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Hate speech e mascolinità: la centralità del linguaggio d'odio nella reiterazione e mantenimento della maschilità egemonica.

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Abstract

Gender studies have generated numerous questions regarding the potential of language and the power relations it produces, especially after the philosopher Judith Butler's reinterpretation of Austinian performativity theory. She in fact reinterpreted this theory not only in linguistic terms, but also in relation to the normative power that nails biological fates to anatomical bodies, pinning them into roles and permissions defined by dominant praxis. With the theory of gender performativity, the connection between language, identity and power becomes even clearer and more incisive, seeing hate speech as playing a central role in both the maintenance of praxis and the disciplining of people in accordance with such praxis. Starting from a reflection on the universalization of man through the appropriation of language-logos, the aim of this paper will therefore be to highlight the intricate link between hate speech and hegemonic masculinity. It will then emphasize how the denigrating and punitive functionality of hate speech is central to the reiteration of the subordinating binarism on which patriarchal hegemony is founded. In this way, it will be possible to think of strategies, such as re-signification, that not only disarm the violent potential of hate speech, but also contribute to rewriting the underlying social praxis, producing anti-discriminatory and equalitarian models.
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Filoso(e)Semiotiche, Vol. 11, N. 1, 2024,
ISSN 2531-9434
Hate speech e mascolinità: la centralità del linguaggio d’odio
nella reiterazione e mantenimento della maschilità egemonica
Hate speech and masculinity: the centrality of hate language
in the reiteration and maintenance of hegemonic masculinity
Alberto Grandi
Università degli studi di Bari “Aldo Moro”.
alberto.grandi@uniba.it
Abstract
[IT] Gli studi di genere hanno sollevato numerose questioni riguardo alla
potenzialità del linguaggio e alle relazioni di potere che esso produce,
specialmente dopo la reinterpretazione della teoria performativa di Austin da
parte di Judith Butler. La studiosa, infatti, ha reinterpretato la teoria non solo
in termini linguistici, ma anche in relazione al potere normativo che ssa
destini biologici a corpi anatomici, ssandoli a ruoli e permessi deniti dalla
prassi dominante. Con la teoria della performatività di genere, la connessione
tra linguaggio, identità e potere diventa ancora più chiara e incisiva, vedendo
il discorso d’odio come un elemento centrale sia nel mantenimento della
prassi sia nella disciplina delle persone in accordo con tale prassi. Partendo da
una riessione sull’universalizzazione dell’uomo attraverso l’appropriazione
del linguaggio-logos, l’obiettivo di questo articolo sarà quindi mettere in
evidenza il rapporto intricato tra discorso d’odio e mascolinità egemonica.
Si sottolineerà poi come la funzionalità denigratoria e punitiva del discorso
d’odio sia centrale nella reiterazione del binarismo subordinante su cui si
fonda l’egemonia patriarcale. In questo modo, sarà possibile pensare a
strategie, come la risemantizzazione, che non solo disarmano il potenziale
violento dello hate speech, ma contribuiscono anche a riscrivere la prassi
sociale sottostante, producendo modelli anti-discriminatori ed egualitari.
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ISSN 2531-9434
Abstract
[EN] Gender studies have generated numerous questions regarding the
potential of language and the power relations it produces, especially after
the philosopher Judith Butler's reinterpretation of Austinian performativity
theory. She in fact reinterpreted this theory not only in linguistic terms, but
also in relation to the normative power that nails biological fates to anatomical
bodies, pinning them into roles and permissions dened by dominant praxis.
With the theory of gender performativity, the connection between language,
identity and power becomes even clearer and more incisive, seeing hate speech
as playing a central role in both the maintenance of praxis and the disciplining
of people in accordance with such praxis. Starting from a reection on the
universalization of man through the appropriation of language-logos, the aim
of this paper will therefore be to highlight the intricate link between hate
speech and hegemonic masculinity. It will then emphasize how the denigrating
and punitive functionality of hate speech is central to the reiteration of the
subordinating binarism on which patriarchal hegemony is founded. In this
way, it will be possible to think of strategies, such as re-signication, that
not only disarm the violent potential of hate speech, but also contribute to
rewriting the underlying social praxis, producing anti-discriminatory and
equalitarian models.
Keywords: language, gender studies, hate speech, performativity theory,
hegemonic masculinity
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0. Introduzione
Gli studi di genere hanno sollevato numerosi interrogativi riguardo le
potenzialità del linguaggio e le relazioni di potere che esso produce. In
particolare, la prospettiva linguistica performativa, introdotta da John L.
Austin, è stata determinante, soprattutto grazie alla reinterpretazione oerta
dalla losofa queer Judith Butler. Essa rilesse la teoria austiniana non solo
in termini linguistici, ma anche in relazione alla forza normativa che vincola
destini biologici a corpi anatomici, incasellandoli in ruoli e permissioni deniti
dalla prassi dominante. Con la teoria della performatività di genere, diventa
pertanto ancora più chiara e incisiva la connessione tra linguaggio, identità
e potere, vedendo nell’hate speech un ruolo centrale nel mantenimento della
prassi, nonché nel disciplinamento delle persone in conformità a tali prassi.
In questo elaborato vorrei mettere in luce la relazione tra mascolinità, in
particolare nell’accezione egemonica individuata dalla sociologa CONNELL
(1995: 78), e linguaggio d’odio, rimarcando come entrambe si poggino su una
matrice di forza-violenza che permette la movimentazione dell’oppressione
patriarcale. Partirò dunque da una prima riessione sul rapporto tra uomo e
linguaggio, analizzando come il primo si sia universalizzato a partire dalla
detenzione del linguaggio-logos, con cui poi ha delineato e gerarchizzato le
altre categorie. Dopodiché come, attraverso l’hate speech, sviluppi retoriche
che legittimano l’esercizio egemonico nonché garantiscono la reiterazione
della prassi patriarcale stessa. In questa parte adotterò anche una prospettiva
animalista, in particolare a partire dalle considerazioni della losofa Adams
sul rapporto tra linguaggio d’odio, animali non umani e deumanizzazione.
Inne, rietterò su come l’hate speech sia usato per educare e disciplinare
le persone, spingendole a rimanere sulla strada prescritta socialmente. Lo
scopo sarà dunque quello di mettere in luce lo stretto legame tra maschilità e
linguaggio d’odio, riettendo su come poter intervenire per risignicare tale
categoria e disinnescare l’hate speech.
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1. Uomo-logos: lo sviluppo di una prassi egemonica che sostiene le
potenzialità dell’hate speech
Nella civiltà occidentale l’uomo1 è il canone su cui si poggia l’intera struttura
sociale, fondendosi con la prassi – patriarcale – e reiterandola quotidianamente.
Di conseguenza, la supremazia maschile sembra rientrare nell’ordine naturale
delle cose, in un biologismo che denisce i rapporti di potere. Tale naturalità,
discorsivamente prodotta e performata nel linguaggio (BUTLER 1990), è
ciò che ha reso l’uomo invisibile e universale. Inseriti in tale modello, i vari
pensatori della storia hanno considerato il maschile come trascendentale,
perciò senza il bisogno di pensare, e pensarsi, in termini di genere. In questo
modo l’uomo si è autoconvinto di non essere inuenzato dalla propria
mascolinità e poter parlare per tutta l’umanità, diventando il logos attraverso
cui declina il resto. Di conseguenza, sono andate a svilupparsi denizioni e
categorie, a partire da dicotomizzazioni gerarchizzanti, che nella ripetizione
hanno trovato una forza naturalizzante e a-aprioristica su cui poi abbiamo
fondato riessioni, relazioni e società. Data questa invisibilizzazione della
mascolinità, nel tempo ci si è interrogati sul rapporto del soggetto parlante
con la natura, con Dio, con gli altri esseri viventi, ma non si è mai messo in
discussione che tali analisi fossero sempre l’esito di un mondo dell’uomo
prodotto e universalizzato dalla propria lingua; mai considerata il risultato di
un essere sessuato (IRIGARAY1991: 279).
A questo proposito è stimolante l’analisi della losofa femminista Cavarero
– che io rileggerò in chiave intersezionale – ne Il pensiero della dierenza
sessuale, dove scrive;
«All’“io” del discorso, quello stesso discorso che ora (io) sto pensando e dicendo
in lingua italiana, accade che il suo essere maschile o femminile non lo riguardi. Il
soggetto “io” è di genere maschile, ma non gli compete una sessuazione. Così
quando si dice “io sono donna” o “io sono uomo”, l’“io” sopporta e accoglie
indierentemente la sessuazione, essendo di per neutrale. In questo modo il
discorso losoco può legittimare e aermare l’“io penso” e fare di questo soggetto
neutrale un universale. E può anche eliminare il “penso” e dire semplicemente “Io”
poiché è appunto in esso che l’universale si presenta» (CAVARERO 1991: 43).
1 Qui intersezionalmente inteso come maschio, bianco, eterosessuale, cisgender, abile e
borghese.
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Eppure, quel genere grammaticale maschile che l’Io porta in sé fa traballare
questa rappresentazione di universalità. Dire “io”, in un certo qual modo,
è già dire “io sono uomo”. Infatti, ciò che evochiamo nelle nostre menti
utilizzando il modello concettuale del “neutro” è proprio “il segno del suo
soggetto” (CAVARERO 1991: 44), ovvero il maschile e tutto ciò che contiene.
Con il termine “uomo”, nota Cavarero, si denotano simultaneamente due
aspetti. Da un lato un essere nito e sessuato. Dall’altro un universale,
prodotto dal linguaggio attraverso una parabola logica ascendente che
assolutizza la nitezza del primo aspetto. Dopodiché, tramite una dinamica
discendente, tale universalità sarà in grado di comprendere e specicarsi,
sia in quel maschile nito che lo ha generato, sia in tutto il resto. Perciò, è
presente una circolarità dove “uomo” è sia universale che particolare, mentre
il resto è solo particolare, sviluppando una prima egemonica dicotomia:
uomo/non-uomo. I particolari poi, in una logica binaria, sono uno l’altro
dell’altra. Ma, in verità, l’alterità dell’uomo si fonda nell’uomo stesso che,
ponendosi preliminarmente come universale, ammette poi se stesso come
uno dei particolari nel quale l’universale si può specicare. Al contrario,
l’alterità della donna viene a fondarsi in negativo: l’universale-neutro uomo,
particolarizzandosi come “uomo” sessuato al maschile, si trova di fronte
all’uomo sessuato al femminile, e lo dice appunto altro da (CAVARERO
1991: 46). Rileggendo la losofa in chiave intersezionale, potremmo dire
che ciò avviene anche per l’omosessualità, la transessualità e via dicendo,
rendendo tutto ciò che non è uomo – bianco, eterosessuale, cisgender – dei
particolari prodotti da un neutro-maschile.
In questo modello l’uomo occupa, dunque, una posizione dierente rispetto a
ogni altra identità. Modello che viene costantemente reiterato proprio dall’uso
di un linguaggio che, universalizzando il particolare “uomo”, performa
determinate categorie e relazioni di potere. Il concetto di neutro-maschile
permette, così, la circolarità dell’uomo tra universale e particolare, detenendo
il potere e il controllo della barra – linguistica – che taglia i “particolari”
(uomo barra (/) non-uomo), delimitandone conni e permissioni. Dunque,
gerarchizzando e categorizzando i signicanti, signicandoli.
Sembra quindi che l’uomo si sia reso universale assumendo il controllo del
linguaggio. Con esso ordina e costituisce il mondo, sviluppando dicotomie e
signicando corpi anatomici, inchiodandogli destini. Difatti, nell’universale
“neutro” l’uomo c’è con tutta la concretezza del suo essere, e poiché c’è
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si riconosce, si pensa e si rappresenta con un linguaggio che gli è proprio:
«L’uomo è colui che dice le cose e il mondo, dice se stesso come il dicente.
Pensa il tutto e pensa se stesso come il pensante» (CAVARERO1991: 45).
Al contrario, tutto ciò che non è uomo dovrà dirsi a partire da un linguaggio
“neutro”, che lo ha già pensato, dicendosi e rappresentandosi attraverso
categorie dell’altro-uomo. Assumendo il linguaggio l’uomo ha prodotto la
sua essenza, denendosi e pensando, quindi stabilendo, i modelli stereotipici
e dicotomici con cui vengono signicati i corpi che lo ereditano e che, di
conseguenza, reiterano quello stesso modello. Ciò ha dunque prodotto una
struttura binaria, uomo/non-uomo, declinatasi poi intersezionalmente in
molte altre, che inuenzano la costituzione delle persone e i loro relativi
rapporti. Dicotomie tutte valutate, confrontate, inquadrate e determinate in
modo gerarchico.
Come conseguenza di queste riessioni, si possono delineare tre elementi
chiave alla base della struttura uomo-logos che si connettono alla prassi
patriarcale, sviluppando quella che Connell nomina mascolinità egemonica
(CONNELL 1995: 78).
Innanzitutto, la necessità di una visione manichea della realtà che vede, come
detto, la prima grande cesura in uomo/non-uomo. L’uomo infatti necessità,
come evidenziato da Butler, di binarismi per assumere signicato. Le sue
denizioni derivano necessariamente dalla relazione con qualcos’altro. Nel
caso del genere, la mascolinità acquisisce il suo signicato proprio a partire
dalla relazione performativa che i signicanti “uomo” e “donna” hanno
uno con l’altra all’interno di una prassi binaria (eterosessuale). In questa
dinamica l’uomo può sfruttare la sua altra, sia come entità verso cui esercitare
il proprio dominio, sia come elemento a cui assegnare ciò che non può o vuole
possedere, come la debolezza, che delegittimerebbe la sua egemonia. Qui
l’hate speech svolge un ruolo centrale, poiché aiuta a saldare la barra obliqua
che divide le parti dei dualismi.
I vari binarismi però non sono neutri, bensì carichi di potere subordinante. Da
ciò ne consegue tutta una serie di attribuzioni, possibilità e attitudini che, in
ambito di genere, garantiscano la dominazione dell’uomo e la subordinazione
della donna; esattamente come, in prospettiva animalista, la sopraazione
umana rispetto alla sottomissione “animale”. Il mantenimento di questa
dimensione è chiaramente dettato dall’esercizio della forza-violenza su cui
la mascolinità stessa (dal latino masculum: mas, forza) si è fondata. Tale
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caratteristica è centrale nella relazione tra maschilità e hate speech, in quanto
quest’ultimo è una delle armi che la prassi egemonica utilizza per perpetuarsi:
dal disciplinamento no alla legittimazione del genocidio.
Inne, la detenzione del linguaggio ha portato alla decorporeizzazione
come aspetto necessario della mascolinità, nonché della sua possibilità di
farsi universale. Il rapporto del maschile con il proprio corpo lo pone in
una condizione di elevazione degli aspetti considerati “incorporei”, come la
ragione; dando così avvio a quel processo logico, individuato da Cavarero,
che vede una circolarità tra universale e particolare maschile.
Questi tre elementi sono ciò che garantiscono l’universalizzazione egemonica
dell’uomo-logos, producendo sia la prassi patriarcale, sia la caratterizzazione
identitaria nominabile come mascolinità egemonica. Ciò non implica però
che tutte le soggettività maschili siano completamente aderenti ai tratti
della maschilità egemonica, sebbene tutte le persone siano soggette alla
prassi patriarcale. La mascolinità è una dinamica complessa che si fonda su
relazioni di potere e dicotomie, assumendo sfaccettature in relazione alle
categorizzazioni prodotte dalla prassi. Come sottolineato dalla sociologa
Connell, esistono dierenti tipi di mascolinità, esito di molteplici tratti
identitari, come l’etnia o l’orientamento sessuale. Tratti, però, che sono
già stati incasellati e delineati da chi “detiene” il linguaggio a partire da
attribuzioni “normative”: come essere bianchi, eterosessuali, cisgender e
via dicendo. Ciò diventa complesso traslando il discorso sulla responsabilità
personale, poiché l’esercizio egemonico non avviene necessariamente da
persone che aderiscono a ognuna di quelle caratterizzazioni. Ad esempio,
una persona omosessuale può movimentare la prassi egemonica producendo
un linguaggio d’odio sessista, misogino o razzista. Ciò verrà fatto senza
la consapevolezza che in quel modo si sta rinforzando un modello che,
potenzialmente, discriminerà anche l’ipotetica persona. Alimentare l’odio
attraverso la struttura dicotomica signica, infatti, caricare la prassi di
una violenza pronta poi a riversarsi su nuove dicotomie e, quindi, nuove
persone. La dinamica di potere della mascolinità egemonica, fusa nella prassi
patriarcale, trova così il suo modo di movimentarsi, tracciando una serie di
elementi considerati “normali” e “giusti”, che intersezionalmente genereranno
molteplici gerarchie d’oppressioni e linguaggi d’odio.
A ogni modo, ogni sfaccettatura, come sostenuto, è già stata delineata da chi
detiene il potere. Nella nostra contemporaneità l’omosessualità, a.e., è una
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categoria che è fu denita e pensata a partire dalle posizioni eterosessuali
(CONNELL 1995). Il linguaggio denigratorio che ne consegue è proprio
l’esito di una “naturalizzazione” di specici caratteristiche in linea con la
prassi dell’uomo-logos.
A questo proposito è stimolante un’analisi sull’etimologia di alcuni termini
fondativi del maschile, poiché pongono le basi di signicato su cui si poggiano
alcuni epiteti denigratori come “frocio” o “puttana”.
1.1. La violenza etimologica del Vir
La caratteristica della forza-violenza è basilare nella mascolinità egemonica,
pertanto l’uomo-logos ha da sempre dovuto elaborare retoriche per iscriverla
nella maschilità stessa, facendola così congurare come naturale. Su questo
è di particolare interesse l’analisi svolta dalla losofa Chiricosta in relazione
all’opera Etymologiæ, di Isidoro di Siviglia. Nel suo testo il grammatico
riporta una serie di parole indicanti il maschio e la femmina, specicandone
poi l’asimmetria. Più precisamente, per l’uomo adulto è riportato solo un
nome, vir (da cui “virilità”), per la donna, al contrario, molteplici, mulier,
femina, virago. L’asimmetria risiede invece nella costituzione corporea:
«L’uomo è stato chiamato vir perché in lui vi è più vis, ossia forza, che nelle
femmine, donde anche il nome di virtù; ovvero perché con vis, ossia con la
forza, tratta la femmina stessa» (CHIRICOSTA 2019: 43).
Il termine uomo, vir, viene dunque subito collegato al concetto di vis, forza, e
in secondo luogo a quello di virtù. La relazione etimologica tra vir e vis, così
come quella con virtus, non è così scontata come appare, venendo pensata
in riferimento a un altro soggetto, la femmina. Infatti, se dell’uomo si dà
una denizione che, come vir, lo contempla nella sua dimensione insieme
naturale e culturale, la femmina manca della componente culturale. Tale
squilibrio risponde a una precisa logica di subordinazione, che ha per scopo
l’esaltazione della soggettività maschile come completa e normativa. Il vir
è più forte per denizione, ed è più forte in quanto usa la sua forza sulla
femmina. In altre parole, si potrebbe aermare che si diviene vir nel momento
in cui si aerma la vis sulla femmina, attraverso un atto di sopraazione
dell’intera soggettività di lei; e in ciò consiste la virtus maschile.
La donna, all’opposto, è stata chiamata mulier (dalla quale deriva “moglie”)
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con riferimento alla sua mollezza. Il signicato di questa parola si ritrova
nel comparativo più molle (mollier), confermando due assunti in una stessa
denizione: la donna ha senso solo in relazione a qualcun altro ed è, in quanto
mulier-mollier, per denizione più molle, ergo più debole. Sostiene Isidoro:
[Uomo e donna] si dierenziano tra loro per la forza e la debolezza del corpo. Ora,
per questo l’uomo ha più forza e la donna di meno, perché questa sia paziente con
quello: perché, cioè, dinnanzi al riuto della femmina, la passione non costringa
l’uomo a desiderare altro o a lanciarsi su un altro sesso (CHIRICOSTA 2019: 45).
La dierenza sostanziale, dunque, tra vir e mulier risiede nella maggiore
forza del primo e nella debolezza della seconda. Una debolezza naturale,
che sancisce culturalmente il diritto del vir a esercitare la sua forza –
sessuata – sul corpo della mulier che, dal canto suo, ha il dovere naturale
di essere paziente. Interessante è notare come la mollezza della donna sia
argomentata non tanto secundum naturam, bensì secundum propositum.
La mulier è più molle perché deve essere più paziente, per poter accettare
l’inevitabile violenza maschile sul suo corpo. Altrimenti il rischio è che il
desiderio sessuale maschile, frustrato, si rivolga altrove, come verso il suo
stesso sesso. La stigmatizzazione dell’omosessualità va qui di pari passo con
la subordinazione del corpo femminile al desiderio eteronormato maschile. E
non a caso. Il desiderio del vir deve essere al contempo legittimato e normato
perché non mini l’esistenza stessa del vir come creazione culturale. La prima
naturale risposta della mulier alle eventuali avances è un riuto segno del
suo doveroso disinteresse – a cui però deve far seguito un’accettazione –
anch’essa dettata dal dovere – poiché garante della virilità maschile. Virilità
che, in quanto fondata sulla violenza sessuata del corpo della mulier, deve
mantenere l’asimmetria tra i due. Il desiderio sessuale così concepito, come
manifestazione di superiorità che fonda la virilità, non può essere rivolto
verso altri viri, che ne risulterebbero inferiorizzati. In questa lettura, come
evidenzia Chiricosta, si potrebbe dire che la mulier nasca già stuprabile in
potenza, perché questa è la sua funzione-destino, anche prima che ciò avvenga.
In sintesi, il maschile in quanto vir si costituisce a partire dall’esercizio della
sua forza verso la donna che, pazientemente e spogliata dal desiderio sessuale,
deve accettare questa sopraazione, rischiando altrimenti che si direzioni
verso altre donne o uomini.
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In questo rapido percorso etimologico, non si dà per scontata solo la
detenzione della forza, ma anche una struttura binaria specica che permette
la fondazione stessa del maschile attraverso l’esercizio della vir sulla mulier.
Quindi una dicotomia che prevede prescrizioni e costrizioni culturali fondati
su elementi retoricamente associati ad aspetti naturali. Difatti, per permettere
la formazione del maschile viene culturalmente sancito il diritto naturale del
vir a esercitare la sua forza sul corpo della mulier. Ciò, tra l’altro, crea anche la
mulier stessa. La donna diventa tale (da femina a mulier), sostiene Chiricosta,
proprio nella sopraazione del vir mediante l’atto sessuale (CHIRICOSTA
2019: 46).
Attraverso queste retoriche non solo si stabilisce un binarismo e una
subordinazione del femminile, ma anche un’elevazione dell’uomo ad
aspetti considerati gerarchicamente superiori. L’uomo come vir è superiore
per forza sica ma anche per virtù, per logos. Ed è proprio quest’ultima
associazione che permette al paradigma patriarcale di sopravvivere e creare
dimensioni in cui la discriminazione e l’odio sono legittimati. Stabilito infatti
che questo sia l’ordine, le donne che si comportano come uomini (virago)
diventano un problema, producendo una serie di termini ingiuriosi utili per
discriminarle e sottolinearne l’uscita dalla “naturalità” iscritta nei loro nomi.
Ad esempio, cravattona e camionista indicano, dispregiativamente, donne
“mascolinizzate, utilizzando simboli in riferimento alla mascolinità odierna:
la cravatta simbolo dell’uomo d’aari (in perfetta fusione della mascolinità
con la struttura capitalista), mentre camionista indica un lavoro in associazioni
ai motori, ai mezzi “pesanti”, tutti in linea con la simbologia fallocentrica
(CONNELL 1995). Allo stesso modo, le donne (mulier) che non rimangono
nel tracciato delineato della sfera sessuale, subiscono i loro epiteti: vacca,
puttana etc. Anche qui l’analisi è molto interessante, non solo perché rimanda
a un incasellamento del ruolo femminile, ma poiché sottolinea come la prassi
egemonica dia potenzialità diverse al termine specico, nonostante rimandi
alla stessa dimensione. Vacca rinvia infatti all’animalità, alla natura e, in
associazione alla donna, intende negativamente un suo abbandono agl’istinti
sessuali. Di contro, dire ad un uomo “sei un toro” assume connotati positivi:
forza, resistenza, vigore, virilità. Lo stesso avviene nell’associazione puttana
e gigolo. Ciò che rende questi epiteti potenzialmente denigratori è proprio
la prassi patriarcale che inscrive nelle categorie possibilità prestabilite. La
donna, in quanto mulier, non può avere il desiderio sessuale e la forza che
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contraddistingue il Vir. E non può averla poiché altrimenti il Vir non potrebbe
fondare se stesso sulla sopraazione della donna. Il mantenimento di questa
prassi è ciò che carica potenzialmente l’hate speech, trasformandolo in
un’arma utile per il mantenimento della prassi stessa: così, dire vacca a una
donna diventa un’oesa per la persona specica e per la categoria donna-
mulier. Dire toro a un uomo, al contrario, diventa un complimento, rimarcando
l’esercizio della sua vis e, dunque, il suo riconoscimento in quanto Vir.
Come anticipato ciò non accade solo in ambito binario eterosessuale, bensì
in tutte le dicotomie. Nel caso omosessuale, ad esempio, il termine frocio
vede, tra le possibilità, la sua derivazione dallo spagnolo ojo (“oscio”),
da cui frocio. L’associazione al “oscio” non è casuale, bensì richiama il
binarismo fondante della prassi patriarcale. Leggendo il mondo attraverso la
dinamica del Vir-Mulier, dunque della forza e debolezza, del dominatore e
del dominato, le persone omosessuali non possono che essere associate alla
Mulier, quindi alla mollezza, in quanto uomini che non esercitano la loro Vis
sulla femmina.
Questa analisi cerca, in sintesi, di mettere in luce come la potenzialità
denigratoria di determinati epiteti, esisterà no a che si manterrà una prasi
patriarcale egemonica. Questo è importante da considerare poiché si può
connettere a strategie disinnescanti dell’hate speech, come quella proposta da
BUTLER (1997) della risignicazione. Il termine risignicato difatti, come
nel caso di queer, può essere usato per problematicizzare queste relazioni
egemoniche, andando a decostruire la dimensione di fondo che rende il
linguaggio d’odio ecace.
Pertanto, nché si mantiene la prassi binaria e subordinante dell’uomo-logos,
l’hate speech troverà sempre una dimensione potenziale che ne garantirà
l’ecacia e che, simultaneamente, disciplinerà anche alla strada prescritta. La
losofa femminista e animalista Adams, nella sua riessione, prova proprio a
problematicizzare questo aspetto, marcando come sia fondamentale lavorare
alla base se si vuole disinnescare il potenziale oensivo e produrre nuove
prassi paritarie.
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2. Hate speech come esercizio egemonico: dalle discriminazioni al
genocidio
La prospettiva animalista di Adams è stimolante per cogliere gli aspetti
delineati nella sezione precedente. Secondo la losofa infatti, l’hate speech,
in relazione all’associazione metaforica “animale”, funziona poiché l’odio
e i soprusi, in quella dimensione, esistono e sono convalidati giornalmente.
Pertanto, mantenendo viva tale visione si darà potere agli epiteti denigratori,
insultando e permettendo di trasportare le vittime in una dimensione in cui
l’esercizio della violenza è normata. Questo legame tra hate speech e termini
“animali” è complicato dalla stessa prassi egemonica che lo produce. Come
abbiamo visto l’uomo-logos si è elevato a universale, inferiorizzando tutto il
resto attraverso l’esercizio della violenza. Saldate socialmente determinate
gerarchie, l’uso dell’hate speech può facilmente spostare le persone nella
dimensione subordinata, giusticando così soprusi e, in alcuni casi, addirittura
forme estreme come il genocidio. Nel caso della dimensione animale (non
umano) questo è spesso usato per legittimare visioni, retoriche e propagande
di diusione d’odio (ADAMS 1990). In alcune situazioni ciò può diventare
un’arma retorica perfetta per deumanizzare singoli e gruppi, giungendo
no a massacri. A questo proposito è stimolante il lavoro della losofa del
linguaggio Lynne Tirrell, nel suo articolo Genocidal Language Games (2012),
dove discute in che modo l’hate speech possa contribuire a un genocidio, con
un’attenzione particolare al massacro in Ruanda del 1994. Nel suo lavoro
Tirrell si concentra sul linguaggio a partire da dierenti aspetti. Innanzitutto,
il potere normativo, ovvero la possibilità del linguaggio d’odio di raorzare le
dinamiche di potere sociali, creando un “noi” raorzato e un “loro” indebolito.
Dopodiché, la produzione di permessi sociali, pertanto come l'uso di termini
denigratori possa stabilire e raorzare un sistema di possibilità e proibizioni,
contribuendo a erodere le norme protettive e preparare il terreno per azioni
prima vietate, come la violenza sica. Inne, come alcuni termini oensivi
specici, a.e. inyenzi (scarafaggio) e inzoka (serpente), siano centrali poiché
non solo alterano le credenze e le inferenze sui bersagli, ma legittimano
azioni violente contro di loro. Tirrell sostiene, infatti, che l’uso diuso di
queste associazioni animali abbia contribuito in modo signicativo a rendere
il genocidio socialmente accettabile e persino richiesto.
Quest’ultimo aspetto è quello che ora ci interessa maggiormente. Tali metafore
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non sono solo insulti, bensì hanno un ruolo inferenziale e pragmatico che
contribuisce a deumanizzare i Tutsi e a giusticare la violenza contro di loro,
ponendoli in una dimensione in cui il massacro è normale. Le induzioni tratte
dall'uso di inyenzi includono, infatti, associazioni con la sporcizia, la rapida
moltiplicazione nonché dicoltà di eliminazione e, dunque, la necessità di
“disinfestazione”. Queste caratteristiche, applicate metaforicamente ai Tutsi,
contribuirono a creare un'immagine di loro come parassiti pericolosi, nocivi
per la società e quindi da dover eliminare.
L’autrice, dunque, evidenzia come l’uso denigratorio del linguaggio, in
associazione alla dimensione già oppressa dell’animale non umano, cambiò
le norme comportamentali, preparando le persone ad accettare e partecipare
alla violenza genocida. Come evidenziato dalla losofa Bianchi, in quanto
atto verdittivo, l’insulto coinvolge una complessa dinamica di potere. Ogni
parola e ogni discorso è sottoposta a vincoli di potere e l’insulto è anche uno
strumento di creazione del cosiddetto potere simbolico. Chi insulta infatti
rivendica una dominazione sull’insultato e la detenzione di una superiorità
gerarchica di natura intellettiva, morale e competenziale. Ciò accade perché
solitamente chi è in una posizione di potere gode di un privilegio linguistico
(BIANCHI 2021: 94) e, nelle diverse prassi speciche al contesto storico-
culturale, chi detiene il logos detiene il potere.
In sintesi, la prassi egemonica è quella che permette il mantenimento
di determinate dicotomie, generando dimensioni gerarchizzanti che
garantiscono l’ecacia dell’hate speech tramite posizionamenti di potere
dierenti. Decostruendo tali binarismi prescrittivi molte espressioni violente
perderebbero il loro potenziale. In ambito di genere, a.e., dire ad un maschio
“sei proprio una femminuccia” perché emotivo, non signicherebbe nulla se
alla base venisse rimossa la visione stereotipica che vuole l’uomo stoico e
la donna sentimentale. Per farlo si potrebbero applicare dierenti strategie,
come la risignicazione. Infatti, risignicare determinati termini e riusarli
in chiave sovversiva potrebbe essere utile su una duplice dimensione:
rendere inoensivo il termine specico e, simultaneamente, porre sotto
critica la prassi egemonica performativa che da potere denigratorio. Aspetto,
quest’ultimo, evidenziato anche da Adams. Secondo la losofa la posizione
dell’animale non umano nel “testo della carne” è equiparabile alla posizione
della donna nella narrativa patriarcale quale oggetto da possedere. Se
attraverso la decostruzione del linguaggio androcentrico il femminismo
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intende riposizionare la donna, insieme all’antispecismo può procedere
a decostruire una struttura sociale, politica ed economica oppressiva,
che si esercita attraverso il genere, la razza e la specie. Femminismo e
antispecismo possono elaborare una visione globale, una maniera alternativa
di stare al mondo e di relazionarsi con l’altro, umano o meno che sia,
decostruendo il potere e la forza costituente della mascolinità egemonica.
Forza che si esercita su tutte le categorie dicotomizzate (ADAMS 1990).
3. Hate speech e performatività: possibilità risignicante e pericolo
disciplinante
Come abbiamo visto l’hate speech può essere usato per applicare la
violenza e il dominio che la prassi egemonica ha imposto nel suo processo
di dicotomizzazione gerarchica della realtà. Mantenendo infatti attive
subordinazioni oppressive, si può veicolare l’odio attraverso epiteti che
richiamino e, quindi, traslino il soggetto o una categoria nella dimensione
inferiorizzata.
L’hate speech, tuttavia, non è solo un’arma usata per diondere l’odio ed
esercitare il dominio, bensì è anche elemento che reitera la prassi, disciplinando
i “corpi” che la movimentano. Ciò avviene in particolare in ambito di genere,
dove la costruzione dell’identità categoriale, in ottica performativa, necessita
di riconoscimento e, quindi, di normalizzazione sociale.
Per inquadrare l’analisi che seguirà da una prospettiva losoco-linguistica, è
necessario partire dalle ricerche del losofo Austin. Buona parte della losoa
del linguaggio che ha discusso il tema dell’hate speech, infatti, ha tentato
di illustrarne il funzionamento secondo la categoria degli atti illocutori.
Questi, analizzati nel celebre How to do things with words (AUSTIN1962),
evidenziano l’aspetto performativo del parlare: il linguaggio, cioè, non si
limita a descrivere ma piuttosto compie azioni. Questa capacità fattiva del
linguaggio viene letta dal losofo inglese secondo due categorie di atti
linguistici: illocutori e perlocutori. I primi consistono in azioni compiute
col proferimento stesso dell’enunciato. Nei secondi troviamo invece tutti
quegli eetti psicologici e comportamentali extralinguistici prodotti col dire
qualcosa (AUSTIN 1962: 80). Successivamente Butler rilegge, a partire dal
losofo Derrida, le analisi austiniane in chiave socio-politica, aggiungendo
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come l’atto illocutorio sia anche ciò che produce e riproduce modelli
sociali. Traducendo quest’impostazione nel dibattito sui discorsi d’odio, si
sottolinea come l’hate speech non si limiti ad oendere il soggetto che lo
subisce, ma ricostituirebbe l’intero assetto storico-sociale di dominazione e
discriminazione (BUTLER 1997). Nell’ingiuriare, dunque, si sta compiendo
l’atto di subordinare ed emarginare interi gruppi sociali, ridando nuova vita
alla prassi dominante. La lettura illocutoria dei discorsi d’odio li intende,
pertanto, come atti di interpellazione sociale del soggetto oeso, in grado
di costituirne la posizione subordinata in una relazione di dominazione.
Rileggendo il discorso di Adams in chiave specicatamente di genere, si
può assumere come anche frasi ingiuriose lanciate contro uomini possano
essere considerate sessiste nei confronti delle donne, poiché il potenziale
denigratoria si rifà – e nel farlo salda e perpetua – la dimensione che nella
prassi è realmente oppressa: a.e., alludendo metaforicamente al fatto di essere
“debole come una femminuccia”.
A questo proposito le riessioni di Butler sull’hate speech sono particolarmente
stimolanti. Infatti, se da un lato l’autrice concorda sulla funzione normativa
della performatività dei linguaggi d’odio, cioè la loro capacità di determinare
l’identità sociale dei soggetti nell’interpellarli ingiuriosamente, dall’altro
tende tuttavia a indebolirne il funzionamento e a trovare un modo per
contrastarla. A suo dire, facendo coincidere il proferimento dell’ingiuria con la
subordinazione sociale stessa, le letture illocutorie del dibattito non riescono
a garantire altra fonte di difesa che non sia quella giuridico-penale, come se si
assumesse che i discorsi d'odio debbano necessariamente ricollocare le vittime
in posizioni subordinate; in altre parole, mantenendo la prassi patriarcale. Per
Butler, al contrario, «la rivalorizzazione di termini come queer suggerisce
che le parole possono essere rimandate indietro a chi le ha pronunciate in
una forma diversa, che possono essere citate in contrapposizione ai loro ni
originari e che è possibile mettere in atto un rovesciamento dei loro eetti»
(BUTLER 1997: 20). Non solo puricando la parola specica dall’odio,
ma facendo traballare la movimentazione egemonica. La proposta della
risignicazione di Butler auspica a una ripetizione sovversiva dell’epiteto
ingiurioso capace di capovolgerne il senso, sia per disinnescarne il potenziale
oensivo e subordinante, sia per riqualicarlo come luogo simbolico di
autoaermazione identitaria. È chiaro, tuttavia, che questo posizionamento
è applicabile da chi una voce ce l’ha e può, in qualche modo, esprimerla,
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aspetto non presente per la dimensione “animale” (ADAMS 1990). A ogni
modo, è proprio in questa dinamica che Butler intravede una possibilità di
resistenza al potere normalizzante dei discorsi d’odio, espressioni di quel
potere assoggettante-soggettivante.
In sintesi, la tesi della risignicazione di Butler consiste proprio nella
ripetizione sovversiva che le vittime di hate speech possono eettuare per
riappropriarsi di quegli stessi epiteti denigratori e sovvertirne il senso. La
parola che ferisce diventa pertanto uno strumento di resistenza quando
viene nuovamente introdotta, distruggendo il territorio nel quale operava in
precedenza (BUTLER 1997: 234).
Come più volte ripetuto, la problematicità dell’hate speech risiede proprio
nella sua capacità di investire a livello sociale emittenti e destinatari
dell’enunciazione, riattivando intere ideologie discriminanti e dominanti.
Ciò è interessante anche dalla prospettiva del disciplinamento e della
corresponsabilità nelle relazioni di potere interne alla struttura patriarcale. Se
infatti la potenzialità della risignicazione è presente e può essere ecace,
l’uso quotidiano dell’hate speech funge da strumento ecace per mantenere
le persone nelle strade prescritte dalla prassi stessa. Come evidenziato
da Bianchi, l’insulto è un congegno retorico di costruzione dell’identità
collettiva, che regola e spesso determina le dinamiche e i rapporti interni o
esterni ai gruppi sociali (BIANCHI 2021: 91). Ad esempio, la mascolinità
nell’accezione egemonica, che nella storia ha assunto canoni e nomi dierenti,
dal “vero uomo” dei lm western, al sex symbol di Playboy (CONNELL 1995),
vede la sua relazione con il corpo a partire da un gregarismo uniformante
che mantiene la possibilità di espressioni speciche, ma comunque in
linea con i canoni culturali del tempo (CICCONE 2009). L’esempio della
pratica drag, usato da BUTLER (1990), come tentativo di risignicazione
sovversiva a partire dai corpi è intrigante in questa prospettiva, poiché
mette in luce l’esercizio dell’hate speech come punizione e disciplinamento
ma, allo stesso tempo, la speranza politica della risignicazione. Infatti, la
manifestazione “dierente” del proprio corpo, come appunto la performance
drag, trasgredisce il canone socialmente condiviso del corpo maschile, ma,
nel farlo, si rifà comunque al canone, mettendolo in luce e reiterandolo: con la
speranza, ovviamente, di risignicarlo. L’uscita dal tracciato potrebbe inoltre
spingere all’utilizzo di espressioni denigratorie a ni punitivi-disciplinanti
non solo rispetto a chi esce dal tracciato, ma in particolare verso chi è ancora
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dentro. Infatti, sottolinea Bianchi, un’oesa alimenta la polarizzazione tra
gruppi, divaricando l’opposizione tra il noi e il loro. Lanciare oese contro
altri insiemi signica creare un conne identitario, saldando la dicotomia.
Cionondimeno, la condivisione di un vocabolario ostile può fungere anche da
aggregatore. Il riconoscimento di un comune lessico ostile, difatti, produce
coesione e rinsalda i legami identitari tra membri di un medesimo gruppo
sociale, favorendo la presa di coscienza di essere parte di una comunità con
necessità, risorse linguistiche e avversari comuni (BIANCHI 2021: 92).
Dunque, è anche grazie al linguaggio d’odio che si sono create identità maschili
egemoniche e, così, dierenti mascolinità (CONNELL 1995: 78), trovando
in epiteti denigratori o termini specici caratteri identitari da cui tenersi a
distanza: ricchioni (omofobia), pezzente (classismo), tranny (transfobia)
e via dicendo. Casi esemplicativi di ciò sono riscontrabili nei pride, dove
molte persone rivendicano la loro identità, uscendo dal canone patriarcale
con la volontà di risignicarlo, producendo risposte cariche d’odio. Molte
organizzazioni LGBTQIA+ monitorano e riportano, nei loro report, l’aumento
di hate speech in quei periodi2, a dimostrazione di come il linguaggio d’odio
sia una risposta punitiva-disciplinante, oltre che denigratoria.
L’hate speech è quindi un dispositivo invisibile di disciplinamento che si
attua proprio attraverso l’uso eversivo delle parole. Uno dei meccanismi di
delineazione e interiorizzazione della mascolinità è infatti proprio quello
della trasgressione: l’esercizio della violenza, sia sica che simbolica, è un
atto necessario per l’assunzione di una mascolinità che venga riconosciuta
ed accettata socialmente (CICCONE 2019: 71). L’uso di termini violenti
funge pertanto da processo di incorporazione della virilità, dunque da
disciplinamento in una duplice prospettiva: di sé e degli altri. Ad esempio,
il ragazzo a scuola che grida nocchio al compagno, attuerà una serie di
meccanismi: innanzitutto insulta la persona che riceve l’epiteto. Dopodiché
discrimina la categoria intera degli omosessuali. Inoltre, sta disciplinando
le altre persone li presenti. Inne, sta interiorizzando un’attitudine violenta
in linea con l’identità maschile egemonica, performando attraverso l’hate
speech un atteggiamento dominante.
Nella dimensione del genere, dunque, un insulto avverte cosa succede
nell’uscire dai canoni prescritti, reiterando quei canoni e sottolineandone
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i conni (CICCONE 2019: 145). In questo modo, attraverso essi, la prassi
egemonica continua a movimentarsi, reiterando la prospettiva dell’uomo-
logos e donando il potenziale denigratorio a specici termini. Alla luce di ciò,
diventa necessario lavorare sull’hate speech non solo per disinnescarlo dal
potenziale violento, risignicandolo, ma anche per poter riscrivere il modello
sociale di fondo, superando il binarismo subordinante che lo caratterizza.
Come disse Butler: «è precisamente l’espropriazione del discorso dominante
“autorizzato”, che costituisce un sito potenziale della sua risignicazione
sovversiva» (BUTLER 1997: 157).
4. Conclusioni
Il linguaggio è insito di potere relazionale e costituente, nonché denso di
falsa neutralità che reitera modelli di dominio. Come sostenne Irigaray, una
lingua non solo è antropologica, bensì anche andrologica; ovvero quella di un
soggetto sessuato che impone i suoi imperativi come universalmente validi
(IRIGARAY 1991: 280). Ogni parola porta con il peso e l’inuenza del
dominio e dell’odio, penetrando nella carne e nel corpo di chi usa e riceve
tale linguaggio:
«Basterebbe solo pensare al modo in cui la storia del fatto di vedersi attribuire un nome
ingiurioso sia incarnata nel corpo, come le parole entrino nelle membra, modellino il gesto,
pieghino la spina dorsale. Basterebbe solo pensare a come gli insulti razziali o di genere
vivano e prosperino nella carne della persona cui sono rivolti, e a come questi insulti si
accumulino nel tempo, dissimulando la loro storia, assumendo la sembianza della naturalità,
congurando e restringendo la doxa, che vale come realtà» (BUTLER 1997: 230).
Le parole sono gli eetti e gli strumenti di un rituale sociale che decidono,
spesso attraverso l’esclusione e la violenza, le condizioni linguistiche dei
soggetti che possono sopravvivere (BUTLER 1997: 6). Lhate speech è
pertanto parte del processo incessante e ininterrotto cui ogni persona è soggetta
in relazioni a riconoscimenti permessi o negati. L’ecacia dei riconoscimenti
e delle interpellazioni sono, tuttavia, in relazione a un linguaggio detenuto
da una prassi egemonica, che stabilisce i conni a partire da un set di
signicati specici. Ciò produce una serie di dimensioni potenzialmente
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legittimanti e amplicatori del linguaggio d’odio, poiché in esse la retorica
giustica da sempre l’esercizio della violenza (ADAMS 1990). Dunque,
nché si mantiene la prassi egemonica della sopraazione binaria del Vir ,
nella mascolinità sarà sempre iscritta, letteralmente, la forza-violenza.
La mascolinità egemonica è forza-violenza, è la prassi che esercita il suo
dominio attraverso la subordinazione e l’oppressione di ciò che esclude da
sé. L’uso dell’hate speech implica l’esercizio di una forza simbolica violenta.
In quanto tale anche l’hate speech è forza-violenza. Il legame tra mascolinità
egemonica e hate speech è quindi intricato, fuso nello stesso nucleo che li
alimenta e movimenta vicendevolmente. Per contrastarli diventa necessario,
dunque, liberarsi dalla ssità della forza-violenza, diventare soggetti nomadi,
identità uide e in transito (CHIRICOSTA 2019: 122) che fanno crollare alla
base il binarismo gerarchico su cui la forza-violenza egemonica si poggia.
In conclusione, lavorare sull’hate speech in una dimensione di studi di
genere, implica necessariamente lavorare sulla mascolinità egemonica iscritta
nell’esercizio della forza-violenza oppressiva e disciplinante. Per contrastarla
è fondamentale mettere in luce questo legame diretto, così da poter pensare a
interventi, nelle varie dimensioni sociali, utili per sensibilizzare e decostruire
il modello egemonico.
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