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L'epistemologia della formazione dottorale: Maniera o rivoluzione?

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Abstract

La formazione dottorale italiana in ambito pedagogico si scontra con la condizione generale dei laureati nell’ambito delle scienze sociali: i corsi EQF 6 ed EQF 7 (triennale e magistrale) non sempre formano alla ricerca. Quest’ultima carenza formativa non si ripropone in termini di scrittura scientifica, bensì di comunicazione. Quest’ultima avviene in un contesto accademico dominato da quella che il presente contributo definisce ‘la maniera’, cioè il modus operandi neopositivistico per la redazione e distribuzione degli studi scientifici. Di qui, i due corni della questione: se non apprende a essere manierista, il dottorando rischia l’esclusione; la maniera stessa, però, marginalizza la creatività e l’eccentricità tipica dei fenomeni euristici nella scienza. Ricollocando tale problematica alla luce delle svolte epistemologiche del Ventesimo Secolo, è possibile ridefinire la formazione dottorale alla luce di un’idea di scienza come risultato di un esercizio di razionalità discorsiva.
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diretta da
Anita Gramigna
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Il concetto di meta-verso nella letteratura si rife-
risce a un verso che va oltre la sua funzione lette-
rale in una direzione metaforica, simbolica o lo-
soca più vaste. Il meta-verso, infatti, non si limita
a comunicare signicati diretti, ma accende, in
senso metacognitivo, percorsi di signicazione al-
tri, anela a temi universali e disegna scenari esi-
stenziali.
Allo stesso modo, la collana EduVersi della Socie-
tà Italiana di Ricerca Educativa e Formativa (SI-
REF) rappresenta uno spazio euristico di studio,
proposta e creatività che trascende le forme del-
l’apprendimento tecnocratico, dell’accudimento,
dell’addestramento. La semantica profonda alla
quale tendiamo è in una formazione che esalti i
talenti per un mondo migliore. Il ne allora è nella
comprensione critica del presente sostanziata da
tensione etica. È con questa prospettiva che la
collana mira all’allestimento di nuovi paradigmi
nell’educazione.
Collana
EduVersi
Società di Ricerca Educativa e Formativa (SIREF)
Comitato scientifico della collana
Miguel Beas Miranda
Sara Bornatici
Liliana Dozza
Agustin Escolano Benito
Piergiuseppe Ellerani
Giancarlo Gola
Patricia Lupion Torres
Rita Minello
Daniele Morselli
Daniel Orlando Diaz Benavides
Alberto Parola
Gloria Giammaria De Osorio
Fernando Sancén Contreras
Myriam Southwell
Fiorino Tessaro
Artemis Torres Valenzuela
David Velasquez Seiferheld
Collana soggetta a peer review
Le emergenze
nella formazione
L’innovazione della ricerca educativa:
i drammi del presente e le sue risorse
a cura di
Anita Gramigna
Rita Minello
Quest’opera è assoggettata alla disciplina Creative Commons attribution 4.0 International Licence (CC BYNC
ND 4.0) che impone l’attribuzione della paternità dell’opera, proibisce di alterarla, trasformarla o usarla per
produrre un’altra opera, e ne esclude l’uso per ricavarne un profitto commerciale.
ISBN volume 9791255681076
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5
Indice
Rita Minello
11 Premessa
Anita Gramigna
21 Introduzione
_____________________________________________________________
Sezione I
Emergenze e riessioni
_____________________________________________________________
Fernando Sancén Contreras
33 Quesiti che la scienza e la tecnica pongono all’educazione di oggi
Amalia Lavinia Rizzo
42 Conoscere le persone migranti e rifugiate con disabilità per promuoverne
l’inclusione: assesment tools su base ICF
Sara Bornatici
51 Educare al servizio, insegnare la pace
Mirca Benetton
59 Pedagogia in cammino verso nuovi incontri intergenerazionali
Alberto Parola
67 Per una media education sistemica
Franca Zuccoli
80 Antiche e nuove forme del sapere. La scuola luogo della complessità: tra
tradizione e innovazione
Daniele Morselli, Sabina Magagnoli
89 The next generation of change makers: un approccio pedagogico e glottodi-
dattico per il gaming per l’imprenditorialità sostenibile nella formazione
tecnica
Andrea Mattia Marcelli
98 L’epistemologia della formazione dottorale: maniera o rivoluzione?
L’epistemologia della formazione dottorale:
maniera o rivoluzione?
Andrea Mattia Marcelli
American University of Central Asia (AUCA)
Professore Associato
marcelli_a@auca.kg
Abstract
La formazione dottorale italiana in ambito pedagogico si scontra con la
condizione generale dei laureati nell’ambito delle scienze sociali: i corsi
EQF 6 ed EQF 7 (triennale e magistrale) non sempre formano alla ricerca.
Quest’ultima carenza formativa non si ripropone in termini di scrittura
scientifica, bensì di comunicazione. Quest’ultima avviene in un contesto
accademico dominato da quella che il presente contributo definisce ‘la ma-
niera’, cioè il modus operandi neopositivistico per la redazione e distribu-
zione degli studi scientifici. Di qui, i due corni della questione: se non
apprende a essere manierista, il dottorando rischia l’esclusione; la maniera
stessa, però, marginalizza la creatività e l’eccentricità tipica dei fenomeni
euristici nella scienza. Ricollocando tale problematica alla luce delle svolte
epistemologiche del Ventesimo Secolo, è possibile ridefinire la formazione
dottorale alla luce di un’idea di scienza come risultato di un esercizio di ra-
zionalità discorsiva.
Parole chiave
Alta formazione, Comunicazione scientifica, Dottorato di ricerca, Episte-
mologia, Razionalità discorsiva
1. Introduzione
Un pensiero ricorrente nel mondo dell’Alta Formazione riguarda quel tipo di at-
tività didattiche che solitamente (ma non esclusivamente) coinvolgono la popo-
lazione degli studenti dottorali. Il problema, se si vuole, risulta duplicato o
addirittura elevato di potenza se si parla di dottorandi di scienze dell’educazione
e della formazione. Si rischia, infatti, di restituire proprio a codesti futuri specialisti
della formazione una sorta di pedagogia sciatta, avvilita da approcci sbrigativi
orientati, a loro volta, da bisogni educativi burocratizzati e compartimentalizzati.
A soccorso di tali realtà non sempre analizzabili – complici gli stessi Consigli
di Dottorato, che in alcuni casi poco meritorî risultano impermeabili alla ricerca
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– interviene il fenomeno delle società scientifiche, da sempre pionieristiche nel
promuovere le competenze sia disciplinari che trasversali e, in special modo, ne-
cessarie in uno scenario in cui la formazione alla ricerca corrisponde prevalente-
mente all’esperienza dottorale.
La scena italiana è tipica di tale bisogno educativo. Infatti, come ben sa il com-
parativista abituato ai modelli curricolari anglo-americani, il dottorando italiano
potrebbe approdare al massimo livello di qualificazione del nostro sistema forma-
tivo senza aver ricevuto, né nella laurea magistrale, né tanto meno nella laurea
triennale, adeguati strumenti per condurre una ricerca in modo autonomo (Vogt,
2016). Tale condizione, suggeriscono gli studi, non è affatto unilaterale e le disci-
pline più abituate alla ricerca empirica e al metodo sperimentale già da tempo
hanno adeguato i loro corsi di livello EQF 7 (cioè i corsi magistrali) alle necessità
euristiche dell’Alta Formazione. Diversamente, invece, le discipline più speculative,
le quali, non sorprendentemente, in Italia risentono tuttora di una tradizione orale
(Vogt, 2016, p. 135), la quale, pur nel suo ineliminabile merito esistenziale e nella
praticità valutativa che non ammette plagi in vivo, relega all’elaborato finale (cioè
la tesi di laurea) l’esperienza cruciale della scrittura scientifica – allorquando i col-
leghi STEM o stranieri, adeguatamente immersi nello spazio discorsivo della
scienza contemporanea, già godono di maggiori esperienze di comunicazione
scientifica (Vogt, 2016, p. 139).
2. Comunicare, non semplicemente scrivere
Il problema, infatti, riguarda la comunicazione – non la scrittura. Ai laureati ec-
cellenti, infatti, non si contesta certo l’uso della lingua italiana. Tuttavia, nel primo
ventennio del Secolo XXI, la società ha mutato di molto i propri protocolli di ac-
quisizione dei risultati scientifici, andando incontro a processi di normalizzazione
e di trasformazione (Jepson, 2014) che si riflettono anche sull’Alta Formazione
(Bernstein et al., 2014). Ciò comporta almeno due conseguenze molto salienti
per la formazione dottorale.
(1) La prima conseguenza è che, senza un’appropriata formazione ai proto-
colli contemporanei – che piacciano oppure no – il ricercatore junior è inevita-
bilmente destinato a divenire una vox clamantis in deserto. L’isolamento
accademico non è intrinsecamente negativo e, almeno in prima istanza, secondo
la vulgata realista, non dovrebbe precludere al prodotto di ricerca il marchio
della scientificità – assumendo che quest’ultima possa essere goduta al netto di
qualunque rapporto interpersonale. In altre parole, lo scienziato solo, nella Torre
d’Avorio, se pratica buona scienza, potrebbe al più essere tacciato di eremitaggio,
ma mai di pseudo-scientificità. Tuttavia, in un’ottica epistemologica più pro-
priamente pragmatica, che respinge il realismo esternalista della prima ora in
favore di un apprezzamento del valore interno della scienza (interno ai processi
cognitivi individuali, adattivi di specie e creativi del consesso sociale), l’impresa
scientifica dello scienziato solo – o scienziato-eroe che dir si voglia, cioè il Dottor
Andrea Mattia Marcelli
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Frankenstein – ne esce zoppa, se non addirittura pregiudicata nell’intimo (Ni-
cholson, 2020). I motivi sono variegati: in primis, una scoperta, un’innovazione
e una comprensione senza comunicazione sono eventi senza storia e, come tali,
soddisfano i criteri oggettivi della scientificità, ma non i criteri soggettivi; in se-
condo luogo, l’intersoggettività non è solamente un fronzolo dell’attività scien-
tifica, ma parte da un presupposto etico di umiltà (contraria, quindi, alla hybris
dello scienziato-eroe) e di trasparenza alla valutazione dei pari; infine, a livello
più spiccatamente ontologico, si potrebbe addirittura sospettare che una verità
espressa con un linguaggio isolato, inintelligibile, abbia poco da raccontare e fi-
nisca per mascherare molto più di ciò che riesca a svelare. Pritchett (2013), ad
esempio, affronta questa problematica nella sua trattazione dell’eccentrico au-
todidatta Samuel Rafinesque. Funesta è quindi, al giorno d’oggi, la situazione
dello scienziato-profeta o dello scienziato-eroe, per quanto lodevolmente com-
petenti e intimamente dedicati alla loro professione.
(2) La seconda conseguenza, sempre in una prospettiva di formazione dotto-
rale, è che il sussistere di processi trasformativi orientati alla normalizzazione finisca
per marginalizzare realtà comunicative eterodosse (si veda, ad esempio, quanto di-
chiarato da Culture Machine, 2018). A conti fatti, si tratta del rischio di polarità
opposta rispetto al precedente: se, infatti, prima si ammoniva contro un’Alta For-
mazione che auto-esclude dalla comunità scientifica perché non partecipa ai suoi
giochi comunicativi, in questa seconda sede, invece, si lancia un monito contro il
sospingimento delle voci fuori dal coro verso la periferia di un impero tecnocratico.
Sussiste, infatti, una linea non sempre ben demarcata tra la richiesta di prodotti
certificati, di elevata qualità e il moto di repulsione verso tutto ciò che risulta crea-
tivo, giocoso, inatteso.
3. Da un lato all’altro del Pacifico
Queste considerazioni aprono altrettanti percorsi epistemologici, che influenzano
sia la scienza dell’apprendimento che la formazione di coloro che intendono par-
teciparvi. Nel presente contributo, li riassumo in riferimento ad aree geografiche
specifiche – più per vis ermeneutica che per effettiva corrispondenza tra luoghi e
pubblicazioni.
La prima destinazione è la Nuova Zelanda. Vi accompagniamo Popper, in fuga
dalla minaccia del conflitto mondiale. Gli sopravvive una scuola epistemologica
di stampo fortemente deduttivista, guidata da Musgrave (1999). Tra le distinzioni
paradigmatiche di Popper vi era quella tra logica della spiegazione e logica della
scoperta (Hanson, 1965). La scoperta, sosteneva, risponde a situazioni contingenti,
allorquando la spiegazione richiede istruzioni chiare e ripercorribili da chiunque,
anche in assenza delle condizioni di base del gesto euristico primigenio. Dell’in-
duttivismo di Popper resta però molto poco in Musgrave (2012), il quale contesta
a filosofi del calibro di Fox l’adesione implicita ai modelli deduttivi: in fin dei
conti, sostiene, la conoscenza deve poter essere articolata in chiave logica – e prima
I sezione: Emergenze e riflessioni
100
o poi tutti tornano all’ovile della deduzione (classica), proprio per impossibilità
di formalizzare appieno il processo di scoperta.
La seconda destinazione, invece, sono gli Stati Uniti. È il luogo d’origine di
Kuhn (1996), la cui opera sulla Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche è tanto po-
polare e ammirata quanto mal compresa. A seconda dello sguardo che adottiamo,
vi ritroviamo molteplici istanze. Si parla, prima di tutto, di “Rivoluzioni” – e siamo
negli anni Sessanta del XX Secolo. Si parla, però, anche di ‘struttura’: il gergo è
plausibilmente marxista, ma anche pienamente iscritto nel movimento culturale
del tempo, il quale aveva ormai realizzato – complice Gramsci (Counihan, 1986)
– che la struttura non può essere solamente quell’apparato economico entro cui si
muovono i ceti sociali e che sottende a ogni forma culturale, bensì è più plausibil-
mente struttura da intendersi in senso biologico o comunque cognitivo (come
quelle piagetiane e vygotskijane identificate da Bulle, 2008 nella prima parte della
sua monografia). Alla luce di ciò, Kuhn ha il pregio di conciliare studio della scienza,
sforzo di formalizzazione e anche riconoscimento del carattere evenemenziale della
medesima: il suo è, soprattutto, un testo che riporta la scienza alla ‘storia della
scienza’ e alla sua ‘sociologia’. Sembra, però, che di strutturale quel testo abbia molto
poco (semmai, conduce un’analisi strutturale, ma il suo esito è la descrizione di una
dinamica). Kuhn sta già proiettando il lettore – specialmente negli ultimi capitoli
– verso una comprensione di come le contingenze storiche giochino un ruolo fon-
damentale nel progresso scientifico (Hollinger, 1973). Come si evince, fatica a smar-
carsi dal positivismo: si parla di progresso, di avanzamento… mentre Hull (1998),
più tardi, avrebbe mutuato il linguaggio evoluzionista e parlato di ‘progressione’
ovvero ‘direzione’, senza però afflato teleologico. La macchina, però, è ormai in
moto e da Kuhn in avanti non sarà più possibile concepire una scienza (o la Scienza)
senza tenere conto dell’alternarsi storico dei suoi pensieri dominanti – addirittura
egemonici – con movimento non sempre fluido e tributario di un indotto di tipo
sia tecnico che valoriale. Con Kuhn, quindi, trionfa la scienza come attività comu-
nitaria – una scienza molto ‘umana’, insomma, e sempre più scevra di afflati teistici,
bensì pronta ad adeguarsi a un relativismo obiettivo a seconda dei sistemi di riferi-
mento (da non confondersi con il qualunquismo – cfr. Marconi, 2007).
In che modo questo divario oceanico (Nuova Zelanda vs. Stati Uniti) si riflette
sui rischi della formazione dottorale anticipati nei primi paragrafi di questo con-
tributo? La risposta sta proprio in questo quadro epistemologico, ormai consoli-
dato. Il fatto è che risulta molto complesso distinguere gli elementi condizionati
e incondizionati dell’evoluzione scientifica. Per esempio, la Scienza è sempre stata
un’attività collettiva (Jepson, 2014; Nordmann, 2012), come illustra Kuhn, op-
pure lo è diventata – e, per di più, in modo preponderante proprio negli anni in
cui scriveva. Che le tecnologie della comunicazione abbiano sempre favorito lo
sviluppo scientifico è reso palese dalla diffusione della stampa a caratteri mobili.
Tuttavia, la corrispondenza storica tra boom delle tecnologie di comunicazione e
l’esplosione di una consapevolezza epistemologica basata su una società comuni-
cante, cioè una società della conoscenza, non può essere ignorata (Nordmann,
2012).
Andrea Mattia Marcelli
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4. Che fare?
Nell’impossibilità di distinguere, almeno nel presente contributo, le cause e gli ef-
fetti, bisogna quindi riconoscere il fenomeno come un dato di fatto con cui venire
a patti – cioè che, come sostiene Friedman (2010), la scienza è tributaria della ra-
zionalità comunicativa. La raccomandazione, dunque, è quella di una formazione
dottorale che sia, tra le varie cose, formazione alla comunicazione scientifica. Si
parte da aspetti squisitamente linguistici – come l’apprendimento delle lingue stra-
niere – per approdare a questioni che non riguardano i testi in quanto testi, bensì
in quanto manifestazione di una logica della scoperta e che possano adeguatamente
rifletterla agli occhi del lettore. Tutto ciò, da svolgersi secondo i protocolli ormai
consolidati, che vanno dall’organizzazione di base di un testo scientifico secondo
il modello IMRaD (Sollaci, Pereira, 2004) fino alle più delicate questioni comu-
nicative che coinvolgono le meccaniche, non sempre bene oliate, della revisione
tra pari in un contesto editoriale che vede uno scontro aperto tra tentativi di car-
tello e monopolizzazione dei prodotti della scienza e movimento Open Science
(Schönbrodt, 2019).
Si tratta, naturalmente, di una formazione ‘di maniera’. E la ‘maniera’, proprio
come la “scienza normale” di Kuhn, va bene finché risulta produttiva. Se, però, la
‘maniera’ inizia a giocare solo sulla difensiva, allora si sente profumo di cambia-
mento – o, più plausibilmente, l’odore del fumo dei fuochi della rivoluzione. La-
katos (1978) aveva ben compreso questo fenomeno, fornendo utili strumenti per
individuare quella puzza di bruciato che si diffonde quando i sostenitori di una
certa scuola di pensiero, modus operandi o modus cognoscendi iniziano ad arrampi-
carsi sugli specchi e scappare dalle finestre. Si auspica pertanto una formazione ‘di
maniera’, la quale, però, non abbia a reprimere le istanze di creatività e casualità
che rendono speciale ogni processo euristico.
Ad ogni modo, considerando, nello specifico, lo scenario dell’Alta Formazione
nel settore delle scienze pedagogiche italiane, sembra che apprendere ‘la maniera
sia più urgente che non lasciare libero sfogo all’estro individuale. La ragione, anche
in questo caso, è storica, non assiologica: senza questa ‘maniera’, il sistema delle
scienze pedagogiche italiane resterebbe periferico. Serve dunque un pellegrinaggio
nella metaforica capitale dell’impero prima di poter iniziare a ‘fare scuola da sé’.
Finora, la discettazione di quanto sopra è stata esclusivamente teorica – fatta
salva qualche nota di colore – ma le considerazioni finora esposte hanno ricadute
rilevanti e immediate sulla pratica scientifica della pedagogia italiana. Esemplare
è, infatti, il caso delle valutazioni ANVUR (2023). Negli accreditamenti dei Corsi
di Studi, ormai, non è più richiesto il semplice controllo qualità, bensì anche la
conduzione di attività di ricerca sui corsi erogati (ad es.: D.CDS.4.2.2). Ciò ha
condotto a lavori come quelli di Gramigna et al. (2023) oppure Morselli e Orzes
(2023). Tuttavia, il problema è che questo tipo di studi, ora imposto e sicuramente
necessario e validante per i percorsi accademici, fatica sempre di più a trovare spazi
editoriali adeguati alla propria disseminazione e promozione.
Le riviste internazionali più quotate, infatti, tendono a rifiutare indagini con-
I sezione: Emergenze e riflessioni
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dotte su piccoli campioni: proprio durante una revisione per una rivista Scopus
edita in Svizzera, il sottoscritto – che aveva valutato positivamente uno studio
multimetodo condotto in un’università nordica – ha assistito alla misera scena
degli altri due revisori i quali, dissentendo con la portata originale del manoscritto
proposto, lo accusavano di aver condotto una sorta di ‘ricerca della domenica’,
con pochi partecipanti e dunque scarsa valenza generale dei risultati. Tali revisioni
esterne, che ho avuto la fortuna di visionare accanto alla mia, erano errate non
solo per il loro tono di disprezzo, ma anche perché non comprendevano che gli
studiosi proponenti avevano attinto, per quella loro indagine sull’Alta Formazione,
a ciò che sostanzialmente era l’intera popolazione studentesca di quel livello e di
quelle discipline nell’arco di un’intera provincia.
Per coloro che ancora non sono pienamente addetti ai lavori, una singola vi-
cenda di revisione come quella descritta potrà sembrare uno spiacevole inconve-
niente di natura squisitamente aneddotica. Proviamo però a rapportarla all’Alta
Formazione: se la numerosità del campione diventa un discrimine per l’approva-
zione o meno, in sede editoriale, di un prodotto di ricerca, ciò significa che le ri-
cerche pedagogiche sulla formazione dei dottorandi non troveranno mai spazi
adeguati di espressione. Salvo la possibilità di grandi studi longitudinali (ad es.,
Durette et al., 2016), le attuali scuole dottorali italiane, caratterizzate senza dubbio
da una certa volatilità in termini di provenienza e varietà dei candidati e dei docenti
che le sostengono (Corsi, 2012), rischiano di essere marginalizzate. In altre parole,
la mancanza di attrattiva [appeal] editoriale da parte di studi sulle attività di Alta
Formazione (es.: magistrali o dottorali) li rende vittima di un giudizio ‘di maniera’:
non la maniera di stesura del testo scientifico, bensì la maniera di fare scienza. E
più l’esperienza pedagogica risulta verticalizzata – dalla base comune della forma-
zione elementare fino all’unicità della singola ricerca dottorale – più si può temere
una situazione in cui i risultati pedagogico-scientifici dei corsi di livello EQF 7 ed
EQF 8 divengono fondamentali agli occhi dell’ente accreditante, ma triviali agli
occhi di alcuni revisori scientifici, che li derubricano ad attività di bottega e, per-
tanto, di scarso valore nomotetico e universale.
Una possibile soluzione a questo potenziale crush che schiaccerebbe l’Alta For-
mazione tra il martello degli enti accreditatori e l’incudine di una revisione poco
aperta a chi lavora qualitativamente e con piccoli campioni (ad es.: Bryan, Guc-
cione, 2018) è rappresentata da nuovi paradigmi di ricerca come l’indagine post-
qualitativa [post-qualitative inquiry] (Marcelli, Morselli, 2022; St. Pierre, 2018).
Quest’ultima ha il merito di gettare le basi per una ricomprensione del fenomeno
formativo senza dimenticare l’importanza delle considerazioni statistiche e senza
nemmeno avvilire la dimensione valutativa di quegli apprendimenti – come ap-
punto le competenze del dottore di ricerca – che tanto sono validi quanto più
sono singolari e situati. La potenzialità è quella di un connubio tra la tanto ago-
gnata ‘maniera’, che consentirebbe ai futuri dottori di farsi ‘ascoltare’ a livello in-
ternazionale e la rivendicazione delle singolarità italiane – intendendo queste
ultime in chiave di successo euristico e non come specificità dovute al provincia-
lismo.
Andrea Mattia Marcelli
103
A fronte di questa proposta resta, naturalmente, un lavoro di tipo protocollare,
che riguarda principalmente la raccolta dei dati. La cassetta degli attrezzi [toolkit]
ideale prevederebbe, in questo caso, la stesura di diari di bordo [journals] da parte
dei collegi docenti, la costituzione di momenti di riflessione comuni, alimentare
spirito di collegialità con cicli iterativi di revisione delle competenze (Brown,
2021), parimenti a sforzi nella pianificazione del curricolo che non si limitino a
riempire le giornate dei discenti ma forniscano opportunità autentiche di crescita
individuale in un contesto relativamente destrutturato.
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ZHAW Zürcher Hochschule für Angewandte Wissenschaften. https://digital -
collection.zhaw.ch/handle/11475/1056
Andrea Mattia Marcelli
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Cultural-historical activity theory (CHAT) appears to match the tenets of post-qualitative inquiry. However, post-qualitative inquiry is credited with being averse to method and to adopt post-modernist stances that are not consistent with CHAT's structured reading of social reality. Notwithstanding this, it is possible to propose an interpretation of post-qualitative inquiry that overcomes such conceptual challenges. This article tackles the issue both theoretically and with reference to the way current CHAT research is undertaken. First, we propose post-qualitative research should be understood as compliant with post-Gettier epistemological standpoints. Second, we show that CHAT-inspired formative interventions are both educational in nature and, given their approach to learning processes, display the core features of post-qualitative research. Given CHAT's distinction between immanent aspects of social reality and methods tailored to tackle local issues, post-qualitative inquiry is justified in retaining its flexible-almost anarchic-methodology while, at the same time, enjoying epistemological soundness.
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The recruitment of doctoral graduates yields collective knowledge, skills, networking, and prestige benefits to organisations, and to UK industries. As individuals though, do graduates experience overall benefit from their doctorate, and how do they perceive the value that engaging with doctoral study confers? This interview study used a critical, interpretive lens to examine perceptions of value across experiences of doctoral education and asked specifically about the utility of doctoral skills, behaviours, and competencies when translated into different workplaces. It presents some of the first insights into how doctoral value is perceived by graduates and the costs and benefits of doctoral study within and beyond the academy. Doctoral graduates (n=22) identified four domains of doctoral value: (1) Career value; (2) Skills value; (3) Social value; (4) Personal value. These were influenced by factors experienced both during and after their degrees: (1) Time since graduation; (2) Supervision; (3) Accrued social connectivity; (4) Employer value of the doctorate. Our conceptual model of doctoral value contributes to international higher education knowledge by providing a structure for enhancing the doctoral experience and its benefits, both during study and for entering the job market.
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In our knowledge society and economy, doctoral education is increasingly considered as a means to produce knowledge workers to feed the needs of the global employment market. This raises concerns about the competencies developed through doctoral training. Surprisingly, only a few studies have addressed this question and most of them are restricted to very limited populations or lack empirical evidences. In this context, we performed a national survey answered by 2794 PhDs. From the data collected, we built a reference framework containing 111 competencies organized in 6 main categories. From statistical analysis, we identified a set of ‘core’ competencies that are shared by doctorate holders (Microsoft Excel spreadsheet Chi squared goodness-of-fit test, alpha level .05). This study therefore demonstrates that PhDs develop a set of common competencies and delineate its boundaries.
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Doctoral students’ understandings of collegiality and their collegial practices warrant specific attention, yet are often addressed as implicit to peer learning and research communities, and ensconced in transferable skills as ‘teamwork’. This article reports on research involving 43 doctoral students at one New Zealand university. Using a hybrid methodology that synergised social practice theory and phenomenography, the students participated in focus groups and paired hierarchical card sorting activities. The resultant conversations indicated that collegiality among doctoral students can manifest as four types of collegial practices: professional, intellectual, social, and emotional collegiality. Collegial practices offer doctoral students purposeful interaction, professional relationships, and respite from some of the emotional challenges of the doctorate. Accordingly, I argue that students, academics, and academic developers could adopt a more comprehensive approach than present to cultivate an environment of collegiality among doctoral students, and that collegial practices should be considered integral to doctoral professional development.
Article
Many PhD students are enthusiastic about robust scientific practices, but afraid that ‘doing good science’ will jeopardize their chances on the job market, argues Felix Schönbrodt, Managing Director of the LMU Open Science Center. Aligning incentives and preparing students for a job market that values contributions to Open Science will be key.
Article
This article explains how writing served the author as a method of inquiry for several decades and how a long preparation using Derrida’s deconstruction, Foucault’s historical approaches, and Deleuze and Guattari’s experimental concepts slowly deconstructed conventional humanist qualitative methodology enabling post qualitative inquiry. The author encourages those who inquire now, after the ontological turn, to break the habit of rushing to preexisting research methodologies and, instead, to follow the provocations that come from everywhere in the inquiry that is living and writing.
Chapter
In this chapter, we offer a synthesis of international perspectives on the nature of the PhD, its contribution to original research, and the competencies and outcomes now expected of those completing a PhD.1 As a resource for all doctoral programs, this synthesis can provide a basis for (1) improving the quality of outcomes for all PhD students, (2) explicitly differentiating doctoral programs to promote understanding and diversity within a broadly accepted framework, (3) facilitating discussion among universities and governmental agencies about quality assurance and funding, and (4) promoting mobility among PhD holders by clarifying commonalities in the degree across countries and educational systems.