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Maculan et al Comunità carceraria relazioni resilienza RIC

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Abstract

When reflecting sociologically on the prison community, one usually refers to the community of prisoners. Thinking of this community in a broader way – i.e., involving all those who act in the prison field with different roles and statuses – has the potential to question the widespread representation of prison as a place inhabited by opposed social groups and instead shed light on contextual aspects that affect all social actors, structuring their forms of adaptation and common response models. The opportunity of a neuro-psycho-pedagogical training project called “Envisioning the Future” – conceived by the Patrizio Paoletti Foundation and realised with the University of Padua – addressed to the prison community in the broad sense gave the opportunity to explore this perspective. Starting from this formative experience and from a qualitative research carried out through semi-structured interviews to the prisoners that took part in the course, in this contribution we would like to reflect on the concept of prison community, in particular with regard to: (i) the exploration of relationships within the prison and the possibility for the prisoner to experience the other members of the prison community as a source of support, useful for coping with the challenges inherent to the prison experience; (ii) the possibility for the prison community to benefit in the future and in other prison contexts from formative experiences that follow this perspective.
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Abstract
When reflecting sociologically on the prison community, one usually refers to the community of prisoners.
Thinking of this community in a broader way – i.e., involving all those who act in the prison field with
different roles and statuses – has the potential to question the widespread representation of prison as a
place inhabited by opposed social groups and instead shed light on contextual aspects that affect all
social actors, structuring their forms of adaptation and common response models. The opportunity of a
neuro-psycho-pedagogical training project called “Envisioning the Future” – conceived by the Patrizio
Paoletti Foundation and realised with the University of Padua – addressed to the prison community in the
broad sense gave the opportunity to explore this perspective. Starting from this formative experience and
from a qualitative research carried out through semi-structured interviews to the prisoners that took part
in the course, in this contribution we would like to reflect on the concept of prison community, in parti-
cular with regard to: (i) the exploration of relationships within the prison and the possibility for the prisoner
to experience the other members of the prison community as a source of support, useful for coping with
the challenges inherent to the prison experience; (ii) the possibility for the prison community to benefit
in the future and in other prison contexts from formative experiences that follow this perspective.
Keywords: prison, prison communit, relationship, resilience, education.
Riassunto
Quando si riflette sociologicamente sulla comunità carceraria ci si riferisce tradizionalmente alla comunità
dei detenuti. Pensare a questa comunità in maniera più ampia – ovvero coinvolgendo tutti coloro che attra-
versano il campo penitenziario con differenti ruoli e status – porta dentro di sé la potenzialità di mettere in
discussione la diffusa rappresentazione del carcere come luogo abitato da gruppi sociali profondamente
contrapposti gettando luce, invece, sugli aspetti di contesto che ricadono su tutti gli attori sociali, struttu-
randone forme di adattamento e modelli di risposta comuni. L’occasione di un progetto di formazione neuro-
psicopedagogica chiamato “Prefigurare il futuro” – ideato dalla Fondazione Patrizio Paoletti e realizzato con
l’Università degli Studi di Padova – rivolto alla comunità carceraria intesa in senso ampio ha dato la possi-
bilità di esplorare questa prospettiva. A partire da quest’esperienza formativa e da una ricerca qualitativa
svolta attraverso la somministrazione di interviste semi-strutturate alla popolazione detenuta che ha parte-
cipato al corso, in questo contributo desideriamo riflettere attorno al concetto di comunità carceraria, in
particolar modo riguardo: (i) l’esplorazione delle relazioni all’interno del carcere e la possibilità per il dete-
nuto di vivere gli altri membri della comunità carceraria come una fonte di supporto, utile per far fronte alle
sfide insite all’esperienza detentiva; (ii) la possibilità per la comunità carceraria di fruire in futuro e in altri
contesti penitenziari di percorsi che accolgano questa prospettiva.
Parole chiave: Carcere, Comunità carceraria, Relazioni, Resilienza, Formazione.
Prison community, relationships and resilience. Experiences and reflections
from the “Envisioning the Future” programme in the Padua prison
Comunità carceraria, relazioni e resilienza. Esperienze e riflessioni a partire dall’applicazione
del programma “Prefigurare il Futuro” nel carcere di Padova*
Double blind peer review
How to cite this article: A. Maculan et alii
(2023). Prison community, relationships and
resilience. Experiences and reflections from
the “Envisioning the Future“ programme in
the Padua prison. Rassegna Italiana di Crimi-
nologia, XVII, 2, 96-104.
https://doi.org/10.7347/RIC-022023-p96
Corresponding Author: Alessandro Maculan
email alessandro.maculan@unipd.it
Copyright: © 2023 Author(s). This is an open
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terms of the Creative Commons Attribution
4.0 International, which permits unrestricted
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Criminologia is the official journal of Italian
Society of Criminology.
© The authors declare that the research was
conducted in the absence of any commercial
or financial relationships that could be con-
strued as a potential conflict of interest. This
research did not receive any specific grant
from funding agencies in the public, com-
mercial, or not-for-profit sectors
Received: 18.03.2023
Accepted: 31.05.2023
Published: 30.06.2023
Pensa MultiMedia
ISSN 1121-1717 (print)
ISSN 2240-8053 (on line)
doi10.7347/RIC-022023-p96
Alessandro Maculan | Francesca Vianello | Giulia Perasso
Patrizio Paoletti | Tania Di Giuseppe
Alessandro Maculan, University of Padova | Francesca Vianello, University of Padova | Giulia Perasso, Fondazione Patrizio Paoletti, Research Institute for Neuroscientifico,
Education, and Didactics (RINED) | Patrizio Paoletti, Fondazione Patrizio Paoletti | Tania Di Giuseppe, Fondazione Patrizio Paoletti, Research Institute for Neuroscience, Edu-
cation, and Didactics (RINED)
Il presente articolo è frutto di una riflessione comune svolta dagli autori e dalle autrici riguardo il tema trattato. In maniera specifica, il capitolo 1 è da attribuire a Maculan e Perasso; il
paragrafo 2.1 a Paoletti e Perasso; il 2.2 a Maculan; il capitolo 3 a Maculan; il paragrafo 4.1 a Maculan e Di Giuseppe; il paragrafo 4.2 a Maculan; il capitolo 5 a Vianello.
Credit author statement
Articoli Generali
ANNO XVII N.2 2023
* Si desidera ringraziare la fondazione Mediolanum onlus (co-fi-
nanziatrice del progetto); il direttore della Casa di reclusione di
Padova, dott. Claudio Mazzeo, e tutti gli operatori ed operatrici
dell’istituto di pena il cui lavoro ha contribuito in maniera impor-
tante alla realizzazione di PF, in particolare: Anna Maria Morandin,
Lorena Orazi, Maria Grazia Grassi, Edoardo De Santis, Amedeo
Salentini, Alessandro Pinto; il coordinatore del progetto della FPP,
Luca Cerrao. Desideriamo inoltre ringraziare le persone recluse, i
volontari, gli assistenti sociali e gli studenti dell’Università degli
Studi di Padova che hanno deciso di partecipare al progetto.
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A. Maculan et al.
Prison community, relationships and resilience. Experiences and reflections
from the “Envisioning the Future” programme in the Padua prison
Introduzione
Il carcere è uno spazio profondamente complesso, attra-
versato da una pluralità di attori sociali portatori di ruoli,
status ed interessi molto diversi (Buffa, 2011). Come è
stato evidenziato dai prison studies classici (cfr. Clemmer,
1940; Sykes, 1958; Goffman, 1978), ma anche da con-
tributi più recenti (cfr. Kalica e Santorso, 2018; Gariglio,
2017; Sterchele, 2021; Torrente, 2016; Vianello, 2018),
le differenti posizioni occupate in particolar modo dalla
popolazione detenuta e dallo staff all’interno del campo
penitenziario (Maculan, 2023) pongono gli attori sociali
in un complesso stato di contrapposizione che può assu-
mere equilibri e contorni molto diversi all’interno del
vasto “arcipelago penitenziario” italiano (Sbraccia e Via-
nello, 2016). Non stupisce, dunque, che Clemmer
(1940), nel volume The Prison Community, ragionando
attorno al concetto di “comunità carceraria”, pensasse alle
persone private della libertà come ad una comunità a sé
stante. Questa concettualizzazione – al di là del fatto che
possa considerarsi ancora attuale data la vasta eterogeneità
che caratterizza la popolazione detenuta e i cambiamenti
che negli ultimi decenni sono avvenuti a seguito del-
l’emergere di un sistema premiale (cfr. Sbraccia e Via-
nello, 2016; Ronco, 2016) – sembra persistere ancora, in
particolar modo nel linguaggio comune penitenziario,
che spesso ad essa si riferisce come a qualcosa di ovvio e
autoevidente. Risulta sicuramente più difficile, invece, ra-
gionare attorno all’idea di una comunità carceraria intesa
in senso molto più ampio, che comprende al suo interno
tutti coloro che nel campo penitenziario si muovono, sep-
pur con status e ruoli differenti. Questa ipotesi, che per
certi versi potrebbe apparire azzardata, può risultare, in-
vece, particolarmente proficua nel momento in cui si
prenda seriamente in considerazione il fatto che “la fra-
gilità dell’ambiente [penitenziario], la scarsità delle risorse
e il sentimento di precarietà e insicurezza non ricadono
solo sulla comunità detenuta, ma su tutti gli attori che vi-
vono il penitenziario, strutturandone forme di adatta-
mento e modelli di risposta comuni” (Vianello, 2018: 74;
vedi anche Buffa, 2011).
È stato proprio a partire da questa prospettiva che nella
primavera 2021, presso la Casa di reclusione di Padova, è
stato avviato il progetto “Prefigurare il Futuro” (PF) –
ideato dalla Fondazione Patrizio Paoletti (FPP) e realizzato
con l’Università degli Studi di Padova – il cui fine era
quello di promuovere la resilienza sia individuale che di
comunità, ovvero dar forza a quel “processo il cui fine è
quello di riconoscere e utilizzare le risorse necessarie per
sostenere il benessere” (Southwick et al., 2014: 4; Binik et
al., 2021). PF presenta un percorso tematico focalizzato
sul benessere e la resilienza combinando nozioni neuro-
psicopedagogiche con esercizi pratici di consapevolezza
(body scan, tecniche di rilassamento, meditazione, pratica
del silenzio, e prefigurazione del futuro). Precedenti ap-
plicazioni del programma PF hanno portato esiti positivi,
in termine di benessere bio-psicosociale, alle comunità vit-
time del terremoto di Marche e Umbria del 2016-2017
(Di Giuseppe et al., 2023) e agli educatori del circuito pe-
nale minorile (Paoletti et al., 2022; Maculan et al., 2022).
Secondo Ungar e Jeffries (2021), la resilienza va intesa –
seguendo un approccio multisistemico – come la capacità
dei sistemi bio-psicosociali e socio-ecologici di supportare
condizioni interne ed esterne per il benessere, migliorando
la qualità della vita delle popolazioni, in particolare
quando colpite da svantaggio o condizioni che minacciano
lo sviluppo personale (Smeeth et al., 2021; Ungar,
2021). Così intesa, la resilienza è il processo mediante il
quale gli individui navigano verso le risorse di cui hanno
bisogno per raggiungere una condizione di benessere, non-
ché la lor capacità di negoziare risorse da fornire in modi
contestualmente e culturalmente significativi. Questi pro-
cessi di navigazione e negoziazione spiegano perché qualità
individuali come determinazione, ottimismo e autorego-
lazione possono produrre risultati positivi solo se le eco-
logie sociali e fisiche offrono opportunità alle persone di
sviluppare e applicare i propri punti di forza (Ungar,
2011). Il mondo penitenziario rappresenta un contesto
sociale nel quale risulta cruciale promuovere simili processi
così come, al contempo, appare necessario esplorare quali
siano le condizioni individuali, relazioni e ambientali che
possono sostenere la loro realizzazione.
L’intenzione alla base di PF è stata quella di costruire
un corso di formazione che non si rivolgesse alternativa-
mente ai detenuti oppure allo staff, ma che immaginasse
come beneficiari tutti coloro che all’interno di quel con-
testo vivono e lavorano: tutti coloro, cioè, che, seppur in
maniera differente, sottostanno a specifici condiziona-
menti strutturali e alle logiche di funzionamento formali
e informali tipiche del mondo carcerario (cfr. Buffa, 2011;
1 Le 10 chiavi della resilienza: (1) Riparti da ciò che puoi controllare
e prendi piccole decisioni; (2) Individua un obiettivo raggiungibile,
entusiasmante, misurabile; (3): Più volte al giorno prendi consapev-
olezza della tua postura; (4): Lasciati ispirare da storie; (5): Chiediti
cosa è davvero importante; (6): Coltiva la gratitudine; (7): Vivi l’al-
tro come una risorsa, coltiva e espandi la tua rete sociale; (8):
Coltiva la curiosità; (9): Pratica qualche minuto di silenzio; (10):
Accogli e trasforma: prima di andare a dormire genera oggi il tuo
domani.
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A. Maculan et al.
Liebling e Maruna, 2006). L’idea di un percorso formativo
che miri ad individuare la comunità carceraria nel com-
plesso come potenziale beneficiaria di intervento rappre-
senta una prospettiva di azione innovativa, poiché pone
sullo stesso piano i partecipanti, considerando la capacità
di gestione delle avversità e dello stress una qualità che do-
vrebbe essere promossa e potenziata in tutta la comunità.
Nel contesto italiano, PF è tra le poche esperienze psico-
pedagogiche sottese al miglioramento del benessere dei
detenuti ed è l’unica a presentare un focus neuro-psico-
pedagogico specifico sulla resilienza. Il corso ha portato
pratiche di meditazione in carcere, seguendo un ampio fi-
lone della letteratura che sostiene i benefici di questo tipo
di intervento sul benessere bio-psicosociale e sulla regola-
zione emotiva (Samuelson et al., 2007; Sumter et al.,
2009).
A partire da quest’esperienza formativa e da una ricerca
qualitativa svolta attraverso la somministrazione di inter-
viste semi-strutturate alla popolazione detenuta che ha
partecipato al corso, in questo contributo desideriamo ri-
flettere attorno alla comunità carceraria in senso ampio,
in particolar modo riguardo: (i) l’esplorazione delle rela-
zioni all’interno del carcere e la possibilità per il detenuto
di vivere gli altri membri della comunità carceraria come
una fonte di supporto, utile per far fronte alle sfide insite
all’esperienza detentiva; (ii) la possibilità per la comunità
carceraria di fruire in futuro e in altri contesti penitenziari
di percorsi che accolgano questa prospettiva.
Prefigurare il futuro in carcere
Descrizione del progetto
PF è un programma di incremento della consapevolezza
e della resilienza individuale e collettiva ideato dall’equipe
di neuroscienziati, psicologi, pedagogisti e formatori della
FPP, i cui outcome quantitativi sono stati oggetto di pre-
cedenti pubblicazioni e convegni scientifici (Di Giuseppe
et al., 2022a; Di Giuseppe et al., 2022b). PF si è struttu-
rato in 9 incontri, condotti da formatori esperti nel me-
todo della Pedagogia del Terzo Millennio (PTM) (Paoletti,
2008), realizzati con cadenza settimanale e riadattati per
la realtà penitenziaria con sessioni della durata media di
80 minuti ciascuno. I 9 incontri approfondiscono il pro-
gramma Le 10 chiavi della resilienza (Paoletti et.al., 2022b)
un sunto su alcuni importanti studi interdisciplinari in
materia di resilienza, benessere e relativi correlati neuronali
(Korb, 2015; Tabibnia & Radecki, 2018; Paoletti, 2018;
Tabibnia, 2020) che approfondiscono come risollevarsi da
incertezza e stress, allenandosi nel quotidiano attraverso
esercitazioni specifiche. Nell’ambito del programma, ci si
è riferiti alla resilienza come alla capacità di fortificare le
proprie capacità e ottimizzare le proprie risorse, che può
essere individuata a livello della persona, di un gruppo e
di una comunità (Grotberg, 1995). In una simile prospet-
tiva la resilienza può diventare una risorsa efficace per af-
frontare le emergenze, specialmente quando si nutre della
capacità di essere focalizzati sull’altro e i suoi bisogni tra-
mite empatia, compassione e tolleranza (Jordan, 2004; Sla-
vich et al., 2021). Al contrario, la resilienza esclusivamente
“autocentrata” può rafforzare l’esperienza di separazione e
alienazione sociale, ostacolando lo sviluppo di un senso di
responsabilità verso l’altro (Mahdiani, & Ungar, 2021;
Paoletti et al., 2022c).
Il programma Le 10 chiavi della resilienza1, organizzato
secondo il Modello Sferico della Coscienza (Paoletti, Ben
Soussan, 2019) e i principi della PTM (Paoletti, 2008),
accompagna il partecipante ad approfondire il principio
dell’auto-osservazione inteso come capacità di intercettare
le risposte automatiche e reattive con un’attitudine non
giudicante e attivare una riflessione attiva su possibili altre
risposte alla sollecitazione, intenzionali e proattive. Il
primo blocco richiama l’idea pedagogica dell’osservazione
e dell’auto-osservazione, alla base delle chiavi/sessioni (1-
2-3) (Paoletti, Selvaggio, 2011a). Questo blocco includeva
l’allenamento alla scelta e il potenziamento della volontà
attraverso esercizi di body-scan, rilassamento, visualizza-
zioni guidate, pratica dell’ascolto del proprio respiro e la
pratica della focalizzazione dell’attenzione su obiettivi a
breve, medio e lungo termine. Il secondo blocco
(chiavi/sessioni 4-5-6) fa riferimento all’idea pedagogica
di “mediazione” e lavora sul riconoscimento e gestione
delle emozioni sia positive che negative per permettere un
percorso di auto-motivazione e ricerca del significato e dei
propri obiettivi, attraverso lo studio di esempi di resilienza
e una riflessione sui propri valori (Paoletti e Selvaggio,
2011b). Il terzo blocco (chiavi/sessioni 7-8), connesso al
principio pedagogico della “traslazione” (Paoletti e Selvag-
gio, 2012), sottolinea l’importanza dell’autodetermina-
zione e del valore della connessione con l’altro e con la
comunità di appartenenza, valorizzando ogni esperienza
come occasione di apprendimento e crescita (ivi). Il quarto
blocco (chiavi/sessioni 9-10) si riferisce all’idea pedagogica
della “normalizzazione” e guida il soggetto a risignificare
l’esperienza attraverso una narrazione proattiva del proprio
quotidiano e della propria storia utilizzando tecniche
psico-corporee che migliorano la qualità del sonno e del
benessere attraverso la pratica del silenzio e della prefigu-
razione (Paoletti e Selvaggio, 2013).
Implementazione del progetto
PF si è svolto presso la Casa di reclusione di Padova,
con alcune limitazioni dettate dalle misure di sicurezza ne-
cessarie per far fronte al rischio pandemico che hanno por-
tato a presentare parte dell’intervento formativo da
remoto. Sono stati individuati due gruppi di partecipanti.
2 L’invito a partecipare a PF è stato rivolto a tutti i detenuti in pos-
sesso delle competenze linguistiche minime necessarie per poter fre-
quentare il corso. Del reclutamento dei partecipanti si è occupato
il personale dell’area trattamentale dell’istituto.
3 Tra questi hanno seguito il corso PF persone che, pur non operando
nel contesto penitenziario, erano interessate a partecipare: studenti
universitari, insegnanti e assistenti sociali, nell’ottica della valoriz-
zazione della presenza della comunità civica alle attività trattamen-
tali penitenziarie (cfr. Pietralunga et al., 2007).
4 I nostri referenti istituzionali ci avevano più volte avvisato che prob-
abilmente questo tipo di percorso formativo avrebbe potuto trovare,
soprattutto fra il personale in divisa, un’accoglienza tiepida.
5 Va ricordato, come sottolineato nel rapporto annuale sulle con-
dizioni di detenzione dell’Associazione Antigone (2022), che la dif-
fusione delle attività trattamentali negli istituti di pena italiani è
molto disomogenea. Da un lato vi sono carceri dove l’offerta lavo-
rativa, scolastica, sportiva etc… è molto ampia; dall’altro, in molti
istituti, essa è decisamente contenuta se non addirittura quasi del
tutto assente.
6 Lo studio ha ricevuto il parere positivo del comitato etico del di-
partimento FISPPA dell’Università degli Studi di Padova in data
15/06/2021 (cod. fascicolo 2020-III/13.41.4).
7 12 provenivano da regioni del Nord Italia e 6 da regioni del Sud
Italia e dalle isole.
8 4 erano di origine nordafricana, 2 centrafricana, 1 mediorientale,
1 latino-americana.
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A. Maculan et al.
Un primo gruppo (G1), composto dalla popolazione re-
clusa2 e dallo staff penitenziario, ha seguito gli incontri
congiuntamente presso l’auditorium dell’istituto di pena
dove venivano proiettate le video-lezioni e svolti gli in-
contri con i formatori della FPP che erano presenti da re-
moto. Un secondo gruppo (G2), composto da altro staff
penitenziario, volontari penitenziari e altre persone inte-
ressate al programma3, seguiva il corso totalmente da casa,
condividendo con il G1 gli incontri con i formatori della
FPP. In totale hanno partecipato, seppur con frequenza
diversa, 81 persone: 51 nel G1, 30 nel G2. Per quanto ri-
guarda la composizione: il G1 era composto per il 77%
da persone recluse e per il restante 23% da educatori pe-
nitenziari, operatori di polizia penitenziaria e psicologi; il
G2 principalmente da altre persone interessate al pro-
gramma PF (86%), i volontari penitenziari rappresenta-
vano l’8% e staff penitenziario il 6%.
La limitata adesione degli operatori penitenziari, so-
prattutto in rapporto alla popolazione detenuta, ci spinge
ad avanzare alcune riflessioni. Innanzitutto, è necessario
sottolineare che le mansioni che lo staff penitenziario è
chiamato a svolgere, unito al cronico sottodimensiona-
mento del personale (Maculan, 2019), rende sicuramente
difficoltosa la partecipazione a iniziative formative durante
il proprio turno lavorativo. Questa evidenza strutturale
deve tuttavia integrarsi con una certa poca abitudine da
parte dello staff penitenziario ad accogliere percorsi for-
mativi volti al benessere individuale e di comunità nei luo-
ghi di lavoro4. Spesso, e soprattutto fra la polizia
penitenziaria, questi temi vengono affrontati seguendo un
approccio verticistico attraverso la formazione di coloro
che si trovano nei ruoli apicali della gerarchia, oppure in-
dividuando modalità prettamente individuali per far
fronte a fattori di stress o comunque senza mai inserire
l’operato di questi professionisti all’interno di un sistema
complesso di relazioni tra gruppi sociali molto differenti
fra loro che devono inevitabilmente confrontarsi. Que-
st’ultima possibilità probabilmente trova delle resistenze
alla realizzazione anche a causa dell’habitus professionale
dello staff in divisa, che tende a rifiutare ogni manifesta-
zione pubblica di debolezza o richiesta di aiuto esterno
(Maculan, 2022), considerate contrarie alla rappresenta-
zione stereotipica del poliziotto penitenziario forte e con
il completo controllo della situazione (Vianello, 2018).
Infine, va sottolineato che nel contesto penitenziario
le persone recluse sono solitamente immaginate come le
(ovvie) beneficiarie degli interventi rieducativi – che siano
essi di tipo lavorativo, formativo, scolastico, culturale, re-
ligioso, sportivo etc… (cfr. Pizzera e Romano, 2011; Ro-
mano et al., 2020) – che vengono loro proposti,
organizzati e realizzati dal personale penitenziario con il
contributo di figure esterne5 (cfr. Pietralunga et al., 2007).
Non vi è quindi abitudine, da parte degli operatori, a pen-
sarsi destinatari di percorsi condivisi di sensibilizzazione
e formazione quali quello offerto dal percorso in oggetto.
Metodologia della ricerca
Una volta concluso il percorso PF, una ricerca condotta
attraverso la somministrazione di interviste semi-struttu-
rate ha inteso indagarne gli effetti su coloro che hanno
preso parte al programma6. Di concerto con i nostri in-
terlocutori istituzionali si è deciso di coinvolgere in questo
studio solamente la popolazione reclusa perché, come ab-
biamo visto, la presenza contenuta del personale peniten-
ziario al corso PF avrebbe esposto i singoli operatori al
rischio di essere riconoscibili. L’invito a prendere parte a
questa indagine è stato rivolto a tutte le persone detenute.
Tra queste, su un totale di 36 persone, 26 hanno deciso
di partecipare:18 persone di nazionalità italiana7 (69%),
8 stranieri8 (31%). L’età dei partecipanti era variabile: da
un minimo di 25 anni a un massimo di 64 anni.
Tutte le interviste sono state condotte nelle aule a di-
sposizione per i colloqui presenti nelle sezioni detentive
dell’istituto. Prima di cominciare, a ciascun partecipante
è stato consegnato il modulo del consenso informato con
la descrizione dei fini della ricerca e l’illustrazione delle ra-
gioni dell’audio-registrazione dell’intervista. Il modulo
inoltre offriva le necessarie garanzie di riservatezza e di
anonimato, sottolineava che la partecipazione era libera,
spiegava che un rifiuto non avrebbe comportato alcuna
conseguenza negativa. Le interviste hanno avuto una du-
rata variabile: da un minimo di 30 minuti ad un massimo
di quasi 3 ore.
La traccia d’intervista è stata definita individuando al-
cune domande stimolo che avevano il fine di incoraggiare
9 I nomi degli intervistati sono fittizi.
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A. Maculan et al.
i partecipanti a raccontare la propria esperienza detentiva,
lasciando loro libertà nella costruzione della propria nar-
razione ed accompagnandoli nell’esplorare i temi che
erano stati individuati come rilevanti ai fini dello studio
poiché connessi alle 10 chiavi della resilienza: il racconto
della propria esperienza detentiva; le relazioni interperso-
nali in carcere; le problematiche e le difficoltà quotidiane;
l’esperienza di partecipazione a PF.
Risultati della ricerca
Le relazioni con gli altri detenuti
Un primo aspetto emerso dalle interviste riguarda la com-
plessità delle relazioni all’interno della comunità dei de-
tenuti:
Ma tu lo sai il livello di ruggine che c’è qui? Tu prendi
cinquanta persone, le metti coattivamente in 100 metri.
[…] Ognuno ha la propria sub-cultura, la propria vita,
esperienze. Qui è tanto se non ci scanniamo. E ogni
tanto succede. Supremazia del territorio, arroganza, stu-
pidità. La solidarietà capita, è vero, ma è una merce
molto rara. Detto questo non sto dicendo che quello sia
un girone infermale, è un estratto di vita umana. Con
le proprie miserie e virtù. […] Però è proprio questo mi-
scelare che ti impedisce di vivere l’altro come una risorsa.
Lo vivi sempre come un possibile pericolo.
(Intervista, Lucio9)
L’estratto parla delle difficoltà legate alla convivenza
fra persone recluse. Esse sono connesse all’eterogeneità in-
sita in questo gruppo sociale (diverse origini, abitudini,
fedi, età, esperienze pregresse, universi valoriali etc…), esa-
cerbata dalla forzata promiscuità all’interno di spazi ri-
stretti, caratterizzati da deprivazioni che alimentano
sofferenze e conflitti (Sykes, 1958; Crewe, 2011), così
come dalla forte competizione che si genera nel tentativo
di garantirsi alcune delle (scarse) risorse che l’istituzione
mette a disposizione (cfr. Ronco, 2016). I racconti dei par-
tecipanti ci parlano di un contesto sociale che può alimen-
tare profonda diffidenza (cfr. Faccio e Costa, 2013) fra le
persone recluse:
Tanti di noi sono ostinati, hanno paura di relazionarsi
con gli altri perché dicono “io sono giudicato da quello”.
(Intervista, Mario)
Ci sono tante persone in carcere che hanno bisogno ma
nel momento che cerchi di aiutare una persona si sen-
tono umiliati. Tante persone non lo accettano perché
forse vedono la giovane età e non lo accetta. In pochi lo
accettano, qualcuno si sente umiliato.
(Intervista, Mohammed)
Il timore di essere giudicati deboli spinge spesso diversi
detenuti a celare le proprie fragilità per evitare che queste
vengano utilizzate e sfruttate dagli altri per trarre una qual-
che forma di guadagno (cfr. Sykes, 1958). Il secondo
estratto, in particolare, racconta del senso di umiliazione
che si può provare nel dimostrarsi bisognosi d’aiuto. Come
se l’espressione di questa necessità contribuisse a far crol-
lare la diffusa rappresentazione di uomini coraggiosi e re-
sistenti (Crewe et al., 2014) tipica di una cultura
penitenziaria che vede spesso nell’ostentazione della forza,
dell’autonomia e dell’autocontrollo un modo per far fronte
alla severità e alla durezza del contesto carcerario (Clem-
mer, 1940; Sykes, 1958; Vianello, 2018). L’esperienza de-
tentiva può, dunque, limitare la possibilità che le persone
recluse vedano negli altri ristretti degli individui ai quali
potersi affidare, specialmente nei momenti di difficoltà.
Ciò contribuisce ad amplificare lo stato di vulnerabilità
personale che i detenuti soffrono, uno stato che potrebbe,
invece, trovare delle forme di sollievo nella valorizzazione
di relazioni di reciprocità e sostegno (Jordan, 2004).
Il tema delle relazioni interpersonali in carcere – af-
frontato dal corso PF con particolare riferimento alla pos-
sibilità di essere gli uni delle risorse per gli altri – è andato,
dunque, al cuore di una delle questioni più salienti per la
comunità carceraria. L’intervento, infatti, ha considerato
il gruppo come un catalizzatore di cambiamento positivo
(Imel, 1999; Guarino e Serantoni, 2008), evidenziando
come nelle condivisioni e nelle pratiche sia possibile rice-
vere dall’altro supporto ed essere fonte di supporto, in una
forma di coinvolgimento e sostegno reciproco (Jordan,
2004). Si prenda in considerazione il prossimo estratto:
Da soli non si vince, bisogna essere una squadra per vin-
cere. Oggi me ne rendo conto. Fuori non cercavo nes-
suno, lottavo da solo. Oggi cerco aiuto, persone amiche,
cerco di parlare quando ho un problema. Bisogna avere
la mano dell’altro e assieme ci si alza in tante cose, è
quella la forza di ognuno. […] Abbiamo bisogno l’uno
dell’altro, da soli non si va da nessuna parte.
(Intervista, Mario)
L’invito alla partecipazione e l’adesione al progetto PF
che aveva come focus la costruzione di interazioni sociali
positive tra tutti i membri della comunità, ha dato spazio
a momenti di riflessione e confronto sulle proprie espe-
rienze detentive ed è stato vissuto da molti detenuti come
un’opportunità preziosa per corroborare il senso di comu-
nità e cominciare a mettere in discussione la diffusa diffi-
denza reciproca. Ha permesso una maggiore conoscenza e
socializzazione fra detenuti che spesso faticano ad incon-
trarsi poiché ospitati in sezioni detentive differenti e quindi
con limitate possibilità di vedersi, aprendo spazi di condi-
visione e ascolto di esperienze simili:
Questo corso mi ha dato tanto per la vita quotidiana.
Ho imparato anche a conoscere un po’ di gente. Sono
riuscito anche a socializzare, per parlare, sfogarsi. Loro
hanno parlato anche loro del problema. Abbiamo avuto
modo di confrontarci un po’ […]. Quando uno dei ra-
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A. Maculan et al.
gazzi che parlava io lo ascoltavo sempre. Mi dava corag-
gio per affrontare mio problema, per combattere, per
andare aventi.
(Intervista, Kevin)
L’esperienza dell’incarcerazione può impattare a lungo
termine sul concetto del sé degli individui e indurre vissuti
di auto-stigmatizzazione, vergogna e imbarazzo anche una
volta reinseriti nel tessuto sociale (cfr. Liebling e Maruna,
2006; Chui & Cheng, 2013). A fronte delle possibili espe-
rienze di rifiuto e discriminazione che i detenuti possono
incontrare (Le Bel, 2012), PF ha cercato di coinvolgere la
comunità carceraria anche al fine di contrastare pregiudizi
e stigmatizzazioni nei confronti delle persone recluse.
Quando sono venuto là (PF) mi sono sentito bene per-
ché non si parlava di niente di personale ma di noi come
delle persone.
(Intervista, Célio)
Al netto, quindi, dei fattori che sembrano da un certo
punto di vista precludere la possibilità che all’interno del
contesto penitenziario l’“altro” possa essere vissuto come
una risorsa, quello che sembra emergere in modo trasver-
sale fra gli intervistati è comunque la necessità di creare e
mantenere dei legami, quantomeno con alcuni detenuti.
Ciò può realizzarsi soprattutto fra coloro che condividono
spazi e tempi all’interno delle stesse sezioni detentive. Fra
persone che si sentono maggiormente compatibili e simili,
generando forme di empatia e di supporto reciproco.
Ci prendiamo un caffè in compagnia, due chiacchere,
cerchiamo di passarla il meglio possibile diciamo tra le
persone con cui andiamo d’accordo, qui dentro non
possiamo piacerci tutti.
(Intervista, Jacopo)
Questo tipo di relazioni possono rivelarsi una risorsa
molto importante nel contesto penitenziario per gestirne
la complessità, la pesantezza e le sofferenze che esso può
creare. In carcere, il poter fare affidamento ad una rete so-
ciale aiuta a far fronte a quel forte senso di incertezza e
abbandono tipico dell’esperienza detentiva (Crewe, 2011)
che è stato espresso dagli intervistati. Allo stesso tempo,
però, questa necessità deve fare i conti con la strutturale
precarietà di questi legami: continuamente esposti a re-
pentine rotture a causa dei possibili trasferimenti dei de-
tenuti presso altre sezioni o istituti, oppure a seguito di
una scarcerazione (Lafferty et al., 2016; Kalica e Santorso,
2018).
Le relazioni con lo staff
Per quanto riguarda le relazioni fra detenuti e staff pe-
nitenziario la questione assume contorni differenti. Innan-
zitutto, con riferimento agli educatori, i racconti degli
intervistati ci parlano primariamente di come questi ul-
timi rappresentino una risorsa per poter ottenere dei be-
nefici penitenziari:
…con gli educatori… mi hanno sempre chiamato ogni
tanto, sì, so che hanno tanto lavoro; quindi, non è che
ti chiamano spesso, però quando serve mi hanno chia-
mato, adesso so che mi chiudono la sintesi prossima-
mente e sembra che sia tutto a posto. Sotto quell’aspetto
lì mi trovo bene...
(Intervista, Tiziano)
La declinazione utilitaristica dell’educatore ha chiara-
mente origine nell’ordinamento penitenziario e nel modo
attraverso il quale è stata immaginata la valutazione del
percorso trattamentale dei detenuti basata sull’osserva-
zione scientifica della personalità (art. 13, lg. n. 354/1975)
che dovrebbe costituire la base per il trattamento indivi-
dualizzato del detenuto. La scarsa presenza, tuttavia, negli
istituti di pena di queste figure professionali – che in al-
cune carceri raggiunge picchi particolarmente drammatici
(Maculan, 2019) – limita enormemente la possibilità che
questi ultimi possano assumere davvero i contorni di una
risorsa per i detenuti (cfr. Torrente, 2014) in grado di sup-
portarli in un percorso di reinserimento che renda quindi
l’esperienza detentiva meno gravosa. Come è stato sotto-
lineato da molti intervistati, la possibilità di incontrare
con frequenza i propri educatori (così come gli altri pro-
fessionisti del trattamento: psicologi, psicoterapeuti etc…
) è vissuta come un’opportunità preziosa capace di trasfor-
mare, potenzialmente, il tempo della detenzione da qual-
cosa di vuoto dove a prevalere è la percezione passivizzante
e regressiva della propria impotenza (Mosconi, 1996) ad
un qualcosa che può essere riempito non solo di attività e
pratiche, ma anche di nuovi significati.
Per quanto riguarda il mio educatore ho un buon rap-
porto. Lo stimo, è una persona che ritengo onesta e pre-
parata. L’ho visto 4-5 volte da quando sono qui, quindi
lo vivo come una risorsa.
(Intervista, Giulio)
Con riferimento al personale di polizia penitenziaria
la relazione di supporto è sicuramente più complessa come
sottolineato nel prossimo estratto:
(L’agente) è una risorsa perché ti configuri con lui, se tu
vuoi parlare con qualcuno il primo è l’agente, quindi,
irrimediabilmente è una risorsa. Risorsa umana non lo
so… vivere come una risorsa quello che mi chiude, non
è molto semplice. Però l’amministrazione, gli agenti,
sono sicuramente una risorsa concreta. Anche perché
loro hanno in mano le chiavi di questo mondo. Non ce
le ho io, neppure tu ma loro […] Quindi vivere come
risorsa un operatore di polizia penitenziaria non lo ri-
tengo possibile. Non è un gesto d’arroganza, ci sono cose
inopportune da non dover fare. Io non accetterei mai
un caffè da una guardia e mai glielo offrirei, pur rispet-
tando. Non si fa.
(Intervista, Lucio)
L’estratto mette chiaramente in evidenza un primo
aspetto: per qualsiasi necessità, in prima battuta, i detenuti
possono interfacciarsi sempre e solamente con queste fi-
10 Per un approfondimento sulle categorie informali relative alle
carceri “a vocazione trattamentale” o “aperti” e quelli “punitivi” e
“chiusi”, si veda Torrente (2018).
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A. Maculan et al.
gure professionali le quali, eventualmente e solo in un se-
condo momento, si rivolgeranno ad altri professionisti pe-
nitenziari per assecondare le richieste ricevute (cfr.
Maculan e Santorso, 2018). Similmente a quanto accade
con gli educatori, anche con il personale in divisa esiste,
dunque, un rapporto di “dipendenza strutturale” che in-
nanzitutto costruisce il poliziotto penitenziario come una
risorsa, il primo operatore – e a volte l’unico – a cui potersi
rivolgere in vista di un qualsiasi tipo di necessità: da quella
più banale a quella maggiormente urgente. Un diverso
aspetto importante che riguarda la relazione con il perso-
nale di polizia penitenziaria concerne il ruolo che queste
figure occupano all’interno del campo penitenziario:
quello della gestione dell’ordine e della sicurezza degli isti-
tuti di pena (lg. 395/1990), rispetto alle quali la popola-
zione detenuta è interpretata come la principale minaccia.
Ciò configura la popolazione ristretta e il personale ad-
detto alla sicurezza come attori fortemente contrapposti
(Clemmer, 1940; Sykes, 1958; Goffman, 1978; Vianello,
2018), in virtù sia delle reciproche rappresentazioni spesso
stigmatizzanti (cfr. Russo et al., 2008; Maculan, 2022),
sia delle forti asimmetrie di potere esistenti (Gariglio,
2017; Torrente, 2016), chiaramente espresse nella frase
hanno in mano le chiavi di questo mondo”. La sua scelta
di escludere la possibilità di vivere un momento di convi-
vialità assieme (prendere un caffè) è esemplificativa di un
modo di sentire diffuso fra la popolazione reclusa che di-
pinge questi due mondi come difficilmente conciliabili
poiché, anche laddove si presentino momenti di cordialità
(magari anche accettando un caffè offerto da un agente)
questi si inseriscono sempre all’interno di un frame del-
l’alterità, intesa non nei termini di “altro come risorsa” ma
“altro da sé”.
Risulta, però, interessante sottolineare che dati quan-
titativi inerenti ad uno studio sul medesimo progetto for-
mativo (cfr. Perasso, 2021) abbiano confermato un
cambiamento nella visione delle fonti di supporto sociale
per i detenuti: se prima del percorso PF lo staff peniten-
ziario non veniva in alcun modo menzionato come possi-
bile fonte di sostegno, dopo il percorso è stato invece
indicato da alcuni partecipanti come un punto di riferi-
mento utile per far fronte a cambiamenti e difficoltà. Que-
sto ci fa ipotizzare che esperienze formative del genere
possano contribuire ad avviare quel complesso processo
di messa in discussione delle rappresentazioni rigide ed
oppositive tipiche del contesto penitenziario. Un processo,
tuttavia, che andrebbe sostenuto e rafforzato da un più
ampio percorso di cambiamento complessivo che passa
anche per una diversa organizzazione del mondo carcera-
rio e della cultura professionale della stessa polizia peni-
tenziaria.
Conclusioni
Far fronte alle sfide della quotidianità detentiva richiede
l’individuazione, il potenziamento e la promozione di ri-
sorse personali e sociali. In particolare, la valorizzazione
dell’interconnessione tra le persone nei gruppi e nelle co-
munità – a cui richiamava la chiave di PF “Considera l’al-
tro come una risorsa ed espandi la tua rete sociale”
presuppone la promozione di un nuovo punto di vista
sulle relazioni. Un punto di vista in grado di considerare
aspetti che riguardano la condivisione di strumenti utili
per fronteggiare le difficoltà, l’utilizzo dell’esperienza e
della diversità dell’altro per promuovere interazioni reci-
proche positive, ma anche valori umani come il rispetto,
la condivisione e l’empatia. Una formazione come quella
di PF, sulle strategie di superamento delle avversità che
consideri tutti gli attori della comunità può contribuire a
mettere in discussione le tipiche dinamiche penitenziarie
basate sulla stigmatizzazione e la rigidità dei ruoli, per
creare nuovi percorsi a partire dalle risorse che l’ambiente
mette a disposizione agli individui (Paoletti, 2018). Si
tratta sicuramente di una sfida complessa, alla quale la co-
munità carceraria spesso non è abituata. Una sfida che va
affrontata con piena consapevolezza della difficoltà cui si
va incontro quando si interviene in una struttura forte-
mente rigida e asimmetrica, in cui forme di pregiudizio e
sospetto sostengono spesso dinamiche relazionali forte-
mente problematiche. Ciononostante, percorsi formativi
simili possono aprire nuove prospettive basate su processi
di negoziazione reciproca tra individuo e contesto, con
l’intento di valorizzare le risorse, nell’ottica di superare di
volta in volta complessità e incertezze.
La ricerca qualitativa presentata in questo articolo ci
ha parlato di come questo primo tentativo di immaginare
la comunità carceraria come beneficiaria di interventi for-
mativi volti ad implementare la resilienza individuale e di
comunità abbia cominciato a porre in questione diverse
rigidità tipiche delle relazioni penitenziarie. Come ab-
biamo potuto osservare, in un contesto complesso come
quello penitenziario è possibile ripensare e problematizzare
diverse dinamiche relazionali, anche laddove esse si rive-
lano maggiormente problematiche (soprattutto quelle che
coinvolgono detenuti e staff).
Consideriamo utile, quindi, promuovere in futuro e
in altri contesti penitenziari percorsi che accolgano questa
prospettiva tenendo ben presente che nel vasto “arcipelago
penitenziario” italiano (Sbraccia e Vianello, 2016) ciascun
contesto carcerario possiede caratteristiche proprie. Que-
sto ci porta a sottolineare anche i limiti di questo studio.
In primis essi sono connessi alle peculiarità della Casa di
reclusione di Padova – un istituto considerato a vocazione
trattamentale visti i numerosi operatori esterni che vi fa-
cevano accesso e le diverse attività che venivano realizzate
– che la differenziavano dalla maggior parte delle carceri
italiane, tendenzialmente più “chiuse10. Per questo mo-
tivo i risultati di questo lavoro solamente in parte possono
essere generalizzati ad altri istituti. In secondo luogo, le
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A. Maculan et al.
persone che sono state intervistate risentono della sele-
zione effettuata in fase di reclutamento dei partecipanti al
corso PF e quindi non comprendono le persone recluse
che non parlavano la lingua italiana. In generale possiamo
dire che i partecipanti al corso PF (e di conseguenza coloro
che hanno deciso di partecipare alla ricerca) rappresenta-
vano un sottogruppo delle persone recluse particolarmente
interessate a prendere parte ad iniziative simili.
In conclusione, ulteriori percorsi di ricerca su questo
tema potrebbero dare particolare attenzione al versante
degli operatori, esplorando chi, queste figure professionali,
percepiscono come una risorsa utile per fronteggiare un
contesto lavorativo complesso e problematico quale quello
carcerario (cfr. Buffa, 2011; Maculan et al., 2016). Verifi-
cando, inoltre, se e in che maniera l’”altro come risorsa
possa essere individuato anche al di fuori del proprio
gruppo professionale, senza escludere la possibilità che
questo ruolo possa essere ricoperto anche dalla popola-
zione reclusa.
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Sommario: Nonostante il lavoro scientifico di Pierre Bourdieu abbia avuto un grande impatto su svariate discipline delle scienze sociali, nell'ambito della sociolo-gia del diritto, della devianza e della pena, le sue idee hanno spesso faticato ad essere accolte. Negli ultimi anni, però, qualcosa è cambiato. Diversi studi, svolti soprattutto a livello internazionale, hanno iniziato a mostrare grande interesse nella produzione teorica del sociologo francese. L'intento di questo articolo è quello di porsi nel solco di questi lavori, indagando il contributo che la sociologia di Pierre Bourdieu può dare alla sociologia del carcere. Attingendo ad alcuni dei suoi più noti concetti si cercherà di delineare i con-torni di quella che potremmo chiamare una teoria del campo penitenziario, ovvero un modo di guardare sociologicamente a questo microcosmo sociale, affrancandosi dalle interpretazioni meramente istituzionali e trattamentali del mondo carcerario. Parole chiave: Bourdieu; teoria del campo; carcere; campo penitenziario; habitus; capitale. Abstract: Although Pierre Bourdieu's scientific work has had a great impact on various social science disciplines, in the field of sociology of law, deviance, and punishment his ideas have often struggled to be accepted. In recent years, however, something has changed. Several studies, especially at an international level, have started to show great interest in the French sociologist's theoretical production. This article places itself in the wake of these works, by investigating the contribution of Pierre Bourdieu's sociology to the sociology of prison. Drawing on some of his best-known concepts, the aim of this article is to outline the contours of what could be called a theory of the prison field, that is, a way of looking at this social microcosm in
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Research about the predictors of resilience in the inmate population needs further explorations. This study examines the predictors of resilience in male inmates from Padua prison, before and after a 9-session neuropsychopedagogical intervention, entitled Envisioning the Future (EF), which took part in remote during Covid-19 pandemic. Using two linear regression models, a change in the factors determining inmatesʼ resilience was found from before to after the intervention. In the pre-course group (n = 24), only low avoidance emerged as a statistically significant predictor of the level of resilience. In the post-course group (n = 24) low avoidance, flexibility, high levels of social support, and self-efficacy in managing positive emotions emerged as significant predictors of inmates' resilience. The results show that the constellation of factors predicting resilience in prisoners can be enriched by participating to neuropsychopedagogical interventions like EF, that increases individuals' resources in a challenging context such as prison. 1 Tania di Giuseppe et al.
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The following paper is the result of a collective reflection shared by resilience researchers across the globe (Fondazione Patrizio Paoletti, 2022), inquiring about how the pandemic can be considered a catalyst for change for building more resilient communities and social structures. As a contribution to facing the current emergency, resilience researchers share four interdisciplinary insights that are presented in the current paper.
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Il carcere è un mondo del tutto particolare, un frammento della nostra società sconosciuto a molti, opaco, spesso stereotipato e di difficile accesso e comprensione. Al suo interno vivono e lavorano molte persone aventi ruoli e status diversi, spesso opposti e talvolta in aperto conflitto. Fra queste vi sono gli operatori di polizia penitenziaria, chiamati primariamente a perseguire un compito di cruciale importanza: garantire l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti di pena. A partire da una ricerca etnografica svolta in un carcere del Nord Italia, questo volume si pone l’obiettivo di illuminare il complesso mondo di queste figure professionali. Attingendo ad alcuni noti concetti sviluppati da Pierre Bourdieu – i concetti di campo, di habitus e di capitale – il personale di polizia penitenziaria verrà inserito all’interno di quel particolare microcosmo sociale che è il campo penitenziario. Lì, le disposizioni incorporate dagli operatori e le forme di capitale di cui dispongono danno luogo a pratiche che strutturano la quotidianità carceraria in una sorta di “gioco del carcere”, continuamente riprodotto nelle interazioni del personale in divisa con le persone detenute e gli altri operatori. L’intento di questo testo è quello di descrivere la polizia penitenziaria andando oltre la sua mera descrizione formale seguendo l’invito bourdieusiano a denaturalizzare il socialmente dato, con lo scopo di gettare nuova luce su queste figure professionali e sul contesto all’interno del quale operano.
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This paper presents the results of a study investigating both predictors of resilience on a group of educators of the juvenile justice system and effects of group training on this construct. Results showed that (a) self-efficacy in managing positive and negative emotions and positive attitude are predictors of resilience and (b) the comparison of pre-post values revealed an impact of the training affecting the balance between self-efficacy in managing positive and negative emotions and positive attitude. Ultimately, this study seems to indicate the need to promote targeted training experiences on emotion management for supporting the educators in the juvenile justice system.
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The past decade has seen growing interest in interventions that build resilience as a complementary practice to trauma-informed care. From school-based programs focused on self-regulation and academic success to programs that support the well-being of disadvantaged populations or healthcare workers at risk of burnout, the concept of resilience is being used most commonly for programming that builds the capacity of individuals to adapt under conditions of adversity. Critiques have raised concerns that resilience-promoting programs demonstrate bias toward changing individual-level factors such as cognitions (e.g., mindfulness and grit), behavior (e.g., expressing gratitude and changing personal routines), or attachments (e.g., feeling secure in relationships) which help people adapt to socially toxic situations without changing access to the resources they require to overcome exposure to adverse psychosocial factors. This trend belies advances to the theory of resilience which support a more contextualized, multisystemic understanding of how external protective factors (resources) enhance individual qualities (ruggedness) and vice versa. Building on a multisystemic description of resilience, the R2 Resilience Program© was developed and piloted with six different populations ranging from clients of urban social services to workers in a long-term care facility, managers in the health care sector, staff of a Fortune 500 corporation, students in a primary to grade 12 school, and adult volunteers affiliated with an international NGO. Focused on building both individual ruggedness and enhancing people’s resources (the two Rs), the program provides contextualized content for each population by selecting from 52 resilience promoting factors with a strong evidence base to create training curricula that enhance the personal qualities and social, physical, and institutional resources most likely to support resilience. This paper reviews the justification for a multisystemic approach to designing resilience interventions and then explains the process of implementation of the R2 program. Preliminary findings are reported, which suggest the program is experienced as effective, with evaluations ongoing.
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Background The coronavirus disease 2019 (COVID-19) pandemic has led to increases in anxiety, depression, posttraumatic stress disorder, burnout, grief, and suicide, particularly for healthcare workers and vulnerable individuals. In some places, due to low vaccination rates and new variants of SARS-CoV-2 emerging, psychosocial strategies for remaining resilient during an ongoing multi-faceted stressor are still needed. Elsewhere, thanks to successful vaccination campaigns, some countries have begun reopening but questions remain regarding how to best recover, adjust, and grow following the collective stress and loss caused by the pandemic. Method Here, we briefly describe three evidence-based strategies that can help foster individual and collective recovery, growth, and resilience: cultivating social belonging, practicing compassion, and engaging in kindness. Results Social belonging involves a sense of interpersonal connectedness. Practicing compassion involves perceiving suffering as part of a larger shared human experience and directing kindness toward it. Finally, engaging in kindness involves prosocial acts toward others. Conclusions Together, these strategies can promote social connectedness and help reduce anxiety, stress, and depression, which may help psychologists, policymakers, and the global community remain resilience in places where cases are still high while promoting adjustment and growth in communities that are now recovering and looking to the future.
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English below La recente chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) ha sconvolto le preesistenti geografie del sistema pena-le, producendo effetti di rilievo anche nel campo penitenziario. Sembra infatti che il carcere abbia visto negli ultimi anni l'esplodere di una nuova "questione psichiatrica", con l'ingresso di un numero crescente di detenuti affetti da disturbi psichici come diretta conseguenza del superamento delle precedenti istituzioni manicomiali. Il testo si propone di decostruire tale retorica attraverso uno studio etnografico condotto dall'autore in tre istituti penitenziari del nord Italia: la ricerca, facendo riferimento agli approcci teorici della criminologia critica e della psichiatria radicale, evidenzia la natura complessa e sfaccettata del fenomeno, indagando i saperi e le pratiche messe in atto dagli operatori sanitari e analizzando la loro interazione con il campo morale e simbolico del penitenziario. Dal testo: "La ricostruzione delle possibili cause relative all''aumento dei detenuti psichiatrici' restituisce delle narrazioni spesso confuse, nelle quali le considerazioni di carattere medico non risultano del tutto separabili dagli elementi di normatività che caratterizzano e permeano lo spazio penitenziario. In questo senso il 'detenuto psichiatrico' appare essere quel detenuto che certamente vive una condizione di particolare disagio psichico, ma che al tempo stesso non sa gestire questa sua sofferenza in modo appropriato, reagendo in maniera imprevedibile alle situazioni di vita istituzionale e dimostrandosi incapace di "farsi la galera". The recent overcoming of Forensic Psychiatric Hospitals (OPG) in Italy has profoundly transformed the geography of the carceral archipelago, producing significant effects in the prison field. According to reports from staff and the prison administration, it seems that prisons have seen the explosion of a new 'psychiatric issue' in recent years. This would be characterised by the admission of an increasing number of inmates suffering from mental disorders, a dynamic described as a direct consequence of the (allegedly failed) overcoming of the OPG. The text proposes to deconstruct this rhetoric through an ethnographic study conducted by the author in three prisons in northern Italy: the research, referring to the theoretical approaches of critical criminology and radical psychiatry, highlights the complex and multifaceted nature of the phenomenon, investigating the discourses and practices implemented by healthcare workers in the carceral archipelago and analysing their interaction with the moral and symbolic field of the penitentiary.
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There is significant variation in the response to adversity, with a substantial proportion of individuals displaying psychological resilience. Epigenetic mechanisms are hypothesised to be one molecular pathway of how experiences can become biologically embedded and contribute to individual differences in resilience. However, not much is known regarding the role of epigenetics in the development of psychological resilience. In this review, we propose a new conceptual model for the different functions of epigenetic mechanisms in psychological resilience. The model considers 1) the initial establishment of the epigenome, 2) epigenetic modification due to protective environmental exposures across life, 3) the role of protective factors in counteracting adverse influences, and 4) genetic moderation of environmentally induced epigenetic modifications. After reviewing empirical evidence for the various components of the model, we identify research areas which should be prioritized and discuss practical implications of the proposed model for epigenetic research on resilience.