolare per la
presupposizione dell’esistenza di signicati stabili che possono essere
pienamente rappresentati, senza esserne inuenzati, dal linguaggio. Durante
il suo lavoro di decostruzione DERRIDA (1972b) sda questa idea,
specialmente tramite la diérance. Con tale neologismo, esso sostiene che il
signicato è sempre in movimento, dierito, rendendo impossibile una sua
piena presenza nonché criticando il dualismo presenza/assenza. La diérance,
dunque, destabilizza la concezione che vede la “presenza” essenzialistica di
monoliti stabili e binariamente complementari, rimarcando come la visione
logocentrica non solo ponga una centralità del logos, ma necessiti anche di una
prospettiva manichea. Quest’ultima è un altro rilevante aspetto della critica
derridiana. Secondo il losofo, difatti, la tradizione occidentale sviluppa il
pensiero simbolico proprio attraverso opposizioni binarie (presenza/assenza,
maschile/femminile), venendo poi assunte come coppie chiare e distinte
(DERRIDA 1967b: 372). Coppie, che orientano lo sguardo di ogni persona,
assoggettandole al principio di non-contraddizione. Tuttavia, tali dualismi
opposizionali non acquisiscono il loro signicato in quanto essenze extra-
linguistiche neutrali, bensì come gioco di rinvii e interconnessioni. I binarismi,
infatti, come anticipato attraverso la diérance, si generano e mantengono
attraverso un sistema di dierenze-dierite. Di conseguenza, nell’ambito di
genere, la mascolinità necessita della femminilità all’interno di un sistema
binario per avere un senso, vedendo i loro sensi sempre in movimento; quindi,
esito di un processo relazionale che, in accordo con le riessioni di BUTLER,
potremmo denire performativo (1990).
Secondo la prospettiva butleriana, infatti, il genere è una sequenza iterativa
di atti – o performance – all’interno di una rigida regolamentazione
socioculturale, che stabilisce il modo appropriato di essere “maschio” o
“femmina” attraverso l’educazione e le possibilità. Ciò implica che, se
il genere evolve attraverso l’iterazione di atti regolamentati, le categorie
del dualismo uomo/donna devono essere il risultato di “voci” che hanno
stabilito le caratteristiche e relazioni di potere insite nelle categorie stesse.
La prospettiva performativa, pertanto, destabilizza la presunta neutralità
“naturale” dei posizionamenti binari, sostenendo che, se le signicazioni
categoriali sono il risultato del linguaggio, chi ha avuto maggiori opportunità
di esercitarlo ha inevitabilmente acquisito più potere per centralizzarsi. Ne
consegue, dice BUTLER (2004: 85), che sia stato “il maschile” a imporre i
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suoi imperativi come universalmente validi, delineando i conni dicotomici e
stabilendo le norme sociali a partire dal suo posizionamento.
In questo senso, la centralità nella losoa occidentale non è esclusiva del
logos, ma anche del maschio, del fallo: dunque non è solo logocentrica bensì
anche fallocentrica. Il fallo, simbolo della forza maschile, diviene così il
nucleo d’origine del signicato e del valore, celato nella tradizione metasica.
Questa centralizzazione è intrinsecamente gerarchica, oltre che binaria,
stabilendo il maschile come neutro-normativo e il femminile come derivato.
Un maschile-normativo da intendere intersezionalmente come insieme di
molteplici caratteristiche, come eterosessuale e cisgender. Elementi, come
vedremo, centrali nella discussione attorno alla rappresentazione videoludica,
in quanto aspetti portanti attorno ai quali si sviluppano discriminazioni
e colpevolizzazioni. Il fallocentrismo e il logocentrismo sono, dunque,
interconnessi in quanto rappresentano modi con cui la losoa occidentale
ha cercato di stabilire centri stabili di signicato. Centri elevati a presenze
immutabili, universalizzando e neutralizzando la voce-maschile che li
stabiliva.
Di conseguenza, l’uomo-maschio si è considerato il canone su cui fondare
le società, stabilendo il suo dominio come qualcosa di naturale. Tale
naturalità, discorsivamente prodotta (BUTLER 1990), è proprio ciò che
ha permesso la sua universalizzazione, producendo il paradigma denibile
come fallogocentrismo. Un paradigma che non solo ha incarnato il logos nel
maschio, ma ha reso il fallo invisibile. Tale dissolvimento è un aspetto decisivo
del suo potere e legato, paradossalmente, proprio al “vedere”, all’evidenza di
essere “visto”, giornalmente, in quella posizione e rappresentazione. È infatti
il corpo maschile (etero-cis) che si scorge maggiormente in tutte le posizioni di
potere, performando una specica hexis. Perciò, un vedere che rende invisibili,
rendendo quei corpi così “usuali” in canoni universali. Una canonizzazione
“visiva” che inuenza anche le creazioni videoludiche, sviluppando criticità e
odio. Le persone LGBTQIA+, a.e., in quanto non rientranti nel canone, sono
spesso ritratte nei media come un “altro” mostruoso che destabilizza l’ordine
(HALBERSTAM 2018). La loro sola presenza infatti, sica o mediale,
mette in crisi la stabilità binaria ed essenzialistica logocentrica, portando a
percepire quelle persone come minacce. In questo senso, dunque, la “realtà”
fallogocentrica non si limita al piano sico, ma avvolge ogni dimensione
semiotica dell’essere umano, inclusa quella videoludica. Difatti, la rete della
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diérance, fallogocentricamente orientata, interconnetterà il mondo digitale
e sico, percependo ciò che non è “consono” come un pericolo e alimentando
narrative di colpa pubblica che raorzano la percezione di devianza e
minaccia sociale.
Di conseguenza, questa centralità visiva, otticocentrica, sarà strettamente
plasmata dallo e nello sguardo “maschile”, manipolando ciò che viene – e
deve essere – visto. Dunque, l’“occhio”, così come la “voce”, del maschile
universalizzato diviene la norma. E ciò che “dice” e “vede” in un certo qual
modo diviene l’ordine naturale delle cose. L’invisibilizzazione del carattere
sessuato di queste azioni, il vedere e il dire, è una caratteristica necessaria
dell’egemonia fallogocentrica; permettendo di orientare lo sguardo senza
essere guardato (DERRIDA 1993: 16). In questo modo, si è auto-conferito
la legittimità e il potere di declinare tutto il resto, poggiandosi su una
realtà binarizzata ed essenzializzata che continuerà, come ora andremo ad
approfondire, a regolamentare.
2. La regolamentazione di genere nel paradigma fallogocentrico
Il paradigma fallogocentrico vede dunque una prospettiva dicotomico-
gerarchica della realtà, stabilendo le strade “consone” per essere e presentarsi
come appartenenti a un genere specico: maschio o femmina. Questa visione,
per sopravvivere, necessita di regolamentazioni che garantiscano il modo
corretto di rappresentare tali “identità”, sia nel quotidiano che nelle gurazioni
videoludiche. Il genere, infatti, secondo la teoria della performatività di
BUTLER, è una sequenza di atti linguistici ripetuti all’interno di una rigida
regolamentazione socio-culturale (1990: 199). Una ripetizione regolamentata
che produce, nello stesso tempo, sia il genere come categoria, che l’apparenza
di una sostanza, di un modo d’essere naturale ed essenziale. Il genere,
dunque, si genera e lo fa attraverso l’iterazione di atti linguistici, al di là
della consapevolezza e dell’intenzione dei soggetti implicati nell’azione.
Un’iterabilità che, derridianamente, non indica una mera replicazione, ma
la possibilità di un segno di essere ripetuto in contesti diversi, aprendosi a
nuovi signicati (DERRIDA 1972c: 418). Di conseguenza, se il genere è
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performativo, dunque è un fare attraverso l’iterazione di atti linguistici, esso
può essere decostruito e riscritto proprio in quanto un fare (iterante) che apre
nuove possibilità di signicato.
Questa potenzialità risignicante, intrinseca dell’atto performativo, è un
rischio per il fallogocentrismo. Ciò poiché ogni performance non in linea
metterebbe in discussione l’essenzialità del paradigma stesso, reiterando
modelli alternativi che potrebbero risignicare il suo potere. Per salvaguardarsi,
pertanto, esso dovrà regolamentare tali performance in modo da replicare
l’idea binaria maschile/femminile. Una regolamentazione che limiti, perciò, la
possibilità iterante dell’atto performativo in una duplice dimensione: spaziale
e temporale. Il carattere spaziale consiste nel mantenere il genere all’interno
di uno spazio binariamente articolato, quello del paradigma logocentrico
etero-cis. Uno spazio che si “spazia” in molteplici realtà interconnesse, tra
cui quella videoludica. L’elemento temporale, invece, risiede nel fatto che
il genere costituisce l’“identità” della persona in un susseguirsi di azioni e
rappresentazioni socio-culturalmente autorizzati (BUTLER 1990: 191).
Le performance prodotte dalle persone a seguito di queste due dimensioni
sono, perciò, disciplinate in modo da rifarsi a elementi fallogocentricamente
dicotomizzati. Di conseguenza, tali atti linguistici reitereranno il paradigma
stesso che le regolamenta, saldando e perpetuando la prospettiva logocentrica.
Questa continua regolamentazione, inoltre, porterà all’interiorizzazione delle
attribuzioni categoriali, penetrando nell’interiorità di ogni persona.
In questo processo, l’immersività videoludica inciderà sulla creazione di
un’“abitudine” otticocentrica dei ruoli e comportamenti di genere. Non nel
senso che videogiocare trasforma le persone in una replica dell’avatar che
stanno utilizzando; bensì che tali persone vedranno riproposta e amplicata
una certa visione della realtà, dando conferma a ciò che, nella prospettiva
interiorizzata, è consono o no. Questa immersività fallogocentricamente
orientata è dunque critica, poiché non solo genererà l’illusione di un’essenza
dell’essere “maschio” o “femmina”, ma produrrà un “macchinario” linguistico
che si auto-alimenterà. Un “macchinario” che, proprio in quanto esito di una
centralizzazione del fallo, non sarà neutralmente predisposto ma, come sostiene
la semiologa VIOLI, sessualmente e gerarchicamente orientato (1986: 40).
Di conseguenza, tutto ciò che apparirà come “linguaggio-rappresentazione”
non allineato, verrà percepito come minaccia, movimentando azioni, come
la colpevolizzazione, che annichiliscano tali “ribellioni” performative. Ciò
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è riscontrabile nelle costanti discriminazioni che persone “non conformi”
– incluse quelle digitali – subiscono quotidianamente, vedendo quest’odio
amplicato dai prodotti mediali, sia in vista della loro iperconnettività,
che per la loro enorme potenza creativa. Diversi videogiochi, infatti, sono
plasmati per seguire queste norme di genere. Tali regolamentazioni sono
letteralmente scritte nei loro codici e programmi, a.e., rendendo possibile
solo l’amore eterosessuale o la creazione di avatar cisgender. In questo senso,
dunque, i prodotti videoludici funzionano da atti linguistici performativi in
grado di generare, saldare e reiterare i modelli sociali di riferimento, fungendo
non solo da amplicatori d’odio, ma da suoi co-creatori. I videogiochi
quindi possono fare “cose”, per richiamare il titolo del linguista AUSTIN
(1962), diventando una fonte interpretativa attiva della “realtà” sociale, in
quanto produttori e riproduttori di racconti. Racconti che, in quanto tali,
ridanno performativamente nuova vita ai modelli sociali a cui si riferiscono,
modellando di conseguenza la dimensione non virtuale.
3. La rappresentazione videoludica come co-produttrice di eetti: odio e
legittimazioni
I prodotti videoludici possono, pertanto, contribuire alla regolamentazione di
genere replicando costantemente il canone. Una replicazione che annichilisce
le possibilità iterative, iscrivendo nei suoi codici di programmazione solo
il modo fallogocentricamente adeguato di essere “maschi” o “femmine”
etero-cis. Fondamentale è rimarcare che l’inuenza virtuale non è ininuente
rispetto all’“evento” della realtà sica. Al contrario, questa riproducibilità
tecnica, dice DERRIDA (2008: 62), è parte integrante dell’evento stesso sin
dall’origine, non è un corredamento successivo rispetto alla vita non virtuale,
ma ne condiziona la messa in opera, l’ecacia, la portata, rilanciando modelli
sociali che vengono interiorizzati durante il processo performativo. Modelli
che vengono rappresentati in modalità complementari così da giungere allo
stesso ne. Infatti, se da un lato è possibile individuare riproduzioni allineate
al paradigma; dall’altro, si possono trovare gurazioni discriminanti contro
tutto ciò che non è conforme. In questo modo si attua un duplice e intrecciato
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scopo: (1) rinsaldare l’hexis otticocentrica – attraverso – (2) la discriminazione
e colpevolizzazione dell’“altro” non conforme.
Importante è sottolineare, però, che le rappresentazioni discriminanti non
avvengono solo con intenzionalità, bensì a causa dell’interiorizzazione
di stereotipi perpetuati da decenni attorno a quelle gure, normalizzando
quel tipo di immagine. A tal proposito, sono molto interessanti le categorie
stereotipiche delle persone trans individuate da THACH (2021) nei
videogiochi, arrivando a delineare quattro tendenze discriminanti. La prima
indica una disforia, dove le persone trans vengono narrate accentuando
l’idea di un “corpo sbagliato”. La seconda invece riguarda l’ambiguità, ossia
tutti quei videogiochi che omettono informazioni esplicite sull’identità di
genere. La terza è evidentemente transfobica e vede la rappresentazione delle
persone come pericolose e/o mentalmente instabili proprio a causa della loro
transessualità. I personaggi trans, infatti, sostiene THACH (2021: 27), sono
spesso rappresentati nei videogiochi come malati mentali e/o come assassini,
creando stereotipi pericolosi che rinforzano le dicotomie fallogocentriche e
l’odio sociale. Inne, la quarta categoria riguarda lo “shock trans”, ovvero
il mostrare la transessualità ai personaggi del gioco e al pubblico attraverso
l’improvvisa rivelazione di marcatori di genere inaspettati. Quest’ultima
categoria è stimolante, poiché crea una diretta connessione tra politiche reali
e situazioni virtuali nella rete della diérance. Lo “shock trans” videoludico,
difatti, ricalca quello che nella vita non virtuale viene denito come “panico
trans” (THACH 2021: 31); ossia una difesa giuridica applicata nei casi di
aggressione o omicidio verso una persona trans dopo la scoperta di genitali
diversi da quelli previsti. In altre parole, la giusticazione di atti estremi ed
esagerati rivolti contro persone trans proprio in quanto trans. La crescente
attenzione sulla questione legale del “panico trans” (JOSEPH & CROFT
2019), così come la frequenza dei “shock trans” nei media (CAPUZZA &
SPENCER, 2017), dimostra l’importanza di analizzare questa tendenza, in
quanto mette in luce la correlazione ricorsiva tra mondo videoludico e sico.
Per illustrare l’inuenza del “trans shock” nella creazione di stereotipi
discriminanti è interessante riportare il caso di Shablee, del videogioco
Leisure Suit Larry 62. In questo media, il protagonista Larry incontra Shablee
2 Per ulteriori esempi, nonché un approfondimento del carattere videoludico, si consiglia la
lettura integrale di THACH, Hibby (2021), «A cross-game look at transgender representation
in video games» in Press Start, vol. 7, n. 1, pp. 19-44.
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per una nuotata e, ignaro della sua transessualità, inizia un rapporto sessuale.
Improvvisamente, sia al protagonista che a chi sta giocando, viene mostrato un
pene eretto sotto i vestiti di Shablee, portando a far vomitare Larry e creando
così lo “shock trans” qui discusso. La mattina seguente, si fa intendere che
Larry sia stato violentato da lei, rimanendo, appunto, sotto “shock”. In questo
caso, nota THACH (2021: 32), Shablee rappresenta un’inversione di tendenza,
poiché invece di diventare vittima dopo lo “shock trans”, commette lei stessa
violenza contro la persona che ha scioccato. Questo esempio, preso fra tanti,
risulta qui rilevante. Esso infatti sottolinea come il prodotto videoludico co-
produca e, simultaneamente, raorzi l’idea che le persone trans siano pericolose
e ingannatrici (BILLARD 2019), narrandole come se nascondessero la loro
transessualità per fare del male alle persone; di conseguenza, giusticando
indirettamente la violenza transfobica del mondo sico. In questo caso,
quindi, la rappresentazione videoludica funge da collegamento tra: circostanze
siche d’odio trans; replicazioni di tali situazioni nella dimensione mediale;
torsione dell’evento; e inne riproposizione legittimante. In altri termini, la
violenza transfobica nei casi di “panico trans” sono “giusticate” in quanto
quelle persone – come mostrato in centinaia di prodotti mediali – sono di
per sé ingannatrici e pericolose. La stessa procedura avviene in diversi altri
casi videoludici, non esclusivamente aerenti alla sfera transgender. Come,
a.e., nella rappresentazione sessualizzata dei corpi femminili che, spesso,
sottintende due stereotipi fallogocentrici della “femminilità”. Da un lato
l’uso della seduzione sica a ni manipolatori, rappresentando così le donne
come pericolose e ingannevoli. Dall’altro il contrario, ovvero il loro desiderio
sessuale rivolto verso l’uomo, ma celato dietro una nta negazione. In altri
termini, ciò che lo studioso GASPARRINI (2019: 100) riassume come “il no
vuol dire sì”, che accompagna le donne da decenni giusticando modalità
“predatorie” e sessiste del corteggiamento maschile.
Rappresentazioni costanti, proseguendo con l’analisi, che inevitabilmente
inuenzano la percezione di sé e delle relazioni, agendo sulla costituzione
del proprio essere identitario. Ciò poiché la realizzazione dell’immagine
non si limita a un’“archiviazione” della realtà esterna rispetto al videogioco;
bensì, sostiene DERRIDA, l’immagine fa dell’archiviazione stessa
un’interpretazione attiva, selettiva, produttiva in quanto riproduttiva, artece
del racconto (2008: 63). La creazione videoludica, quindi, in quanto sequenza
d’immagini, in quanto linguaggio performativo, genera eetti, reiterando una
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realtà che ri-produce. Pertanto, la maggiore presenza statistica di determinati
uomini-maschi come protagonisti di videogiochi3, producono e riproducono
uno sguardo specico, un otticocentrismo sessualmente direzionato. Questo
non solo a livello di ri-presentazione del paradigma, ma anche di sua continua
creazione, continua intessitura di signicato. Il videogioco non si limita,
perciò, a conservare, archiviare o replicare l’immagine, ma co-produce
l’evento (DERRIDA 2008: 63). E, nell’impianto capitalistico, rimarca
DERRIDA (Ibidem), un modo ecace per co-produrre la realtà attraverso le
immagini è proprio comprando quelle rappresentazioni, assecondandole oltre
che producendole. Per guadagnare, infatti, le case produttrici orienteranno il
loro sguardo verso ciò che aumenterà il protto, muovendosi per estremi: dal
politicamente corretto accentuato e spogliato d’interesse etico, alla propaganda
“anti-woke” che critica il femminismo e rilancia espressioni misogine; come
avvenuto nel caso di Black Mith Wukong4 o con il CEO di Duoyi Games, che
ha licenziato undici donne perché: “non voleva un’altra merda femminista
in azienda”5. Una misoginia videoludica-capitalista che si riscontra anche
nel giornalismo, come avvenuto nel caso dell’azienda d’informazione
mediale “Bloomberg”, dove un pubblicista sostenne che “le donne non
vendono”6. Questi esempi, dimostrano come il mercato videoludico non
sia solo uno specchio della società capitalista, ma possa diventare un agente
attivo nel perpetuare narrative di esclusione e colpevolizzazione. La scelta di
promuovere prodotti “anti-woke” non è casuale, ma risponde alla logica di
creare un nemico pubblico – femminismo, comunità LGBTQIA+, etc. – che
possa essere colpevolizzato per le presunte crisi culturali ed economiche.
I vari casi e posizionamenti riportati nel paragrafo, da Shablee al giornalista,
sono esito di movimentazioni fallogocentriche che ricalcano una straticazione
stereotipica. Stereotipi che sono proposti e perpetuati dai prodotti mediali
stessi, divenendone un elemento fulcrale da dover analizzare.
3 https://spacenerd.it/2023/07/evoluzione-personaggi-femminili-videogiochi/
4https://stevivor.com/news/black-myth-wukong-devs-ask-streamers-not-to-include-
feminist-propaganda-negative-discourse/
5 https://www.gamepressure.com/newsroom/black-myth-wukong-devs-accused-of-sexism-
and-toxic-work-culture/zf640e
6 https://game-experience.it/ubisoft-le-donne-non-vendono-le-verita-venute-a-galla/
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4. Funzioni e asimmetria degli stereotipi nei prodotti mediali.
Gli stereotipi, dunque, sono un elemento centrale nel rapporto tra produzione
mediale e performatività di genere, in particolare poiché forniscono l’insieme
di caratteristiche considerate “consone”. Caratteristiche, che sono contenute
in specici e logocentricamente signicanti “modelli solidi” (appunto
stereos typos). Secondo la psicologa VOLPATO, questi “modelli solidi”
sono rappresentazioni mentali che collegano determinate categorie sociali a
specici attributi (2013: 28), generando aspettative nonché indicando come
le persone sono o dovrebbero essere a partire da due funzioni interconnesse.
Innanzitutto, la funzione descrittiva, ossia stabilire come le persone sono in
relazione alla complementarietà di caratteristiche speciche: a.e., il maschio
è più “forte”, poiché la donna è più “debole”. Qui, dunque, gli stereotipi
forniscono elenchi di attributi considerati consoni per quella categoria.
Elenchi utilizzati anche nella produzione videoludica, soprattutto nelle fasi
di caratterizzazione degli avatar. In questa funzione, inoltre, le descrizioni
stereotipiche rientrano in un processo di eredità linguistica. Infatti il
linguaggio, dice DERRIDA (1996: 11-17), è sempre un’eredità, in quanto
a noi precedente e costituente. Tuttavia, sostiene CAVARERO, il maschile-
fallo, avendo in sé iscritto il logos (generando appunto il fallo-logocentrismo),
si riconosce nel linguaggio, è in esso (1991: 45). E poiché c’è, si dice e si
pensa con un linguaggio che gli è maggiormente proprio. Al contrario, tutto
ciò che non è uomo dovrà dirsi a partire da un linguaggio che lo ha già
pensato, ereditando una serie di parole, descrizioni e signicati già delineati
e subordinanti. Questo è un aspetto sostanziale da considerare in relazione
alla produzione mediale della stereotipia di genere (binaria), poiché ne risulta
un’asimmetria di eetti e potere. Difatti, seppur l’eredità stereotipica maschile
sia una violenza per il maschio stesso, che deve continuamente dare prova di
essere “vero maschio”, le sue caratterizzazioni lo elevano gerarchicamente.
In alcune rappresentazioni mediali, infatti, come a.e. in One Piece7, la
mercicazione stereotipica del corpo è evidente, sia in senso maschile che
femminile, tuttavia gli esiti connotativi sono opposti. Il corpo maschile viene
infatti riprodotto come vigoroso e forte, quello femminile, invece, oggettivato
e sessualizzato. In entrambi i casi lo sguardo mercicante è il medesimo,
7 https://onepiece.fandom.com/wiki/One_Piece_Wiki
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quello fallogocentrico. Ma, se da un lato guarda la rappresentazione maschile
con idolatria, esaltando un modello archetipico del maschio coraggioso e
forte; dall’altro, osserva quello femminile con desiderio e subordinazione.
Ciò sottolinea come la mercicazione stereotipica in alcuni prodotti mediali,
seppur presente verso ogni genere, produca eetti diametralmente opposti,
descrivendo e mantenendo il maschile in una dimensione di dominazione.
A ogni modo, alla funzione descrittiva si interconnette quella prescrittiva,
ovvero come le persone dovrebbero essere a partire dalle descrizioni stesse. Essa
implica una “strada prestabilita” che educa e conforma, performativamente,
le persone alle categorie pre-delineate, confermando quelle stesse descrizioni
e gurandole come “naturali”. Questa funzione è quella da cui sorge l’odio,
la colpevolizzazione e la discriminazione verso ogni persona che prova a
uscire dal tracciato, in quanto metterebbe in luce l’illusoria “naturalità” di tali
descrizioni, come delineato attraverso il caso di Shablee.
Oltre a queste due funzioni, un ultimo aspetto da tenere in considerazione
è la capacità degli stereotipi di inuenzare le propensioni delle persone
categorizzate. Secondo VOLPATO, difatti, la reiterazione stereotipica indirizza
le persone, statisticamente, verso ciò che viene considerato “consono” in
relazione al loro genere, creando un pericoloso circolo vizioso (2013:199).
A.e., sostenere che i videogiochi sono da “maschi”, porterà alla produzione
di prodotti e immagini che, stereotipicamente, piacciono ai maschi, come
una determinata mercicazione dei corpi8. Immagini che poi, venendo
continuamente proposte, abitueranno e normalizzeranno quelle visioni,
iniziando così a “piacere” ad essi e confermando la prescrizione stereotipica.
Dunque, continuare a rappresentare le donne come oggetti sessualizzati
perché “ai maschi piace” e “vende di più”, non solo implica reiterare stereotipi
discriminanti, ma anche a far interiorizzare quelle propensioni, contribuendo
attivamente alla creazione dell’“identità” maschile.
4.1 L’iscrizione degli stereotipi di genere nei e attorno ai videogiochi
Nei videogiochi, dunque, gli stereotipi possono fungere da modelli per
8 https://gettingitstrait.com/issues/issue-14/hypersexualisation-the-plague-of-anime/
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progettare le relazioni nonché le persone virtuali stesse, iscrivendo nei
loro codici rigide descrizioni e annichilendo così le possibilità iteranti. In
alcuni prodotti ciò è riscontrabile n dalla creazione dell’avatar, dove, in
base al genere (binario) scelto, si limitano le possibilità caratterizzanti e le
interazioni successive. A.e., in Fable III se si crea un avatar femminile si
riceveranno commenti sul proprio corpo da parte degli altri avatar, aspetto
che non accade in caso di scelta maschile. Altri media, però, come Baldur’s
Gate 3, decostruiscono tali limiti, permettendo una personalizzazione
libera e sdando le pre-signicazioni fallogocentriche. In questo modo,
sarà possibile realizzare il proprio avatar senza limiti caratterizzanti o
inuenze dettate da stereotipi di genere, divenendo, a livello di possibilità
di auto-rappresentazione, accessibile anche per persone trans o non binarie.
Tuttavia, la sola creazione dell’avatar non è suciente a risignicare
il paradigma, in quanto reiterato da molteplici linguaggi, tra cui quello
comportamentale. Di conseguenza, se il gioco ore la possibilità di plasmare
un avatar liberamente – o di impersonicare una protagonista – ma le strutture
relazionali e comportamentali di quel “mondo” rimangono fallogocentriche,
la narrazione che la persona videogiocatrice avrà sarà la medesima. Questo,
per sottolineare come non basti la presenza di un corpo “donna” o “trans”
per risignicare un paradigma, poiché quello stesso “corpo” e/o tutto ciò che
gli gravita attorno, può comunque reiterare la struttura discriminante. Infatti,
una donna con un personaggio femminile che compie azioni transfobiche,
starà reiterando lo stesso paradigma di un uomo misogino. Ciò poiché, come
sostiene DERRIDA (1978: 107), quei linguaggi manterranno vivi i dualismi
gerarchici fondanti del fallogocentrismo.
A ogni modo, gli stereotipi, oltre a iscriversi nella programmazione mediale,
orientano spesso anche la comunicazione attorno al prodotto, solitamente
a ni commerciali. Stimolante è il caso del linguaggio discriminante usato
dagli sviluppatori di Black Mith Wukong, con cui reiterarono una determinata
visione della mascolinità. Essi, infatti, ponendosi apertamente in contrasto
con le tematiche femministe, ottennero un’ampia visibilità, facendo leva
sull’ideologia “anti-woke” per incentivare le vendite. A.e., uno degli sviluppatori
scrisse: “fanculo i mammoni, fanculo le tragiche storie d’amore, fanculo i ori
di pesco al chiaro di luna e gli studiosi che suonano il auto! [...] Alcune cose
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sono solo per gli uomini, la loro depressione, la loro rabbia, il loro dolore”9.
Queste parole ricalcano una prospettiva stereotipica maschile ben precisa che,
in modo prescrivente e violento, descrive – e nel gioco rappresenta – il maschio
tramite il modello archetipico dell’“uomo” solo, arrabbiato e violento. Con
questo post, dunque, lo sviluppatore non ha solamente creato hate speech, ma
ha anche perpetuato l’immagine stereotipica della mascolinità, polarizzando
lo sguardo fallogocentrico. In questo senso, il videogioco preso in questione
non solo esercita la sua inuenza stereotipica attraverso il mondo virtuale, ma
anche tramite la comunicazione che avvolge il prodotto stesso, amplicando
la sua portata.
Spostandoci ora in una dimensione stereotipica femminile, restando nel
binarismo, si apre un altro tema delicato, ovvero quello della comunicazione
e rappresentazione specicatamente sessista-sessualizzante, che ora andremo
ad approfondire.
5. Il sessismo verso persone digitali: regolamentare il genere tramite
l’odio online
La struttura stereotipica si pone alla base della creazione del genere, prescrivendo
attraverso il linguaggio le descrizioni fallogocentricamente adeguate. La
comunicazione sessista, infatti, è qualcosa che – performativamente – si
fa attraverso frasi e rappresentazioni in linea con gli stereotipi di genere
precedentemente delineati. Senza stereotipi sarebbe impossibile produrre
linguaggi sessisti, poiché non ci sarebbero le categorizzazioni che danno
senso alla frase stessa. Il carattere discriminatorio stereotipico, dunque, non
è esclusivamente indirizzato verso una persona specica, ma verso categorie
sociali in cui viene inserita la vittima, sia essa sica o virtuale. Ciò è riscontrabile
nei momenti in cui donne digitali subiscono attacchi da parte della comunità di
videogiocatori, come il caso di Aloy, protagonista di Horizon Forbidden West.
Essa, difatti, in quanto non esteticamente sessualizzata e quindi non conforme
9 https://www.gamepressure.com/newsroom/black-myth-wukong-devs-accused-of-sexism-
and-toxic-work-culture/zf640e
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all’otticocentrismo fallocentrico, subì hate speech sessista attraverso frasi
come: “è troppo muscolosa”, “ha troppa peluria facciale” etc.10. Per quanto
questi commenti possano sembrare ininuenti agli occhi della comunità,
poiché rivolti a una persona virtuale, in verità sono problematici. Non solo
perché mettono in luce la tossicità dei rapporti di genere, ma anche in quanto
tali aggressioni, sotto forma di hate speech, colpiscono una concezione “non
conforme” dei corpi femminili, attaccando indirettamente tutte le persone
inchiodate nella categoria “donna”. Il linguaggio sessista, in questo modo,
opera un doppio movimento nei contesti mediali, uendo dalla dimensione
digitale a quella sica e dalla categoriale alla soggettiva.
Questo caso specico apre inoltre un ulteriore aspetto considerevole,
ovvero il disciplinamento che il linguaggio d’odio esercita sulle persone. La
problematicità dell’hate speech, infatti, risiede proprio nella sua capacità di
investire a livello sociale emittenti e destinatari dell’enunciazione, fungendo
da strumento ecace per mantenere le persone nelle strade prescritte dal
paradigma. Come evidenziato dalla losofa BIANCHI, l’insulto è un congegno
retorico di costruzione dell’identità collettiva, che regola e spesso determina
le dinamiche e i rapporti interni o esterni ai gruppi sociali (2021: 91). Nel caso
sopra riportato di Aloy, questa funzione dell’insulto è evidente. Essendo essa,
infatti, una “persona virtuale”, quindi non sicamente vivente, il potenziale
discriminatorio non si dirige su di lei, ma si estende totalmente sulla categoria
che rappresenta. Una categoria – “donna” – che si poggia su stereotipi e canoni
ben specici in relazione allo sguardo fallogocentrico. Pertanto, nel momento
in cui quella rappresentazione esce dal tracciato “consono” (mostrando
una donna non sessualizzata), si attivano modalità linguistiche denigratorie
a ni punitivi-disciplinanti. Ciò, non tanto per chi esce dalla “via”, che in
questo caso è un prodotto mediale, bensì per chi è ancora dentro o ci sarà.
Dunque, l’aggressione sessista lanciata contro le protagoniste videoludiche
non sessualizzate, così come gli attacchi transfobici, funzionano sia come
diusori d’odio, sia indirettamente come disciplinatori-colpevolizzanti.
Fungono da avvertimenti che sottolineano, alle persone categorizzate e alle
case videoludiche, cosa succede nel momento in cui si esce dal tracciato
stabilito. Avvertimenti spesso concretizzati in ambito mediale, a.e., tramite
boicottaggi online per convincere le persone a non acquistare quei prodotti.
10https://www.spaziogames.it/notizie/horizon-forbidden-west-scoppia-la-polemica-
sullaspetto-di-aloy
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Nella dimensione del genere, dunque, un insulto avverte cosa succede
nell’uscire dai canoni prescritti, reiterando quei canoni e sottolineandone
i conni. Ciò si estende e amplica proprio nella dimensione videoludica,
sia quando le loro rappresentazioni mediali rilanciano all’innito le stesse
dinamiche; sia nel momento in cui provano a tracciare strade alternative per
risignicare il paradigma, generando una risposta disciplinante che catalizzerà
su di loro l’odio fallogocentrico.
Riassumendo, i videogiochi, di per sé, in quanto co-produttori dell’evento e
della realtà, sono direttamente responsabili del mantenimento del paradigma
fallogocentrico, così come potenzialmente suoi ri-signicatori. Il successo
di giochi come Horizon Forbidden West, nonostante l’odio sessista ricevuto,
sottolinea la possibilità di muovere passi contro il “discorso dominante”
proprio a partire da produzioni mediali sdanti. E ciò è concretizzabile in
quanto i videogiochi stessi sono linguaggi performativi in grado di agire
sulla dimensione sociale. Pertanto, di poterla ri-scrivere o, derridianamente,
re-intessere i legami della diérance, dissolvendo la rigidità stereotipica.
Questo è l’aspetto iterativo del videogioco, la sua potenzialità intrinseca.
Esso può diventare catalizzatore del dominio fallogocentrico, così come
suo sovvertitore. L’odio che protagoniste, come Aloy, subiscono a causa
della rappresentazione estetica è sintomatica di un problema sociale. Un
problema che il videogioco mette in luce e, simultaneamente, può sdare
attraverso nuovi linguaggi che esproprino il monologo fallogocentrico. Come
scrisse BUTLER: “è precisamente l’espropriazione del discorso dominante
‘autorizzato’, che costituisce un sito potenziale della sua risignicazione
sovversiva” (1997: 157).
6. Conclusione
Le parole, siano esse riprodotte da una persona sica o virtuale, sono gli
eetti e gli strumenti di un rituale sociale che decidono, spesso attraverso
l’esclusione, la colpevolizzazione e la violenza, le condizioni linguistiche dei
soggetti che possono sopravvivere (BUTLER 1997: 6). La comunicazione
discriminante è, pertanto, parte del processo incessante e ininterrotto cui
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ogni persona è soggetta in riferimento a riconoscimenti permessi o negati.
L’ecacia dei riconoscimenti è, tuttavia, in relazione a un linguaggio detenuto
da una prassi egemonica, che stabilisce i conni a partire da un set di signicati
specici. In questo senso, il videogioco, in quanto linguaggio mediale che
ha in sé molteplici forme comunicative – immagini, scritti, espressioni orali,
etc. – è impregnato del dominio fallogocentrico. Inoltre, in quanto atto
performativo, contribuisce attivamente non solo a riprodurre, ma anche a co-
originare la realtà e il processo identitario, sostenendo la regolamentazione
di genere spesso attraverso la creazione di colpe mediali che raorzano la
marginalizzazione delle identità “non conformi”. Con questo non si intende
sostenere che le persone che fruiscono dei videogiochi diventino una copia
comportamentale degli avatar che usano; bensì che vedranno reiterata e
amplicata una certa visione della realtà, dando conferma a ciò che, nella
prospettiva fallogocentrica interiorizzata, è consono o no. Non si è voluto
infatti, in questo lavoro, demonizzare l’uso dei videogiochi, al contrario,
molti studi riportano gli eetti beneci di questi prodotti mediali11. Bensì,
si è desiderato porre l’attenzione sulla capacità intrinseca del videogioco di
coprodurre il paradigma di riferimento; così come, in quanto performance
performativa, la sua potenzialità risignicante. Quindi, rappresentare una
donna non sessualizzata o dare la possibilità di creare avatar transgender
non è “estremismo woke”, ma un tentativo di sviluppare prodotti paritari che
riscrivano i canoni sociali. Allo stesso tempo, però, bisogna evitare di ricadere
in un “politically correct” estremizzato in cui tutto è lecito pur di produrre
capitale. Un estremismo che, in verità, non farebbe altro che riproporre il
modus operandi violento del fallogocentrismo.
Il mondo mediale è dunque una co-estensione di quello sico. Creare nuove
possibilità relazionali nella dimensione videoludica implica muovere passi
risignicanti in relazione alla realtà non virtuale. La possibilità di creare
narrazioni alternative, infatti, suggerisce che i videogiochi possano essere
strumenti di trasformazione sociale, capaci di sdare l’ordine prestabilito
e aprire nuovi spazi per la ridenizione del genere e delle identità.
Il videogioco, in sintesi, può mantenere il direzionamento otticocentrico del
paradigma, così come riorientare il suo sguardo, sdando gli stereos typos
11 https://www.ox.ac.uk/news/2020-11-16-groundbreaking-new-study-says-
time-spent-playing-video-games-can-be-good-your-well
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che ha prodotto e bucando il timpano echeggiante. Per far sì che il loro
carattere sovvertivo emerga, tuttavia, è necessario mettere in luce il paradigma
fallogocentrico di riferimento, evitando così che alcune sue strutture fondanti
vengano mantenute, riperpetuandolo inconsapevolmente. Come scrisse
DERRIDA:
Fintanto che non si sarà distrutto questo timpano […], cosa
che non si può fare con un gesto semplicemente discorsivo o
teorico, ntanto che non si saranno distrutti questi due tipi di
dominio nella loro familiarità essenziale – che è anche quella
del fallocentrismo e del logocentrismo, ntanto che non si sarà
distrutto n il concetto losoco di dominio, tutte le libertà
che si aermerà di prendersi rispetto all’ordine losoco
continueranno ad essere manovrate a tergo da macchine
losoche misconosciute, secondo i casi, per diniego o
per precipitazione, per ignoranza o per stupidità. Con o
senza la consapevolezza dei loro «autori», esse si saranno
fatte richiamare all’ordine molto alla svelta (1972d: 14).
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