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Una soggettività senza interiorità: Wittgenstein con Lacan

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Abstract

A subjectivity without interiority: Wittgenstein with Lacan Several studies highlight affinities between Wittgenstein's critical philosophy and Lacan's psychoanalysis. The following article revisits certain points of both authors, proposing a theoretical and conceptual encounter between them. Indeed, the common ground between these two thinkers includes a fundamental focus on language and a critical approach to classic conceptualisation of subjectivity. This contribution attempts to theoretically developing this encounter by introducing the concept of subjectivity without interiority, a subject without psychology. In fact, Witt-genstein's reliance on grammar and Lacan's use of the signifier yield the same result: pointing to language itself as the matrix of subjectivity. From this perspective, the foundation of subjectivity no longer resides in some supposed metaphysical substance, but rather in a radical exteriority, in linguistic games.
RIVISTA INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA E PSICOLOGIA
DOI: 10.4453/rifp.2024.0005
ISSN 2039-4667; E-ISSN 2239-2629
Vol. 15 (2024), n. 1, pp. 51-60
Una soggettività senza interiorità: Wittgenstein con Lacan
Dario Alparone(α)
Ricevuto: 24 settembre 2023; accettato: 28 febbraio 2024
Riassunto Diversi studi hanno posto in risalto le affinità tra la filosofia critica di Wittgenstein e la psi-
coanalisi di Lacan. Questo lavoro passa in rassegna alcuni aspetti comuni ai due autori, delineando una
prospettiva d’incontro teoretica e concettuale. Un punto d’incontro tra questi due pensatori comprende la
fondamentale attenzione per il linguaggio e un atteggiamento critico verso la concettualizzazione classica
della soggettività. Questo saggio tenta di sviluppare teoreticamente questi punti di contatto introducendo
il concetto di soggettività senza interiorità, un soggetto senza psicologia. In effetti, l’affidamento di Witt-
genstein sulla grammatica e il ricorso di Lacan al significante portano allo stesso risultato: considerare il
linguaggio in sé come matrice della soggettività. Da questa prospettiva la fondazione della soggettività non
risiede più in una certa supposta sostanza metafisica bensì in una esteriorità radicale, nei giochi linguistici.
PAROLE CHIAVE: Wittgenstein; Lacan; Inconscio; Linguaggio; Grammatica
Abstract A subjectivity without interiority: Wittgenstein with Lacan Several studies highlight affinities be-
tween Wittgenstein’s critical philosophy and Lacan’s psychoanalysis. The following article revisits certain
points of both authors, proposing a theoretical and conceptual encounter between them. Indeed, the com-
mon ground between these two thinkers includes a fundamental focus on language and a critical approach to
classic conceptualisation of subjectivity. This contribution attempts to theoretically developing this encoun-
ter by introducing the concept of subjectivity without interiority, a subject without psychology. In fact, Witt-
genstein’s reliance on grammar and Lacan’s use of the signifier yield the same result: pointing to language it-
self as the matrix of subjectivity. From this perspective, the foundation of subjectivity no longer resides in
some supposed metaphysical substance, but rather in a radical exteriority, in linguistic games.
KEYWORDS: Wittgenstein; Lacan; Unconscious; Language; Grammar
RICERCHE
Creative Commons - Attribuzione - 4.0 Internazionale - © Dario Alparone 2024
(α)Laboratoire de Psychologie: Cognition, Comportement, Communication, Université de Bretagne Occidentale, 3 Rue des
archives 29238 Brest (FR)
E-mail: darioalpa9119@gmail.com
Alparone
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1 Introduzione
NUMEROSI ORMAI SONO GLI STUDI in ambito filo-
sofico che riconoscono una certa affinità tra la
teoria psicoanalitica di Lacan e la filosofia di
Wittgenstein. Questo articolo intende riprendere
la questione cercando di fissare dei punti fonda-
mentali di incontro tra i due approcci. Sono note
in effetti le critiche di Wittgenstein alla psicoanali-
si di Freud (WITTGENSTEIN 1967, p. 137), le quali
mostrano d’altro canto la profonda ambivalenza
del filosofo austriaco (INNAMORATI & SARRACI-
NO 2011) nei confronti della nascente scienza
dell’epoca, dal momento che in altre occasioni egli
si auto-definisce piuttosto un seguace (WITTGEN-
STEIN 1967, p. 121) del padre della psicoanalisi.
Diversi autori hanno insistito nel privilegiare
una linea interpretativa di incompatibilità teorica
tra le due prospettive (ASSOUN 1996), altri invece
hanno sottolineato i possibili punti di convergenza
tra Freud e Wittgenstein (CIMATTI 2005). Certa-
mente, un punto di svolta nel dibattito circa il pos-
sibile incontro tra la filosofia di Wittgenstein e il
freudismo è stata l’introduzione dello strutturali-
smo in psicoanalisi operata da Jacques Lacan. Di
seguito si discuterà in che modo sia possibile asso-
ciare la filosofia di Wittgenstein col pensiero di
Lacan e in che misura questo incontro possa essere
foriero di nuovi possibili studi e ricerche, dal mo-
mento che entrambi questi pensatori prospettano
un modello di soggettività anti-cognitivo, o, se si
vuole, una “psicologia senza interiorità”.
In effetti, uno dei primi psicoanalisti a rilevare
l’importanza del pensiero di Wittgenstein è stato
proprio Jacques Lacan, il quale durante una delle le-
zioni del suo seminario rivolgendosi ai suoi uditori
invita: «leggete il Tractatus logico-philosophicus.
Non crediate che il sig. Wittgenstein sia un niente di
che col pretesto che la scuola logico-positivista ci ac-
cusa di una serie di considerazioni anti-filosofiche
delle più insipide e mediocri. Il suo tentativo di arti-
colare ciò che risulta di una considerazione logica in
modo tale da poter fare a meno di ogni esistenza del
soggetto, merita di essere seguita in tutti i suoi detta-
gli, e io ve ne raccomando la lettura» (LACAN 2023,
p. 140, trad. it. nostra).
Sono stati diversi gli autori che hanno risposto
positivamente a questa raccomandazione. Tra
questi, certamente troviamo lo storico tentativo di
Françoise Fontaneau (1999), la quale nel silenzio
mistico del Tractatus ritrova l’incontro fondamen-
tale del pensiero di Wittgenstein con il reale laca-
niano. Se il filosofo austriaco col ricorso al mistici-
smo si ferma nel riconoscere il punto di cedimento
dell’ordine del linguaggio di fronte al reale, la psi-
coanalisi di Lacan, invece, è un tentativo continuo
di nominare il reale, di dar parola alla sofferenza
sintomatica, di circoscrivere simbolicamente il go-
dimento. Wittgenstein e Lacan si incontrano di
fronte al silenzio del reale ma prendono quindi
due strade differenti.
Un altro tentativo notevole di mettere in dialo-
go questi due grandi figure del pensiero del ‘900 è
certamente quello di Cimatti, il quale ormai da di-
versi anni, attraverso diversi scritti, ha cercato di
articolare il rapporto tra psicoanalisi lacaniana e
filosofia di Wittgenstein proprio in vista di un su-
peramento del modello cognitivo della mente, cri-
ticando ogni forma di mentalismo in psicologia. Il
risultato più significativo di questi studi è
l’effettiva de-sostanzializzazione dello psichico,
liberando il campo da ogni riduzionismo neurofi-
siologico (CIMATTI 2004).
Un altro tentativo di rilievo è quello di Dupor-
tail (2018), un filosofo francese che vede nella in-
tersecazione del pensiero di Wittgenstein con la
teoria lacaniana un’opportunità di innovazione
per la psicoanalisi, la quale in questi anni non fa-
rebbe che assistere al proprio declino nel campo
culturale e non solo. Il pensiero di Wittgenstein
applicato al linguaggio lacaniano offre una possi-
bilità di “cura” della psicoanalisi al fine di riaprirsi
al dibattito pubblico anziché rinchiudersi in logi-
che settarie e scolastiche.
Delle incursioni sul tema in questione sono sta-
te fatte dallo psicoanalista lacaniano Sergio Ben-
venuto, e si sono tradotte in rivisitazioni originali
di alcuni concetti classici della psicoanalisi e della
filosofia attraverso un dialogo fruttuoso tra i
Wittgenstein e Lacan, e alcuni di essi verranno ci-
tati più precisamente di seguito.
Un altro tentativo ambizioso di elaborazione
teorica dell’incontro tra il pensiero del filosofo au-
striaco e dello psicoanalista francese è certamente
quello di Davide Tarizzo, il quale articola il sog-
getto dell’inconscio nella determinazione gramma-
ticale dell’ego cogito, ego sum di Cartesio. In questa
prospettiva, la soggettività si fonda proprio a par-
tire dalla produzione di senso espressa dalla
grammatica dell’ego cogito. Il risultato di questo
processo è quello che il soggetto si pone in quanto
risultato di una supposizione fondamentale, così
com’è nel modello lacaniano. Questo permette,
nell’argomentazione di Tarizzo, anche il passaggio
dalla fondazione del soggetto individuale a quella
del soggetto collettivo, da ego sum a nos sumus. La
conseguenza logica di ciò è una fondazione della
comunità politica a partire dalla grammatica quale
momento di fondazione della soggettività. In que-
sta prospettiva, se per Wittgenstein non esiste un
linguaggio privato, per la psicoanalisi esistono
“grammatiche private”, le quali strutturano un
fantasma e fondano così il soggetto dell’inconscio
(TARIZZO 2021).
Tutti questi tentativi mostrano la fecondità
epistemologica dell’incontro tra Lacan e Wittgen-
stein, e questo nostro lavoro tende a sottolineare e
approfondire un aspetto in particolare di tale rap-
porto. Nella nostra prospettiva, l’accento posto dai
due autori sul primato del linguaggio rispetto al
Una soggettività senza interiorità
53
soggetto individuale apre la strada a un modello di
soggettività senza interiorità. In un altro lavoro si
è avuto modo di sottolineare come la teoria
dell’alienazione di Lacan possa articolarsi con la
concezione delle forme di vita di Wittgenstein
(ALPARONE & LA ROSA 2021) e in questa prospet-
tiva l’incontro dell’infans con l’ordine simbolico
deve passare attraverso un processo di “traduzio-
ne” degli stati somatici nelle espressioni gramma-
ticali in uso nel contesto sociale di partenza. Tale
processo condurrà l’individuo a un’alienazione
fondamentale da se stesso, dalla propria interiori-
tà. Più precisamente, vi è interiorità solo nella mi-
sura in cui quest’ultima sia stata già in qualche mi-
sura esteriorizzata attraverso i giochi linguistici.
Ciò condurrà logicamente anche al passaggio suc-
cessivo, cioè a ciò che in psicoanalisi è nominato
come “estrazione dell’oggetto”, che consiste nella
perdita di godimento, e nella conseguente intro-
duzione della mancanza fondamentale. Tutto que-
sto porterà all’insorgenza del desiderio e quindi
alla nevrosi, nel caso in cui il soggetto trovi un Al-
tro
a sua volta desiderante, quindi mancante, op-
pure alla psicosi nel caso in cui l’estrazione
dell’oggetto si arresta e non c’è introduzione della
mancanza (FINK 2019, p. 75 e segg.). In entrambi i
casi, l’organismo umano deve comunque passare
dall’ordine del linguaggio, che si esprime nella sua
forma più concreta e coercitiva in quanto struttura
grammaticale. Attraversando tale struttura si avrà
la produzione di una soggettività essenzialmente
alienata da se stessa, svuotata di interiorità.
2 Il soggetto vuoto della psicoanalisi
Tra l’esperienza psicoanalitica e gran parte del-
la tradizione filosofica si rileva storicamente una
contraddizione fondamentale nella concezione
della soggettività, che è presente fin dalla nascita
della psicoanalisi stessa. Vi è una differenza in-
colmabile tra il soggetto della tradizione filosofica
e quello della psicoanalisi. Il primo è coincidente
con la cosiddetta ragione o cogito, centrato essen-
zialmente sulla funzione della coscienza intesa in-
nanzitutto come processo di autoconsapevolezza
dei propri processi psichici. Si tratta di un soggetto
inteso come «padrone in casa propria», cioè
“proprietario” dei propri pensieri e dei propri de-
sideri, concezione questa che era intesa già da
Freud come un grande ostacolo per la psicoanalisi
(FREUD 1979, p. 205). Un modello di soggetto pie-
namente conchiuso, trasparente a se stesso. Per
esempio, in un pensatore come Locke ritroviamo
questa concezione:
quando noi vediamo, udiamo, odoriamo, gu-
stiamo, sentiamo, meditiamo o vogliamo qual-
che cosa, noi sappiamo quel che facciamo. Ac-
cade sempre così nel caso delle nostre sensa-
zioni e percezioni presenti, e in questo modo
ciascuno è per se stesso quel che chiama io […]
Poiché la coscienza accompagna sempre il pen-
siero, ed essendo quella che fa che ciascuno
sia quel che chiamiamo io e in tal modo distin-
gua se stesso da tutti gli altri esseri pensanti, è
solo in questo che consiste l’identità personale,
ossia l’identità di un essere razionale (LOCKE
2021, pp. 606-607).
La soggettività di cui si fa esperienza in psicoa-
nalisi sfugge a questa logica. Peraltro, Lacan sottoli-
nea come la clinica mostri un rapporto di differenza
radicale rispetto alla concezione di «ogni filosofia
uscita direttamente dal Cogito» (LACAN 2002a, p.
87). Una posizione, questa, che si distingue per il
fatto di essere radicalmente anticognitiva e che,
come sottolinea Benvenuto (2015), si ritrova, per
esempio, nel celebre saggio di Freud La negazione
(1978), nel quale il padre della psicoanalisi asserisce
che il soggetto sorge dal giudizio di attribuzione e
non dal giudizio di esistenza. Questo sta a significa-
re che la rappresentazione interiore degli oggetti del
mondo esterno è data a partire dal principio di pia-
cere (Lustprinzip) e non da una conoscenza razio-
nale e astratta (principio cognitivo).
Tuttavia, il soggetto dell’inconscio trova la sua
premessa logica nel soggetto cartesiano stesso, es-
sendone di fatti il rovesciamento dialettico. In
questa prospettiva, nel discorso psicoanalitico non
sarà più la coscienza, ma l’inconscio il centro di-
namico dello psichismo. Lacan, nella sua rilettura
del testo di Freud, non poteva che riprendere que-
sto punto di sovversione radicale della psicoanalisi
freudiana, rilanciandola in aperto contrasto con le
altre interpretazioni psicologiste e adattative ope-
rate dalla Ego psychology.
La celebre frase che
Freud enuncia nelle sue Vorlesungen: «wo Es war,
soll Ich werden» (FREUD 1979, p. 190; ed. or. p.
111). L’interpretazione angloamericana di questo
motto freudiano ha dato come risultato una tera-
pia dell’Io (ego, Ich), cioè un rafforzamento delle
sue difese e delle sue identificazioni a scapito del
ça (Es), dell’inconscio. Tutto questo processo tera-
peutico assume così una prospettiva, potremmo
dire, colonialista: l’Io deve conquistare i territori
che sono sottomessi alla dominazione dell’Es, “bo-
nificarli”. L’Io deve succedere all’Es.
Viceversa, la lettura di Lacan tende a capovol-
gere questa interpretazione psicologica in direzio-
ne di quello che potremmo definire una liberazio-
ne del desiderio inconscio: «là où fut ça, dove fu
così, il me faut advenir, debbo avvenire» (LACAN
2002b, p. 519). Nella cura psicoanalitica l’Io non
deve, e non può, irreggimentare l’inconscio, piut-
tosto esso deve lasciar spazio al desiderio incon-
scio facendo i conti col reale del godimento sinto-
matico, la jouissance insopportabile, quale elemen-
to scabroso su cui si fonda la soggettività (MILLER
2021, pp. 308-310).
La posizione radicale di Lacan nei confronti
Alparone
54
dell’Ego Psychology e dell’IPA (International Psy-
choanalytic Association) implica una serie di que-
stioni di portata teorica e clinica, tra le quali ad
esempio troviamo la differenziazione concettuale
che lo psicoanalista parigino pone tra Je e moi. Il
moi è il risultato della stratificazione della serie di
identificazioni che caratterizzano la vita indivi-
duale. Il moi (l’Io) ha, dunque, una funzione diret-
tiva nella vita dell’individuo al punto da occupare
una posizione centrale nella sua vita psichica. Esso
infatti rappresenta al tempo stesso anche un ideale
di completezza, implicando una soddisfazione e
una fascinazione narcisistica. A partire da tale
struttura narcisistica, l’Io ha una funzione difensi-
va contro l’angoscia e il ritorno del rimosso. A
questo proposito, Lacan afferma allora che: «l’io è
strutturato esattamente come un sintomo. Non è
altro che un sintomo privilegiato all’interno del
soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la
malattia mentale dell’uomo» (LACAN 1978, p. 20).
In quest’ottica va letta la differenziazione tra
moi e Je, parlando del secondo in termini di sog-
getto». Il fatto che in psicoanalisi la soggettività
non coincida con l’Io implica proprio che il sogget-
to non è circoscrivibile in una rappresentazione,
infatti, in termini lacaniani, il soggetto è semmai
rappresentato da un significante presso un altro
significante, effetto di discorso. Quella stessa im-
magine, o quella serie di immagini, di cui l’Io si
compone dando un’aurea di completezza al corpo,
in un’anticipazione immaginaria di unità rispetto
alla condizione di fattuale incompletezza del corpo
dell’infans (LACAN 2002a). Si tratta di una struttu-
ra immaginaria che, dando il fondamento narcisi-
stico all’individualità di ciascuno, è comunque un
punto imprescindibile per ogni essere desiderante.
Rispetto a questa struttura, dice Lacan, la sogget-
tività è assolutamente decentrata, da cui deriva
anche la definizione lacaniana di significante in
rapporto al soggetto: «un significante è ciò che
rappresenta il soggetto per un altro significante»
(LACAN 2002c, p. 822). Sarebbe questo il proble-
ma del nevrotico, il quale cerca di coprire la man-
canza fondamentale che è immanente alle identifi-
cazioni attraverso un paradossale ricorso al narci-
sismo (MILLER 2008). Miller, riprendendo Lacan,
parla, infatti, del soggetto in termini di “assenza”
(absence) e “disparità” (disparité). Di preciso af-
ferma: «[il concetto di soggetto di Lacan] è legato
all’assenza, a un contornamento, al contornamen-
to di una zona che direi interdetta, cioè di un buco,
ma che si può ben trattare come un residuo [La-
can] lo chiama d’altra parte il caput mortuum del
significante» (MILLER 2019a, p. 157).
Il soggetto non è quindi solubile nelle identifi-
cazioni, nelle rappresentazioni-significanti, esso
piuttosto sorge in continuazione dal movimento di
rimando della catena dei significanti. Esso non è,
quindi, rappresentabile direttamente da un signifi-
cante, che altrimenti sarebbe un mero simbolo. Il
soggetto ha piuttosto una funzione logica, è un po-
sto vuoto che sostiene lo svolgersi della catena si-
gnificante. È innanzitutto il posto di enunciazione
della presa di parola.
Questo modo di pensare la soggettività inten-
dendola come “assenza”, da parte di Lacan, potreb-
be trovare un antecedente filosofico nella prima fi-
losofia di Sartre, che contiene un’interessante tema-
tizzazione di un modello di coscienza irriflessa. Per
Sartre, infatti, il concetto husserliano di intenziona-
lità della coscienza non ha bisogno della mediazione
dell’Io. Gli oggetti del mondo si mostrano in manie-
ra immediata in una forma di coscienza trascenden-
tale dove l’aspetto riflessivo non è di fatto necessa-
rio (SARTRE 2011). Questa lettura sartriana della
fenomenologia di Husserl di un soggetto senza una
vera profondipsicologica diventerà un punto di
partenza fondamentale per Lacan (MILLER & DI
CIACCIA 2018, pp. 270 e segg.).
Questo soggetto vuoto e senza identità è rivisi-
tato da Lacan attraverso la lente della linguistica,
assumendo quindi la forma di un soggetto diviso
dal linguaggio (LEGUIL 2019), effetto della morti-
ficazione del significante. Infatti, in psicoanalisi il
cosiddetto “svuotamento” del soggetto è determi-
nato dall’incontro (mitico e mai storico, mai reale)
di quest’ultimo con l’ordine simbolico, con la
struttura significante, un incontro che produce
una perdita fondamentale di godimento, ovvero di
soddisfazione pulsionale. A questo proposito J.-A.
Miller afferma: «il simbolico non è correlativo di
un mondo pieno ma al contrario opera come uno
svuotamento di ciò che è la sostanza e la materiali-
del mondo. E se è una materialità dei simboli è
una materialità supplementare, una materialità di
rimpiazzamento» (MILLER 1981, p. 4).
Il riferimento della psicoanalisi lacaniana al
linguaggio permette di pensare il soggetto come
correlativo alla logica significante. A tal proposito,
è ormai celebre il richiamo di Lacan alla linguistica
di De Saussure, capovolgendone il rapporto tra si-
gnificato e significante (s/S) in quello tra signifi-
cante e significato (S/s). Con questo, lo psichiatra
parigino intendeva affermare che se nella lingui-
stica il significato ha un ruolo centrale per il suo
fine comunicativo, in psicoanalisi è il significante,
l’articolazione sonora, a prevalere. Non a caso, in-
dica Saussure, il rapporto dell’essere parlante con il
linguaggio non può essere ascritto a quello di un
contratto, nel quale vi sarebbe un rapporto di pari-
tà, di scelta individuale da parte di colui che parla
(DE SAUSSURRE 1972, p. 89). Al contrario traessere
umano e linguaggio vi sarebbe un’asimmetria fon-
damentale e radicale, un rapporto di disparità dal
momento che la lingua è indipendente e prevale su
colui che parla. Da tali premesse deriva logicamen-
te l’attitudine anti-empirista della psicoanalisi, da
cui dipende il fatto che linguaggio e realtà non so-
no correlati o coincidenti. In questo senso, la di-
mensione simbolica del linguaggio ha un effetto di
Una soggettività senza interiorità
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esclusione dell’essere umano dalla immediatezza
dell’incontro con il reale. Il linguaggio è in qualche
misura l’artefice dell’esilio dell’uomo dalla espe-
rienza di soddisfazione totale della pulsione (CI-
MATTI 2012).
Si tratta di un rapporto di estraneità che si riflet-
te, come si è accennato dinanzi, anche nell’esperienza
che il soggetto ha con se stesso, rispetto alla propria
stessa intimità e interiorità. Il soggetto barrato non è
affatto un soggetto cosciente di sé, trasparente alla
propria riflessione. Il soggetto diviso dal linguaggio
deve fare i conti con delle istanze che mediano la
propria stessa esperienza di se medesimo, che sono
innanzitutto delle istanze di linguaggio, quali posso-
no essere la grammatica e la sintassi. Il soggetto laca-
niano è, innanzitutto, il soggetto dell’enunciazione;
in altre parole il soggetto dell’inconscio, colui che
parla è in primo luogo un soggetto linguistico sin-
tatticamente dato. Il Je di cui parla Lacan è lette-
ralmente il soggetto sintattico, che nella sua fun-
zione pronominale permette che abbia luogo
l’enunciazione stessa. Il soggetto della psicoanalisi
è un soggetto diviso dal momento stesso che pren-
de parola in quanto soggetto di un ordine gram-
maticale, scindendosi in soggetto dell’enunciato e
soggetto della enunciazione.
In questo senso, bisognerà analizzare meglio il
posto di enunciazione delineato dal Je pronomina-
le, proprio in quanto elemento grammaticale.
3 Wittgenstein con Lacan
Questa nostra rilettura della concezione laca-
niana della soggettività pone l’attenzione sugli
aspetti grammaticali dello Je, cioè sulla funzione
sintattica di soggetto la cui “psicologia” non è che
un riflesso. Un approccio a nostro avviso molto
illuminante a questo proposito è certamente il
pensiero filosofico di Wittgenstein, in particolare
di quell’operazione di critica filosofica che egli ha
tentato di elaborare nelle sue Ricerche filosofiche
(WITTGENSTEIN 1967b).
Da parte sua Lacan parla occasionalmente di
Wittgenstein.
Una delle citazioni più importanti
si trova nel seminario Il rovescio della psicoanalisi
(LACAN 2001, pp. 68-69 e segg.) e si articola al
concetto di metalinguaggio definendo la impossi-
bilità strutturale di quest’ultimo. Si tenga conto
che il Wittgenstein di cui Lacan parla in questa oc-
casione è quello del Tractatus, il cosiddetto “primo
Wittgenstein”. In questo testo, infatti, il filosofo
austriaco afferma che poiché le proposizioni fanno
riferimento a dei fatti del mondo non si può rap-
presentare la struttura stessa dei fatti del mondo
senza utilizzare il linguaggio: è impossibile rappre-
sentare la logica del mondo perché essa significhe-
rebbe porsi al di fuori del mondo stesso (WITT-
GENSTEIN 1964, p. 28, §§ 4.12 e 4.121). In questo
come in altri passaggi del Tractatus, ritroviamo in
Wittgenstein ciò che nel linguaggio della psicoana-
lisi potremmo riconoscere come la impossibilità
logica del metalinguaggio. Il mondo non può
presentarsi da senza la mediazione del linguag-
gio e ciò comporta che questo non sia pensabile
come un insieme chiuso: non vi è un elemento es-
terno al linguaggio che possa definirne i confini,
circoscriverlo come insieme finito.
J.-A. Miller riprende e rielabora l’intuizione la-
caniana circa la riflessione di Wittgenstein sul me-
talinguaggio, riferendosi però anche al “secondo
Wittgenstein”. Egli osserva, infatti, che criticando il
cosiddetto “linguaggio ostensivo” il filosofo austria-
co cerca una nuova modalità di dare senso alle
espressioni verbali e, di conseguenza, ai fatti del
mondo. La soluzione di Wittgenstein si intreccia alla
possibilità di significazione del linguaggio per mez-
zo delle pratiche sociali di produzione di senso. Il
linguaggio prende consistenza dalle forme di vita in
cui esso si sviluppa; una corrispondenza biunivoca
da cui deriva la performatività degli atti linguistici,
dal momento che una proposizione, un’espressione
linguistica disegna una modalità dell’umano di abi-
tare il mondo. In questa prospettiva, il senso si deli-
nea e si veicola all’interno di determinati giochi lin-
guistici, i quali designano il significato delle espres-
sioni comunicative che ciascuno di noi utilizza nella
vita quotidiana. Tutto questo permette di contor-
nare l’esperienza linguistica del mondo che ciascu-
no di noi fa ogni giorno. Miller (2019b, pp. 162,
169) sottolinea come il discorso filosofico in Witt-
genstein soggetto rifletta per certi aspetti l’esigenza
di una “soluzione soggettiva” all’assenza di punto di
capitone
nella struttura.
In questa prospettiva, l’argomentazione filoso-
fica wittgensteiniana sarebbe un modo di dare
senso al linguaggio senza far riferimento a un
grande Altro quale garante della corrispondenza
univoca e universale del senso delle parole (MIL-
LER 2019c, pp. 168-169). La soluzione di Wittgen-
stein all’incompletezza del grande Altro simbolico
diventa quella di fondare il senso delle parole sulle
forme di vita; passaggio da una topologia verticale,
gerarchica orientata sulla trascendenza del Nome
del Padre (del “primo Lacan”) a una topologia
orizzontale fatta di soluzioni particolari. In assen-
za di una prospettiva metalinguistica resta la mol-
teplicità delle soluzioni, l’immanenza delle forme
di vita, la parzialità di regole che possono essere
applicate ad un campo di gioco determinato.
Dal punto di vista psicoanalitico, le osservazio-
ni critiche di Wittgenstein sui limiti del linguaggio
ostensivo possono essere associate a quelle di La-
can sul metalinguaggio. Infatti, il filosofo austriaco
critica proprio certa tradizione filosofica che ha
una concezione mentalista del linguaggio, il che
porta a considerare le proposizioni come dotate di
un senso a priori, “sciolte” da qualsiasi riferimento
o vincolo di utilizzazione (AUCOUTURIER 2019). A
proposito della definizione in generale: «ricorda
che a volte richiediamo definizioni, non per il loro
Alparone
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contenuto, ma per la forma della definizione. La
nostra è una richiesta architettonica; la definizione
è come un finto cornicione che non sorregge nul-
la» (WITTGENSTEIN 1967b, p. 100, §217).
La filosofia anti-mentalista di Wittgenstein
è
in alcuni aspetti accostabile all’approccio linguisti-
co già citato di De Saussure, dal momento che in
entrambi si ha una separazione radicale tra il lin-
guaggio e il mondo. Entrambi, come osserva Ben-
venuto (2006), presentano infatti una concezione
anti-empirista e anti-cognitivista dei sistemi lin-
guistici. Si tratta di una posizione che ci porta a
definire due punti fondamentali circa l’utilizzo del
linguaggio: (1) il linguaggio non si esaurisce nella
funzione comunicativa; (2) noi non abbiamo un
rapporto vergine con l‘esperienza del mondo, ivi
compresa l‘esperienza stessa di ciò che potremmo
chiamare “intimità psicologica”. L’approccio witt-
gensteiniano ci mostra infatti come la nostra stessa
interiorità psicologica risulti per certi versi estra-
nea a noi stessi, o meglio essa deve risultarci ester-
na perché possiamo riconoscerla.
Per comprendere questo passaggio si prenda,
per esempio, il processo percettivo di una macchia
su un foglio (WITTGENSTEIN 1967b, p. 131, §216).
Attraverso questo caso Wittgenstein spiega come
una macchia possa essere riconosciuta come tale a
partire in primo luogo da un processo percettivo
di differenziazione di ciò che la macchia non è. In
altre parole, è possibile delineare i contorni
dell’immagine dell’oggetto della nostra percezione
mettendola in contrasto rispetto allo sfondo, in
un’operazione di fondamentale negazione. Cimat-
ti, a tal proposito, rileva come questa differenzia-
zione figura-sfondo che mettiamo in atto nel pro-
cesso percettivo sia determinato da questa pri-
mordiale negazione che è d’altra parte possibile
solo grazie al linguaggio. In altri termini, l’ordine
linguistico permetterebbe d’identificare gli oggetti
nel mondo attraverso un’operazione implicita di
negazione di ciò che l’oggetto non è; esso permette
di circoscrivere una regione di spazio identifican-
do così l’oggetto della nostra attenzione (CIMATTI
2017, p. 173). Tale processo di percezione permet-
te, in altri termini, di identificare la figura per
mezzo della negazione, operazione possibile pro-
prio grazie al linguaggio dal momento che permet-
te questa operazione di contornamento, di taglio
della esperienza.
La stessa questione si può trasporre alla espe-
rienza che ciascuno di noi fa della propria vita psi-
chica, agli “stati mentali”. Quindi, l’esperienza in-
tima dei nostri stati psichici non è un dato puro.
L’impossibilità di un linguaggio privato implica
proprio questo, cioè che gli stati mentali esistono
solo a partire dal (ri-)taglio operato dal linguaggio.
A tal proposito, la filosofa Gauvry (2019) rileva
che: «noi viviamo le esperienze psichiche allo
stesso titolo di tutte le nostre altre esperienze, e in
effetti noi non ne facciamo davvero esperienza che
quando esse si manifestano nei nostri enunciati
che sotto forma di espressioni (o descrizioni)» (p.
113, trad. it. nostra).
Tale questione è fondamentale per la psicoana-
lisi dal momento che attraverso di essa si può deri-
vare cosa comporti l’impatto del linguaggio nella
nostra esperienza del mondo e di noi stessi. In altri
termini, in cosa consista la produzione del sogget-
to. La nostra esperienza psichica è in qualche mo-
do sempre mediata dal linguaggio, producendo il
cosiddetto effetto di svuotamento di ogni metafi-
sica solipsistica dell’interiorità. L’interiorità psico-
logica che può essere rappresentata da un senti-
mento, è sottomessa a ciò che potremmo dire di
quel sentimento, alle modalità con cui lo espri-
miamo: il significante sta sul significato, diremmo
con Lacan. Quindi, lo stato mentale in quanto
esperienza soggettiva che il soggetto ha della pro-
pria vita psichica è un effetto illusorio dei giochi
linguistici che egli utilizza per parlarne, per espri-
merlo socialmente. In questo senso, il mentale può
essere inteso già in come un fatto pubblico, un
punto di tensione tra l’interiorità e l’esteriorità, nel
superamento di ogni presupposto cognitivista
(COMETTI 2004, p. 117). Per utilizzare dei termini
psicoanalitici, si può dire che il rapporto del sog-
getto con la dimensione simbolica del linguaggio
produce una mortificazione del godimento: il sog-
getto è barrato dal significante, svuotato da ogni
rapporto con se stesso, esiliato della propria stessa
intimità psichica.
Tanto nella filosofia di Wittgenstein quanto
nella psicoanalisi di Lacan, il linguaggio ha una
funzione fondamentale nella vita degli esseri uma-
ni, avendo un primato sul soggetto. In queste due
prospettive il linguaggio non è solamente uno
strumento di comunicazione, quale insieme di eti-
chette che indicano gli oggetti del mondo o di rap-
presentazioni mentali pre-esistenti: piuttosto esso
determina la nostra esistenza in tutti i suoi aspetti,
anche quelli più intimi, dando forma alla nostra
stessa vita psichica. Il linguaggio precede gli indi-
vidui e, quindi, bisogna considerarlo non solo co-
me insieme di significati, ma anche, e soprattutto,
nella sua dimensione significante, cioè come ele-
mento materiale che ha degli effetti sul rapporto
dell’uomo con il mondo e l’esperienza di esso.
Come si diceva dinanzi, non vi è un rapporto
simmetrico tra linguaggio e essere umano, non c’è
una deliberazione che l’individuo possa vantare
nel come scegliere di utilizzare la lingua.
Lacan parlava di motérialisme (LECOEUR 2016,
p. 33) volendo sottolineare l’aspetto reale del lin-
guaggio, cioè la funzione causale del significante
per il soggetto al di là di ogni attribuzione di senso.
In altre parole, il soggetto-assoggettato deve essere
inteso come effetto significante (LACAN 2002d, p.
839). Pertanto, il soggetto trasparente a se stesso,
quale soggetto cognitivo, implica un modello di
padronanza del linguaggio, ed è proprio nella mi-
Una soggettività senza interiorità
57
sura in cui esso veicola il significato (rappresenta-
zione mentale, interna al soggetto) attraverso il
significante stesso che il linguaggio è inteso come
uno strumento. D’altro canto, il soggetto vuoto
della psicoanalisi è invece assoggettato all’ordine
del linguaggio in quanto tale, sottomesso alla legge
del significante.
Se quindi la psicologia, il modello cognitivo,
parla di mind, cioè della mente come qualcosa di
misurabile in quanto oggetto ben definito, la psi-
coanalisi parla di soggetto in quanto inteso come
irriducibile a un oggetto (BENVENUTO 2006).
D’altra parte, mentre il cognitivismo può formula-
re un’equivalenza fondamentale tra ciò che è men-
tale e ciò che è cerebrale, per la psicoanalisi (e an-
che nella prospettiva di Wittgenstein) questa
equivalenza è contraddittoria (ALPARONE 2021).
È anche per questo motivo che la critica di
Wittgenstein alla psicologia non ha risparmiato la
psicoanalisi di Freud, in rapporto alla quale, come
si è già detto, il filosofo austriaco aveva una vera e
propria ambivalenza (INNAMORATI & SARRACINO
2011). In effetti, se Wittgenstein critica la psicolo-
gia degli stati mentali in quanto illusoria, in quan-
to fraintendimento linguistico, la psicoanalisi di
Freud non forniva una vera alternativa dal mo-
mento che essa parlava sempre di stati mentali,
ancorché inconsci. Freud parlava anche di deside-
ri, sentimenti, d’intenzioni sempre intendendoli
come “oggetti”, benché inconsci. In Lacan, la ma-
terialità dello psichico è sovvertita dal momento
che l’inconscio non è più un luogo fisico o psichico
chiuso, con una dimensionalità, una profondità
etc., piuttosto esso è un’apertura al linguaggio in
quanto significante, in quanto discorso dell’Altro
che parla attraverso il soggetto. L’interiorità è un
riflesso dell’esteriorità e l’intimità diventa un nu-
cleo di estraneità.
4 Di una soggettività grammaticale
L’aspetto paradossalmente pubblico dello stato
mentale privato si mostra in maniera peculiare nel
caso della intenzione. Proprio un’allieva di Wittgen-
stein, Elisabeth Anscombe, ha infatti elaborato una
critica antimentalista alla nozione di intenzione po-
nendosi in opposizione alla tradizione filosofica ana-
litica, presso la quale questa nozione era intesa come
una caratteristica propria, specifica dell’azione vo-
lontaria. L'azione intenzionale, in questa prospettiva,
sarebbe sempre accompagnata da uno stato mentale
che in qualche modo la connota in quanto tale; esso
starebbe quindi dietro” o “prima” dell’azione, es-
sendone in questo senso causa. L’intenzione come
causa dell’azione sarebbe pertanto definibile a partire
dalla semplice osservazione introspettiva del sogget-
to di se stesso, proprio seguendo il modello di un
soggetto trasparente a se medesimo.
Ascombe (2016) mostra, invece, l’inconsistenza
dell’intenzione come stato mentale rilevando che
ci si può sbagliare nella realizzazione di un’azione,
non realizzando l’intenzione. Nella realizzazione
di un’azione intenzionale può sorgere l’errore, il
quale mostra che c’è uno scarto fondamentale tra
l’azione reale e l’intenzione come rappresentazione
interiore di ciò che si sarebbe potuto realizzare.
Questo scarto implica la cosiddetta incommensu-
rabilità tra linguaggio (che qui viene inteso come
insieme di rappresentazioni-etichette) e realtà (o
reale in senso lacaniano) (UTAKER 2019, p. 348),
da cui deriva che se vi è errore nel compimento
dell’azione intenzionale, allora lo statuto cognitivo
dell’intenzione, che precederebbe l’agire, non ine-
risce all’azione che si è in procinto di compiere.
Come rileva Descombes (2003), l’azione ha biso-
gno di una “conoscenza pratica”, non di una cono-
scenza cognitiva precedente ad essa: io non mi os-
servo aprire la porta nel momento che apro la por-
ta. Se in quel momento mi si domandasse che cosa
sto facendo, risponderei: “io apro la porta” e non
“io mi osservo (o mi penso) mentre apro la porta”.
In questo senso, Anscombe osserva che un’azione
intenzionale può dirsi tale solo a partire dalla
“forma” grammaticale che si alla frase che la
descrive: c’è una intenzione se l’azione risponde
alla domanda “perché?”. Una azione è intenzionale
a partire dal fatto che essa può essere attribuita a un
agente che ha un obiettivo, quindi dalla sua forma
grammaticale stessa. Non a caso Descombes (2004)
parla di “complemento di soggetto”.
Da qui deriva lo statuto fondamentalmente
grammaticale della soggettività. Già Benveniste, in
effetti, affermava che «ogni uomo si pone nella sua
individualità in quanto io che si rapporta a un tu e a
un egli. […] Chi parla fa sempre riferimento, per
mezzo dell’indicatore io, a se stesso che parla. Ogni
volta che viene riprodotto, questo atto di discorso
che enuncia io sarà identico per chi lo ascolta, ma
sempre nuovo per chi lo enuncia, anche se fosse ri-
petuto all’infinito; realizza infatti, ogni volta,
l’inserzione del locutore in un momento nuovo del
tempo e in un tessuto diverso di circostanze e di di-
scorso» (BENVENISTE 2009, p. 36).
Wittegenstein non è da meno da questo punto
di vista, infatti, nel Quaderno Blu (WITTGENSTEIN
1983, p. 124), Wittgenstein descrive l’“Io” come
uno strumento che permette di indicare la persona
che esprime un pensiero o che prova un dolore.
“Io” è, quindi, di volta in volta una persona diffe-
rente a seconda di chi interloquisce, ponendo una
separazione tra soggetto dell’enunciato e della
enunciazione. “Io” e L.W., afferma il filosofo, non
indicano lo stesso oggetto, essendo piuttosto degli
strumenti differenti con altrettanto differenti uti-
lizzi. Lo “io” che parla coincide con D.A., ma D.A.
non coincide con “Io” nella sua funzione sintattica.
“Io” si comporta, quindi, al modo di un deittico:
esso svolge una funzione grammaticale, delinea i
contorni di uno spazio simbolico ponendolo in re-
lazione a un altro (per esempio, una seconda perso-
Alparone
58
na). Appare interessante notare che anche Lacan
parla del Je nella sua funzione grammaticale proprio
in termini di shifter tra i significanti, cioè di un po-
sto vuoto, creato dal taglio significante, grazie al
quale è possibile che vi sia spazio di enunciazione.
Da ciò ne deriva che l’interiorità psicologica, la tra-
sparenza a se stesso del soggetto cognitivo, è
l’effetto del dispiegarsi di un orizzonte grammatica-
le, un gioco linguistico consistente nel porre se stes-
so come soggetto che sente, che comprende, che de-
sidera. In questo senso, si potrebbe rilevare come
per effetto del linguaggio nel soggetto si costituisca
un elemento di estraneità anziché di identità, dal
momento che si può parlare di sé (cioè di “Io”) e dei
nostri contenuti mentali così come si immagina
possa avvenire nella mente di qualcun altro, un’altra
persona. Tuttavia, le regole della grammatica in-
giungono che ciascuno di noi parli dei propri con-
tenuti mentali solo nella forma della prima persona
(MILLER 2014, p. 126; DESCOMBES 2014).
Si tratta dunque di una logica di fondazione del
soggetto che trova i propri principi nel linguaggio
e nella grammatica e non tanto sulla presupposi-
zione introspezionista e mentalista, secondo cui il
soggetto sarebbe trasparente a se stesso. Il lin-
guaggio produce un taglio nell’esperienza che il
soggetto ha di sé medesimo. Il soggetto si dun-
que come differenza e non come identità.
Da questo ragionamento deriva facilmente che
la “prima persona” ha quindi uno statuto partico-
lare nell’espressione dei verbi psicologici (io penso,
io desidero etc.). In questo senso, si potrebbe af-
fermare che il principio di identità sul quale si
fonda la prima persona corrisponde a una impos-
sibilità logica, derivante da dei limiti grammaticali,
quali possono essere quelli, per esempio, di negare
le nostre stesse affermazioni circa i nostri stati psi-
cologici (DESCOMBES 2013). In altre parole, si po-
trebbe dire che l’idea di un cogito come modello di
soggettività piena nella sua funzione autoriflessi-
va, non è erronea ma solo illusoria (FRANCESCONI
2014, pp. 41-46), un riflesso esso stesso derivante
dai giochi linguistici, dal taglio significante.
5 Per concludere
La posizione di Wittgenstein implica una desti-
tuzione radicale del modello cognitivista, che è as-
sociabile, in un certo modo, a quello che Lacan ri-
leva quando descrive l’Io in termini di funzione di
shifter, di déphaseur, di indicatore del soggetto
dell’enunciato. L’Io ha prima di tutto la funzione
grammaticale di designazione del soggetto della
enunciazione e non “significa” il soggetto. In altre
parole, c’è uno scarto tra lo “Io” e la persona che
parla. Lacan dice che è in questa funzione gram-
maticale vuota che è possibile ritrovare qualcosa
dell’ordine del soggetto in analisi: il significante
“Io”, che non significa alcun soggetto, indica «un
intra-detto di un tra due soggetti» (LACAN 2002c,
p. 803), in cui si ha un soggetto inteso come fading.
È quindi nell’interruzione della catena significante
che si ritrova il soggetto in termini di discontinui-
tà. In entrambi i modelli il soggetto non trova la
propria ontologia nel recinto della sostanza pen-
sante e auto-riflettente. Piuttosto, la soggettività è
qui intesa come effetto della sintassi, il risultato di
un taglio del linguaggio, che ponendo l’Io inscrive
il soggetto entro un orizzonte grammaticale.
Nelle due prospettive di Wittgenstein e di La-
can viene presentata una concezione di soggettivi-
tà alternativa a quella cognitiva (psicologica o filo-
sofica). In entrambi i casi si ha a che fare con un
soggetto che non ha consistenza sostanza: in
Wittgenstein quello che chiamiamo interiorità
psicologica non è che un gioco linguistico e la ri-
flessività dell’Io non è che un’ombra grammatica-
le. In maniera similare, Lacan presenta la medesi-
ma esigenza di superamento del modello di sog-
gettività trasparente a se stessa e la questione
grammaticale dello “Io” si traspone al livello del
soggetto dell’inconscio, concepito in termini di di-
scontinuità in seno alla catena significante.
Si tratta di un modello di soggettività che si pre-
senta come il risultato di processi performativi so-
cialmente e simbolicamente prefigurati, al di ,
quindi, di qualsiasi approccio sostanzialista, essen-
zialista o naturalista, oggi molto presenti nel dibat-
tito pubblico e scientifico, che tendono a ridurre la
soggettività a una singola dimensione della eperien-
za, intesa come assoluta e immutabile presenza.
Note
Con “Altro” si identifica generalmente il caregiver, la
madre nelle prime fasi, poi il padre, o comunque il geni-
tore, ma più precisamente, per “Altro” bisogna intende-
re tutto quel sistema di relazioni, di interazioni e di le-
gami di carattere simbolico che costituiscono
l’entourage familiare e sociale del bambino. Si noti co-
me quest’insieme di legami costituisce già in una
struttura, ma soprattutto si veicola attraverso il lingu-
aggio, quindi la grammatica. Tutto questo introduce
l’essere umano a ciò che viene definito come ordine
simbolico.
La Ego psychology o psicologia dell’Io è una corrente psi-
coanalitica che ha avuto ampia diffusione a partire dagli
anni successivi alla morte di Freud, negli Stati Uniti e nel
Regno Unito, spesso in conflitto e in contrapposizione con
la corrente kleiniana. Nella prospettiva della cosiddetta
psicologia dell’Io, la pratica clinica psicoanalitica era tutta
tesa al rinforzo dell’Io del paziente, sostenendo le sue dife-
se contro le pulsioni inconsce, favorendo quindi
l’eventuale “desessualizzazione” delle stesse. In questa pro-
spettiva, l’Io è posto al centro della pratica clinica e della
teoria psicoanalitica, quale fulcro fondamentale delle ca-
paci del paziente di adattarsi alle esigenze della realtà
sociale. In effetti, l’adattamento alla “realtà”, che qui coin-
cide con quella dell’analista, e nell’interpretazione lacania-
na è “imposta” dall’analista al paziente, è l’elemento prin-
cipale che distingue la sanità mentale dalla malattia. Infat-
ti, secondo la psicologia dell’Io, la psicopatologia coincide
con la destrutturazione del principio di realtà e una caren-
Una soggettività senza interiorità
59
za dell’apparato difensivo dell’Io. I due iniziatori e princi-
pali esponenti di questa corrente psicoanalitica sono stati
Anna Freud (2012) e Heinz Hartmann (1966).
Circa i riferimenti di Lacan a Wittgenstein si vedano
quantomeno i lavori di Rigal-Ganel (2013) e di Cimatti
(2015).
Per “punto di capitone” i lacaniani intendono il punto di
incontro tra i tre registri del simbolico, dell’immaginario e
del reale, che compongono la struttura dell’esperienza
umana. Senza punto di capitone la struttura non ha su co-
sa sostenersi, e come risultato si ha la disarticolazione del
rapporto tra significato e del significante e l’insorgenza dei
fenomeni elementari che affliggono la psicosi. L’unico
modo per “guarire” la psicosi è quello di dare la possibilità
al soggetto di trovare un supporto immaginario-simbolico
(una identificazione) che risulti essere sostitutivo del No-
me-del-Padre, punto di capitone universale e fondamenta-
le per ogni essere umano. Ogni soggetto psicotico, in ques-
to senso, deve trovare una propria soluzione particolare, il
proprio singolare Nome-del-Padre che svolga la funzione
di sinthomo. Secondo Lacan, un caso esemplare di questo
sarebbe Joyce. Secondo Miller, la soluzione singolare di
Wittgenstein alla destrutturazione psicotica, è stata
proprio l’elaborazione di una filosofia del linguaggio che
teorizzi un modo per connettere significato (immagina-
rio), significante (simbolico) e referente (reale) senza
ricorrere ad un Altro (Nome-del-Padre) che faccia da in-
defettibile garante. In altre parole, Wittgenstein avrebbe
scoperto una formula abbastanza generale per elaborare
un punto di capitone senza ricorrere all’Altro quale garan-
te assoluto.
Anche Maleval (2019), riprendendo Lacan, sottolinea
la struttura psicotica del funzionamento soggettivo di
Wittgenstein, e come, per certi versi, l’opera filosofica
stessa del filosofo austriaco sia una sorta di soluzione o
di supplenza ad una carenza strutturale (pp. 46-47).
A proposito di “anti-mentalismo” in Wittgenstein si
veda, per esempio, DESCOMBES 2001, p. 121: «Witt-
genstein consistently warns against the illusion accord-
ing to which there are mental processes that are compa-
rable to external processes like speaking or reading
aloud, yet differ from them in that they take place in-
side the head». Si veda anche il recente EGIDI 2023.
Si veda MILLER 2014, p. 162; LACAN 2021, pp. 45-46;
LACAN 2002c, p. 802: «possiamo tentar di partire, in
una preoccupazione di metodo, dalla definizione
strettamente linguistica di Io, Je, come significante:
dove esso non è altro che lo shifter o l’indicativo che nel
soggetto dell’enunciato designa il soggetto in quanto
parla attualmente».
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Article
The following article is a short reflection on the production of the subject as an effect of significant and language in general. Miller, the disciple of Lacan, uses the image of the dentist as a metaphor for this kind of production: the extraction of a tooth. We use a dreamlike association with Wittgenstein’s example of toothache to explain the limitations of empirical language. The fundamental absence of the object can be translated as the effect of the production of private sensation by linguistic games. Furthermore, this model of explanation of subjectivity is radically different from the classical way of thinking about subjectivity, such as the cognitive psychological model. The production of reality results from a process of extraction of the object, of separation between subject and object as an effect of language.
Article
The article deals with Lacan’s notion of “subject” by distinguishing it from any reference to identity. It takes up the question “Who speaks?” posed by Michel Foucault in 1969 and finds an answer with Lacan. In psychoanalysis, it is not a matter of negation of the subject but rather of the subject’s dependence on the signifier. Lacan questioned the “privileges of the self”, but saved the dimension of the subject by conceiving a subject of the unconscious. Identity in psychoanalysis is not determined by social norms. It is an identity at the level of the speaking and suffering subject. Finally, the article shows that the Lacanian subject is both a subject marked by the signifier and one articulated to the drive. The experience of psychoanalysis leads us to question identifications, thereby making it possible to comprehend the traumatic mark at the level of the Real.
Article
“Like everything metaphysical the harmony between thought and reality is to be found in the grammar of the language” (Zettel, § 55). This is why Wittgenstein regards the efforts of justifying a relation between on the one hand thought (or language) and on the other hand reality, as a misunderstanding. Furthermore, in order to justify such a relation metaphysics is confusing thinking with truth. In consequence, this is his “grammatical turn” as argued in the article : If logic unites language and truth, grammar distinguishes between them. The grammatical implies that there is an independence of language with respect to reality and of reality with respect to language. So truth does not depend upon language and the relation between language and reality is given in the grammar of language.
Article
Meaninglessness as a Lack of Context This paper discusses the question of meaninglessness and the limits of meaning in a Wittgensteinian context. It takes seriously the claim that words only have a meaning within a practice to be described by means of language-games. This in turn leads to question the so-called « austere » view of meaninglessness according to which nonsense would not simply be a piece of language to which we fail to give a meaning, but rather no language at all. The issue is to understand such impossibility of making sense by reference to a context, not as something lying in the sign or sentence but as something necessarily linked to a practice.
Article
Psychic Experience: an Unsayable Experience? Can one talk about the first-person experiences one lives, but which are not displayed in one’s behaviour? Beginning with Wittgenstein’s analysis of psychological statements, this paper intends to show the pointlessness of both behavioristic and psychological readings of psychic experience. Despite their opposition, those two philosophical options share the common view that psychic life is a reality one could (or could not) have access to. Yet it is argued here that psychic experience, far from being inaccessible or unsayable, only appears in language and so its analysis must be conceptual.