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Daniele Luzzo
AFRICA
UNA CONTRO-RAPPRESENTAZIONE
TRA AGENTIVITÀ E RESILIENZA
PREFAZIONE di Alessandro Gusman
L’Harmattan ITALIA - Africultura
Collana “Africultura”
SELEZIONE DI TITOLI PUBBLICATI:
L’EDUCAZIONE IN AFRICA SUBSAHARIANA.
Storia e problematiche
Laurent Falay Lwanga
L’HUMANISME INTÉGRAL EN AFRIQUE FACE
AUX EXIGENCES DE LA RÉCONCILIATION.
Données empiriques et socio-anthropologiques
à partir du Rwanda
Innocent Dushimiyimana
NUOVA ENERGIA PER L’AFRICA.
45 anni di cooperazione controcorrente nel Sahel
Paolo Giglio, Stefano Bechis
LA FILOSOFIA AFRICANA OGGI
E L’IDEA DI PERSONA: IL «MUNTUISMO»
Ezio Lorenzo Bono
NELSON MANDELA UN UOMO DIVENTATO STORIA.
Un eroe acclamato, una missione incompiuta, un ideale tradito?
Giscard Kevin Dessinga
Daniele Luzzo
AFRICA
UNA CONTRO-RAPPRESENTAZIONE
TRA AGENTIVITÀ E RESILIENZA
PREFAZIONE di Alessandro Gusman
L’Harmattan Italia
via Artisti 15 - 10124 Torino
RINGRAZIAMENTI
Questo lavoro è stato possibile grazie al contributo del
prof. Alessandro Gusman, di cui ho apprezzato la dispo-
nibilità, la cortesia e la competenza nell’offrirmi gli
spunti necessari.
Un grazie anche alle centinaia di persone, di cui non
conosco il nome, che hanno condiviso i loro vissuti con
me durante questi dodici anni di esperienze africane.
Infine, mi è obbligatorio dedicare questo lavoro a Nofi-
ratou, Amie e a tutta la famiglia Gasagnè. L’incontro con
loro in Costa d’Avorio mi ha permesso di entrare in un
mondo a me sconosciuto, dove la resilienza e l’agency
sono la cifra del vivere quotidiano. Sono stato obbligato
ad allentare la mia definizione del sé e il mio implicito
etnocentrismo per capire la loro narrazione del reale,
così distante dalla mia eppure così marcatamente signi-
ficativa.
*
* *
© L’Harmattan Italia, Torino 2023
isbn: 978-88-7892-468-0
4
INDICE
PREFAZIONE, Alessandro Gusman 9
1. INTRODUZIONE 13
2. QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO 16
2.1. Una storia di violenza: dominare la realtà
2.2. Una storia di violenza: dominare l’immaginario
2.3. Definizione di AGENCY e RESILIENZA
2.4. Un’esperienza etnografica continua
3. COSTA D’AVORIO 56
3.1. Quadro storico
3.2. Esprimere la propria agency
4. LIBERIA 66
4.1. Quadro storico
4.2. Esprimere la propria agency
5. LA LUCE DELL’OMBRA 81
5.1. Immagine e pregiudizio, ovvero
il pregiudizio dell’immaginazione
5.2. Epidemie versus attentati
5.3. Conclusioni
NOTE 117
BIBLIOGRAFIA 119
5
«Homo faber suae quisque fortunae»
APPIUS CLAUDIUS CAECUS,Sententiæ
6
«In Ocean’s wide domains,
Half buried in the sands,
Lie skeletons in chains,
With shackled feet and hands.
Beyond the fall of dews,
Deeper than plummet lies,
Float ships, with all their crews,
No more to sink nor rise.
There the black Slave ship swims,
Freighted with human forms,
Whose fettered, fleshless limbs
Are not the sport of storms.
These are the bones of Slaves;
They gleam from the abyss;
They cry, from yawning waves,
“We are the Witnesses!”
Within Earth’s wide domains
Are markets for men’s lives;
Their necks are galled with chains,
Their wrists are cramped with gyves.
Dead bodies, that the kite
In deserts makes its prey;
Murders, that with affright
Scare school boys from their play!
All evil thoughts and deeds;
Anger, and lust, and pride;
The foulest, rankest weeds,
That choke Life’s groaning tide!
These are the woes of Slaves;
They glare from the abyss;
They cry, from unknown graves,
“We are the Witnesses!”»
H. WADSWORTH LONGFELLOW,The Witnesses
7
.
PREFAZIONE
ALESSANDRO GUSMAN
professore associato di antropologia culturale
Università di Torino
Alla base del libro qui presentato si collocano le espe-
rienze personali dell’autore, accumulate lavorando per
diverse agenzie internazionali, in particolare – ma non solo
– in Paesi del continente africano. Questa conoscenza
empirica delle realtà africane, in aggiunta alla più recente
formazione antropologica, ha portato Daniele Luzzo a
riflettere su come l’Africa sia troppo spesso ridotta a
un’immagine di violenza, una visione che si è generata in
epoca coloniale e che rimane ancora diffusa nell’immagi-
nario dell’“Occidente”. Da tali considerazioni deriva
l’esigenza di utilizzare le conoscenze e le esperienze
acquisite “sul campo” e sui libri di antropologia negli anni
del percorso universitario, al fine di costruire una contro-
narrazione che dia equilibrio all’immagine dell’Africa
come un continente oscuro, segnato dalla violenza e
dall’irrazionalità.
Il problema, come osserva l’autore, non risiede solo nel
fatto di ridurre una realtà complessa e variegata a un’imma-
gine univoca – la narrazione iper-semplificata dell’“Africa
is a country” – ma soprattutto nel darne una rappresenta-
zione unilaterale, che non lascia spazio alla polifonicità del
continente, riducendolo invece a quella che la scrittrice
nigeriana Chimamanda Adichie ha definito in un famoso
Ted Talk una “single story”(*). Questa storia è raccontata
dal punto di vista dell’Occidente, già colonizzatore dei terri-
tori africani e che continua a ribadire la propria supposta
supremazia attraverso le retoriche del “white saviourism” e
della “ragione umanitaria” (Fassin 2018), che sostituiscono
9
le voci delle popolazioni locali, ritenute non in grado di
esprimersi e bisognose di un intervento esterno.
Questo genere di rappresentazioni ha radici profonde nella
storia coloniale, nei tentativi di creare tassonomie di diffe-
renti razze umane, nelle quali immancabilmente il “tipo
negro” africano era collocato al gradino più basso dell’evo-
luzione umana. Quella che ha caratterizzato l’impresa
coloniale è una rappresentazione del continente africano in
cui si mischiavano orrore e fascinazione, spregio, ridicoliz-
zazione, paternalismo. Basti pensare al famoso caso di
Saartjie Baartman, la cosiddetta “Venere Ottentotta” esibita
come una curiosità in alcuni locali inglesi e poi addirittura
esposta per 15 mesi al Palais Royal di Parigi, sulla scia
dell’interesse dell’epoca per i cosiddetti “zoo umani”; al
“fardello dell’uomo bianco” evocato dal poeta Rudyard
Kipling in relazione all’occupazione coloniale, declassifi-
cata a un “obbligo all’esilio”, necessario per vigilare “su
gente inquieta e selvaggia, popoli da poco sottomessi, riot-
tosi, metà demoni e metà bambini”. Gli esempi di queste
rappresentazioni potrebbero moltiplicarsi, ma mi limiterò a
citarne ancora uno: la prosa incisiva di Joseph Conrad in
Cuore di tenebra, che proietta l’immagine dell’Africa come
di un mondo altro, antitesi dell’Europa e quindi della civi-
lizzazione, un luogo in cui l’animalità domina sulla
razionalità umana, esemplificata dalle popolazioni europee.
Considerati retrospettivamente, possiamo vedere con faci-
lità quanto gli immaginari europei relativi al continente
africano e alle popolazioni che lo abitavano fossero intrisi di
“orientalismo” (Said 2013); uno dei problemi con l’orienta-
lismo è che nel suo approccio riduttivo e stereotipico
essenzializza realtà complesse e diversificate, permettendo a
una metà del mondo di classificare e di raffigurare un’altra
parte del mondo, che viene lasciata senza voce e autorità di
esprimere se stessa. D’altra parte, queste narrative che si
sono generate in epoca coloniale non sono senza conse-
guenze sui modi in cui il continente viene immaginato e
10
rappresentato oggi, in particolare nei discorsi politici e
mediatici. Quando l’Africa viene menzionata nella sfera
pubblica è spesso descritta come “in crisi” o come “emer-
gente”; spesso anche come una combinazione di tali due
elementi, implicando che il continente avrebbe il poten-
ziale di sollevarsi se fosse in grado di mettere fine ad
alcune delle problematiche principali che lo attraversano:
corruzione, violenza, mancanza di standard democratici.
Queste narrative solo apparentemente contraddittorie non
sono nulla di nuovo o di sorprendente; sono invece parte di
una storia lunga di riduzione dell’Africa e delle popola-
zioni africane all’“Altro” per eccellenza (Achebe 2010). Si
tratta di un sapere che con difficoltà inizia a decolonizzarsi
(Mbembe 2018).
Descritto come in perenne crisi, il continente africano
appare agli occhi di chi lo osserva con sguardo etnocentrico
(non ultime, molte delle organizzazioni non-governative che
portano avanti progetti di sviluppo) come incapace di
“salvarsi da solo”, bisognoso di un aiuto dall’esterno; è
l’immagine di un continente bambino, non solo perché
demograficamente giovane, che è riprodotta e che giustifica
la “macchina umanitaria”, fondata sulle narrative del
soggetto sofferente (Barnett 2013). Quello che spesso viene
celato, o è stato dimenticato, è il contesto enunciativo in cui
queste rappresentazioni si collocano: per l’Africa, il
contesto è segnato dal violento incontro coloniale e dalle sue
conseguenze. È una storia lunga di schiavitù e di sottomis-
sione, di gerarchie razziali create in epoca coloniale e che
continuano a far sentire la loro influenza nelle relazioni
odierne.
Il libro di Daniele Luzzo è un buon antidoto nei confronti
di tali rappresentazioni stereotipate; la sua esperienza più
che decennale del continente africano emerge attraverso i
racconti di esperienze vissute in diversi Paesi, le riflessioni
condotte a partire dagli incontri con persone e luoghi.
11
L’autore ha iniziato a lavorare in Africa nel 2010 come
membro della missione di peacekeeping delle Nazioni Unite
in Costa d’Avorio; da allora la sua figura di psicologo
esperto della gestione di situazioni di crisi lo ha portato per
quattro anni in Africa centro-occidentale nell’ambito
dell’Unità di gestione dello stress da incidenti critici
dell’UNDSS CISMU e, dal 2021, a essere consulente senior
presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati
(UNHCR) in Kenya, con frequenti spostamenti in 11 Paesi
dell’Africa orientale. Esperienze lavorative e umane che lo
hanno condotto ad avvicinarsi all’antropologia per meglio
comprendere le dinamiche socio-culturali delle società con
cui veniva in contatto. Il libro riflette il carattere interdisci-
plinare della sua formazione, muovendosi tra i paradigmi
della psicologia, dell’antropologia e della cooperazione allo
sviluppo, cercando di sottolineare le criticità e i chiaroscuri
di questi approcci. I due casi studio affrontati nel testo –
quelli della Costa d’Avorio e della Liberia – concretizzano,
esemplificandole, le riflessioni teoriche con cui si apre lo
scritto, mostrando infine come i concetti di agency e di resi-
lienza debbano essere contestualizzati per non risultare
categorie troppo generiche nella lettura di realtà locali diffe-
renziate e complesse.
(*) Https://www.ted.com/talks/chimamanda_ngozi_adichie_the_dan
ger_of_a_single_story?language=it.
Riferimenti bibliografici
Achebe C. 2010, An Image of Africa, Londra, Penguin Books.
Barnett M. 2013, Empire of Humanity: A History of Humanitaria-
nism, Ithaca NY, Cornell University Press.
Fassin D. 2018 [2010], Ragione umanitaria. Una storia morale del
presente, Bologna, DeriveApprodi.
Mbembe A. 2018 [2010], Uscire dalla lunga notte. Studio sull’Africa
decolonizzata, Milano, Meltemi.
Said E. 2013 [1978], Orientalismo, Bologna, Feltrinelli.
12
1. INTRODUZIONE
L’idea per questo documento nasce all’incrocio tra le mie
esperienze personali come funzionario internazionale in
Africa, il mio percorso di studi in antropologia culturale ed
etnologia effettuato presso l’Università di Torino e le mie
relazioni significative in Italia. Un leitmotiv sembra ricor-
rere in sottofondo entro questi tre spazi disgiunti: quello di
una negatività associata al continente, un’imago della
violenza che diventava inesorabilmente sinonimo di Africa.
Partendo dall’ultimo asse, il mio nucleo familiare e i miei
amici mi hanno offerto un’esperienza diretta di come
l’Africa sia tuttora percepita nella mentalità italiana di una
classe sociale medio-borghese: un luogo pericoloso, indefi-
nito e dai confini amorfi e fluidi, affascinante per quella
incommensurabile lontananza da un punto di riferimento di
civiltà fissato nella mente, un punctum fotografico sclerotiz-
zato in immagini stereotipate fissate da una comunicazione
mediatica degli anni Settanta/Ottanta, ontologicamente
distante ed epistemologicamente incomprensibile.
Nonostante i miei dodici anni di racconti e foto africane, la
percezione stereotipata del continente africano fissata nelle
menti della mia cerchia intima in Italia non è stata minima-
mente scalfita. D’altra parte, che senso ha il reale distante
(anche se mediato da un agente di prossimità quale sono io)
quando il reale presente (mutuato dalla comunicazione di
massa e dalla a-informazione televisiva) è onnipresente,
coeso e invasivo nel rimandare una rappresentazione onirica
del continente africano?
La violenza era sicuramente presente nel primo asse del
discorso, quello relativo al mio ruolo di funzionario interna-
zionale. Infatti, la specificità del lavoro di gestione delle
crisi internazionali mi poneva in contatto con l’aggressività
degli eventi storici nell’Africa subsahariana. Ma la realtà
13
che vivevo era più complessa, multiforme e sorprendente.
Nelle situazioni distruttive, in termini reali e simbolici, in
cui mi trovavo a operare, venivo spesso sorpreso da azioni
ostinate di resilienza e di agency disperata. Dove sembrava
non esistere più alcuna possibilità di azione e di scelta indi-
viduale, si reclamava con viva forza quel margine di
manovra e di agentività che, proprio perché minuscolo,
diventava un’essenziale cifra di riscatto e sopravvivenza, sia
fisica sia mentale.
L’asse che ha svolto la funzione di cerniera tra i due
precedenti aspetti è stato lo specifico piano di studi dell’U-
niversità di Torino. Anche in questo caso, Africa e
aggressività venivano associate a filo doppio, ma attraverso
la presa di coscienza di come la prepotenza del dispositivo
antropologico abbia contribuito alla spoliazione forzata di
artefatti culturali, musealizzando un’immagine d’Africa
come terra “altra”. Da un lato un pervasivo discorso deco-
struttivo dell’imago violenta delle società africane,
dall’altro un “j’accuse” rivolto alla comunità scientifica.
Tutto vero, tutto giusto, anche solo nella reificazione dei
concetti e delle immagini, eppure mancante di un elemento di
fondo che la mia esperienza sul campo reclamava prepoten-
temente. Parafrasando Ferguson (2006), non esiste il
negativo senza il suo doppio, non può esserci un’ombra senza
un legame con un oggetto in luce. Ma dov’era il discorso
sull’aspetto luminoso nei tre assi citati? Se non evocato en
passant nei vari testi, o come elemento di eccezionalità (e
quindi a conferma dell’idea di aggressività associata all’A-
frica), non vi era traccia di positività. Ho ritenuto pertanto
interessante, se non doveroso, scrivere un trattato che si
concentrasse sugli aspetti di resilience e agency nel panorama
africano, per aggiungere una pennellata ottimista a un ritratto
dai toni scuri in cui la sola luce sembrava profondere da
paesaggi lussureggianti e privi di persone.
Il nostro percorso inizierà contestualizzando il discorso
della violenza nel quadro storico del colonialismo e postco-
14
lonialismo, evidenziando come la realtà del presente sia
un’evoluzione delle dinamiche messe in atto nel passato.
Successivamente, ci addentreremo in una definizione di
agency e resilienza, cercando di analizzare i loro aspetti
principali, l’evoluzione e le criticità. Questa analisi si inqua-
drerà nella mia esperienza etnografica, maturata all’interno
di un ambiente di lavoro sviluppatosi in differenti nazioni
africane in aree di emergenza e crisi. In particolare, ci
soffermeremo su due paesi: la Costa d’Avorio e la Liberia.
La scelta deriva principalmente dal tentativo di offrire una
visione dell’agency in due contesti differenti; il primo carat-
terizzato da un’emergenza creata dall’uomo, attraverso la
guerra e il conflitto etnico (guerra civile), e il secondo defi-
nito da una crisi epidemiologica (epidemia di Ebola) in cui
la crisi non è di origine umana. Concluderemo la discus-
sione con un’analisi di quanto esposto, esaminando le
differenze nell’impatto psicologico tra una catastrofe epide-
miologica e una crisi politica, e di come l’agency riesca
comunque a trovare forme espressive atte all’adattamento.
Analizzeremo inoltre come gli stereotipi e le semplificazioni
eccessive del continente africano fissino l’immaginario
attraverso le rappresentazioni mediatiche del presente.
Infine, cercheremo di sottolineare l’importanza dell’agency,
tentando di costruire una narrativa differente da quella a cui
siamo stati abituati.
Affido al lettore il giudizio finale sul risultato del mio
obiettivo, con la ovvia consapevolezza che ogni mancanza è
solamente un limite dell’autore.
15
2. QUADRO TEORICO
DI RIFERIMENTO
In questa prima parte getteremo le basi temporali e concet-
tuali necessarie a costruire il nostro discorso. A partire da
una contestualizzazione storica delle condizioni di violenza
del presente, cercheremo d’inscrivere le azioni del quoti-
diano nella matrice storica, per sottolineare come vi sia una
continuità con l’eredità coloniale. Definiremo poi i contorni
dei concetti di agency e di resilienza, analizzandone l’evo-
luzione ed evidenziandone le criticità. Per concludere,
affronteremo l’esperienza etnografica acquisita durante il
mio lavoro nelle Nazioni Unite, che mi ha permesso di
venire in contatto con varie espressioni di agentività nei
Paesi dell’Africa subsahariana.
2.1. Una storia di violenza: dominare la realtà
Un classico libro sulla storia moderna dell’Africa (Reid,
2011) utilizza il termine “violenza” 139 volte, mentre la
parola “lotta” viene utilizzata in 121 occasioni. Implicita-
mente, si presenta dunque una storia del continente africano
strettamente legata all’aggressività e alle difficoltà.
“Su entrambe le sponde del continente, c’era un’intima
relazione tra i nuovi modelli commerciali e politici e la
guerra. Gran parte della violenza africana del XIX secolo
riguardava la lotta per il controllo del commercio e ai suoi
presunti benefici, tra i quali vi era l’arma da fuoco. Il XIX
secolo vide l’ascesa del mercantilismo – il legame tra potere
economico e politico – in molte società africane. La mani-
festazione più evidente del mercantilismo fu l’uso della
guerra come strumento di politica. I conflitti violenti hanno
certamente accompagnato molti dei cambiamenti in atto nel
continente” (ibid., p. 39).
16
Alcuni autori hanno cercato di evidenziare le dimensioni
culturali della violenza (Taylor, 2002; Behrend, 1999),
mentre altri hanno concentrato i loro studi sulle profonde
trasformazioni sociali, culturali e morali che colpiscono le
popolazioni nelle zone di guerra (Hutchinson, 1996). In
alternativa, l’analisi antropologica ha preferito adottare un
approccio storico, cercando di ricostruire in modo accurato
come le istituzioni africane abbiano gestito in passato l’uso
della forza (Viti e Boni, 2004 cit. in Jourdan, 2010).
La narrazione principale diventa la visione di Thomas
Hobbes, che immagina il continente africano come un luogo
privo di Tempo, Arti, Lettere; e Società; e in cui, cosa
peggiore di tutte, sono costantemente presenti la paura e il
pericolo di morte violenta (Hodgkin, 1956). Secondo questa
visione, diventa quindi il fardello dell’uomo bianco, “The
White Man’s Burden” – (Kipling, 1899), portare la civiltà e
l’evoluzione nell’Africa infantile e selvaggia.
“La guerra è vista come onnipervasiva. Il continente, un
grande corpo, morbido, irreale, è visto come impotente,
impegnato in una dilagante autodistruzione. L’azione umana
vi è vista come stupida e folle, sempre derivante da qualcosa
di diverso dal calcolo razionale” (Mbembe, 2001, p. 8).
L’Africa urbana è stata spesso descritta come un luogo di
sofferenza e di disorientamento, espressa attraverso imma-
gini violente (Baral e Zingari, 2020).
È impossibile discutere di violenza in Africa senza consi-
derare il suo rapporto storico con l’Europa. Nella ricerca di
potere, prestigio, risorse e controllo, le nazioni europee si
sono concentrate sulla dimostrazione della loro superiorità
su un continente lontano e inesplorato, utilizzando le loro
forze armate e il loro apparato culturale per una finalità di
domino. I principali Stati del vecchio continente rivendica-
vano simultaneamente un diritto/dovere a dominare
l’Africa, gareggiando tra di loro per ottenere il massimo
controllo del territorio. Per questo scopo si sono utilizzate le
tecniche più raffinate di manipolazione e asservimento delle
17
popolazioni, promuovendo la più ampia penetrazione delle
loro religioni di stato e dimostrando l’eccellenza dei propri
esploratori attraverso missioni antropologiche spesso fina-
lizzate all’acquisizione di nozioni e di artefatti che
permettessero un migliore dominio territoriale, politico,
economico, spirituale e culturale.
La brutalità del colonialismo nella Repubblica Democra-
tica del Congo (RDC)1ha gettato le basi della violenza
moderna in quel Paese, creando il terreno fertile per l’inte-
grazione dell’ostilità come parte della vita quotidiana. La
colonizzazione belga in Ruanda ha imposto una separazione
artificiale tra hutu e tutsi, preparando la strada al genocidio
del 1994. “I tutsi sarebbero stati la “razza” degna di
comando e gli hutu non avrebbero potuto fare altro che
obbedire” (Fusaschi, 2000, p. 60). La “corsa all’Africa” ha
concretizzato entità territoriali bizzarre, costringendo a
convivere popolazioni prive di relazioni storiche, spesso in
conflitto da generazioni. Per molti aspetti, le guerre civili
attuali rappresentano tentativi di ridisegnare le mappe
imposte nella Conferenza di Berlino del 1885 (come in
Somalia, Costa d’Avorio, Sudan, ecc.), cercando quegli
equilibri dinamici che provvedono a una definizione di
confine in base a un processo storico di negoziazione e di
geomorfologia. L’Europa ha storicizzato i propri Stati-
Nazione attraverso una serie di guerre e di accordi e,
nonostante una definizione abbastanza consolidata della
geografia europea, ancora nel tempo presente non mancano
dissidi maggiori (per esempio il Kosovo) e minori (la cima
del Monte Bianco contestata tra Italia e Francia)2.
Il continente africano è stato diviso in base a calcoli
economici e giochi di potere estranei alle normali forze di
tensione che permettono la “naturale” demarcazione di un
territorio. Un esempio lampante è rappresentato dalla
Liberia, una nazione creata artificialmente per ospitare gli
ex schiavi americani, secondo una visione extra-africana
che considerava, erroneamente, tutti i neri come originari
18
dello stesso luogo. Il sistema gerarchico delle caste e le
attuali tensioni in Liberia sono una diretta conseguenza di
questa imposizione delle potenze occidentali.
L’approccio europeo alla violenza è stato assorbito dalle
società africane, sconvolgendo le norme rituali e tradizionali
che regolavano le tensioni sociali nelle comunità locali e, al
contempo, ha introdotto una nuova espressione di brutalità.
La giustificazione pubblica dietro l’uso coloniale della
durezza con cui si gestiva il domino del continente africano
si sosteneva su un’etica secondo cui l’Europa aveva il
dovere morale e religioso di “educare” le popolazioni
“primitive” che altrimenti sarebbero state in balia delle
proprie pulsioni animalesche. Vi era l’idea di una pedagogia
necessaria per il continente africano, un metodo educativo
che necessitava dell’uso della forza. Un concetto, quest’ul-
timo, associato al ruolo di un padre violento ma giusto
(l’Europa) che impone l’educazione al figlio (l’Africa)
ribelle e ingenuo, insegnandogli con le frustate.
Questo creava un pensiero circolare, l’Africa veniva
descritta come un luogo di scontri, un ambiente in cui la
violenza era l’unico mezzo di comunicazione, imponendo
così una logica secondo cui la brutalità esercitata nelle
colonie era ampiamente giustificata e accettata nel conti-
nente europeo.
Le forme indirette di sofferenza generate dall’occupazione
coloniale assumevano sfumature diverse: un controllo della
coscienza, un controllo del territorio, un controllo degli
spiriti e un controllo dei corpi.
Quest’ultimo aspetto si manifestava anche dalla violenza
del sistema sanitario. “L’esposizione diffusa a nuove malattie
ha partecipato al colonialismo, che ha portato con sé nuovi
ceppi di vaiolo, per esempio. C’era anche una piaga di jigger,
la pulce della sabbia introdotta dall’America Latina che si
insinua nella pelle, in particolare dei piedi, e causa grandi
sofferenze e spesso la perdita degli arti. Sebbene raramente
fatale, questa malattia fu comunque dolorosamente immobi-
19
lizzante, distruggendo i modelli di lavoro e minando i sistemi
economici locali mentre si diffondeva dalle coste dell’Atlan-
tico a quelle dell’Oceano Indiano. Oltre al vaiolo e alla peste,
ci furono anche epidemie di colera, febbre gialla e meningite
[...] Il colonialismo portò anche malattie contagiose, alterò le
ecologie (in molte aree in modo devastante), cambiò i
modelli di resistenza a patogeni esterni e il tipo d’immunità
e costrinse a spostare le popolazioni da ambienti sani a
malsani” (Reid, 2011, p. 328).
Dunque, una violenza fisica, concreta congiunta con
un’aggressività epidemiologica e sanitaria perfettamente
inscritte in un quadro di prepotenza morale.
A questo proposito Beneduce individua nel portatore la
figura che “incarna, nei discorsi dell’epoca, ipocrisie e
vessazioni, mostrando anche la complessa metamorfosi
sociale e psichica che andava realizzandosi nelle colonie”
(Beneduce, 2010, p. 84). I portatori subivano la violenza
fisica dei carichi da trasportare a tappe forzate per lunghe
distanze, spesso a piedi nudi, associata all’attacco di
malattie endemiche (frequenti le infezioni polmonari, la sifi-
lide e le ulcere sulla pelle). Il tutto era inquadrato
nell’arroganza morale dei medici coloniali che volevano
assicurarsi del benessere di questa forza lavoro, senza
dimenticare di menzionare il controllo necessario affinché i
coloni non si sottraessero ai loro doveri. La medicina colo-
niale era interessata ad aumentare la produttività e la resa
dei portatori ed era parte attiva della violenza coloniale. È
sufficiente ricordare i campi di segregazione creati per
controllare la diffusione della tripanosomiasi, la malattia del
sonno. Questi dispositivi di prevenzione sanitaria erano
caratterizzati da condizioni di vita talmente brutali che
ottennero l’effetto opposto a quello desiderato, in quanto i
malati scappavano dai luoghi di “concentramento”, contri-
buendo a diffondere l’epidemia.
Rimanendo in tempi recenti, durante l’epidemia di Ebola
del 2016 in Liberia, ho constatato la stessa dinamica. I
20
pazienti fuggivano dagli ospedali per cercare cibo nei
mercati locali, innescando paura e rabbia nella popolazione
che chiedeva misure di contenimento più severe. D’altra
parte, la violenza del gergo militare è stata adottata facil-
mente dal linguaggio medico: controllo della circolazione,
segregazione, concentramento, lotta alle malattie e così via
(Beneduce, 2010). Il corpo degli africani divenne il terreno
dove sperimentare nuove cure, nuovi farmaci e nuove
metodologie; non con uno scopo di cura, ma come luogo
dove esprimere la propria superiorità medica rispetto ad
altre nazioni. La lotta alla tripanosomiasi diventava batta-
glia di prestigio fra francesi, tedeschi e altre nazioni
europee.
In queste esperienze si radica la diffidenza delle popola-
zioni africane verso la medicina occidentale. Per citare
alcuni esempi, in Costa d’Avorio mi era stato chiesto diret-
tamente se l’AIDS fosse un’invenzione dei “bianchi” per
sfoltire la popolazione africana; in Kenya, durante il periodo
del Covid-19, avevo incontrato una resistenza alla presa di
coscienza di una pandemia percepita come “un’invenzione
dei bianchi per ottenere le risorse africane”; le campagne di
vaccinazione della poliomielite in Nigeria non riescono a
eradicare la malattia perché incontrano il rifiuto della popo-
lazione, le discussioni che avevo in Africa dell’Est sul
vaccino Covid-19 si scontravano con l’argomentazione che
non esisteva una cura per la malaria o per l’HIV a causa una
specifica volontà europea o americana di dominare il conti-
nente. Le argomentazioni scientifiche, logiche o razionali
valgono poco. Non per un ritardo culturale della popola-
zione africana, ma perché ragione e scienza sono state
asservite al controllo coloniale che assoggettava i corpi
secondo un modello di “progresso”.
Il sistema della violenza sulla popolazione africana richie-
deva dispositivi scientifico-culturali adatti a fornire le
giustificazioni necessarie al mantenimento della struttura
dell’aggressività. In questo, sono venute in aiuto le teorie
21
darwinistiche, manipolate ai fini di produrre un corpus
medico-scientifico pseudo-razionale.
A titolo di esempio, si può ricordare che nel 1851 il
medico S.A. Cartwright introdusse la nozione di drapeto-
mania3. Egli definì la drapetomania come una malattia
mentale che affliggeva gli africani schiavizzati che cerca-
vano di emanciparsi dai loro padroni bianchi. Questa
pseudoscienza considerava il desiderio di libertà degli
schiavi come una malattia da curare, sulla base di una
visione evoluzionistica di tipo rigidamente lineare in cui gli
africani occupavano il gradino più basso. Secondo questa
logica, un africano non avrebbe avuto interesse a liberarsi
dal dominio di un essere più avanzato nella scala evolutiva
dato che le condizioni di schiavitù erano sicuramente prefe-
ribili a quelle della natura selvaggia della società africana.
Perciò, secondo la stessa assurda linea di pensiero, se uno
schiavo avesse cercato la libertà, ciò sarebbe stato da attri-
buire sicuramente a una malattia mentale. La causa di questa
presunta disfunzione era un padrone troppo amichevole e
familiare con i suoi schiavi, che li trattava come uguali,
dimenticando la loro natura primitiva. La “cura” consisteva
nel frustare brutalmente gli schiavi e, se questa soluzione
non fosse stata efficace, si suggeriva di tagliare entrambi gli
alluci del malato per impedirne la fuga.
Darwin, Hobbes, Hegel erano gli autori di riferimento
citati per costruire un apparato concettuale distorto utile alla
diffusione e al sostegno della violenza.
Questa visione di superiorità dell’uomo europeo, model-
lata su un’idea darwiniana di sviluppo, strideva fortemente
con i comportamenti messi in pratica nelle colonie, dove gli
ufficiali europei rompevano patti e negoziati, incrinando
quel sistema di mutui accordi e tradizioni di equilibrio
sociale basati su onore, legami comunitari e scambi.
Distruggendo un sistema sociale in cui i rapporti avevano
trovato una funzione regolatrice nel corso dei secoli, si crea-
vano le basi per la futura corruzione degli Stati. “I
22
governanti africani svilupparono presto le proprie variazioni
aggiornate su questi temi: predominavano il clientelismo e il
governo personale, in modi che attingevano contempora-
neamente all’esperienza precoloniale e, in alcuni casi,
deformavano i paradigmi precoloniali [...] le eredità dura-
ture del colonialismo in questo contesto sono la percezione
della presunta violenza “tribale” dell’Africa come fonda-
mentalmente illegittima e come espressione dell’innata
ferocia del continente – un’idea che può essere fatta risalire
anche al XIX secolo – e la creazione di nuovi parametri
territoriali – quella che è stata definita la “maledizione dello
Stato-nazione” – all’interno dei quali si sarebbe potuto
sviluppare un conflitto più intenso. Alcuni dei conflitti
apparsi nei decenni centrali del XX secolo possono essere
visti come una continuazione della guerra del XIX secolo;
altri sono più chiaramente il corollario specifico delle condi-
zioni coloniali [...] parte di un processo continuo e a lungo
termine di militarizzazione della cultura politica africana
attraverso i due secoli” (Reid, 2011, pp. 458, 499).
Ancora oggi si adotta un doppio standard morale, condan-
nando la corruzione degli Stati africani, ma tollerandola in
seno alle proprie nazioni. L’Unione Europea, gli Stati Uniti,
l’Inghilterra, l’Italia, la Russia sono stati teatro di scandali e
gigantesche malversazioni, ma non hanno ricevuto altret-
tante critiche come i loro corrispettivi africani.
John Comaroff identifica nella compressione
spazio-temporale degli scambi di capitale il terreno dove
l’economia globale può sfumare il concetto di legale e ille-
gale. La deterritorializzazione, la deregolazione e la
liberalizzazione dell’economia associata con la complessità
amministrativa, commerciale e legale hanno creato i presup-
posti per la frode e la corruzione a livello endemico e
globale. L’autorità morale del Global North si staglia sovrana
sugli Stati africani, dimenticando che la politica di corru-
zione attuata dai governanti dei Paesi sviluppati è legata a
una capacità di “law laundering”. Ciò che definiamo come
23
illegale in un altro Paese, diventa perfettamente legale nella
nostra società. Un’immoralità sistemica dell’apparato
economico e politico contemporaneo che attraversa il
mondo e non è semplicemente legata a una zona geografica
(Comaroff e Comaroff, 2018).
Ritorna in modo più sottile il tema della violenza e dell’ar-
retratezza africana; se nei Paesi extra-africani la corruzione
è vista come una spiacevole conseguenza delle politiche
neoliberiste, quando si discute degli scandali nei governi
africani, si invoca uno “stato di natura” secondo cui gli afri-
cani al potere non avrebbero la capacità intrinseca di
rispettare le regole democratiche e del vivere civile. Si trala-
scia l’intero processo economico, sociale e storico che
conduce a comportamenti di appropriazione indebita delle
risorse dello Stato, senza considerare che l’indebolimento
delle strutture sociali e morali deriva dalla diretta influenza
dell’intervento coloniale.
La colonizzazione ha alterato, più spesso distrutto, quei
sistemi sociali sviluppatosi attraverso generazioni di nego-
ziazioni e di sedimentazione culturale. Fra i numerosi
esempi possiamo citare la soppressione dell’iniziazione
mevungu tra i gruppi pahuin (Sud del Camerun). “L’inizia-
zione mevungu aveva per risultato di creare un forte legame
fra tutte le donne sposate di un villaggio che, in ragione
delle regole di esogamia clanica, appartenevano obbligato-
riamente a un ayôn diverso da quello dei loro mariti… La
soppressione di questo rito sotto la pressione delle missioni
religiose, che gli rimproverano la sua pretesa oscenità,
sembra essere una delle cause principali dell’instabilità
coniugale in epoca moderna, le donne non avendo più alcun
legame istituzionalizzato con la comunità residenziale e il
lignaggio del marito” (Alexandre, 1965).
Riferendosi alla suddetta popolazione, Beneduce sotto-
linea che l’iniziazione ngii scomparve “in ragione del
carattere illegale che gli venne attribuito dal potere coloniale
per le sue funzioni politiche e «giudiziarie», o meglio di
24
polizia, là dove i suoi membri erano chiamati a intervenire
nei casi di stregoneria o di malattie gravi e nella regolazione
di conflitti locali” (Beneduce, 2010, p. 72). Veniva così a
mancare quel ruolo di controllo e di protezione sociale che
poteva “interrompere conflitti interclanici evitando il
ricorso alla guerra o alla vendetta funzionava come una
polizia e alla stregua di un sistema giudiziario, e gli iniziati
di rango inferiore eseguivano le sentenze pronunciate dai
capi” (Alexandre e Binet, 1962 cit. in Beneduce, 2010).
L’azione del colonialismo non si esprimeva solo mediante
un’influenza diretta sulle comunità, attraverso interdizioni
o modificazioni scientemente volute, ma provocava anche
un’alterazione delle strutture sociali grazie a una ri-codifi-
cazione del territorio e delle reti di scambi commerciali. Le
popolazioni migravano verso i centri di potere creati dagli
europei e nuovi oggetti venivano integrati nelle doti matri-
moniali, alterandone gli equilibri. A questo proposito si può
menzionare la danza cerimoniale bilaba tra i gruppi bulu,
beti, ewondo, nugmba del Camerun dell’Est. Un rituale di
scambio, non dissimile dal potlatch, in cui in un modello
agonistico per ottenere prestigio sociale, i beni subivano
una circolazione interna, creando alleanze e stabilendo
accordi tra uomini di potere. “La paccottiglia europea, con
lo sviluppo delle forme commerciali di scambio e il propo-
sito di lucrare, la cattiva fede e la disonestà si sono
introdotte nel Paese del bilaba, nelle grandi foreste del Sud
del Camerun [...]. Ci si impegna con un bilaba con persone
più ricche, sapendo che non si potrà restituire [quanto rice-
vuto]. Si sono così moltiplicate le discussioni, i processi, gli
assassini per vendetta. Bilaba, il pacificatore ha finito per
riaccendere le discordie, ed è divenuto a poco a poco una
cattiva abitudine, utile solo a persone senza scrupoli. Svalu-
tato nello spirito dei locali, inutile nei suoi effetti principali
in ragione dell’evoluzione dei costumi politici ed econo-
mici, il bilaba muore e scompare” (Guilbot, 1951, cit. in
Beneduce, 2010, p. 77).
25
Se il colonialismo ha rappresentato l’elezione della
violenza a modello di pensiero nella società africana, anche
il post-colonialismo ha contribuito a un’evoluzione di
questa rappresentazione del mondo. I governi coloniali sono
stati spesso inefficienti nello stabilizzare la pace e il colo-
nialismo ha avuto “il maggiore impatto attraverso il modo in
cui se n’è andato, nel senso che ha lasciato gran parte del
continente mal equipaggiato per gestire le sfide dell’indi-
pendenza” (Reid, 2011, p. 15).
La coercizione, oggi, ha assunto nuove forme che si sono
affiancate a quelle precedentemente citate della violenza
diretta e indiretta. Il sistema economico neoliberale
perpetra la sopraffazione attraverso la brutalità dei piani
strutturali del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che
prevedono un’assunzione dogmatica dei principi dettati a
Washington. “Nei recenti anni, molti dei più poveri Paesi
africani hanno messo in azione le riforme sponsorizzate dal
FMI (principalmente, l’apertura dei mercati e la privatizza-
zione dei beni statali) che avrebbero dovuto garantire un
flusso d’investimenti. Ma il risultato non è stato un incre-
mento degli investimenti esteri. Più spesso, è stato un
collasso delle istituzioni di base includendo anche impor-
tanti industrie e infrastrutture sociali come scuole e sanità e
un’esplosione dell’illegalità” (Ferguson, 2006, p. 35). “Si
può dimostrare che questi programmi di aggiustamento
strutturale hanno già avuto conseguenze sociali distruttive
e un costo umano elevato” (ibid., p. 71). Molti Paesi afri-
cani subiscono l’impatto di scelte tecnocratiche prese in un
altro continente che, oltre a generare un marcato disagio
sociale, privano di legittimità i propri governanti. Indipen-
dentemente da chi detenga il potere in un determinato
Paese, le istituzioni dei Paesi del Global South sono
costrette a seguire i dettami del FMI. Questo crea il para-
dosso per cui le leggi della nazione non sono decise da
rappresentanti eletti, ma da burocrati che vivono in un altro
Stato, e addirittura in un altro continente.
26
Tuttavia, il conflitto, sia storico sia contemporaneo, è solo
una faccia della medaglia. Quando ci sono dolore, agonia e
lotta, emergono anche la capacità di resilienza per superare
queste difficoltà, si impone la necessità di avere meccanismi
di coping sufficienti per sopravvivere un altro giorno,
diventa preponderante esprimere la propria azione nel
mondo. Jourdan (2010) sottolinea l’importanza di conside-
rare le popolazioni africane come attori sociali attivi, artefici
del loro destino. L’ambiente e le circostanze storiche spesso
limitano l’agency, ma essa è comunque presente, come ho
potuto constatare grazie al mio lavoro, che mi ha permesso
di partecipare agli eventi traumatici dell’Africa subsaha-
riana. Ho così avuto la possibilità di sperimentare in prima
persona la resilienza dei cittadini africani e la loro capacità
di adattarsi e prosperare anche nelle circostanze più estreme.
2.2. Una storia di violenza: dominare l’immaginario
Se il dominio dei corpi e degli spazi ha conosciuto la sua
massima espansione durante il colonialismo, il dominio
sugli spiriti è ancora attuale e pervasivo nelle realtà africane.
Ho potuto constatare direttamente questa presenza
costante dell’egemonia coloniale nella mentalità delle popo-
lazioni, dove il mio essere non-africano mi garantiva
immediatamente una percezione di maggiore intelligenza,
una moralità più elevata, un miglior status sociale associato
a una sudditanza implicita. Durante il mio soggiorno in
Kenya suscitavo lo scetticismo dei tassisti kenioti quando ho
menzionato loro che Malindi ospita diversi pregiudicati
italiani, grazie all’impunità garantita dalla mancanza di
regole di estradizione. Era come se il concetto di un italiano
truffatore fosse un’immagine difficile da afferrare, sfocata.
Eppure, esistono personaggi come Mario Mele, latitante dal
2013 e residente a Malindi, che aveva frodato lo Stato
italiano per l’ingente somma di 17 milioni di euro4. Oppure
come Fulvio Leone, ricercato con due mandati di cattura
27
internazionale per spaccio di droga, che risiedeva anche lui
in Kilifi County5. Questi sono casi riportati dalla cronaca
perché estradati in Italia per essere assicurati alla giustizia,
ma la presenza di Italiani dalla moralità oscura sembra
essere un concetto alieno alla concezione keniota degli
Europei. L’impronta lasciata nelle menti è così profonda-
mente radicata che, anche dopo 59 anni dall’indipendenza
del Kenya dal domino britannico, la popolazione percepisce
un mzungu (“viandante” in swahili, usato per identificare gli
stranieri di pelle “bianca”) come moralmente superiore per
definizione.
Relativamente alla terminologia, possiamo notare come
l’evangelizzazione forzata portata avanti dai missionari
europei sia ancora ben presente nel linguaggio. Un esempio
emblematico è il termine usato per indicare i “bianchi” in
Burkina Faso: nassara. Questa parola appartenente alla
lingua mooré (un idioma gur del ramo oti-volta) è derivata
dalla città di Nazareth, luogo di nascita di Gesù Cristo.
Risalta chiaramente l’associazione tra l’europeo e il missio-
nario.
E altresì utile ricordare che i missionari sono stati i princi-
pali contributori della creazione di una biblioteca coloniale,
su cui si costruirono le basi per l’elaborazione concettuale
delle teorie implicite sull’Africa, strutture di pensiero che
ancora permeano le rappresentazioni contemporanee del
continente. Gli ambienti teologici, oltre ad avere lo specifico
scopo di evangelizzare, si mossero da pregiudizi che si
sviluppavano intorno alla tesi della “maledizione di Cam”.
Nella Genesi, si riporta che Noè ubriaco fu visto nudo dal
figlio Cam. In risposta a tale gesto di mancanza di rispetto,
Noè maledisse il nipote Canaan e tutta la sua discendenza,
affermando che la colpa primigenia si sarebbe espressa
attraverso il colore scuro della pelle come contrassegno
distintivo. “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi
sarà per i suoi fratelli!” (La Bibbia CEI, Antico Testamento,
Pentateuco, Genesi, 9,25 2008). L’idea di una “razza male-
28
detta” marchiata da una pelle scura e schiava per volontà
divina ebbe particolare fortuna tra XVIII e XIX secolo.
Nonostante non fosse mai validata ufficialmente in sede
ecumenica, trovò terreno fertile nelle menti occidentali. La
tesi secondo cui la popolazione africana fosse priva di
anima, rendendola simile allo stato degli animali, fu un
argomento chiave per trovare un compromesso durante la
disputa di Valladolid. Questa conferenza teologica, tenutasi
nel 1550-51, si propose di dirimere la questione a proposito
della presenza dell’anima negli indios americani, con l’im-
plicito obbiettivo di fornire una base religiosa per lo
sfruttamento dei nativi. Le pressioni dei colonizzatori
spagnoli e portoghesi, sostenuti dalle tesi di Juan Ginés de
Sepúlveda, trovarono l’opposizione di Bartolomé de Las
Casas che lottava teologicamente per gli indigeni americani.
Secondo Antonio de Herrera y Tordesillas, questo dibattito
teologico pose le pietre fondanti per la tratta degli schiavi
africani verso l’America. Infatti, per argomentare la sua tesi
e cercare un compromesso che potesse salvare gli indios,
Las Casas raccomandò di usare la manodopera africana
come strumento animato di lavoro (Mund-Dopchie, 2004).
“L’Africa nera, appena sfiorata dall’esplorazione delle sue
coste, fu percepita in modo molto negativo e non diede
luogo ad alcun dibattito sul destino che i suoi abitanti meri-
tavano. Già sotto il peso della maledizione biblica del suo
antenato fondatore Cam, il figlio irrispettoso di Noè, era per
gli europei del Rinascimento solo una terra ricca d’oro e una
fonte di schiavi rinomati per la loro resistenza. Gli uomini e
le donne strappati dalle loro terre lontane in condizioni
spaventose non suscitavano alcuna compassione nei lette-
rati, né erano ritenuti degni del salvataggio delle loro anime.
Infatti, il legame tra schiavitù e umanità inferiore stabilito
da Aristotele e riaffermato da molti pensatori durante il
Rinascimento fu invertito nel caso dei neri africani: invece
di affermare che una «umanità inferiore» predisponeva alla
schiavitù, lo stato di schiavitù fu considerato come «un’u-
29
manità inferiore». Per questo la loro ignoranza del luogo e
della gente non impedì ad alcuni viaggiatori di dire “che gli
abitanti della regione sono persone che vivono come bestie,
senza Dio, senza legge, senza religione o senso dell’inte-
resse pubblico”. Ecco perché Las Casas, così preoccupato di
difendere la causa indiana, non era interessato al lavoro
forzato degli africani. Per tale motivo, come raccomandato
da Las Casas, molti neri furono inviati in America per sosti-
tuire gli indiani la cui salute non poteva sopportare il duro
trattamento ricevuto” (ibid., 2005, p. 65).
La colonizzazione avvenne innanzitutto nelle coscienze,
in quello che i coniugi Comaroff definiscono una “coloniz-
zazione delle coscienze e una coscienza della
colonizzazione” (Comaroff e Comaroff, 1991). “L’obiettivo
finale di generazioni di colonizzatori è stato quello di colo-
nizzare le loro coscienze [degli africani] con gli assiomi e
l’estetica di una cultura aliena” (ibid, p. 4; corsivo mio). I
cambiamenti che i missionari europei apportarono nella
società tswana, analizzata dai coniugi Comaroff, permea-
rono tutti i livelli, dalle pratiche di matrimonio
all’agricoltura. Tuttavia, questo processo di trasformazione
si innestò in una dialettica hegeliana in cui si crearono le
basi per la presa di coscienza della popolazione tswana, che
ebbe la possibilità di esprimere la propria resistenza attra-
verso un riconoscimento della loro diversità rispetto ai
colonizzatori. Il colonialismo divenne anche una forma-
zione culturale che si espresse in modo dialogico e
dialettico. Come affermano i Comaroff, “ciò che ha reso
distintivo il processo era il fatto che questi esseri umani
hanno trovato il loro senso di sé messo alla prova dal
confronto radicale con mondi molto diversi, con altri che
cercavano d’imporre le proprie costruzioni su una realtà
condivisa” (ibid, p. 313).
Il cambiamento dell’ontologia dei rituali tswana non fu
frutto di una conquista coercitiva, ma piuttosto un tentativo
di colonizzare gli spiriti mediante la ridefinizione di
30
costrutti radicati nella società. Questa violenza implicita ha
creato le basi per il contrasto tra la via dei bianchi (sekgoa)
e la via degli tswana (setswana).
Esempi di questa linea di demarcazione possono essere
riscontrati in quasi tutti gli Stati dell’Africa subsahariana,
dove esiste una definizione concettuale estremamente
marcata tra “voi, i bianchi” e “noi, i neri”. Le sociocromie
rafforzano il contrasto, essendo sia discriminatorie che
discriminanti, poiché si basano sui due colori estremi dello
spettro visivo (bianco e nero). Tale distinzione è accentuata
evitando di utilizzare gradazioni di colori più realistiche
(differenti gradazioni di marrone per la pelle degli africani e
varie tonalità di rosa per quella degli europei). Si tratta di
una divisione manicheistica, basata sull’opposizione e sul
contrasto. Non esiste alcun motivo per definire gli europei
“bianchi”, se non quello di mettere in evidenza la maggior
distinzione possibile con il concetto di “nero”, un’etichetta
addossata alle popolazioni africane da agenti esterni al
continente.
La concezione errata di un’omogeneità africana, che
omologa i 54 Stati e le centinaia di etnie, venne integrata
nella cultura. Quando si discute di Africa esiste lo stereotipo
diffuso di considerare il continente come una massa unica,
un’unica nazione. Inoltre, le immagini veicolate in Occi-
dente tendono a selezionare alcune caratteristiche proprie
dell’area subsahariana, prendendole a modello per l’intero
continente. Nell’immaginario occidentale di Africa, spesso
si tralascia quel gruppo di nazioni africane che si affacciano
sul Mar Mediterraneo. Come riportato da Ferguson (2006),
la categorizzazione dell’“Africa” come un “luogo” è social-
mente rilevante perché è quella che pone questo continente
immaginario nel mondo globalizzato e nei processi politico-
economici interconnessi con questa rappresentazione. Gli
investitori internazionali sono incapaci di distinguere tra le
differenti nazioni africane e usano una semplificazione per
classificare un’intera regione, ma questa alterata percezione
31
del continente non è solamente un bias nella descrizione
della realtà. Gli effetti dei mancati investimenti sono
concreti, quindi non si tratta di un equivoco sulla realtà
sociale, perché il reale prende forma da queste rappresenta-
zioni (ibid.).
Queste categorizzazioni permeano anche lo spirito di
molti cittadini africani, i quali applicano una differente
griglia concettuale per i popoli arabi che vivono nei Paesi
africani affacciati all’Europa. Pertanto, una descrizione
precisa presuppone di rivedere la struttura finora enunciata
in questo modo: “noi, i neri”, “voi, i bianchi”, “loro, gli
arabi”. Tali classificazioni manifestano nel linguaggio l’ere-
dità diretta dell’immaginario coloniale. Eppure, il Marocco,
l’Algeria, la Tunisia, la Libia, l’Egitto sono geologicamente
parte della placca africana.
In questo modo il colonialismo permea ancora le
coscienze degli africani, in quanto parte integrante della
cultura in modo onnipresente e persistente. La colonia ha
creato nuove aree di soggettività, intervenendo in una defi-
nizione del sé che rimane presente nel quotidiano. Gli
oggetti introdotti dai colonizzatori avevano invaso lo spazio
mentale e affettivo dei colonizzati, definendo un’identità
basata su manufatti esterni alla cultura d’origine. Così,
parole come Forcipe o Aeroplano diventavano nomi propri
assegnati ai neonati congolesi, scelti per una simultaneità tra
la comparsa dell’oggetto di origine europea e quella del
nascituro, definendo le biografie delle persone (Hunt, 1999).
I modelli morali introdotti con le missioni, la burocratiz-
zazione pervasiva, la colonizzazione dell’immaginario, la
repressione del “meraviglioso indigeno”, l’economia della
coercizione (Mbembe, 1996) hanno visto varie forme reat-
tive, ma principalmente l’area del religioso è stata quella in
cui maggiormente si è espresso il diritto all’autonomia attra-
verso un’esegesi dei simboli e dei discorsi negati invece in
altre aree della vita. La religione governò l’esperienza del
mutamento (Beneduce, 2010). Per molti versi, i guaritori
32
presentati nel libro di Beneduce diventano portatori di una
forte agency espressa nelle loro pratiche del guarire. Miss
Colombe, Papà Joseph, padre Daniel e gli altri soggetti
incontrati da Beneduce agiscono sul mondo, offrendo una
sintesi di quella complessità di sincretismo e di fusione
necessari per presentare una narrativa coerente della
malattia. I guaritori ritessono la trama discorsiva dell’ori-
gine della sofferenza, così creando una rappresentazione
accettabile dai loro seguaci. Ristrutturando il campo
semantico del significato del male, questi guaritori permet-
tono ai malati di esprimere un’agency nelle azioni
necessarie al processo di recupero della salute fisica,
psichica e spirituale. Stimolano la resilienza, offrendo un
sistema di significati coerente con il mondo sociale in cui i
malati si ritrovano a operare; non negano i processi sociali
e non li dicotomizzano dalla malattia, ma hanno la capacità
d’integrare le forze della comunità, della storia coloniale,
della presenza post-coloniale nei discorsi della notte.
Maître Jacques rimuove il veleno mistico (nsul) dal malato
Théophile, il guaritore ne ripara la frattura mistica, effettua
un blindaggio per proteggere il paziente, ma perché il
discorso sia completo vi dev’essere l’incontro con il nucleo
sociale e familiare cosi come raccontato da Théophile a
Beneduce:
“La notte del mio arrivo egli [Maître Jacques] ha riunito
tutto il villaggio, vi era un grande fuoco nel cortile, e ha dato
inizio alla cerimonia dicendo così: «Sono venuto per resti-
tuirvi vostro figlio, e spero che ciò che è accaduto non si
ripeta più». Ha chiesto poi un pollo, l’ha ucciso e mi ha
chiesto di lanciare il pollo in aria. Ho provato, ma a causa
del dolore non sono riuscito a lanciarlo bene e il pollo è rica-
duto accanto a me. Egli ha chiesto allora un altro pollo, e mi
ha ordinato di lanciarlo lontano, gridandomi: «Liberati della
paura che ti blocca!». Questa volta ci sono riuscito. Poi il
Maître se n’è andato nella notte” (Beneduce, 2010, p. 248;
corsivo mio).
33
Il ripristino delle relazioni di solidarietà all’interno della
comunità costituiva parte integrante del rito, poiché la
malattia era stata intenzionalmente provocata, piazzando
una trappola mistica (enjamber) nel campo di Théophile. La
frattura sociale, derivante dalla gelosia per i successi econo-
mici di Théophile, era stata convertita in frattura mistica e
non era quindi possibile completare il processo di guari-
gione senza considerare il tessuto sociale in cui esso doveva
prodursi.
La fragilità delle relazioni è una conseguenza del controllo
delle coscienze da parte delle missioni e dell’amministra-
zione coloniale. Queste istituzioni provocarono una rottura
della solidarietà tra le generazioni e nelle famiglie, scardi-
nando gli istituti basati sul lignaggio e costruendo nuovi
territori d’insicurezza, all’interno dei quali si attivarono
“dinamiche politiche dominate dalla disorganizzazione e
dall’incertezza, si costituiscono così nuove comunità, effi-
mere, ma non per questo meno decisive sul piano simbolico
o affettivo, strutturate intorno al denaro, i beni, il potere, e si
foggiano nuove mode nei nomi di persone, un tempo indici
anche della specifica appartenenza religiosa del nuovo nato”
(Beneduce, 2010, p. 138).
La soppressione di riti e forme sociali preesistenti, unita
con il mutamento radicale di strutture sociali essenziali
(quali la famiglia, il matrimonio, i rapporti di potere, gli
spazi di vita) condusse alla produzione di un nuovo
universo simbolico. La colonia fu un universo di “soggetti-
vità illimitata” (Mbembe, 2001, p. 189), il colonizzato
venne svuotato della propria umanità e riempito di nuove
rappresentazioni, senza che le normali regole del vivere
civile ponessero dei limiti alla soggettività del colonizza-
tore. L’esperienza psichica dell’essere dominati dagli
europei si espresse in un amalgama nel quale “si confusero
il progetto di dominare e convertire da un lato, i desideri
individuali e le epistemologie dei colonizzati dall’altro”
(Beneduce, 2010, p. 27).
34
La lotta di saperi, segni, simboli, icone provenienti da
universi differenti permise una migrazione di significanti tra
le aree del dominante e del dominato. La stregoneria
continuò ad agire come catalizzatore di fusione tra sistemi
simbolici contrapposti, la mimesi e l’imitazione divennero
processi per creare nuove danze, nuove ritualità e una narra-
zione del reale adatta alle mutate circostanze.
Il cineasta Jean Rouch nella sua etno-cinematografia offrì
un esempio di come la colonizzazione influenzò le pratiche
rituali delle popolazioni, che ebbero la necessità di trasfor-
mare i propri rituali ed eventualmente di crearne di nuovi.
Nel film “Les maîtres fous” (Rouch, 1955), l’autore propone
un racconto narrativo dell’opera cinematografica antropolo-
gica, utilizzando una visione del rituale in chiave
drammatica. Il film fu girato nella Gold Coast nel 1954 e
mostra un rituale Hauka nella sua crudezza.
Durante la cerimonia, i partecipanti uccisero un cane per
berne il sangue, rompendo così un interdetto e dimostrando
la loro qualità di esseri umani diversi, in quanto posseduti
dagli spiriti degli antichi significanti della colonizzazione.
Rouch interpretò questo gesto, così come l’utilizzo del
fuoco per ustionarsi, come un elemento essenziale nella
dimostrazione della possessione da parte degli spiriti. Le
danze paradossali dei partecipanti al rito offrivano il mezzo
per comunicare con i loro dei, gli Hauka. Queste nuove divi-
nità rappresentavano i prodotti della cultura coloniale: il
conduttore di locomotiva Samkakyi, il Capitano Malia (il
primo ufficiale francese a essere commissario distrettuale a
Niamey), il Governatore, il Caporale di Guardia, la moglie
del dottore, Madame Lokotoro, il Luogotenente, Madame
Salma, moglie dell’ufficiale coloniale, il Generale, il Segre-
tario Generale, il comandante cattivo Mougo, l’Autista di
Camion.
Nel corso di un’intervista, Rouch raccontò il suo incontro
con questa nuova spiritualità: nel 1927, mentre assisteva alle
danze di possessione tradizionali, il regista fu colpito da un
35
rito in cui gli spiriti erano espressioni dell’eredità coloniale.
(Fulchignoni, 1989). Questi dèi rappresentavano la tecnica e
l’amministrazione del mondo della colonia. Il loro culto si
sviluppò a Niamey, in Niger, ma le divinità furono successi-
vamente trasportate fino alla Gold Coast dai gruppi di
giovani emigrati, così gli hauka si radicarono intorno ad
Accra e Kumasi. Queste nuove entità religiose continuarono
a manifestarsi fino all’indipendenza del Ghana; dopodiché,
nel tempo, l’immagine del potere coloniale che incarnavano
si stemperò. Rouch scelse un titolo che richiama la follia dei
colonizzatori francesi e inglesi, ma che fa anche riferimento
al termine hauka, che in lingua hausa significa maestri del
vento, maestri della follia. E in effetti, nel film, follia e colo-
nialismo si intersecano in una spirale violenta che diventa
una catarsi per i partecipanti. Il giorno successivo, terminate
le barbarie del rito cerimoniale, i posseduti si ritrovarono in
un contesto di normale quotidianità.
Si mette in evidenza così che le realtà sono co-costruite e
che i significati cambiano sempre al variare dei contesti
interpretativi, essi sono continuamente rielaborati e modifi-
cati in numerosi modi. Se all’apice della ritualità hauka si
potevano contare un centinaio di divinità, e una panoplia di
dèi poteva possedere una persona, con l’indipendenza del
Ghana il rito perse di forza e progressivamente venne incor-
porato dai preti tradizionali nella ritualità del dio del tuono
Dongo. In questa nuova narrazione gli Hauka divennero
figli di Bilali, un altro aspetto del dio Dongo.
La facoltà mimetica messa in atto da queste rappresenta-
zioni impone un connotato di similitudine e differenza
rispetto agli europei, esagerando certe caratteristiche dei
colonizzatori e riproducendone la violenza nell’atto inter-
detto di uccidere e mangiare un cane. (Bhabha, 1984).
La mimesi è anche rilevata da Ferguson nel suo libro
Global Shadows (2006), in cui riporta la lettera di due
giovani guineani il cui desiderio era quello di diventare
come gli europei. Nel documento, trovato vicino ai loro
36
corpi congelati nel vano cargo di un aereo, vi era l’esplicita
richiesta di ottenere l’aiuto degli europei per “essere come
voi” (ibid, p. 166). La richiesta dev’essere interpretata come
un appello all’appartenenza, come un desiderio di essere
membri del gruppo dei Paesi sviluppati.
Il concetto di mimesi era ambiguo nelle politiche coloniali
perché, se da una parte esisteva un preciso progetto di svilup-
pare la cultura africana nelle direzioni di quella europea (che,
come abbiamo accennato precedentemente, veniva percepita
come più “evoluta” lungo una linea darwiniana), dall’altra
parte creava fastidi e intolleranze in quanto avvicinava afri-
cani ed europei, confondendo i contorni delle definizioni.
Le istituzioni coloniali avevano bisogno di una linea di
demarcazione netta con l’“alterità” africana. Questa divi-
sione era necessaria alla sopravvivenza del colonialismo
perché giustificava i suoi interventi violenti. Ferguson
rigetta l’interpretazione antropologica della mimesi come
atto di resistenza al colonialismo, posizione invece adottata
nell’interpretazione del film di Rouch, “Les maîtres fous”.
Secondo Ferguson, la lettera scritta dai due ragazzi non era
una forma di parodia o un’appropriazione della “magia”
europea, ma una vera richiesta d’integrazione politica e
sociale a una più ampia comunità. Una chiara domanda di
appartenenza a un nuovo ordine socio-culturale, assai diffe-
rente dall’interpretazione del film di Rouch, nel quale si
corre il pericolo di comunicare al pubblico una narrazione
etnografica degli hauka generalizzata, la quale può suscitare
l’erronea attribuzione di un’imago primitiva caratterizzante
tutta la popolazione africana. Il rischio di una rappresenta-
zione negativa ampliata a tutto un continente era già stato
rilevato dagli studenti parigini di origine africana presenti
alla prima proiezione di “Les maîtres fous” (Adams, 1978).
La loro reazione allertava la comunità antropologica sul
rischio di “un esotismo razzista” (Stoller 1993, p. 153).
Da una parte, l’appropriazione attraverso la mimesi delle
caratteristiche europee può essere letta come una resistenza
37
alla colonizzazione attraverso l’esagerazione e la parodia
rappresentata nel film di Rouch, una forma di agency che
permette di controllare attraverso il simbolismo rituale una
violenza intrinseca generata dal passato coloniale, “utiliz-
zando il simbolismo per proteggere la propria identità
culturale” (Stoller, 1984, p. 167).
Dall’altra parte, esiste una precisa richiesta di apparte-
nenza al mondo moderno, inteso come mondo degli
occidentali. Koita e Tounkara nel libro di Ferguson, Jack e
Muhindo in quello di Jourdan, reclamavano un diritto di
equità allo status di cittadini globali, con l’accesso a quelle
risorse materiali, culturali e sociali che caratterizzano le aree
“moderne” del mondo.
Quando la disuguaglianza del sistema neoliberale
preclude l’appartenenza a un intero continente, l’agency
degli individui si esprime salendo su un aereo, rischiando di
morire congelati nel vano bagagli, per raggiungere quelle
aree del mondo percepite come privilegiate. Oppure parteci-
pando a razzie dopo un’azione militare, con l’obiettivo di
appropriarsi di tutti quei beni simbolo d’inclusione in un
sistema globale.
2.3. Definizione di AGENCY e RESILIENZA
Il concetto di agency è piuttosto mutevole nel panorama
intellettuale, ma può essere sintetizzato come “la capacità che
gli individui hanno d’investire di significato eventi e rappre-
sentazioni, accogliendoli o rifiutandoli per adattarsi e/o
«resistere» nel momento stesso in cui promuovono, grazie
allo stimolo proveniente da tali eventi e rappresentazioni, una
propria forma di soggettività” (Fabietti, 2010, p. 301).
In sostanza si può sintetizzare l’agency come l’abilità del
soggetto di esprimere la propria azione nel mondo, non solo
come concreta fisicità sul reale, ma piuttosto come ridefini-
zione della dialettica soggetto-società in cui si trova ad
agire.
38
Antonino Colajanni (2010) sottolinea come l’agire umano
sia stato posto in primo piano nella ricerca antropologica
grazie all’attenzione sull’agentività. Nell’analisi dell’autore
si sono evidenziate le scelte individuali associate con le
responsabilità, le valutazioni e gli interessi. In particolare,
l’antropologia linguistica si è focalizzata sulla relazione tra
azioni e linguaggio, in base all’osservazione che l’agire e il
dire sono strettamente legati. L’espressione di agency è
preceduta, accompagnata e seguita da parole; pertanto, vale
la pena di analizzare le azioni e quanto detto sul comporta-
mento stesso, sia considerando il giudizio che gli attori
esprimono sul proprio operato, sia valutando il modo in cui
si comunica e si interpreta la propria agentività. Colajanni
(ibid.) inoltre ricorda che le parole producono effetti, dato
che a volte contengono in sé delle anticipazioni d’esecu-
zione, delle imposizioni e altre strutture linguistiche che
spingono alla messa in atto di quanto verbalizzato.
Questo concetto si pone come sfida al determinismo delle
teorie strutturali, poiché l’azione dell’umano diventa il
fulcro del discorso a discapito della normatività. Si eviden-
ziano i concetti di volontà e di complessità psicologica
dell’individuo, sottolineando l’aspetto dialogico tra la
persona e il suo ambiente, mutualmente influenzati dal loro
rapporto continuo (ibid.).
Ahearn (2001) collega la diffusione del termine di agenti-
vità, avvenuta intorno agli anni Settanta, all’incapacità dello
strutturalismo di tenere in considerazione le azioni delle
persone. Si tratta, infatti, di una reazione degli accademici
alla passività imposta agli individui dalle teorie strutturali.
Tra gli autori che hanno contribuito a diffondere una
visione di agency come elemento ontologicamente rilevante
nella costruzione del mondo sociale possiamo ricordare
Giddens (1984), Bourdieu (2003), Sahlins, (1999) e Ortner
(2006). Per questi studiosi, l’agency rappresenta il
passaggio attraverso il quale la riproduzione sociale diventa
trasformazione sociale, una “teoria della pratica” in cui gli
39
attori sfruttano le opportunità loro offerte per orientare la
propria vita attraverso l’utilizzo di forme simboliche che
donano senso all’universo circostante (Bourdieu, 2003).
Esprimere agency non equivale a una manifestazione di
scelta libera, perché l’azione individuale è sottoposta a
vincoli (sociali, politici, linguistici, culturali). Jourdan
(2010, p. 181) nota che “gli individui interagiscono con il
loro mondo (sociale, culturale, politico, economico, ecc.) e
non ne sono mai pienamente determinati: è in questa rela-
zione biunivoca che si individua la soggettività. Essa è
dunque definita dal rapporto fra forze antropopoietiche e
agency, ossia dalle capacità/possibilità che gli individui
hanno di relazionarsi con tali forze”. Certamente i margini
di azione si riducono in contesti difficili, ma l’essere umano
in quanto tale non sembra essere mai sprovvisto di una capa-
cità di agency (anche meramente un’“agency tattica” come
menzionata da Jourdan). Aggiungerei che più si riducono gli
spazi di manovra dell’agentività, più questa diventa un
soffio vitale dell’individuo nel mondo sociale.
La capacità volitiva del soggetto non sembra essere un
requisito inderogabile nell’espressione dell’agency. In un
contesto di sopravvivenza, si attivano processi meccanici
d’azione per interagire con l’ambiente. Essi non sono
coscientemente elaborati, ma sono frutto di sedimentazioni
pre-razionali che ottimizzano la risposta agli stimoli esterni
e permettono di cogliere istintivamente le opportunità in un
contesto incerto e mutevole. Quella che invece sembra
essere una costante è la soggettività, un’agency motivata,
come notato dai coniugi Comaroff, che esprime significato
e una forma di potere (maggiore o minore a seconda delle
circostanze) (Comaroff e Comaroff, 1991).
Sebbene negli esempi che esporrò in seguito l’agency si
presenti come una forma reattiva a una circostanza avversa
e possa suggerire l’idea di una resistenza o stoicismo di
fronte alle difficoltà, bisogna considerare che “gli atti
compiuti da un agente possono favorire una complicità, un
40
accordo o addirittura un rafforzamento dello status quo – e
anzi, a volte producono al tempo stesso tutte e tre queste
conseguenze” (Ahearn, 2001, p. 19).
Fino a questo punto abbiamo considerato il termine
“agency” da un punto di vista antropologico (quello che
adotteremo nel corso della discussione), tuttavia il discorso
non sarebbe completo se non esaminassimo il significato di
agency nell’ambito psicologico. Sebbene il termine sia iden-
tico, la definizione cambia leggermente dato che oltre
all’elemento dialogico con l’ambiente sociale, viene intro-
dotto il sentimento di autoefficacia (Bandura, 1982).
Quest’ultimo concetto rappresenta la convinzione che il
proprio agire avrà un impatto sul mondo e che gli individui
dispongono della capacità di pianificare un’azione che
condurrà a un risultato desiderato. Secondo questa prospet-
tiva, l’agency sarà il risultato di un atto di reciprocità
causale, emergente dall’interazione della triade: elementi
personali, comportamento e società. Bandura individua tre
forme attraverso le quali esprimere agency: individuale, per
procura o collettiva. Nella prima, le persone esercitano la
loro influenza direttamente agendo su ciò che possono
dominare.; l’agency per procura è invece espressa attraverso
l’influenza esercitata dalle persone su quegli attori sociali
dotati delle risorse, delle conoscenze e dei mezzi per arri-
vare ai risultati sperati; l’agency collettiva, infine, permette
agli attori sociali di aggregare le loro conoscenze, abilità e
potenzialità per costruire un futuro a loro favorevole
(Bandura, 2022).
Per concludere, bisogna menzionare un’agency non
umana, facendo riferimento ad Alfred Gell che si è occupato
in maniera esaustiva dell’argomento. Egli sostiene che gli
artefatti umani, tra i quali le opere d’arte, sono prodotti con
l’idea d’influenzare gli altri attori sociali, dirigendone i
pensieri e le azioni. Si esprime l’intenzionalità dell’autore
attraverso l’opera stessa, anche se gli artefatti non hanno di
per sé un’utilità pratica, ma sono meramente prodotti este-
41
tici. Questi oggetti agiscono sul mondo, mediando
l’agency dell’artigiano, permettendo al produttore di espri-
mere la propria intenzionalità e di influire sul mondo
sociale anche se non in maniera diretta (Forni, 2010). Per
Gell, gli oggetti riescono a distribuire la propria intenzio-
nalità generando emozioni e indirizzando le azioni.
L’antropologia dell’arte diventa, quindi, una teoria dell’a-
gentività, perché una parte dell’autore dell’opera rimane
nel suo lavoro. L’abilità tecnica incanta l’area sociale, l’ef-
ficacia sociale degli oggetti trascende il semplice aspetto
estetico (Gell, 1992, 1998).
Gli oggetti assumono un ruolo attivo nella costruzione del
sociale, perché parte della persona che li ha prodotti rimane
nel manufatto stesso, e così l’intenzionalità dell’autore si
distribuisce nella rete sociale attraverso il prodotto realiz-
zato. L’oggetto è stato ideato con una precisa funzione e la
scelta della tecnologia impiegata, l’estetica, il modo di
produzione sono integrati nelle norme culturali. Mauss
(1936) ha evidenziato la componente sociale della trasmis-
sione del sapere; l’aspetto tecnico, per essere compreso,
dev’essere interpretato nel contesto più ampio del gruppo
sociale. Un oggetto esprime agency, perché è denso di
universi simbolici e culturali, non solo come significante
esplicito, ma anche (e forse più) come contenitore implicito
di un sistema di negoziazioni sociali che in un gioco di
rimandi influenzano la società.
Precedentemente, abbiamo accennato a come agency non
sia sinonimo di resistenza (anche se alcuni autori ne eviden-
ziano una similitudine). Spetta al termine resilienza la
capacità di difendersi e di contrastare le difficoltà e gli
eventi nefasti. La forma latina re-salire indica la capacità di
rimbalzare, la capacità dei corpi fisici di ritornare alla forma
originale dopo aver subito una deformazione. Il termine
venne quindi adottato in metallurgia per indicare la capacità
di un metallo di resistere a forze esterne. Da qui la parola fu
42
accolta nell’ambito delle scienze sociali (in psicologia in
primis) aggiungendo un’ulteriore sfumatura: la resilienza
può essere incrementata, appresa e dev’essere dinamica.
Ovverosia, deve avere la capacità non solamente di far
fronte a un evento avversivo, ma anche di ricostruire la
narrazione idiosincratica della situazione in modo positivo.
Gli anni Ottanta videro un ampliamento delle aree tema-
tiche in cui il termine resilienza fu impiegato, spaziando
dall’ecologia ai regimi politici oppure all’economia, attraver-
sando le dimensioni dei macro-sistemi e le micro-dimensioni
del sé. La capacità di riprendersi velocemente e agilmente da
eventi negativi, malattie o altri traumi diventa un elemento
discorsivo in un nugolo di aree disgiunte.
Nella definizione del termine resilience fornita dall’Ox-
ford English Dictionary, si rimanda all’abilità di ritornare
alla posizione iniziale dopo aver rimbalzato contro un osta-
colo, ricadendo in piedi. Gli aspetti di deformazione e
ripristino delle condizioni di partenza sono sempre eviden-
ziati, si parla di ritornare alla forma originale dopo essere
stati piegati, premuti, stirati, estesi, modificati in qualche
modo (Bracke, 2016).
Bracke, considera la resilienza una caratteristica costitu-
tiva del mondo neoliberale. “Gli incidenti accadono, quindi
superateli. Siate preparati. Acquisite le competenze neces-
sarie per affrontare la situazione. Non piangete troppo forte,
troppo a lungo, troppo rumorosamente. Non siate disfatti e
non disfate. Riprendersi. Accettare l’impatto – il fuoco, il
calore, il soffocamento – e rimbalzare. Alla vostra forma
originaria. Ma questa volta meglio preparati per il prossimo
incidente, aspettando che accada.
Il neoliberismo ha fantasie di resilienza oltre la morte? E
che aspetto avrebbero? Forse la semplice morte è un simu-
lacro più accettabile dello “stato originario” così apprezzato
nell’attuale ethos della resilienza, piuttosto che corpi arrab-
biati, con il cuore spezzato e l’anima distrutta che si
radunano nelle strade?” (ibid., p. 843).
43
L’autore evidenzia criticamente che, nel mondo neolibe-
rale, il buon soggetto adeguatamente inserito nel sistema
sociale è quello resiliente, la cui agency è espressa solo
attraverso la capacità di resistere all’oppressione strutturale,
una resilienza finalizzata a mantenere lo status quo.
La costruzione della resilienza e lo sviluppo delle capacità
di affrontare le difficoltà del mondo percorrono la letteratura
del FMI. Secondo questa assurda visione, i poveri del
mondo hanno solamente bisogno d’incrementare la resi-
lienza che possiedono già naturalmente; basta quindi un po’
di formazione per risolvere i loro problemi. Non esiste la
necessità d’interventi strutturali, anche se la loro povertà
deriva dalla sostanza stessa del sistema neoliberista
(Neocleous cit. in Bracke, 2016).
Secondo questa critica, un soggetto resiliente sarà in grado
di sostenere le politiche di austerità e gli impatti delle scelte
neoliberiste, continuando a essere un individuo produttivo
che alimenta il sistema. La responsabilità si sposta quindi
dall’area sociale alla sfera individuale, la risoluzione del
disagio sociale viene attribuita alla responsabilità personale
attraverso una retorica neoliberista (Capello, 2019).
Nel corso della stesura di questo testo, ho imitato
Neocleous e ho effettuato una ricerca sul sito del FMI con la
parola chiave “resilience”. Sono risultati 14.090 documenti
separati in due categorie principali: 1) resilienza e disastri
(es. “Central America: Seeking Resilient Growth and Social
Cohesion in the Aftermath of Shocks” – “Sub-Saharan
Africa: Building Resilience to Climate-Related Disasters” –
“Sendai: A Tale of Natural Disaster, Resilience, and
Recovery”) e 2) incremento della resilienza (es. “IMF
Survey: Building Up Resilience in Low-Income Countries”).
La stessa chiave di ricerca impostata sul sito OCSE (Orga-
nizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico)
riporta 31.600 risultati, tra cui il termine “resilience
economy” sembra essere prevalente (es. “Economic
Resilience, Globalisation and Market Governance” –
44
“Fostering Economic Resilience In A World Of Open And
Integrated” – “EU-OECD Project on Promoting Economic
Resilience in Yemen”) anche se la parola “resilience” pare
sia associata a tutti i campi (“Strengthening Climate
Resilience Guidance for Governments and Development
Co-operation” – “Strengthening Agricultural Resilience in
the Face of Multiple Risks” – Resilient Cities – “Labour
Market Resilience The Role Of Structural And Macroeco-
nomic Policies” – “Good Governance for Critical
Infrastructure Resilience”).
L’insicurezza e la precarietà del capitalismo contempo-
raneo, insieme alla sfiducia dello Stato, vengono affrontate in
modo soggettivo attraverso la resilienza (Neocleous, 2013).
La resilienza viene strumentalizzata dall’ideologia neoli-
berista, che sottostà a una filosofia implicita in cui l’idea
delle relazioni umane è vista come competitiva, gli individui
quali consumatori, la libertà come espressione di una scelta
di acquisto o di rifiuto di un prodotto, all’oggettificazione di
ogni elemento commerciabile, e a un senso di giustizia del
“mercato” che premia i meritevoli. Le ineguaglianze sociali
sono percepite come utili a creare una ricchezza che,
secondo la visione neoliberista, dovrebbe propagarsi magi-
camente a tutti. Ogni intervento statale viene considerato
dannoso, perché altera quella formula alchemica che
trasforma in oro non solo il piombo, ma anche i pensieri, i
paesaggi, le emozioni. Forse, il contorsionismo più acroba-
tico del neoliberismo è quello di sgravare le spalle dei ricchi
dai sensi di colpa e mettere il peso della responsabilità su
quelle dei poveri. Viene raccontata una favola d’infinite
possibilità per tutti e tutte, con il benessere a portata di mano
il cui solo costo d’ingresso è la volontà e la determinazione
di accedervi. Capello (2019) osserva come i centri di forma-
zione e i centri per l’impiego diventino teatri di predica del
credo neoliberista: la mancanza di lavoro non dipende da
macrosistemi economici, ma dall’assenza di adeguata
formazione dei lavoratori.
45
Terminiamo questa sezione riportando un’osservazione di
Bracke (2016, p. 849) relativa al gender bias nell’idea della
resilienza: “Le vedove sono resilienti? Con tutta la sua
enfasi sull’elasticità e persino sulla duttilità, la resilienza
come concetto sembra, in larga misura, di genere femminile.
In questi tempi neoliberali, ci si aspetta che le vedove reagi-
scano alle nuove difficoltà, dopo il trauma, in modo tale da
non causare troppi disagi o problemi all’ambiente circo-
stante. Forse la resilienza è una modalità femminile di
sopravvivenza, e adattamento per eccellenza, profonda-
mente legato alla capacità riproduttiva”. Per l’autrice, la
resilienza rappresenta un nuovo codice morale che sfrutta le
nozioni di agency e individualità per produrre un’idea di un
soggetto capace di affrontare le condizioni precarie di un
sistema neoliberale. “Se il benessere economico fosse l’ine-
vitabile risultato del duro lavoro, ogni donna in Africa
sarebbe milionaria” (Monbiot, 2011).
2.4. Un’esperienza etnografica continua
Ho avuto la possibilità di esperire in prima persona
l’agency degli individui durante il mio lavoro nel continente
africano. Dal 2010, mi occupo di gestioni di crisi per varie
agenzie dell’ONU, in qualità di funzionario internazionale,
principalmente nell’Africa subsahariana. Questo lavoro ha
rappresentato un’“esperienza etnografica” continua, in cui
ho potuto essere osservatore partecipante in seno alle comu-
nità locali duranti eventi storici significativi. Non era
presente un’intenzionalità antropologica che presupponesse
un lavoro sul campo strutturato secondo una metodologia
consolidata, ma il vissuto esperienziale ha rappresentato per
me un’importante fonte di comprensione delle dinamiche
sottostanti ai contesti africani in cui mi sono trovato ad
agire. Il tipo di lavoro che ho avuto la possibilità di svolgere,
in quanto membro delle Nazioni Unite, mi ha esposto a
fenomeni culturali in contesti in cui un normale processo di
46
ricerca non sarebbe stato possibile, sia per l’inaccessibilità
dell’ambiente, sia per il livello di autorizzazioni necessarie
a operare in aree politicamente instabili e/o in continuo
conflitto armato. L’analisi qui presentata non ha quindi
pretese di completezza rispetto a una ricerca antropologica-
mente orientata, ma di complementarità in un panorama di
comprensione delle dinamiche sottostanti alla narrazione
dialogica del vissuto socio-culturale nel continente africano.
La Costa d’Avorio è stata la prima nazione dove ho
vissuto e per tre anni sono rimasto nella comunità baoulé a
Bouakè, nel Nord del Paese. Ero impiegato nella missione di
mantenimento della pace (DPKO - Department of Peace-
keeping Operations) che aveva lo scopo di conservare la
stabilità politica della nazione e facilitare il processo eletto-
rale. Era la mia prima esperienza in un Paese extra-europeo
e l’impatto culturale è stato notevole. Dedicherò una parte di
questo lavoro al mio periodo ivoriano, ma vorrei anticipare
il contesto con cui mi sono trovato a interagire. Nell’aprile
2010, quando sono atterrato nell’aeroporto Félix Houphouët
Boigny ad Abidjan, la mia prima sorpresa è stata la
mancanza di delimitazione degli spazi aeroportuali. Fino a
quel momento, il mio concetto di aerostazione era di un’area
divisa in zone ben demarcate: l’esterno, l’ingresso, il
check-in, i controlli di sicurezza, lo spazio interno, il depo-
sito bagagli, il gate e infine l’aereo. Un non-luogo secondo
la definizione di Marc Augé (1992), ben strutturato e con
regole chiare e rigide.
Invece, questi principi venivano meno nell’aeroporto
internazionale di Abidjan; appena uscito dall’aereo, mi
ritrovavo avvolto da un nugolo di postulanti (tassisti,
trasportatori di bagagli, venditori improvvisati, escrocs)
che normalmente si trovano all’esterno della struttura
aeroportuale. I controlli dei passaporti erano raffazzonati
in un bugigattolo di legno, ma si poteva entrare e uscire
47
dall’aeroporto anche evitando le ispezioni, talmente lo
spazio era fluido. I negozi presenti nell’edificio erano
abbandonati da anni e si notavano ancora i segni del
saccheggio. Evidenze di sparatorie rimanevano impresse
nei muri e nei vetri. La cacofonia era assordante e, fortu-
natamente, non ho avuto molto tempo di pormi domande
prima di essere sulla jeep dell’ONUCI (Opération des
Nations Unies en Côte d’Ivoire), in direzione del quartier
generale situato nell’hotel Sebroko, nella parte Ovest della
zona Le Plateau di Abidjan.
Da lì, il mio viaggio è proseguito in elicottero, visto che le
strade tra Nord e Sud del Paese erano interrotte sia per le
condizioni pessime del manto stradale, sia per la presenza di
ribelli e rapinatori lungo il tragitto. La densa foresta equato-
riale si trasformava in savana durante il mio volo ed ero
impressionato per la bellezza del territorio. Finalmente
giunto a Bouakè, mi sono trovato in una città devastata dalla
guerra, divisa in zone controllate da differenti chef de
guerre. La sera la città era avvolta dal buio, poiché i cavi
elettrici erano stati rubati per venderne il rame. Cumuli di
rifiuti si stagliavano sovrani in mezzo alla via principale,
sovrastati solamente dalle galline che vi razzolavano in
cerca di cibo. Gli odori erano intensi e nuovi per me, tutto
era una scoperta di universo differente. Bouakè è la seconda
maggior città in Costa d’Avorio, con una popolazione di
740.000 abitanti e una superficie di 71,79 km2. Tuttavia,
all’epoca del mio arrivo non vi erano più supermercati,
banche o servizi. L’unica possibilità di cambio era data dal
mercato nero in un negozio che vendeva bottiglie di gas.
Le strategie di sopravvivenza e di espressione di agency
della popolazione erano le più variegate, la mancanza di una
struttura formale di controllo e governo garantiva la flessi-
bilità necessaria per attuare soluzioni creative. Riempire una
bottiglia di benzina e rivenderla sul ciglio della strada diven-
tava un nuovo commercio possibile; così come occupare un
immobile semidistrutto per abitarci e allevarci galline,
48
rivendendo le uova al mercato; o addirittura bruciare i
copertoni usati delle auto per estrarne il materiale ferroso.
Nonostante la situazione piuttosto negativa, le persone
erano accoglienti e positive e le comunità baoulé, sénoufo e
malinké andavano d’accordo. Anche le differenze religiose
erano ben integrate (musulmani e cattolici). Con il tempo,
imparai che i bambini adottavano un sincretismo religioso
elettivo, festeggiando entrambe le più importanti giornate
del sacro: Eid al-Adha e Natale. La lingua franca, oltre il
francese, non perfettamente parlato da tutti, era il dioula, un
idioma del ramo mandingo, utilizzata al mercato e nelle
transazioni.
La situazione in Costa d’Avorio ha iniziato a deteriorarsi
gravemente dopo le elezioni del novembre 2010. Il presi-
dente sconfitto, Laurent Gbagbo, ha attuato quanto in suo
potere per rimuovere la missione dell’ONU dal Paese. Ha
imposto un embargo sulle materie prime al porto di Abidjan,
incitato la popolazione a sequestrare e incendiare le automo-
bili ONUCI e l’hotel Sebroko si trovava improvvisamente
accerchiato da tiratori scelti posizionati sugli edifici vicini. A
causa del deterioramento delle condizioni di sicurezza, la
nostra missione è stata costretta a evacuare prima le famiglie
e poi il personale verso la Gambia.
Mi sono così ritrovato in un contesto culturale differente,
costituito da gruppi etnici mandingo, fula, wolof. Banjul, la
capitale, era una città fortemente orientata all’industria turi-
stica per il Nord Europa, in particolare per le turiste
provenienti dalla Svezia. Durante i mesi trascorsi in
Gambia, ho incontrato parecchi uomini gambiani che cono-
scevano perfettamente la lingua svedese. Il sesso
transazionale tra i giovani del Gambia e le donne europee
era la norma nel Paese ed era interessante notare negli atteg-
giamenti e nelle strade uno stereotipo invertito nel turismo
sessuale. I giovani gambiani si trovavano inscritti nelle
forze della globalizzazione attraverso questo scambio
49
diretto con i Paesi del Nord Europa. Il governo dittatoriale
di Yahya Jammeh aveva creato i presupposti per attirare
capitali esteri, ma i giovani non erano certo passivi, sebbene
in balia di forze più grandi di loro. Anzi, le loro strategie di
adattamento e la loro agentività ottenevano un successo
rimarchevole.
In effetti, questa particolare espressione di agency aveva
risvegliato la mia curiosità antropologica e ho iniziato a
trovare informatori e intervistare la popolazione locale su
questa pratica. Ho raccolto informazioni da circa una
quarantina di giovani uomini, la cui età media era sotto i
trent’anni. Una trattazione esaustiva dell’argomento merite-
rebbe un testo a parte, ma ritengo interessante riportare
alcune osservazioni dirette. Innanzitutto, si tratta di una
specializzazione di settore in cui sono coinvolti un numero
estremamente elevato di giovani uomini di Banjul, un’area
economica che crea dei servizi ad hoc (si pensi ai luoghi di
divertimento) e che è integrata nel tessuto sociale del Paese.
Donne anziane e uomini giovani si trovavano sulla spiaggia,
negli hotel, nei bar, senza che vi fosse nessuno sguardo
curioso. La gioventù del Gambia esprimeva la propria agen-
tività attraverso la scelta della compagna e la qualità della
relazione. Ho particolarmente vivida un’immagine di una
coppia appena uscita da una discoteca multicolore e frastor-
nante di musica, come solo questi luoghi posso essere. Lei,
circa una settantina d’anni, capelli bianchi, un po’ curva
sotto il peso dell’età, abito di classe, che usciva dal locale
malferma sul suo bastone. Lui, un giovane vestito alla
moda, con i muscoli ben definiti evidenziati con cura, che a
malapena riusciva a frenare la propria energia per stare al
passo della signora e sorreggerla mentre ritornavano all’-
hotel dopo una serata a ballare (anche se avevo dei dubbi
che l’anziana claudicante avesse l’agilità necessaria per
dimenarsi sulla pista).
50
Ho trovato rilevante il legame affettivo che si forma
durante questo scambio di potere economico per gioventù
aitante. Certamente asimmetrico, ma comunque bidirezio-
nale. Le turiste tendevano a formare legami lunghi, fino a
sposare i giovani per permetter loro di ottenere il passaporto
europeo. Esisteva una forma di “caring” che si sviluppava
nel corso della relazione, non vi era l’illusione ingenua che
il rapporto fosse qualcosa di diverso da una transazione
mutualmente vantaggiosa, ma questo non impediva un reale
attaccamento affettivo. Anche per i giovani del Gambia vi
era un minimo grado di coinvolgimento, molto più stempe-
rato, forse più simile a una sincera amicizia. Certamente,
essi avevano un ridotto margine di manovra per manifestare
la loro agency, sicuramente molto meno di quanto ne aves-
sero le compagne europee; nondimeno, l’espressione di
volontà dei gambiani era comunque presente. Salomon
(2009) si occupa in maniera esaustiva del turismo sessuale
in Gambia.
L’espressione di agency in Gambia era comunque forte-
mente limitata da un governo dittatoriale e i sentimenti di
paura pervadevano lo spazio domestico. Nel periodo passato
a Banjul, non mi è stato possibile avere una conversazione
vagamente attinente alla sfera politica, perché immediata-
mente la voce dei miei interlocutori si abbassava e capivo
che li stavo spingendo in un argomento per loro pericoloso.
A seguito della mia buona performance durante la
gestione dell’evacuazione in Gambia, fui inviato a occu-
parmi delle conseguenze di un attentato di Boko Haram. Il
26 agosto 2011, nella capitale della Nigeria, Abuja, un’auto-
bomba esplose all’ingresso del palazzo ONU, causando 21
decessi e 60 feriti. Mi ricordo le putrelle di acciaio fuse
dall’intensità dell’esplosione e ancora mi domando come
l’edificio non fosse completamente crollato. Di quell’espe-
rienza, rammento un particolare episodio di resilienza. Dopo
51
aver partecipato ai funerali di stato, mi recai negli ospedali
per visitare i feriti e in uno di questi trovai un signore piut-
tosto anziano con la famiglia intorno. Mentre stavo
proponendo il mio supporto, il paziente si scoprì improvvi-
samente il torso, mostrandomi una lunga cicatrice spessa e
gonfia che saliva dall’inguine fino alla gola accompagnando
il suo gesto dal commento: “Guarda, mi hanno aperto come
io faccio coi miei polli!” seguito da una risata gioiosa per la
sua battuta. In seguito, mi chiese di fare una fotografia con
tutta la famiglia: lui sulla barella che arrivava a malapena a
muoversi, moglie e figli intorno con un sorriso sincero, io in
giacca e cravatta con uno sguardo tra il formale e il sorpreso.
Il contrasto tra la gravità della situazione e la leggerezza di
spirito con cui veniva affrontata mi colpì particolarmente,
non vi era disperazione, ma voglia di reagire nel migliore
dei modi con le risorse ancora disponibili.
Da quel momento, la mia specializzazione si è orientata
verso la gestione di crisi: l’attentato di Al-Shabaab
(Somalia, 2013), il rapimento di un collega (Repubblica
Democratica del Congo), la pulizia etnica (Sudan, 2014),
l’epidemia di Ebola (Liberia, Guinea, 2014), l’uragano
(Haiti, 2016), il terremoto (Messico, 2017), il colpo di Stato
(Sudan, 2021) e la guerra (Etiopia, 2021/22).
Il comune denominatore che mi ha sempre impressionato
in tutte queste emergenze, indipendentemente dal substrato
culturale, è stato l’espressione dell’agency e della resilienza
delle popolazioni coinvolte. Si attivavano delle energie e
un’azione sociale che contrastava con l’idea predominante
d’individui in balia degli eventi, passivi di fronte alle diffi-
coltà. Dopo un disastro naturale o una tragedia causata
dall’uomo, l’agency delle comunità si esprimeva in una rior-
ganizzazione con le risorse disponibili. Un negozio distrutto
da un uragano veniva prontamente rimpiazzato dalle strut-
ture improvvisate con il legno disponibile, pronti a
riprendere il commercio il giorno successivo al disastro.
52
Non percepivo un sentimento di rabbia, rassegnazione o
disperazione, piuttosto una volontà di reagire, una resilienza
ostinata di fronte a una serie di continue avversità.
Esperienze di agency a volte mi colpivano nei momenti
più inaspettati. A Goma (RDC) mi ritrovavo a cena al Lac
Kivu Lodge, dopo una giornata passata a risolvere tensioni
negli uffici della MONUSCO (Mission de l’Organisation
des Nations Unies pour la Stabilisation en République
Démocratique du Congo). Dato il periodo di nervosismi
nazionali ero l’unico cliente di un ampio ristorante con una
vista magnifica sul lago Kivu. Il crepuscolo avvolgeva i
2.700 km2d’acqua che separano la RDC dal Ruanda, le
acque erano calme, così come la città in quei giorni, e appro-
fittando della temperatura piacevole, i pavoni del Congo
(Afropavo congensis o mbulu in lingua kongo) razzolavano
tranquillamente nel parco dell’edificio. Il rilassante sotto-
fondo musicale del locale si armonizzava con i rumori del
leggero sciabordio d’acqua e della piacevole brezza rinfre-
scante, mentre gli insetti notturni iniziavano il loro canto. La
calma e il paesaggio sereno mi spingevano a riflessioni su
come il lago fosse simile alla situazione presente a Goma.
Ero ben consapevole del pericolo soggiacente alla condi-
zione politica della città e geologica del lago. Il primo
pronto a trasformare i precari equilibri in conflitti efferati e
il secondo contenente nel sottosuolo una quantità di metano
e anidride carbonica che avrebbero potuto asfissiare rapida-
mente i due milioni di persone che vivono sulle coste del
lago. Un “vento malvagio” (mazuku in swahili) che
potrebbe causare un disastro maggiore di quello avvenuto
nel lago Nyos del Camerun, dove il 21 agosto del 1986 un
mazuku spaventoso causò la morte di 1.746 persone e 3.500
animali, provocando ulcere e piaghe da decubito nei soprav-
vissuti.
Mentre ero immerso in questi accostamenti tra asfissia
politica e soffocamenti geologici, notai un movimento
53
nell’acqua e attraverso il lucore incerto dei riflessi distinsi
una figura umana che nuotava. Il movimento era incerto,
perché un pacco sulla testa, legato sotto il mento, rendeva la
nuotata difficile. Il suo incedere costante creava delle incre-
spature d’acqua che si disperdevano attraverso uno specchio
di stelle. Era una visione onirica.
Mi incuriosii e ne chiesi spiegazione al cameriere quaran-
tenne in livrea, che accolse la mia domanda con un sorriso
nostalgico. Mentre il delizioso aroma del sambaza
(Limnothrissa miodon) appena pescato e fritto sul posto
avvolgeva le mie narici, il mio interlocutore mi spiegò che
il precario natatore era un contrabbandiere in procinto di
trafugare prodotti attraverso il confine, un mestiere diffuso
tra i giovani di Goma. Lui purtroppo non poteva più eserci-
tare quell’attività vista l’età e iniziò a farsi avvolgere dalla
rêverie del suo passato, raccontandomi delle scorribande tra
il Ruanda e la RDC con la polizia che cercava di acciuffarlo.
Quanta malinconia aveva delle corse e delle nuotate che
aveva fatto! Mentre parlava, io pensavo alla fatica, alla
paura e alle costrizioni che richiedono una presa di rischio
di questo genere; lui, invece, rifletteva nostalgico su una
giovinezza perduta, sui successi economici del suo contrab-
bando, sulla sua abilità di affrontare il lago e i militari di due
nazioni.
Gli abitanti della RDC dimostrano quotidianamente la
loro agency in uno dei paradisi geologici del pianeta. L’im-
mensità della nazione (2,34 milioni di chilometri quadrati),
la ricchezza geomorfologica e le complesse politiche trans-
nazionali offrono una varietà di possibilità per esprimere
agency e resilienza.
Ne fui nuovamente testimone durante la mia visita al
monte Nyiragongo. L’imponente silhouette del vulcano
sembrava adornata da una serie di gemme scure che sorge-
vano dal terreno in modo ordinato. Avvicinandomi alla base
54
da cui sarebbe partita la mia esplorazione, mi resi conto che
non si trattava di pietre, ma di case il cui colore nerastro
rifletteva la struttura geologica dell’ambiente. La fusione tra
natura ed architettura era così fluida che il villaggio
sembrava un’estensione stessa della montagna.
Lo scopo della mia avventura era visitare il più grande
lago di lava al mondo, che si trovava contenuto nei due
chilometri del cratere centrale alla sommità del vulcano. La
spedizione era stata organizzata tra personale internazionale
ed accompagnata da guardie di sicurezza locali per proteg-
gerci contro i gorilla di montagna del parco dei Virunga.
Mentre la giungla si inspessiva e reclamava la nostra pista,
l’aria diventava fredda con un lieve odore di zolfo. Il
paesaggio lussureggiante mi affascinava ma la mia curiosità
restava; quindi, chiesi alla nostra guida maggiori delucida-
zioni sul colore delle abitazioni. Mi fu spiegato che a volte
il vulcano erutta e bisogna ricostruire gli edifici. Visto che
comunque cumuli di materiale lavico vengono espulsi perio-
dicamente, gli abitanti integrano la risulta nella costruzione
delle case, trasformando una furia vulcanica in un’opportu-
nità architetturale e danzando così in armonia con i ritmi del
luogo. La difficoltà della scalata fu infine premiata da un
lago rosso fuoco che tingeva la sera con toni infuocati.
Rocce grigiastre galleggiavano sulla superficie incande-
scente, muovendosi lentamente come avvolte da una
melassa. Sentivo un freddo pungente che contrastava perfet-
tamente il calore delle rocce fuse, brillanti nella notte.
Esplosioni, distruzioni, ri-costruzioni e azioni agentive
sembrano essere la cifra marcata dell’espressione di volontà
dei congolesi.
L’agency e la resilienza diventano una strategia e una
necessità, “una caparbia ostinazione della speranza” (Luzzo
D., 2022).
55
3. COSTA D’AVORIO
Dedicheremo questa sezione del lavoro al racconto dell’e-
sperienza di terreno sviluppatasi in Costa d’Avorio nel
periodo 2010-2013, principalmente a Bouaké, Yamous-
soukro, Korhogo, Bondoukou, nella parte Nord-Est del
Paese. Inizieremo con una presentazione del quadro storico
e proseguiremo con una narrazione di un episodio per illu-
strare uno dei modi in cui l’agency può esprimersi.
3.1. Quadro storico
Le prime informazioni storiche sulla Costa d’Avorio si
riferiscono agli imperi sudanici che controllavano la regione
e contribuirono alla diffusione dell’islam. Le cronache dei
carovanieri musulmani risalenti all’epoca romana riportano
un fiorente commercio di schiavi, oro e prodotti del terri-
torio (Handloff, Roberts and Library of Congress. Federal
Research Division, 1991).
Dopo il crollo di questi imperi, la popolazione dioula
fondò il regno kong nella parte settentrionale della regione.
Nello stesso periodo, il popolo akan fondò il proprio regno
(abron), che dominò definitivamente il popolo kong, intro-
ducendo in Costa d’Avorio sistemi politici altamente
centralizzati, prima assenti a causa della densità della
foresta pluviale e delle difficoltà di movimento. Le popola-
zioni più antiche sono i mandé (gouro, yacouba e gban), i
kru e i senufo. Prima dell’arrivo degli europei, la storia della
Costa d’Avorio fu caratterizzata da importanti Stati: l’im-
pero di Kong all’inizio del XVIII secolo nella regione
centro-settentrionale abitata dai senufo; il regno Bono di
Gyaman, fondato nel XVII secolo da un gruppo akan, gli
abron, fuggiti dall’impero ashanti in via di sviluppo nell’at-
tuale Ghana.
56
Bondoukou si sviluppò come un importante centro di
commercio e di diffusione dell’islam. A metà del XVII
secolo, nella parte centro-orientale, altri gruppi akan in fuga
dagli ashanti fondarono un regno baoulé a Sakasso e due
regni agni, indénié e sanwi (ibid.).
Il XVIII secolo vide le grandi migrazioni akan (agni,
baoulé, atié, abbey, ébriés, m’batto, abidji) nel Sud-Est e nel
centro del Paese, così come quella di altri gruppi malinké
(dalle rive del Volta Nero) e dal Sud degli attuali territori del
Mali e del Burkina Faso (Kipré, 2017). Queste migrazioni
causarono conflitti tra le popolazioni, ma permisero la crea-
zione di numerose alleanze politiche e matrimoniali, nonché
di molte alleanze basate sulla parentela per scherzo
(Kouadio Kouadio, 2003).
La parentela per scherzo, sinankunya in Mali, rakiré tra i
mossi del Burkina Faso, toukpê in Costa d’Avorio, dendi-
raagal tra gli salpulaaren, kalir o massir tra i serer, kal tra i
wolof, è una pratica sociale osservata in tutta l’Africa occi-
dentale, che permette, e talvolta obbliga, i membri della
stessa famiglia (come i cugini lontani) o i membri di alcuni
gruppi etnici a prendersi in giro o a insultarsi a vicenda,
senza conseguenze; questi scontri verbali sono in realtà
mezzi di risoluzione delle tensioni sociali (ibid).
Si tratta di “un gioco relazionale tra le etnie (samo - bisa -
mossi - gourounsi - peul - bobo -lobi - syenou). Si traduce
in uno scambio verbale che, per il tono e le attitudini aggres-
sive adottate, può risultare incomprensibile a chi non fa
parte della parentela scherzosa. Per esempio. Supponiamo
che un mossi incontri un samo e arrivino contemporanea-
mente davanti al banco di una venditrice di miglio, dopo
essersi scambiati i tradizionali saluti (cosa che dura diversi
minuti) il mossi con aria giocosa comincia a dire che
dovrebbe essere lui a essere servito per primo visto che fa
parte dell’etnia più numerosa. A quel punto il samo gli
risponde, che se non fosse stato per merito dell’etnia samo,
i mossi vivrebbero ancora sugli alberi e così via, finché la
57
venditrice divertita viene coinvolta nella baruffa. Di solito
visto che i toni si fanno, man mano più alti, accorrono
diverse persone che assistono compiaciuti a questa piccola
rappresentazione ma non solo, essi partecipano facendo il
tifo per l’una o l’altra etnia, così a volte, succede anche che
il Rakiré si estende a tutto il mercato. Ovviamente alla fine
tutti vanno a bere in un’atmosfera festosa il Dolo, la tradi-
zionale birra ottenuta dalla fermentazione del miglio” (Toe,
2006).
Radcliffe-Brown (1940) distingue due tipi di parentela per
scherzo: una asimmetrica, in cui una parte è tenuta a non
offendersi per le continue prese in giro dell’altra, e una rela-
zione simmetrica, in cui ciascuna delle parti si burla
dell’altra. “‘Il rapporto per scherzo è una singolare combi-
nazione di cordialità e antagonismo. Il comportamento è tale
che in qualsiasi altro contesto sociale esprimerebbe e susci-
terebbe ostilità, ma non è inteso in modo serio e non
dev’essere preso sul serio. C’è una finzione di ostilità e una
vera e propria cordialità. Per dirla in un altro modo, il
rapporto è di mancanza di rispetto consentita” (ibid, p. 196).
Il sistema di legami e conflitti intesse la Costa d’Avorio
dalle origini fino ai giorni nostri e i sistemi di alleanze che
si costruirono garantivano una stabilità sociale, affermando
la propria identità etnica e sociale e sfogando l’aggressività
latente. Si tratta di un regolatore di conflitti, a volte incom-
prensibile per chi non è pratico di questo scambio verbale
veemente in cui possono esprimersi oscenità e volgarità
normalmente interdette nelle interazioni sociali.
Non è difficile immaginare la poca comprensione che i
primi europei (portoghesi) che visitarono la zona ebbero di
queste pratiche e di come il tessuto sociale delle “relations
à plaisanteries” fu sconvolto nel 1842 quando i francesi
dichiararono la Costa d’Avorio un loro protettorato e
successivamente quando nel 1880, in seguito alla contesa
per l’Africa, fu introdotto il dominio coloniale francese
formale. (Fouéré, 2005).
58
Nel 1904, la Costa d’Avorio divenne parte dell’Africa
Occidentale Francese, e dovette attendere il 1960 per otte-
nere l’indipendenza. Il presidente fondatore fu Félix
Houphouët-Boigny soprannominato “Le vieux” da alcuni
ivoriani. Houphouët-Boigny rimase al potere per tutta la
vita, affidandosi al suo unico gruppo politico: il Partito
Democratico della Costa d’Avorio (PDCI). Trasferì la capi-
tale nel suo villaggio natale, N’Gokro, che fu ribattezzato
Yamoussoukro in onore della regina baoulé Yamousso,
prozia del presidente. La città fu pianificata a tavolino e
ospita la basilica Notre Dame de la Paix, la più grande opera
cristiana dopo la Basilica di San Pietro (il papa aveva
chiesto esplicitamente al presidente di tenere l’altezza infe-
riore alla chiesa di Roma). L’eccezionalità della costruzione
(130 ettari di superficie, capacità di accogliere 200.000
persone, 8.400 m2di vetrate, 14.000 m2di marmo italiano,
un totale di 600.000 m3di volume) ne fa un perfetto esempio
di cattedrale in mezzo al deserto, in quanto Yamoussoukro
non è mai diventata la capitale desiderata da Houphouët-
Boigny. Il centro delle attività è rimasto ad Abidjan, dove si
concentra la maggior parte della popolazione e i tentativi di
trasferire le funzioni del governo sono sempre andati a
vuoto. Si hanno quindi superstrade a tre corsie priva di auto-
mobili e una basilica, costruita grazie alle tecnologie
occidentali, che non ha mai raggiunto la sua piena capacità
nonostante sia costata il 6% del bilancio della nazione.
La Costa d’Avorio si trova così ad avere due capitali:
quella politica a Yamoussoukro e quella economica ad
Abidjan.
La partnership tra Francia e Costa d’Avorio rimase solida,
creando il modello della “Françafrique”, e fino al 1999 il
Paese rappresentò un esempio di crescita economica, solidità
e splendente democrazia. Abidjan veniva soprannominata “la
Parigi dell’Africa” e garantiva la stabilità dell’intera regione.
La guerra civile però divise il Paese, impoverendo il capi-
tale economico e culturale della Nazione e creando una crisi
59
di lunga durata che richiese il dispiegamento della missione
di pace delle Nazioni Unite. Nel 2010, entrai a far parte
dell’ONUCI come volontario, fornendo supporto psicoso-
ciale al personale civile e militare.
In quell’anno si tennero finalmente le elezioni. In prece-
denza, erano già stati compiuti sei tentativi di instaurare un
presidente democraticamente eletto, senza che fosse possi-
bile arrivare a un accordo.
Ricordo l’eccitazione dei funzionari internazionali per il
raggiungimento delle elezioni. Fui inviato in una località
remota nel mezzo della fitta vegetazione della Comoé per
garantire che il processo elettorale nel villaggio si svolgesse
con la dovuta diligenza. Nella notte, fui scortato dalle forze
militari del Bangladesh attraverso la foresta per fornire i
risultati e i documenti elettorali al centro di coordinamento
di Bouaké. La tensione fu davvero alta.
La Commissione elettorale indipendente del Paese (CEI)
riconobbe Alassane Ouattara come vincitore. Tuttavia, il
Presidente del Consiglio costituzionale dichiarò il risultato
non valido. Ho ancora vive le immagini della diretta nazio-
nale in cui un sostenitore di Gbagbo strappò i risultati dalle
mani del Presidente della CEI, distruggendoli. Gbagbo e
Ouattara prestarono entrambi il giuramento presidenziale e
si dichiararono presidenti della Costa d’Avorio.
Come spesso accade nelle nazioni dove numerosi gruppi
etnici sono presenti, il conflitto politico fu alimentato da
lotte etniche. Ouattara fu sostenuto dalla regione baoulé,
maggioritaria al Nord, Gbagbo d’altra parte ottenne l’ap-
poggio del gruppo akan e dalle popolazioni del Sud. È
complicato trovare il punto di origine di etnia e politica,
poiché questi due elementi sono reciprocamente interdipen-
denti.
Dopo intense discussioni con il palazzo di vetro a New
York, il Rappresentante Speciale del Segretario Generale
delle Nazioni Unite, Y.J. Choi, dichiarò il suo sostegno a
Ouattara. Una presa di posizione in linea con la comunità
60
internazionale, sostenuta da Francia, Stati Uniti, Unione
Europea, Unione Africana ed ECOWAS (Comunità Econo-
mica degli Stati dell’Africa Occidentale). Nonostante ciò,
Gbagbo si rifiutò di riconoscere la legittimità del nuovo
Presidente eletto e iniziò a prendere misure aggressive contro
le forze dell’ONU. Ordinò all’esercito di bruciare le nostre
automobili e alla popolazione di smettere di venderci cibo,
bloccò i nostri rifornimenti nel porto di Abidjan. Ci
trovammo costretti a sopravvivere con le razioni K (ho un
bel ricordo di quelle pakistane) e con l’acqua del nostro
accampamento. Il personale ONU dovette rifugiarsi negli
uffici dell’hotel Sebroko, dormendo in ufficio, con i cecchini
dell’ex presidente sui tetti intorno alle nostre finestre.
Dopo quattro mesi di combattimenti, le forze di Ouattara
ottennero il controllo della capitale, grazie all’essenziale
intervento militare francese. Gbagbo fu arrestato nell’aprile
2011 Ouattara fu nuovamente eletto nel 2015. Nel 15
gennaio 2019, Laurent Gbagbo fu assolto dalla Corte Penale
Internazionale dell’Aia dalle accuse di crimini contro l’uma-
nità di cui era accusato.
3.2. Esprimere la propria agency
La Costa d’Avorio è stata la mia prima esperienza africana
ed extra-europea, particolarmente significativa per il
contesto storico in cui mi sono trovato a operare. Dopo
pochi mesi dal mio arrivo, la situazione era completamente
degenerata e il Paese si trovava in uno stato di guerra civile
aperta in cui la nostra sicurezza non era più garantita.
Secondo le regole DPKO, una Nazione che desidera una
missione di pace deve farne espressa richiesta e deve assi-
curare i mezzi necessari a proteggere il personale dell’ONU.
Dopo la sconfitta di Gbagbo, validata dall’ONUCI, il presi-
dente uscente decise di annullare il risultato elettorale e
mantenere il potere con la forza. Gli scontri ad Abidjan
causarono 3.000 morti e i cadaveri venivano abbandonati
61
sul ciglio delle strade. Durante uno dei miei viaggi verso
Bouakè dopo una missione ad Abidjan, mi imbattei in un
corpo in mezzo alla strada asfaltata, sotto un sole cocente.
Le mani legate dietro la schiena con delle fascette ferma-
cavo, in ginocchio e riverso sul viso con un largo buco sulla
tempia coperto dalle mosche. Un’esecuzione sommaria
sulla superstrada, deserta di automobili.
Eppure, anche in quel contesto le persone riuscivano a
continuare la propria vita, a volte con scene paradossali,
come quando gli ospiti dell’hotel dove risiedevo si affaccia-
vano ai vetri della hall per vedere i soldati sparare. Non il
comportamento più indicato, la scena poteva sembrare
quella di un film, ma le pallottole erano reali e i vetri
semplici non offrano una grande protezione contro le armi.
Dei vari episodi di agency vissuti nel mio periodo
ivoriano, ne vorrei condividere uno in particolare. Mi
trovavo a San Pedro, nell’area, un tempo turistica, delle
spiagge. Era un periodo di tregua e il cessate il fuoco era in
vigore. La giornata era stata particolarmente impegnativa e
avevo il desiderio di distrarmi. Sono quindi uscito a cercare
un luogo con gente e musica. Una volta passato l’ingresso
del locale, mi sono ritrovato una scena un po’ grottesca. Il
luogo era affollato, piuttosto moderno, con un’ampia pista
gremita di giovani intontiti dalla musica diffusa oltre le
soglie del tollerabile e dalle luci psichedeliche. Non
sembrava di essere in un Paese coinvolto in una guerra
civile, ma in un luogo di divertimenti della riviera roma-
gnola. In mezzo alla sala piena di gente che ballava, c’era un
giovane soldato/mercenario/ribelle attorniato da bottiglie di
alcool vuote e ragazze appariscenti.
L’adolescente in questione era completamente accoccolato
sul suo kalashnikov, dato il tasso alcolemico che aveva nel
sangue. La mia presenza europea ha suscitato un certo scal-
pore e il giovane, barcollando, è venuto a parlarmi molto
allegramente sventagliando la sua arma come se fosse la
bacchetta di un direttore d’orchestra. Gli altri avventori si
62
comportavano come se la situazione fosse perfettamente
normale, senza mostrare segni d’inquietudine per l’equa-
zione kalashnikov + alcool + gente che nei miei calcoli
equivale a strage. Ho quindi invitato cortesemente il mio
interlocutore a continuare il discorso fuori dalla sala, anche
perché il Coupé Décalé a tutto volume e il movimento ipno-
tico del fucile non aiutavano la mia concentrazione sulle
parole che il militare mi stava dicendo con molta passione.
Ero sicuro che volesse un contributo economico, ma lui non
voleva essere troppo diretto e a me non sembrava prudente
cedere immediatamente del denaro senza avere nulla in
cambio. Abbiamo così intavolato una discussione un po’
generale sul lavoro (il suo era quello di sparare per soldi), i
metodi di corteggiamento, la musica, le bellezze della Costa
d’Avorio, mentre io mi sforzavo di guardarlo negli occhi e
non focalizzarmi sulla punta dell’arma, perfettamente ango-
lata per distruggermi le ginocchia. Aveva una certa
esperienza di conflitti, avendo iniziato il mestiere piuttosto
giovane verso i 13 anni. Secondo lui aveva scelto un lavoro
sicuro, dato che un guerrigliero serve sempre ai governi. Era
anche riuscito a studiare un po’ tra un’azione e l’altra e in
effetti il suo modo di esprimersi indicava una forma di
educazione. Era cordiale e allegro, probabilmente l’alcool
manteneva alto il suo morale visto che il suo lavoro
sembrava essere alquanto stressante.
Mi raccontava la sua vita molto tranquillamente, si chia-
mava Yao ed era originario di un villaggio vicino a
Yamoussoukro. Conoscevo già le usanze baoulé di chiamare
i bambini secondo il giorno della settimana in cui sono nati;
perciò, gli dissi che il venerdì era un bel giorno per nascere.
Era particolarmente contento che un ”bianco” conoscesse la
sua cultura. Il discorso è scivolato naturalmente sulle armi e
Yao era estremamente soddisfatto del suo AK-74 che giudi-
cava un buon strumento di lavoro, il cui costo era stato
ammortizzato più volte. In effetti la serie di fucili d’assalto
inventate da Mikhail Kalashnikov è particolarmente affida-
63
bile, armi di facile manutenzione, robuste, semplici da ripa-
rare e che possono operare in tutte le condizioni di terreno.
Sapevo dai miei colleghi che lavoravano nella sezione DDR
(Disarmament, Demobilization and Reintegration) che
l’unico modo per rendere sicuramente inoperante un’arma
del genere era di troncarla in tre pezzi.
Visto l’orientamento del discorso, mi è sembrata una
buona occasione per proporre a Yao uno scambio, se mi
faceva provare il suo fucile gli avrei offerto un contributo
per continuare a bere. Era una forma elegante per farmi
estorcere del denaro senza offenderlo nell’identificarlo
come estorsore. Molto entusiasticamente, Yao si tolse
l’arma da tracolla e me la porse.
Considerando la naturalezza con cui maneggiava il fucile
d’assalto e confidando sulla mia capacità muscolare, non mi
aspettavo particolari difficoltà nel sorreggere l’arma. La
realtà si dimostrò più pesante delle mie idee e la situazione
precaria con cui cercavo di raddrizzare il suo “kalash” diede
una sferzata di sobrietà al giovane mercenario che alacre-
mente si prodigò per alleggerirmi del fardello. Dopo
qualche battuta sul fatto che i “bianchi” non sanno maneg-
giare le armi, la nostra trattativa si concluse e con calma mi
allontanai dal luogo, dopo aver consigliato al giovane di fare
altrettanto visto l’ora tarda (continuavo a pensare alla quan-
tità di persone stipate nel locale che difficilmente avrebbero
potuto evitare le pallottole se il buon Yao fosse inciampato,
dimenticando d’inserire la sicura a causa della sbronza). A
discolpa della mia precaria prestazione militare, devo ripor-
tare che il ragazzo aveva aggiunto con lo scotch due altri
caricatori a quello già presente, probabilmente per avere una
capacità di fuoco maggiore e un cambio di pallottole il più
rapido possibile. Certamente questo influiva sul peso e sulla
precisione, ma il numero di colpi possibili con quell’arti-
giana soluzione compensava sicuramente una riduzione
dell’accuratezza. D’altra parte, secondo il mio armato inter-
locutore, in molte situazioni le armi di questo genere devono
64
generare confusione e paura, a discapito del numero di
vittime.
Di questo episodio, oltre ad aver ritenuto che un kalash-
nikov pesa troppo per le mie braccia, mi è rimasto impresso
il vissuto di normalità che il resto della sala aveva della
situazione. Va bene che l’esperienza del reale è soggettiva,
ma ballare, corteggiare e chiacchierare in una situazione del
genere mi sembravano alquanto fuori luogo. L’unica spiega-
zione che trovai per questo comportamento è che
quell’evento era stato integrato dagli astanti come una
“normale” routine. Un paesaggio del quotidiano, anche se
carico di piombo.
La violenza strutturale era così presente nella loro vita
quotidiana che la loro agentività si esprimeva nella norma-
lizzazione di una situazione assurda, non vedendo il
pericolo ma vivendo la loro vita nel quadro limitato della
guerra civile ed esprimendo la propria condotta attraverso
interazioni del quotidiano.
Il ragazzo mercenario aveva attuato la sua agency nella
ricerca di un lavoro che rappresentasse una fonte sicura di
reddito, in base alle opportunità fornite dall’ambiente.
I clienti del locale avevano invece realizzato la propria
agentività nei riti del quotidiano, nel mantenere per quanto
possibile un aspetto di normalità in un mondo fuori dal loro
controllo. Se non avevano alcun potere di orientare il
conflitto, essi mantenevano ancora la scelta di uscire con gli
amici, corteggiare l’altro sesso e bere una Castel (la birra
prodotta dalla Solibra in Costa d’Avorio) ascoltando
musica. Un’espressione di scelta fortemente voluta che
nemmeno il rischio di un soldato armato ubriaco poteva
annullare.
65
4. LIBERIA
Dopo aver visto una crisi man-made come quella della
Costa d’Avorio, proseguiremo con un esempio di agency in
un contesto di crisi epidemiologica, quindi di origine natu-
rale.
L’epidemia di Ebola del periodo 2014-2015, mi ha visto
coinvolto in prima persona nelle fasi iniziali delle strategie
di contenimento del virus, principalmente a Monrovia. La
sfiducia nei sistemi sanitari occidentali, una conseguenza
delle politiche coloniali analizzate precedentemente, l’im-
patto dei piani strutturali imposti dalle istituzioni
economiche di Bretton Woods e una gestione etnocentrica
delle misure di salute pubblica hanno fortemente contribuito
alla diffusione della malattia.
4.1. Quadro storico
Le popolazioni presenti originariamente nell’area furono i
deys, i bassa, i kru, i gola e i kissi a cui si aggiunsero le
migrazioni risultanti dal declino dell’impero del Mali (1375)
e dell’impero songhai (1591) (Dunn-Marcos et al., 2005).
I primi contatti con degli europei avvennero nel XIV
secolo. Nel 1461 il navigatore portoghese Pedro de Cintra
raggiunse le coste della zona che denominò Costa del Pepe
(o Costa di Melegueta) a causa dell’abbondanza di Afra-
momum melegueta, una spezia apprezzata per il suo sapore
pungente. Alla fine del XVI secolo gli olandesi subentra-
rono nel commercio e lo scrittore Olfert Dapper riporta che
la popolazione locale aveva un elevato sistema sociale e
politico, le cui istituzioni ricordavano quelle dell’impero del
Sudan (ibid).
La competizione per il controllo dei mercati, specialmente
tra l’area interna e quella della costa, generò dei conflitti
66
interetnici che coinvolsero le popolazioni mandingo e gola.
All’apice di questi scontri, nel 1822, iniziò l’immigrazione
afro-americana nella regione.
La Liberia, sotto il patrocinio americano, divenne un
progetto di reinsediamento per una parte degli individui che
erano stati liberati dalla schiavitù. L’American Coloniza-
tion Society, in particolare, promosse il ritorno in Africa di
questi schiavi affrancati. Tale esigenza emergeva dal
crescente numero di persone emancipate non integrabili nel
tessuto sociale statunitense, essendo considerate una razza
inferiore. Inoltre, i possidenti americani temevano una
potenziale ribellione da parte di questi ex schiavi; pertanto,
gli afro-americani erano fortemente incitati a emigrare. Tra
il 1822 e il 1861 circa 15.000 ex schiavi si stabilirono in
Liberia, sviluppando una loro cultura modellata su quella
originaria americana (ne sono un esempio la bandiera e la
capitale, Monrovia, chiamata così in onore del quinto presi-
dente americano James Monroe). Questo flusso migratorio
creò aperti contrasti con le popolazioni indigene, risultando
in numerosi conflitti, in particolare con i gruppi bassa, dey
e gola.
Il 26 luglio del 1847 la Liberia divenne il primo stato
africano a dichiarare l’indipendenza, ma dovette attendere
fino al 5 febbraio 1862 per ottenere il riconoscimento uffi-
ciale dagli Stati Uniti. Joseph J. Roberts venne eletto come
primo presidente della Repubblica Indipendente della
Liberia. La nazione riuscì inoltre a mantenere la propria
autonomia durante la partizione europea dell’Africa avve-
nuta nel 1888.
Il sistema sociale si strutturò seguendo un modello basato
sulle differenze gerarchiche correlate al colore della pelle,
simile a quello americano nel periodo precedente alla guerra
civile. Tonalità di colore più chiaro erano associate a una
posizione più elevata nella società, garantendo accesso a
cariche politiche di rilievo. Le divisioni di status tra i libe-
riani si evolsero in un sistema gerarchico di caste con
67
quattro ordini distinti. Al vertice c’erano i funzionari
americo-liberiani, costituiti in gran parte da persone di
carnagione chiara di ascendenza mista bianca e nera
(“mulattos”). Seguivano gli americo-liberiani di pelle più
scura, composti per lo più da braccianti e piccoli agricoltori.
Poi c’erano i ricatturati (“congos”), gli africani che erano
stati salvati dalla marina statunitense mentre erano a bordo
di navi negriere dirette negli Stati Uniti e portati in Liberia.
In fondo alla gerarchia c’erano gli indigeni africani liberiani
(Karnga, 1926).
“Sembra impossibile ignorare il ruolo chiave che il colore
ha avuto nella storia politica e sociale della Liberia.” (Dunn-
Marcos et al., 2005). Le segregazioni sociali hanno
caratterizzato la storia del Paese. I matrimoni tra gruppi
differenti erano interdetti, solamente i “mulattos” avevano
l’accesso a un’istruzione di qualità. Questa élite manteneva
il potere politico e risiedeva nella capitale, Monrovia. Come
esempio dell’impatto della divisione in classi sociali si
consideri che la popolazione indigena, la casta più bassa,
ottenne il diritto di voto solamente nel 1946, un secolo dopo
la dichiarazione d’indipendenza della Liberia.
“I discendenti degli schiavi liberati, generalmente noti
come americo-liberiani, mantennero il controllo sociale e
politico del Paese fino al 1980” (Dennis, 2006, p. 2). In
quell’anno, Samuel K. Doe guidò un colpo di Stato che
consegnò il potere al Consiglio di Redenzione del Popolo
(PRC), che rimase l’unico partito al potere fino al 1985. Doe
mantenne la sua posizione fino alla prima guerra civile libe-
riana (1989-1996) e alle elezioni del 1997, quando Charles
Taylor fu dichiarato vincitore. La pace, tuttavia, non perdurò
e un secondo periodo di guerra civile (1997-2003) travolse
il Paese fino all’istituzione della missione UNMIL (United
Nations Mission in Liberia) “per sostenere l’attuazione
dell’accordo di cessate il fuoco e il processo di pace; proteg-
gere il personale, le strutture e i civili delle Nazioni Unite;
sostenere le attività umanitarie e di tutela dei diritti umani;
68
assistere la riforma della sicurezza nazionale, compresa la
formazione della polizia nazionale e la formazione di un
nuovo esercito ristrutturato” (UNMIL - United Nations
Peacekeeping, 2022).
La Liberia ebbe le prime elezioni libere nel 2005 e nel
gennaio 2006 fu eletta Ellen Johnson-Sirleaf. “La Liberia ha
avuto il singolare onore di eleggere, nel 2006, il primo capo
di Stato donna dell’Africa. Uno dei fantasmi che ha dovuto
esorcizzare, Charles Taylor, ex leader dei ribelli e presi-
dente, è sotto processo all’Aia per crimini di guerra” (Reid,
2011, p. 489).
Nel 2015, data la fragilità del sistema sanitario liberiano,
il Paese fu colpito da una virulenta epidemia. “Prima dello
scoppio dell’epidemia di Ebola, la Liberia lottava con un
sistema sanitario molto debole, devastato e indebolito da
una lunga guerra civile. Aveva solo 50 medici per i suoi 4,3
milioni di abitanti, con scarse capacità di risposta a un’epi-
demia di quella portata [...] Alla fine dell’epidemia, sono
stati registrati 4.810 decessi su 10.678 casi confermati in
Liberia. L’epidemia ha avuto un impatto grave e devastante
sul sistema sanitario della Liberia, compresi il personale
sanitario e la catena di approvvigionamento. Ha bloccato i
progressi in tutto il settore sanitario, compresi quelli verso il
raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
Ha causato una decelerazione dei progressi nella riduzione
della mortalità, in parte dovuta ai decessi causati diretta-
mente dall’Ebola” (Fall, 2019, p. 1).
La crisi sanitaria fu inoltre esacerbata dalle politiche strut-
turali del FMI, che spinsero i governi dell’Africa dell’Ovest
alla riduzione degli investimenti in salute pubblica. I piani
di aggiustamento impedirono l’assunzione di nuovo perso-
nale medico e resero difficile mantenere i dipendenti sanitari
già in servizio. (Stubbs et al., 2017). Inoltre, la decentraliz-
zazione dei servizi richiesta dal FMI rese complicata una
coordinazione centralizzata per affrontare la pandemia
(Kentikelenis et al., 2015).
69
Abdullah et al. (2017) identificano come i piani di aggiu-
stamento strutturale del FMI e della Banca Mondiale si
unirono alla corruzione, alla mancanza di un’adeguata
governance e al clientelismo per ridurre le capacità del
sistema sanitario. L’assenza di risorse e di staff rendeva
complicata una risposta adeguata alla pandemia.
Riprenderemo verso la conclusione del nostro elaborato il
discorso sulla relazione tra direttive tecniche promosse dal
FMI e conseguente deterioramento del sistema sanitario
africano.
Durante la stesura di questo lavoro, ho consultato una
ventina di articoli accademici di taglio antropologico sulla
pandemia nell’Africa Occidentale (pubblicati su riviste
come Anthropological Quarterly, Journal of Humanitarian
Affairs, Africa Today, Annual Review of Anthropology,
African Affairs, etc.), trovando delle similitudini rilevanti
nella letteratura. Come anche osservato da Moran (2017), i
ricercatori provengono dal Global North, sono principal-
mente europei o americani, di una classe sociale medio-alto
borghese, tendenzialmente giovani adulti.
In particolare, mi ha stupito la completa mancanza di
menzione della missione UNMEER (United Nations Ebola
Emergency Response) negli articoli scientifici che ho
consultato. Le analisi spaziano dal micro-livello comuni-
tario (Moran, 2017; Marcis et al., 2019; Pellecchia, et al.,
2015; etc.) al macro-livello delle politiche internazionali
(Wilkinson e Leach, 2015; Richardson, McGinnis e Frank-
furter, 2019; Sirleaf, 2018; Hirschfeld, 2017; Desclaux e
Anoko, 2017; etc.), cercando comunque di dare una visione
olistica delle dinamiche soggiacenti alla propagazione del
virus. Eppure, non vi è alcuna menzione di una missione
ONU durata dal 19 settembre 2014 al 31 luglio 2015, il cui
scopo era di coordinare le azioni dell’OMS e degli altri
attori internazionali in gioco. Strutturata come una missione
di pace (DPKO), l’UNMEER promosse azioni che ebbero
un impatto regionale sulla prevenzione dell’Ebola. Da una
70
parte la presenza di questa missione mostra come il Segre-
tario Generale perse fiducia nella capacità dell’OMS (citata
invece più volte negli articoli consultati) di gestire la crisi
sanitaria, dall’altra indicò la gravità della pandemia.
L’Ebola fu l’unica altra malattia dopo l’HIV a essere consi-
derata una minaccia per la sicurezza internazionale,
richiedendo l’intervento del Consiglio di Sicurezza ONU.
La missione, inoltre, legittimò un intervento militare “che fu
altamente inefficiente e, nella migliore delle ipotesi, mode-
ratamente efficace. Il governo statunitense inviò la 101ª
Divisione Aviotrasportata in Liberia, un’azione che fu prin-
cipalmente simbolica. La conseguente militarizzazione della
risposta nazionale sia in Liberia che in Sierra Leone si rivelò
controproducente sia in termini di gestione della malattia sia
per quanto riguardò le libertà civili.” (World Peace Founda-
tion, 2017).
Una ricerca del termine “UNMEER” nella biblioteca di
ateneo dell’Università di Torino ha riportato 63 risultati, di
cui circa la metà provenienti dallo stesso giornale (AllA-
frica.com) e nessuno da una rivista antropologica.
Personalmente, mi sembra un’enorme “svista” da parte della
comunità accademica, considerando che la missione è stata
approvata da 130 Paesi con la risoluzione 69/1 (23
settembre 2014), con i precisi obiettivi di bloccare l’Ebola,
curare le infezioni, assicurare i servizi essenziali, preservare
la stabilità e prevenire la diffusione dell’Ebola nei Paesi non
ancora coinvolti. Le sue attività principali si sono concen-
trate sulla gestione dei malati, sulla sepoltura sicura e
dignitosa delle vittime di Ebola, sulla formazione, sulla logi-
stica e sul sostegno alle risposte dei governi e delle
organizzazioni non governative (ONG)6. La missione si
installò ad Accra (Ghana) e fu finanziata con un budget di
149,77 milioni di dollari (MPTF Office, 2014). 107.000 m3
di materiale logistico furono trasportati dall’UNMEER e i
piani di azione, prevenzione ed educazione comunitaria
influirono enormemente sulla vita delle popolazioni:
71
“Gli abitanti del villaggio di Thigbonor, nel chiefdom di
Lokomasama, lavorano insieme il giovedì e la domenica per
attuare il piano d’azione comunitario che hanno elaborato e
che è esposto con orgoglio su una bacheca al centro del
villaggio. Le priorità iniziali sono il progetto agricolo per
rilanciare la produzione di cibo, un blocco di servizi igienici
e un programma per incoraggiare la pratica continua del
lavaggio delle mani come protezione contro l’ebola e altre
malattie mortali”7.
L’impatto che la missione ebbe sulle comunità locali e sui
governi fu sicuramente rilevante nella riduzione della
malattia, nella costruzione delle reazioni delle popolazioni
locali e delle pratiche tradizionali. Uno degli scopi della
missione fu quello di creare procedure funebri sicure e
dignitose che rispettassero le pratiche locali. Moran (2017)
sottolinea l’importanza e la centralità di riti funerari appro-
priati e rispettosi, ma mentre analizza l’operato dell’OMS,
di Medici Senza Frontiere, della CDC (Centers for Disease
Control and Prevention), non menziona che il raggiungi-
mento di pratiche funerarie che potessero integrare misure
di salute pubblica e rispetto della comunità fu anche uno dei
pilastri della missione UNMEER. L’autore propone un’inte-
ressante analisi di come tali rituali funebri dovrebbero
essere considerate non solamente rituali, ma anche come un
processo di lutto inserito nella vita umana e la cui espres-
sione permette l’elaborazione delle emozioni. Così, la
rabbia espressa contro gli attori internazionali e i conflitti
che si crearono possono essere interpretati, secondo Moran,
come una delle cinque fasi del lutto proposte da
Kübler-Ross (1969) e non solamente un atto di resistenza
della popolazione come indicato da Pellecchia (Pellecchia et
al., 2015). Un’analisi sicuramente affascinante, ma che
potrebbe aver avuto un livello di completezza maggiore se
avesse preso in considerazione l’influenza che la sovrastrut-
tura rappresentata da UNMEER ha avuto nelle pratiche
sociali e rituali delle popolazioni.
72
La crisi derivante dall’Ebola nasce dall’incontro di aree di
esclusione e d’ingiustizia, lungamente presenti nel sistema
economico, sociale, tecnico, discorsivo e politico. Queste
molteplici invalidità sono confluite in tre ulteriori aree di
“debolezza”, ovverosia “la risposta alle epidemie e del
governo sanitario globale, di sistemi sanitari e politiche di
sviluppo compromessi e d’ipotesi e miti fuorvianti”
(Wilkinson e Leach, 2015, p. 137). Il discorso sulla violenza
strutturale dev’essere inscritto nel quadro storico della
regione e delle economie globali che hanno posto le basi per
una sfiducia nei governi, spesso incapaci di offrire i servizi
di base. Wilkinson e Leach legano la diffusione del virus
alle numerose ineguaglianze, alla vulnerabilità e all’intera-
zione d’istituzioni interconnesse (ibid.).
4.2. Esprimere la propria agency
Nel 2014 sono stato inviato a Monrovia per seguire l’epi-
demia di Ebola, in una situazione incerta e caotica in cui la
mancanza d’informazione era la norma. L’Ebola è un virus
RNA, identificato per la prima volta nel 1976 durante due
epidemie concomitanti: una nella città di Nzara (Sud Sudan)
e l’altra a Yambuku (RDC), nei pressi del fiume Ebola, da
cui l’agente patogeno deriva il nome. La malattia raggiunge
punte di mortalità del 90% e si trasmette attraverso il
contatto con fluidi corporei contaminati come sangue,
sudore, urine e feci di persone contagiate, sia viventi che
decedute. In particolare, il virus può mantenersi diversi mesi
nel latte materno o nel liquido seminale anche dopo un’e-
ventuale guarigione. Si può propagare anche per diretto
contatto con superfici contaminate da materiale organico
infetto. I sintomi insorgono dai due giorni alle tre settimane
dopo l’esposizione al materiale infetto e includono febbre,
mal di testa, dolori muscolari, secchezza delle mucose della
gola, seguiti da diarrea, vomito, eruzioni cutanee e collasso
dei sistemi renale ed epatico, con conseguente sanguina-
73
mento interno ed esterno, e perdita di sangue attraverso la
pelle e la sclera degli occhi. La morte è causata dalla perdita
massiva di fluidi, tra sei e sedici giorni dopo la manifesta-
zione dei sintomi. Il virus si propaga solamente quando i
sintomi sono evidenti e si trova endemico nei Pteropodidae,
una famiglia di pipistrelli del sottordine dei Megachirotteri.
Questi animali convivono con l’Ebola senza esserne conta-
giati, contribuendo tuttavia alla sua diffusione. L’infezione
può essere trasmessa all’uomo attraverso il contatto con
animali selvatici contaminati dai pipistrelli: questo metodo
di propagazione è considerato l’ipotesi più probabile dell’o-
rigine della zoonosi. Le misure di prevenzione includono
una rapida identificazione della catena di trasmissione, l’ac-
cesso ai servizi sanitari, l’isolamento dei casi sospetti e la
cremazione dei corpi dei deceduti.
Una stima per eccesso riporta circa 94.000 casi di Ebola
durante l’epidemia nell’Africa dell’Ovest, la cui diffusione
è stata agevolata da un sistema sanitario disfunzionale,
estrema povertà, sfiducia nei governi e nei sistemi medici
extra-africani, ritardo nella risposta, errata informazione,
pratiche di sepoltura tradizionali e politiche neoliberali in
cui la sanità viene mercificata diventando una responsabilità
individuale (Wilkinson e Leach, 2015). Il 10% dei decessi
avvennero tra operatori del sistema sanitario, contribuendo
a indebolire ulteriormente le strutture ospedaliere. L’epi-
demia raggiunse anche l’Inghilterra, l’Italia, la Spagna e gli
Stati Uniti, e l’attenzione mediatica risultante comparteci-
pava alla diffusione del panico.
A Monrovia la situazione era particolarmente tesa a causa
della mancanza di strutture mediche adeguate. Le persone
infette scappavano dagli ospedali per trovare cibo al
mercato locale, dato che l’alimentazione loro offerta era
insufficiente per il sostentamento. Inoltre, i cittadini attacca-
vano il personale dell’OMS dal momento che il protocollo
sanitario richiedeva la cremazione dei defunti (l’Ebola è
altamente contagiosa se il cadavere non viene incenerito),
74
impedendo le cerimonie di sepoltura appropriate. Il perso-
nale sanitario straniero era percepito come “alieno,
oppressivo ed egoista” (Wilkinson e Leach, 2015, p. 144).
L’epidemia creava un senso di ansia in un Paese che ha
dovuto affrontare la paura per la maggior parte della sua
storia. Nonostante la situazione caotica, la popolazione
aveva dimostrato una grande capacità di resilienza, inte-
grando le misure sanitarie nella vita quotidiana. Era una
situazione simile all’attuale epidemia di Covid-19 in cui,
pur essendoci comportamenti irrazionali, c’erano alcuni
“eroi” pronti ad aiutare e la vita quotidiana continuava. L’at-
tenzione mediatica internazionale sulla Liberia era alta,
perché si erano registrati casi di Ebola in Europa e in
America. La probabilità di una pandemia globale era
elevata.
Una crisi sanitaria di tale portata è sempre anche una
“pandemia psicologica-culturale” (Luzzo, 2022), perché la
diffusione del virus si avvantaggia degli elementi psicolo-
gici e culturali. In questo particolare caso, l’assistenza
umanitaria offerta dalla comunità internazionale non ha
tenuto conto del contesto storico e culturale della Liberia.
“L’intervento umanitario dev’essere bilanciato con i diritti
dei governi africani a un’autentica libertà d’azione e alla
responsabilità per il benessere dei propri popoli” (Reid,
2011, p. 587). Le misure sanitarie erano imposte senza
alcuna partecipazione da parte dei cittadini liberiani. Si trat-
tava di un modello sanitario della civiltà occidentale inflitto
a un Paese africano come reazione alle preoccupazioni per
la probabile diffusione del virus in Europa e America.
In tale contesto l’agency della comunità liberiana si è
espressa come opposizione agli attori internazionali.
Durante la mia permanenza nella missione UNMIL, mi
sono reso conto della necessità di un supporto psicologico
per gli agenti UNPOL (United Nation Police) che lavora-
vano all’interno nell’istituto penitenziario. Le forze UNPOL
hanno il compito d’integrare la forza di polizia nazionale, a
75
volte inesistente a volte impreparata. In Liberia una delle
loro funzioni era quella di agire come agenti giudiziari
all’interno della prigione centrale di Monrovia. Al di là delle
condizioni di per sé stressanti di una prigione africana
(sovraffollamento, mancanza di servizi igienici essenziali,
violenza, etc.), gli operatori di sicurezza si ritrovavano a
gestire la paura di essere contagiati dal virus Ebola. Ovvia-
mente non era possibile mantenere dei protocolli di
sicurezza adeguati ed evitare tutti i contatti fisici, vista la
dimensione ristretta dei corridoi sovraffollati. Ho condiviso
una giornata di lavoro dei miei colleghi poliziotti ed è stato
estremamente difficile evitare di essere toccati dai detenuti.
Le stanze erano così affollate che i prigionieri dovevano
improvvisare delle amache di fortuna, con le lenzuola poste
a differenti livelli d’altezza per dormire tutti nella stessa
cella. Ci ritrovavamo in un corridoio largo un metro e
mezzo, senza via d’uscita e con decine di detenuti tutto
intorno. La fragile tregua che si era creata tra galeotti e
guardie era basata sulla gentilezza e disponibilità di queste
ultime ed era già capitato che alcuni prigionieri bloccassero
gli agenti, mentre altri carcerati intervenissero per garan-
tirne la libertà. Era difficile comprendere quello che si stava
dicendo, dato che le voci si accavallavano l’una sull’altra
con un misto di eccitamento e di arroganza. Il luogo era
trasandato, ma non particolarmente sporco, anche se l’odore
di umanità ammassata creava una sensazione pungente
all’olfatto. Ammetto di avere avuto paura per tutto il tempo
del mio soggiorno, non tanto per la violenza intrinseca
all’ambiente e per il senso di minaccia, quanto per la possi-
bilità reale di contrarre il virus.
Avevo notato fin da subito un atteggiamento derisorio da
parte dei prigionieri relativamente all’Ebola, che ho attri-
buito al generale clima di scetticismo presente nella
popolazione. Come già detto, ben pochi credevano real-
mente all’esistenza di un virus così mortale. L’informazione
era scarsa e culturalmente non appropriata: le campagne
76
informative erano principalmente testuali, in un Paese dove
il tasso di alfabetizzazione è al di sotto del 50%8, ricolme di
termini medico-scientifici (virus, zoonosi, mucose, liquido
seminale, etc.). Gli striscioni pubblicitari per la prevenzione
del contagio erano assolutamente inutili, servivano solo ai
bambini che li strappavano per usarli come abiti di fortuna.
Purtroppo, nell’istituto penitenziario la situazione era
peggiore. I carcerati cercavano attivamente di essere conta-
giati dal virus. Chiedevano alle cuoche che provenivano
dall’esterno della prigione di metterli in contatto con
persone infette, di fare entrare nella prigione degli abiti
contaminati. Considerando l’Ebola una mera invenzione
occidentale, oppure un semplice raffreddore, pensavano che
se fossero stati ritenuti infetti sarebbero stati ricoverati in
infermeria, luogo dal quale sarebbero potuti facilmente
evadere. Vi era inoltre un sentimento d’invincibilità:
essendo già sopravvissuti a malaria, tifo e altre malattie, i
detenuti si consideravano abbastanza forti da sopravvivere a
un’altra affezione.
Nella diffusione dell’Ebola le classi sociali erano ben
distinte e le disuguaglianze pesavano nello stato di tensione
generale. Non solamente si aveva una differente qualità
nell’assistenza medica, ma la malattia colpiva severamente
gli strati socialmente più svantaggiati, dove i livelli igienici
e i livelli d’istruzione erano inferiori. La discrepanza nel
numero di contagiati tra quartieri benestanti e bidonvilles
era così marcata che a un certo punto la popolazione ha
pensato di equilibrare la sorte. I corpi infetti deceduti nei
quartieri poveri venivano trasportati (in taxi) davanti alle
porte dei ricchi, favorendo così la diffusione della malattia.
Ancora una volta, non prendere in considerazione la strut-
tura sociale del Paese nel quale si andava a operare ritardava
il risultato. Ponendosi come centro culturale autoreferen-
ziale, gli operatori sanitari internazionali avevano difficoltà
a concettualizzare un simile comportamento. Nella loro
cultura d’origine sarebbe stato inconcepibile e autodistrut-
77
tivo. Quindi non avevano adottato alcuna strategia efficace
per prevenirlo, perché non stavano considerando come la
fabbrica sociale si stesse sfaldando a causa delle discrimina-
zioni e delle ineguaglianze. Si stava creando uno “stato di
eccezione” (Agamben, 2003) in cui le politiche della vita
erano sottomesse al potere politico e i normali diritti erano
sospesi. La popolazione liberiana si ritrovava all’interno di
un dibattito internazionale sulla gestione della propria
salute, a cui però non aveva il diritto di partecipare. Le
comunità e gli individui erano percepiti dagli attori interna-
zionali come un’indistinta massa uniforme che doveva
essere controllata per il proprio benessere, ritornava l’eco
delle pratiche colonialiste in cui si esprimeva una biopolitica
(nel senso foucaultiano del termine) che disciplinava e
controllava i corpi degli africani.
La qualità delle informazioni che accumulavo durante la
mia esperienza in Liberia differiva così tanto dalle mie
precedenti esperienze in zone di crisi, che mi rendevo conto
dell’inefficacia degli strumenti a mia disposizione. Avevo
bisogno di aggregare i dati, validare le ipotesi, raggiungendo
un numero significativo di persone in un luogo dove gli
spostamenti erano difficili e le persone poco collaborative.
Con questi obiettivi in mente ho sviluppato un questionario
online basato sulla matrice preparata dall’Organizzazione
Mondiale della Salute per valutare la qualità di vita
(WHOQOL). Il questionario era articolato in tre parti: 1)
qualità della vita e dell’ambiente di lavoro 2) quantità e
qualità di eventi traumatici 3) livello soggettivo di stress.
Naturalmente si trattava di uno strumento grezzo, non stan-
dardizzato, ma che offriva degli ottimi spunti di partenza per
il mio scopo. 254 individui hanno partecipato a questa valu-
tazione fornendo preziose risposte e confermando il livello
di malessere psicologico che la paura del contagio aveva
creato nel personale internazionale.
Attentati e pandemie hanno caratteristiche comuni, ma che
si declinano in modo differente. Paura nel primo caso, ansia
78
nel secondo. Localizzazione per gli attentati, globalizza-
zione per le pandemie. Ogni evento traumatico è di per sé
unico, così come individuale è il vissuto esperienziale dello
stesso. Una crisi internazionale è un mega-evento multifat-
toriale che interseca la complessità degli aspetti culturali
con la ricchezza dello spirito umano. Sebbene dei paralle-
lismi possano essere tracciati con le esperienze precedenti e
le lezioni del passato debbano guidarci nelle decisioni del
futuro, bisogna sempre tenere in considerazione il vissuto
profondamente idiosincratico della crisi. È fondamentale
non porsi come meri attori esterni che esercitano il ruolo a
essi assegnato, per quanto umanamente benevolo questo
possa essere, ma avere il coraggio di allentare la propria
definizione di sé per fondersi con il vissuto dell’altro.
In questo specifico contesto, l’agentività della comunità
liberiana si è espressa come opposizione agli attori interna-
zionali, perché le misure sanitarie erano state applicate
senza la partecipazione dei cittadini. Si trattava di un
modello di prevenzione e gestione di un’emergenza medica
sviluppato in un contesto culturale differente da quello in
cui era stato implementato, che veniva trapiantato pedisse-
quamente in Liberia. L’imposizione di pratiche occidentali
in un contesto africano aveva il sapore di un dejà vu colo-
niale e assomigliava a una reazione incontrollata al panico
che il virus aveva suscitato in America e in Europa. Il focus
era centrato sull’opinione pubblica occidentale, scartando
più o meno coscientemente il vissuto del tessuto comuni-
tario liberiano. “Se la paura sociale nel cosiddetto mondo
occidentale era seriamente guidata dai comportamenti
sociali e dall’opinione pubblica, in Liberia non fu conside-
rata una componente strutturale che influiva sulla
trasmissione del virus” (Pellecchia et al., 2015, p. 17).
La storia dell’Ebola rivela un quadro complesso, iscritto in
un processo storico, che ha molteplici dimensioni. Un
sovrapporsi d’istituzioni e pratiche che hanno definito un
sistema di violenza strutturale generatore d’ineguaglianza,
79
insicurezza e insostenibilità. Questa complessità d’intera-
zioni si esprimeva in un’area regionale interconnessa con il
mondo globale attraverso aiuti allo sviluppo, relazioni
economiche, politiche coloniali e post-coloniali (Wilkinson
e Leach, 2015).
I liberiani hanno nascosto i cadaveri nelle loro case per
impedire ai funzionari dell’OMS di cremare i loro cari,
hanno fisicamente aggredito gli operatori sanitari, hanno
trasferito i corpi infetti in altre aree della città meno conta-
giate, sono fuggiti dagli ospedali e hanno pianificato
evasioni basate su infezioni scientemente desiderate.
Sebbene questi comportamenti possano non sembrare razio-
nali, sono in realtà l’espressione di una forte agency e
resilienza di fronte a una doppia minaccia: il virus e gli
attori internazionali esterni.
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5. LA LUCE DELL’OMBRA
Termineremo il discorso analizzando il modo in cui le
rappresentazioni veicolate attraverso visioni e narrazioni
contribuiscano a mantenere gli stereotipi e l’immaginario
negativo del continente africano. Discuteremo quindi le
differenze nei due contesti etnografici che abbiamo intro-
dotto, sottolineando una delle peculiarità tra una crisi di
origine umana e una provocata dal mondo naturale. La
conclusione si orienterà a evidenziare come sia possibile
una rappresentazione dell’Africa che tenga conto dei
soggetti subalterni e di come esistano possibilità di agency e
resilienza nei contesti più difficili, anche se queste non sono
espressamente messe in evidenzia dal racconto storico.
5.1. Immagine e pregiudizio, ovvero
il pregiudizio dell’immaginazione
Alla domanda capziosa: “Che cos’è l’Africa?” potremmo
rispondere che per la maggior parte del mondo extra-afri-
cano, l’Africa è la rappresentazione immaginaria che si è
costruita nel corso del tempo.
“Non c’è quindi descrizione dell’Africa che non implichi
funzioni distruttive e mendaci. Ma questa oscillazione tra
reale e immaginario, tra l’immaginario realizzato e il reale
immaginato, non avviene solo nella scrittura. Questo
intreccio avviene anche nella vita” (Mbembe, 2001, p. 242).
La questione stessa contiene uno dei principali stereotipi
visto che non esiste un’Africa, ma bensì 54 Stati indipen-
denti composti da gruppi etnici estremamente variegati, in
una ricchezza culturale e sociale incredibile. Un continente
dove si parlano un terzo delle lingue del mondo, circa 2000,
di cui 75 utilizzate da più di un milione di persone. Una
varietà geografica che spazia dal deserto del Sahara alla
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foresta lussureggiante della Comoé, dai 5.895 metri del
monte Kilimangiaro ai 155 metri sotto il livello del mare del
lago Assal, un luogo attraversato dai 6.650 km del Nilo,
dove l’acqua è spesso una risorsa scarsa. Un continente in
cui le classi sociali si mescolano e si dividono quotidiana-
mente, con panorami d’ineguaglianza economica che
modellano le città. Il fotografo Johnny Miller nella sua
mostra, “Unuequal scenes”9, ben mette in evidenza gli scarti
sociali attraverso fotografie aeree di contrasti paesaggistici.
Abbiamo affrontato le radici e le motivazioni storiche che
costruirono l’immagine negativa dell’Africa come base
giustificatoria per azioni vessatorie (Poncian, 2015).
Dobbiamo però considerare anche la continuità delle imma-
gini del passato nel tempo presente che, secondo Dogra e
Cohen (2012), ancora persistono grazie, tra l’altro, alle raffi-
gurazioni diffuse dalle ONG e dalle associazioni di aiuto
umanitario più in generale. (Quist-Adade e van Wyk, 2010).
Il discorso coloniale è la narrazione principale del
presente e a poco sono valsi più di cinquant’anni d’indipen-
denza. La colonizzazione delle menti non è avvenuta solo
negli africani, ma si ripropone quotidianamente negli spiriti
dei non-africani. I colonizzatori subiscono con latenza
quegli effetti manipolatori che hanno contribuito a creare.
Paradossalmente, nelle menti degli uomini contemporanei e
post-moderni, si usano ancora le categorie concettuali utiliz-
zate durante il Rinascimento per definire una civiltà:
1) lo sviluppo del progresso tecnico, espresso nella costru-
zione di edifici e di strutture permanenti, implicitamente
disprezzando le popolazioni nomadi o prive di edifici in
muratura;
2) il dominio sulla natura come espressione di superiorità
umana e diffidenza verso i popoli che prediligono una
maggiore armonia con il mondo naturale;
3) l’esistenza di una scrittura e lo svilimento della trasmis-
sione orale del sapere. (Mund-Dopchie, 2005).
82
È significativo il documento di Binyavanga Wainaina,
“How to Write About Africa” (2005), che satiricamente
raccoglie gli stereotipi in una narrativa folgorante. Nomi
esotici, corpi emaciati, paesaggi rurali, cospirazioni,
bellezze naturali e altri tòpoi sono elencati nel testo. Come
abbiamo accennato nell’introduzione, violenza, malattie,
povertà sono elementi costanti nel racconto, insieme ad
animali e “alterità” il più possibile bizzarre. La mancanza di
progresso è diventata sinonimo di Africa, il continente non
solo era stato definito privo di storia da Hobbes, ma la storia
non ha neppure il diritto di costruirsela. Un’Africa congelata
in un eterno presente sconnesso dal passato e isolato dal
mondo. Impensabile concettualizzare un’Africa che contri-
buisca al progresso globale mediante la ricerca e
l’innovazione tecnologica oppure ancora più stupefacente
tramite una creazione di cultura “alta”, quali arte, lettera-
tura, teatro e musica classica. Tutto, in Africa, è primitivo ed
esotico, magico e rituale, inscritto in una fascinazione del
mistero che è anche significante dell’inferiorità del conti-
nente. Da ciò ne consegue l’errata convinzione che, senza
l’aiuto dell’illuminata civiltà occidentale, gli africani sareb-
bero tutti morti di malattie, fame ed eventualmente divorati
dai leoni onnipresenti10.
Questo è il senso comune trasmesso dagli stereotipi attra-
verso racconti e immagini che propongono una narrazione
unica che appare non solamente assurda, ma addirittura
paradossale. Chimamanda Adichie (2009) ha messo in
guardia dal pericolo della storia unica, quando la narrazione
prevalente congela gli attori sociali in una situazione stereo-
tipata: mostrate la gente come una cosa sola e ripetete la
storia più e più volte; alla fine, le persone diventeranno nella
vostra mente la storia che voi create per loro. La singola
storia riduce la complessità e la meraviglia di un continente
ricco di esperienze e umanità e rischia di reificare un’idea,
creando quel mondo dell’immaginario. “La storia singola
crea stereotipi, e il problema degli stereotipi non è che siano
83
falsi, ma che sono incompleti. Fanno sì che una storia
diventi l’unica storia” (Adichie, 2009, 13:03).
Gerbner (1986) osserva come i bias nella percezione della
realtà si creino quando non esiste un contatto diretto con
quanto rappresentato nella pubblicità. Il marketing della
solidarietà influenza le attitudini e le credenze, risultando in
una visione distorta del reale. Di conseguenza, dirigendo i
comportamenti che le persone adottano nei confronti delle
popolazioni africane.
Nel tempo si sono sviluppate narrazioni dell’Africa che
sono sempre state funzionali al raggiungimento di uno
scopo, non alla descrizione del reale. La percezione di un
unicum che attraversa un continente di più di 30 milioni di
chilometri che potrebbe contenere al suo interno messe
insieme gli USA, la Cina, l’India e buona parte dell’Europa.
Abbiamo sviluppato il nostro discorso partendo dall’im-
magine di violenza e brutalità selvaggia che rappresenta una
delle narrazioni principali, costruita nella storia per giustifi-
care le azioni dei colonizzatori. Un fatto sociale considerato
“normale” per la natura stessa delle popolazioni africane. La
povertà e le malattie sono un’altra rappresentazione del
continente. È utile notare come le campagne di raccolta
fondi utilizzino quest’immagine e come la narrazione visiva
sia cambiata secondo lo sviluppo delle società in cui le
pubblicità si promuovono.
Gli anni Cinquanta e Sessanta erano caratterizzati da
campagne di raccolta fondi tese a scuotere le coscienze
europee, in cui la sofferenza e una precoce definizione di
horror porn si stagliava come unica narrazione del possi-
bile. Corpi emaciati e nudi, stati estremi di denutrizione, un
realismo selettivo che proponeva le immagini più scioc-
canti. La vittima è protagonista e la vittimizzazione è il
discorso narrativo delle immagini. Una visuale carica di
sofferenza per elicitare la compassione e la pietas cristiana.
La distanza fra “noi” e “loro” è massima, infatti i corpi sono
presentati come umani degenerati che possono essere ripor-
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tati a uno stadio di umanità grazie alle azioni di generosità.
“Questo rapporto sociale di distanza, prodotto dal contrasto
tra la nuda vita di questi sofferenti e la civiltà dei corpi sani
in Occidente, è associata al regime affettivo della colpa,
della vergogna e dell’indignazione.” (Cohen in Choulia-
raki, 2010).
Le immagini traumatiche della carestia in Etiopia (1984-
85) raggiunsero milioni di persone, i concerti come
Live-Aid contribuirono a rafforzare l’idea di continente
unico e incapace di sostenere sé stesso contro le malattie,
l’esposizione mediatica di personalità pubbliche come
Madonna contribuirono al problema11. Si cominciò a creare
l’idea di una mercificazione dello stereotipo di sofferenza
africana che poteva essere utilizzato dalle celebrità per
aumentare la loro visibilità, proponendo un marketing dei
loro prodotti come alternativa di salvezza per le sofferenze
dei bambini del continente perduto.
Con la modifica delle sensibilità e delle culture dei Paesi
post-moderni si sviluppò una critica al “development porn”
(Neilson e Mittelman, 2012), perché da una parte ci si rese
conto che il trasferimento di capitale non garantiva un’eli-
minazione della povertà estrema, dall’altra si prese
coscienza dell’arroganza occidentale che si proponeva come
unica salvezza per popoli considerati privi di agency e di
risorse. A partire degli anni Novanta, si verificò un graduale
cambio di registro nella narrazione e bambini sorridenti con
nomi accattivanti soppiantarono gradualmente le masse
indistinte di bambini affamati. Questa trasformazione in
immagini positive può essere letta attraverso almeno tre
interpretazioni differenti:
1) una reazione ai crescenti critiche rivolte alla rappresen-
tazione unilaterale e degradante dell’Africa;
2) un contesto storico che spostava l’attenzione dalla lotta
al comunismo verso la democratizzazione dell’Africa, con
un maggior interventismo della Banca Mondiale e del
Fondo Monetario Internazionale;
85
3) un cambiamento sociale dal post-industriale alla società
dell’immagine.
L’ultimo punto merita un chiarimento: le immagini si sono
evolute in bambini allegri che, grazie al nostro aiuto,
possono raggiungere quella felicità e quell’infanzia che per
noi occidentali sono considerate un diritto naturale. Una
trasformazione del messaggio pubblicitario dal senso di
colpa alla glorificazione del narcisismo, che segue di pari
passo lo sviluppo della società e l’indebolimento dei senti-
menti di colpa precedentemente basati su un’educazione
religiosa.
Invece di fare appello alla compassione o alla colpevo-
lezza primigenia dell’essere cristiano, le campagne di
raccolta fondi moderne tendono a presentare l’aiuto all’A-
frica come un’opportunità per i donatori di sentirsi bene con
sé stessi, di affermare la propria generosità e il proprio coin-
volgimento in cause giudicate importanti dal gruppo di
riferimento. Questo può essere visto come un riflesso
dell’accento posto sull’autorealizzazione, sull’affermazione
di sé, sulla bellezza e giovinezza come valori assoluti nella
cultura contemporanea.
L’estetica permea la cultura occidentale odierna e la
società si orienta secondo nuovi canoni.
“Mentre lo spettacolo della sofferenza è scomparso del
tutto dai luoghi pubblici in cui prima venivano esibite le
punizioni fisiche inflitte ai criminali, la rappresentazione
della sofferenza attraverso immagini e narrazioni è diventata
sempre più comune nella sfera pubblica, non solo nei media,
la cui propensione a esporre dettagli intimi del dolore è ben
nota, ma anche nell’arena politica, dove fornisce un’efficace
giustificazione per l’azione” (Fassin, 2012, p. 250).
Anche le immagini positive veicolano comunque rappre-
sentazioni implicitamente coloniali. Un’infantilizzazione
dell’Africa, vulnerabile e in stato di necessità, di popola-
zioni prive di agency con le mani tese e in balia degli eventi,
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