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Il progetto della hauntology:
forme e pratiche dell’artefatto musicale in un presente nostalgico.
Guglielmo Bottin
– Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali
– Centro Informatico Musicale Multimediale de La Biennale di Venezia
English Abstract
By working with materials and devices from the era of reproducibility (and often even with the
"residues" of the cultural industry) hauntological music positions itself as a practice which is both
expressive and "theoretical". In this sense, it shares the projectuality of art music, combined with
specific elements that characterize the hauntological aural imprint. Starting from the
conceptualization of the theme of hauntology in the context of postmodernism, the end of the avant
gardes and the proliferation of nostalgia and retromania, this paper presents an analysis of musical
hauntology, identifying both design aspects and process aspects employed in the creation of
"ghostlike" sound works, in which multiple temporal levels are unraveled. By examining several
case studies and sifting through existing literature, we highlight some critical issues in the
previously proposed theories and categorizations. Finally, we proceed to the identification of a
hauntological musical praxis. Recurring timbral and stylistic elements are listed, reviewed and
discussed in both their formal characteristics and in the role they play within the hauntological
mechanism.
Keywords: hauntology, sonic spectres, composition as project and process, phonographic art, sound
archeology, nostalgia for the future.
Abstract
La musica hauntologica, lavorando con materiali e dispositivi propri dell’era della riproducibilità e
talvolta anche con i “residui” dell’industria culturale, si connota come pratica artistica anche
fortemente “teorica” e, in questo senso condivide la progettualità della musica “d’arte”, coniugata a
pratiche che ne caratterizzano l’impronta aurale. Partendo dalla concettualizzazione del tema della
hauntology nel contesto del postmoderno, della fine delle avanguardie, della nostalgia e della
retromania, l’articolo presenta un’analisi della hauntologia musicale individuando aspetti
progettuali e processuali nella creazione di opere sonore “fantasmatiche”, in cui sembrano dipanarsi
livelli temporali multipli. Esaminando diversi casi di studio e vagliando la letteratura esistente, si
evidenziano alcune criticità nelle teorie e categorizzazioni precedentemente proposte. Si procede
quindi all’individuazione di una prassi musicale hauntologica e si presentano elementi timbrici
e stilistici ricorrenti di cui si cerca di fornire una rassegna ragionata.
Parole chiave: hauntology, spettri sonori, composizione come progetto e processo, arte fonografica,
archeologia sonora, nostalgia del futuro.
Il tema della hauntology, introdotto da Derrida [1993] in contesto filosofico è stato poi ripreso in
diversi studi culturali contemporanei. Parallelamente la hauntology ha da tempo fatto il suo
ingresso in campo artistico e musicale. Lavorando con materiali e dispositivi propri dell’era della
riproducibilità e talvolta anche con i “residui” dell’industria culturale, la musica hauntologica si
connota come pratica creativa anche fortemente “teorica” e, in questo senso, condivide la
progettualità della musica “d’arte”, coniugandola con elementi che ne caratterizzano una
specifica impronta aurale. Tali aspetti sono stati descritti (più che analizzati) in ambito saggistico
e giornalistico, senza un particolare indirizzo scientifico. Partendo dalla concettualizzazione della
hauntology nel contesto del postmoderno, della fine delle avanguardie [§1], della nostalgia e
della retromania [§2], l’articolo presenta un’analisi della hauntologia musicale identificando
aspetti progettuali e processuali [§4] della creazione di opere sonore “fantasmatiche”, in cui
sembrano dipanarsi temporalità multiple. Esaminando diversi casi di studio [§§3–6] e vagliando
la letteratura esistente si propone di ricondurre l’analisi di queste particolari forme di autoralità –
esaminate finora da media studies di stampo sociologico che ne hanno trascurato gli impianti
musicali e le tecnologie sonore specifiche – a un discorso musicologico. Di conseguenza è stato
possibile evidenziare alcune criticità nelle teorie e categorizzazioni precedentemente proposte
[§7]. Infine si procede con l’individuazione di una prassi musicale hauntologica, caratterizzata da
elementi timbrici e stilistici ricorrenti di cui si cerca di fornire una rassegna ragionata [§8].
1. La scomparsa del futuro e l’invecchiamento congenito della “nuova” musica
Nella musica del ventunesimo secolo, il senso di proiezione verso il futuro sembra essere
svanito. A dimostrazione di ciò si propone un esperimento mentale: immaginiamo di poter
mandare un disco indietro nel tempo. Ipotizziamo quindi che un brano di oggi venga ascoltato da
un pubblico di dieci, quindici o venti anni fa. È difficile immaginare che tale ascolto
provocherebbe negli ascoltatori di ieri un qualsiasi choc o turbamento. Al contrario, una volta
edotti sul fatto che il disco proviene dal futuro, gli ascoltatori si sorprenderebbero di trovarvi
tanti suoni riconoscibili, già presenti al loro tempo [Fisher 2013a, 19]. Sarebbero probabilmente
stupiti del fatto che la musica sia evoluta così poco rispetto alla loro contemporaneità. Pensiamo
invece alla velocità di avvicendamento degli stili e delle tecnologie musicali negli anni
Cinquanta, Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta: un disco proveniente da una qualsiasi di quelle
decadi conterrebbe diverse sonorità “inaudite” e inimmaginabili nelle decadi precedenti.
Già alla fine degli anni Cinquanta, Adorno preconizzava l’invecchiamento della nuova
musica, giungendo a sconfessare i propri iniziali entusiasmi per la neue Musik e per la scuola di
Darmstadt. La musica che in quel tempo voleva apparire come nuova, sostiene Adorno, stava in
realtà rapidamente invecchiando. Tale congenito logoramento sarebbe ascrivibile al consueto
leitmotiv della «società amministrata» (che reprimendo ogni affermazione individuale
concederebbe al compositore solo un’arte angosciante come sincera ma inane forma di protesta),
ma anche e soprattutto all’interesse dell’arte per la tecnologia in generale, ivi compreso
l’impiego nella composizione di metodi logico-matematici, pratiche che piegherebbero la musica
a «l’infatuazione per il materiale» e alla «cecità per quel che ne risulta» [Adorno 1959, 69].
Qualche decennio più tardi neppure Nattiez [1987, 172–179] è entusiasta delle correnti recenti
della musica contemporanea e giudica il linguaggio musicale modernista come ormai incapace di
svilupparsi in nuove forme e di comunicare con il suo pubblico di riferimento.
La “fossilizzazione” di un modernismo ormai vecchio si accompagnerebbe a un “falso nuovo”
costituito da neoclassicismi e neoromanticismi musicali, “stili epigonici” che non sarebbero
“altro che un arretramento” [Marino 2020, 146]. Anche il progetto per una infinite music del
futuro, ispirato agli scritti di Busoni [1916] e sviluppato da Harper [2011] come nuovo sistema di
oggetti musicali definiti da molte variabili (ben oltre le cinque proposte da Cage nel suo modello
di sound space), è rimasto pura teoria mai davvero concretizzatasi in pratiche di autorialità.
Nel presente, con l’esaurirsi delle avanguardie fondate sul continuo rinnovamento, sembra
cadere anche l’opposizione alle forme del passato. La produzione artistica appare oggi come un
insieme di interferenze culturali che fatica a consolidarsi in un nuovo stile e in cui, nell’opera,
sembra venire meno il concetto di “novità” per come era precedentemente inteso, ovvero come
un insieme di innovazioni tecniche e formali, talvolta accompagnate dalla negazione di canoni
precedenti o dalla messa in discussione della tradizione e dei suoi valori. Ai due insiemi di
ordine temporale in cui da sempre si svolge la musica, il tempo come durata del brano e il tempo
come periodo del giorno/dell’anno a cui un’opera si può riferire [Eisenberg 1987, 27] se ne
aggiunge così sovente un terzo: il tempo storico degli stili e dei linguaggi utilizzati.
L’inclusione di forme del passato può anche produrre effetti singolari nella percezione di
quanto è dato come “originale” (in opposizione al revival o alla ricostruzione filologica
intenzionale) e portare alla creazione di opere solo parzialmente originali, derivate (più o meno
dichiaratamente) da altre o contenenti frammenti di opere antecedenti [Rutherford 2017, 247].
Da una decina d’anni nel contesto della popular music si parla esplicitamente di “retromania”
[Reynolds 2011] e anche nell’ambito della cosiddetta musica sperimentale
1
non vi è ormai più la
percezione che l’innovazione possa procedere all’infinito, «non si ha affatto l’impressione che il
ventunesimo secolo sia già cominciato» ed è diffusa la sensazione di «essere arrivati tardi, di
vivere dopo l’età dell’oro» [Fisher 2013a, 20]. A conferma di ciò, è utile rilevare che la grande
maggioranza dell’attuale produzione, sia artigianale sia industriale, di strumenti elettronici per la
generazione e riproduzione timbrica (sintetizzatori, sound libraries) e la manipolazione del
suono (riverberi, echi, processori di dinamica e di frequenza) consta per grandissima parte di
simulazioni o riedizioni attualizzate di dispositivi degli anni Settanta e Ottanta [Boxer 2015],
magari “virtualizzati” dal software [Pakarinen 2011, Manning 2004] con l’intento dichiarato di
“suonare” esattamente come gli strumenti originali dell’epoca. Le “nuove” tecnologie del suono
e della musica sono state spesso impiegate per ottenere o ricreare in modo più rapido e meno
oneroso non solo i timbri ma anche le forme musicali del passato. Anche sul fronte
dell’elaborazione sonora digitale (al di là del perfezionamento della sintesi vocale e
dell’affermarsi di standard per il suono spazializzato) non sembrano emerse innovazioni
timbriche successive ai processi granulari
2
sviluppati già negli anni Sessanta e alle tecniche di
sintesi a modelli fisici
3
degli anni Novanta.
Mancando le avanguardie forti, la musica di oggi pare aver perso la capacità di dare in sé
rappresentazioni estetiche innovative e sembra incline a una nostalgia formale per il passato
[Griffiths 1995], a un ritorno confortante a linguaggi e stili consolidati, spesso tra loro accostati
mediante “meticciato” o contaminazione [Piperno 2016, 150]. In alcuni casi assistiamo a un
allontanamento dalla creazione di opere-modello e all’estetizzazione di pratiche che producono
non più modelli formali ma opere-sistemi sottoposte alla prassi, «dispositivi performativi» [Di
Scipio 2021], insiemi di agentività tra umani-macchine-spazi-ambiente che non appaiono rivolte
a una proposta/visione futuristica ma alla valorizzazione delle circostanze del presente. In ambito
popular e controculturale, il presente digitale è invece l’oggetto di quella famiglia di musiche
1
Experimental music è un termine generico. Pierre Schaeffer lo utilizza per riferirsi alla musica concreta, alla
elektronische Musik tedesca e anche alla tape music. John Cage definisce sperimentale tutta la musica che contiene
elementi aleatori e che origina da un’azione il cui risultato non è a priori prevedibile. È detta sperimentale anche
l’arte musicale che rifiuta la tradizione. Il testo di Nyman [1974] dedicato alla musica sperimentale include anche il
live electronics, le esperienze Fluxus e il minimalismo.
2
Tecniche realizzate principalmente da Xenakis [1963] sulla base delle teorie di Gabor.
3
Simulazioni algoritmiche dei processi fisici sottostanti alla generazione naturale dei suoni, come quelle illustrate da
Morrison e Adrien [1993].
dette hi-tech o post-umane [Harper 2016] che – al contrario del lo-fi retromaniacale dedito al
rispolvero del “calore” analogico – parassitano gli aspetti più artificiali e patinati dell’industria e
del mercato per realizzarne delle satire agrodolci [ibid.] o freddamente kitsch: dall’atteggiamento
elitistico della cosiddetta conceptronica [Abadir 2020] che, benché sostanzialmente priva di
innovazioni formali vuole però “elevarsi” mediante paratesti seriosi (sovente ispirati alle teorie
del postumanesimo) ai rallentamenti “ipnagogici” del vaporwave, alle voci “disumanizzate” nei
toni striduli e infantili di PC music e HexD.
2. La “tecnostalgia” e l’infinito presente digitale
Nel celebre saggio dedicato al cosiddetto postmoderno, Fredric Jameson definisce nostalgia
mode tutta quella produzione artistica e culturale del presente che interrompe il senso della
temporalità, che manifesta una pressoché totale adesione alle forme del passato e che rinuncia
all’innovazione talvolta anche per porsi dialetticamente agli antipodi di quella che era la pulsione
modernista [Jameson 1991, 91].
4
Questa riproposizione degli stili passati, talvolta al limite del
parossismo, è ormai diffusa anche nella musica elettronica dance, fino a qualche tempo fa ultimo
baluardo avanguardista da cui si immaginava un avvenire di “liberazione cosmica”, come ad
esempio nella visione afrofuturista della techno music degli anni Novanta [Attimonelli 2008].
I “technoribelli”, così chiamati dal loro scrittore di riferimento Alvin Toffler – che a sua volta si
definiva addirittura “futurologo” – non volevano semplicemente rendere la musica più
tecnologica, muovendosi a partire dal solco di una tradizione da modernizzare [Sicko 1999]:
volevano al contrario abbandonare qualsiasi legame col passato, promuovendo il dominio della
tecnologia sull’arte. In alcuni casi giungevano a idolatrare l’hardware musicale e a confonderlo
4
La questione è certamente più strutturata di quanto qui appena accennato, tuttavia lo stesso Jameson cade vittima
dell’apparente complessità del postmoderno. Nell’analisi di AlienNation, un’opera multimediale realizzata nel 1979
all’Art Institute di Chicago, Jameson sostiene: «L’alternarsi di Beethoven e della disco music emette indubbiamente
un messaggio di classe – la cultura alta contro quella popolare o di massa, il privilegio e l’istruzione contro forme di
svago più popolari e fisiche – ciò nonostante continua a veicolare il vecchio contenuto di una certa tragica gravità, il
senso formale del tempo della forma sonata medesima, l’'altà serietà” della più rigorosa estetica nel suo cimentarsi
con il tempo, la contraddizione e la morte. Tale serietà si trova dunque opposta all’inesorabile distrazione temporale
propria della musica commerciale metropolitana dell’epoca postmoderna» [Jameson 1991, 202, trad. di M
Manganelli]. In AlienNation però non vi è affatto alternanza tra Beethoven e disco music. Ciò che si sente non è
frutto del montaggio, di una scelta concettuale, né tantomeno è contrapposizione tra cultura alta e musica
commerciale: si tratta semplicemente del noto brano A Fifth of Beethoven [Murphy, 1976], usato nel video senza
particolari tagli o trattamenti.
con il musicista, quasi come se la fonte della creatività risiedesse nello strumento tecnologico
[Fronzi 2013, 246]. Per questi motivi la musica techno (anche nelle sue gemmazioni IDM
5
,
raccolte nel 1992 in una prima antologia), è da molti considerata anche «l’ultima musica a dare
l’impressione di muoversi in avanti, ultimo lampo di futurismo privo di ironia» [Reynolds 2011,
456]. Oggi invece anche nella musica elettronica di matrice popular sembrano ormai consolidate
due macro-tendenze: la prima è caratterizzata da un tentativo dichiarato di continuare
l’evoluzione del linguaggio musicale proiettandosi teoricamente nel futuro ma, nella pratica,
seguendo un cammino puntellato di citazioni e disseminato di “pietre d’inciampo” che
rimandano di continuo alle radici musicali di una comunità di artisti che – non trovando forse
nuovi riferimenti nel presente – si cristallizza intorno al campionamento celebrativo di
brani/artisti feticcio e al riciclaggio di artefatti musicali che, anche se magari non noti al largo
pubblico, per caratteristiche timbriche o ritmiche risultano immediatamente collocabili in una
delle “età dell’oro” di questo o di quel sottogenere musicale. La seconda tendenza sembra partire
dalla summenzionata nostalgia mode, qui però mossa da una venerazione per le tecnologie del
passato – Taylor [2001, 96] parla espressamente di “technostalgia” – che arriva ad artificiare la
nostalgia (e la citazione) mediante l’esasperazione di forme e stilemi passatisti, che si
concretizzano in quelli che alcuni chiamano impietosamente parody tracks [Reynolds 2013]. Si
tratta di lavori che a un ascoltatore attento – o forse anche solo sufficientemente “anziano” da
poter ricordare la musica di dieci o vent’anni prima – si rivelano immediatamente come mere
caricature. Emulazioni fallite, troppo aderenti ai propri modelli di cui (come in un ritratto
caricaturale) si esagerano alcuni tratti giungendo a un risultato involontariamente comico o
grottesco. Queste inconsapevoli parodie sembrano originare da un senso di smarrimento
temporale dell’autore che appare incapace di distinguere e misurare le citazioni del passato, la
cattura del presente e l’immaginazione del futuro. L’uso di forme e stilemi preesistenti non
costituisce così «ripresa, recupero o rimessa in circolo ma semplice utilizzo di mattoni musicali
per costruire nuove occorrenze» [Marino 2020, 149], occorrenze nella migliore delle ipotesi
assimilabili a quelle del passato e talvolta anche di molto inferiori.
5
Intelligent Dance Music o braindance, stile di techno music non basato sul groove e non funzionale al ballo, bensì
destinato all’ascolto domestico e che, sin dal nome che lo identifica, vorrebbe porsi come più “intellettuale” e
riflessivo. La prima antologia è Artificial Intelligence (Warp Records, 1992).
Questo disorientamento è divenuto palese anche in certa musica destinata al consumo di
massa. Un esempio è l’album Random Access Memories dei Daft Punk [2013]: lo stesso titolo
rimanda alla compenetrazione (o confusione) tra ricordi umani e memoria informatica. Nel disco,
il duo francese che un tempo era stato promotore di una certa innovazione stilistica (per esempio
dell’uso non più “tecnico” ma fortemente espressivo della sidechain compression
6
e nel
montaggio sapiente e sofisticato di frammenti campionati), non trovando più un modo per
portare avanti il proprio percorso musicale, si rifugia in un confortante passato. Il suono di
processi digitali (fino a pochi anni prima posti in primo piano) è ora celato all’orecchio. Si
reclutano “storici” musicisti da studio di quarant’anni prima, cui far eseguire al meglio (ma con
professionalità un po’ fredda, forse perché straniati dall’artificialità anacronistica
dell’operazione?) gli elementi costitutivi della musica pop degli anni Settanta, quasi a voler
ricreare in vitro l’intero habitat che aveva generato tali sonorità. Le tecnologie digitali però ci
sono e, sebbene nascoste, i loro effetti sono ben percepibili e consentono correzioni e una pulizia
del suono pressoché perfette. Il risultato è un passatismo asettico in cui non emergono
significativamente né l’uomo, né la macchina [Rayner 2013, Richards 2013] e (nonostante il
successo commerciale) dall’ascolto del disco appare inspiegabile l’enorme impiego di tempo e
risorse: cinque anni di registrazioni effettuate in tre città diverse e un budget per la produzione di
circa un milione di dollari [Frere-Jones 2013, Hawking 2013]. A coronamento di questo sogno
sonoro in cui passato e presente sono resi indistinguibili e innocui, gli autori assoldano il
produttore di disco music e compositore di colonne sonore Giorgio Moroder, noto per aver
innovato la musica pop con l’uso disinvolto di sintetizzatori e vocoder. Nel disco Moroder è
ridotto a blanda voce narrante che confessa le proprie visioni futuristiche di quando era un
giovane musicista:
6
L’uso parossistico della sidechain compression è divenuto molto popolare in seguito al successo dei dischi dei
Daft Punk. Consiste nel subordinare la dinamica delle parti strumentali armoniche (o comunque non percussive) alla
pulsazione del beat. A differenza del side-chaining “tecnico”, funzionale a regolare gli equilibri tra le parti, il
compressore è regolato in modo che il suo apporto non sia trasparente ma del tutto evidente, determinando un output
di massa sonora che si presenta come “ansimante”. Tale pratica ha connotato gran parte del cosiddetto stile “French
Touch” e continua anche oggi in diversi generi di popular music elettronica. Interessante notare come un
compressore a bassissimo costo (Alesis 3630, prodotto nel 1989) sia stato rivalutato fino a divenire oggetto di culto,
proprio perché utilizzato dai Daft Punk nel modo sopra descritto [Abravanel 2019].
I wanted to do an album with the sounds of the 50s, the sounds of the 60s, the sounds of the 70s,
and then the sound of the future. And I thought: wait a second, I know the synthesizer, why don’t
I use a synthesizer, which is the sound of the future? [Giorgio by Moroder, 2013]
Dichiarando di voler sovrapporre e ricontestualizzare elementi e stilemi musicali di epoche
diverse, il giovane Moroder si poneva in un’ottica certamente postmoderna. Tuttavia egli
riteneva assolutamente necessario inserire un elemento nuovo, un quid “modernista” che
consentisse di andare oltre la mera citazione (per quanto elettronicamente aggiornata) delle
decadi precedenti e che facesse presagire una possibile musica del futuro. Questo elemento era il
sintetizzatore, usato prevalentemente per bassi ostinati programmati al sequencer. Moroder era
infatti divenuto amico del compositore e direttore d’orchestra Eberhard Schoener e proprio in
casa di quest’ultimo aveva visto (e sentito) uno dei primi sistemi modulari Moog giunti in
Europa. A ogni modo quella descritta da Moroder nel 2013 è “musica del domani” immaginata
però quarant’anni prima, così il racconto finisce involontariamente per evidenziare – anziché
colmare – la mancanza di visione futura degli autori del “nuovo” disco che lo ospita. In effetti,
con l’esperienza di Random Access Memories i Daft Punk hanno smesso di pubblicare nuovi
brani e nel 2021, dopo alcuni anni di silenzio, il gruppo ha comunicato il proprio scioglimento.
Mentre Augé [2009] rileva nel mondo contemporaneo l’ideologia di un presente egemonico (a
scapito di un pensiero rivolto al futuro), Gibson [2012] definisce lo stato di atemporalità
caratteristico delle generazioni post-internet come endless digital now: un infinito “adesso”
digitale. Questa è una condizione che possiamo sperimentare direttamente, quando ci perdiamo
nelle piattaforme di distribuzione digitale: all’interno di una stessa cornice troviamo infatti le
ultime novità dell’industria dell’intrattenimento accanto ai classici del passato, poi ancora
contenuti sempre nuovi (spesso effimeri e quasi istantaneamente obsoleti) accanto a opere e
documenti di valore storico. Siamo smarriti tra i meandri di un archivio sterminato, senza fondo
ma al contempo empiricamente superficiale, in cui non è davvero possibile addentrarsi poiché
non vi si avverte mai una dimensione di profondità nella ricerca né una distanza storica tra i
depositi mediali, prima tra loro differenziati nella materialità dei supporti e poi oggetto di ri-
mediazione [Bolter e Grusin 1999]. Quando non già restaurati o acquisiti ad altissima
definizione, nei contenuti di “storico” restano solo difetti di fedeltà, rumori di fondo, “scorie”
non eliminate nella conversione digitale. Tutto ci viene oggi presentato sulla medesima
superficie, con la logica “dura” del database e dell’archivistica sostituite da quella “morbida”
degli algoritmi, in cui ogni contenuto immagazzinato dalle “macchine della memoria” [Goodman
e Parisi 2011] sembra collocarsi a uguale (o nulla) distanza da ogni altro. Una logica morbida ma
non per questo meno prescrittiva: alcuni hanno definito tali algoritmi come «macchine socio-
epistemologiche» dotate di un’autorità [Rogers 2013, 97] che impone ciò che è da considerarsi
rilevante.
3. Hauntology: estetica del fantasma del passato e del futuro mai giunto.
Derrida [1993] coniò il termine hauntology unendo ontologia (intesa come la conoscenza
filosofica dell’essere) e il verbo inglese to haunt (perseguitare, infestare). L’esempio è quello del
fantasma: un’entità che è percepita e agisce in quanto “presenza” ma è al contempo assente dalla
realtà fisica. Nel suo scritto Derrida utilizza in effetti questo concetto per indicare come, dopo la
caduta del Muro di Berlino, Marx sia divenuto per molti un fantasma da esorcizzare; poi per
indicare gli “spettri” che ossessionavano lo stesso Marx quand’egli era in vita; infine per
ricordare che la realtà in cui viviamo è un mondo spettrale, in cui i morti (le merci) governano i
vivi, una realtà incomprensibile mediante la sola ontologia e per cui si rende necessaria
un’analisi appunto hauntologica. Altra origine del concetto di hauntology – molto meno
conosciuta ma certamente anteriore a quella appena citata – è rintracciabile secondo Davis
[2005] nel lavoro degli psicoanalisti Abraham e Torok [1987] che si occupavano di disturbi
transgenerazionali. In particolare di come i traumi non correttamente affrontati e risolti da
genitori e antenati potessero poi turbare la vita dei discendenti. Il “fantasma” pertanto non come
un’entità che torna in vita per rivelare (come in un racconto del terrore) dettagli dimenticati o
verità nascoste: al contrario lo spettro è costituito da un segreto di famiglia, da un’omissione
deliberata, una «lacuna lasciata in noi dai segreti di qualcun altro» [ibidem].
Il portmanteau derridiano ebbe rapida diffusione e il suo uso si allargò per indicare l’indagine
di quanto poteva essere definito come “fantasma”, non presente nella realtà fisica. Tale non-
esistenza poteva a sua volta articolarsi in due sottotipi: il non esistente poiché perduto, “non più”
esistente, e il non esistente come immaginazione del futuro: il “non ancora” esistente,
7
che
tuttavia può apparire già oggi come creazione fantastica e futuristica dell’autore.
7
La dicotomia tra non più e non ancora è di Hägglung [2008, 82].
Nella musica del presente però, il termine “futuristico” ha smesso di far pensare al “non ancora”,
a un futuro immaginato, e si è invece cristallizzato in alcuni stili ormai quasi “classici”, sebbene
un tempo sviluppati in totale ed esplicita opposizione alla tradizione e al precostituito. È il caso
dello stile detto appunto “futuristico” della musica dei Kraftwerk [Rogers 2013, Schütte 2020]
(un futuro immaginato mezzo secolo fa) e della glitch music
8
di Oval, Alva Noto o Ryoji Ikeda,
stile ormai consolidato da una ventina d’anni. Se prima si utilizzava la tecnologia per favorire
l’emersione di forme nuove, oggi la tecnologia è in larga parte usata per ricreare il passato, il
rétro, senza che questo provochi nell’ascoltatore una netta sensazione di anacronismo.
Proprio nel periodo in cui si sono definitivamente affermati i supporti musicali digitali e la
musica registrata si è affrancata dal fruscio del nastro e dal crepitio del disco, alcuni artisti hanno
iniziato a utilizzare fruscio e crepitio come elementi fondanti delle proprie composizioni.
Il lemma “hauntology” compare per le prime volte in contesto musicale prima per mano di
Fisher [2005] e poco dopo nell’articolo Haunted Audio di Reynolds [2006] e viene utilizzato per
descrivere un insieme di produzioni musicali elettroniche di matrice popular che, pur non
rappresentando un genere vero e proprio, costituivano una «entità nebulosa» [Reynolds 2006, 28]
caratterizzata da riferimenti testuali e aurali a «spettri sonori» e «fantasmi di musiche
dimenticate» [27]. Questo topos è stato ulteriormente rintracciato da Fisher sia in ambito
cinematografico [2012] sia in quello musicale [2013b] con approccio prevalentemente
culturologico e di critica sociale, senza svilupparsi in discorso musicologico o in un’analisi
specialistica dei materiali.
Tali opere suggeriscono a chi le ascolta di trovarsi dinanzi a una registrazione proveniente da
un tempo che non è il presente, non solo perché si sta certamente ascoltando della musica
registrata (e per questo necessariamente “differita” rispetto al momento in cui è “accaduta”), ma
perché è quella stessa musica a contenere le prove manifeste della propria registrazione: i rumori
meccanici, elettrici o digitali prodotti dai mezzi di registrazione e di riproduzione sonora [Prince
2018]. Esattamente come lo stile futuristico si poneva come un segnale dal futuro (il “non
ancora”) immaginato dall’artista, l’originale hauntologico si dichiara come spettro/presenza di
qualcosa di già avvenuto, in un tempo e in un luogo diverso da quello dell’ascolto presente (“non
più”, non qui). Un esempio è la descrizione dell’opera Miniatures del compositore Asher Thal-
Nir [2009]:
8
Musica elettronica costruita con suoni accidentali ed “errori” (glitches) prodotti da processi digitali [Kelly 2009].
Che cosa stiamo esattamente ascoltando? Chi ha fatto questo disco? [...] Notiamo la presenza di una
velatura, una nebbia di crepitio [...] un pianoforte riflessivo, calmo, mesto [...] occasionalmente si
percepiscono degli archi [...] il suono praticamente scompare nel rumore di fondo. [Fisher 2013a, 201, trad.
di V. Perna.]
In mancanza di informazioni certe, si ipotizza che le parti di pianoforte siano state composte,
eseguite e registrate su nastro degradato e poi sottoposte a procedimenti digitali per dare
l’impressione di essere dei falsi objets trouvés; oppure che si tratti invece di frammenti di
registrazioni radiofoniche (quindi dei veri ready-made) rimontati e ripetuti in sequenza. La
patina di crepitio sarebbe in tal caso dovuta alla radiofonia, non ricreata artificialmente dal
compositore. Questa intenzionale oscurità sull’origine dei suoni e sui procedimenti utilizzati, si
contrappone nettamente alle pratiche dichiarate della musica sperimentale promulgate da John
Cage e generalmente consegnate in forma di manoscritto/partitura: opere in cui le istruzioni sono
definite ma il risultato finale è, almeno parzialmente, affidato alla aleatorietà.
Consideriamo invece la composizione sperimentale I am sitting in a room di Alvin Lucier
[1969], divenuta poi un classico della sound art. Il lavoro inizia con la lettura di un testo da parte
dell’artista
9
. La registrazione della lettura viene diffusa nella stanza e tale riproduzione è poi a
sua volta registrata. La sequenza di riproduzioni/registrazioni si ripete più volte e il suono delle
parole ne è progressivamente degradato fino a non essere più intellegibile: poco a poco la voce si
dissolve per lasciare posto alle risonanze riverberanti dell’ambiente. Sebbene alcuni studiosi di
semiotica dell’arte [Vandsø 2012] sostengano che il lavoro di Lucier abbia natura intermediale,
poiché coinvolgerebbe tre diversi media artistici (voce narrante, testo letterario, tecnologia
sonora) ciascuno dotato di qualità proprie, ai fini di questa analisi appare sufficiente considerare
che si tratta di un’opera fonografica e al tempo stesso di una performance il cui risultato è frutto
di una “formula”, di un processo dichiarato che l’artista applica alla propria voce. L’esecuzione
maggiormente nota è forse quella contenuta nella registrazione del 1969, ma in questo caso
l’opera “originale” sembrerebbe forse costituita, più che dalla registrazione, dall’insieme delle
operazioni di riproduzione e registrazione all’interno di un ambiente riverberante: un
9
«I am sitting in a room different from the one you are in now. I am recording the sound of my speaking voice and I
am going to play it back into the room again and again until the resonant frequencies of the room reinforce
themselves so that any semblance of my speech, with perhaps the exception of rhythm, is destroyed. What you will
hear, then, are the resonant frequencies of the room articulated by speech».
“manoscritto” che può essere “fedelmente” eseguito da altri con risultati simili, isomorfi,
coincidenti con le intenzioni dell’autore, sebbene mai uguali alla registrazione primigenia. Si
segnala, per esempio, l’efficace adattamento audiovisivo di Patrick Liddell [2010]: il testo di
Lucier è recitato davanti a una telecamera, il file video viene caricato in rete, poi scaricato e
ricaricato per mille volte. Nonostante le differenze nel dispositivo e nel supporto mediale, nella
mancanza di rientro nel microfono del segnale riverberato, nel numero complessivo di
sovraincisioni (in Liddel non sono nemmeno sovraincisioni ma processi numerici determinati
dagli algoritmi di compressione), nonostante tutto questo le progressive elaborazioni automatiche
del file ne determinano una “erosione”, una sequenza di stati della cui successione possiamo
avere esperienza, esattamente come possiamo udire la voce di Lucier poco a poco consumata
dalle registrazioni reiterate. La formula alla base di I am sitting in a room determina quindi
anche il risultato del processo di Liddell, dai momenti iniziali in cui il segnale audiovisivo è
ancora chiaro e decodificabile, a quelli finali in cui il contenuto, il “messaggio”, è
completamente irriconoscibile poiché ogni dettaglio è stato appianato dalla “livella digitale”
dell’algoritmo di compressione. Si può quindi ragionevolmente asserire che quella di Lidell è
essenzialmente una nuova esecuzione dell’opera di Lucier, nonostante alcune notevoli differenze
di “messa in scena”.
Nel lavoro hauntologico di Asher Thal-Nir il metodo è invece intenzionalmente oscuro, celato
all’ascoltatore: non è una pratica artistica autoesplicativa ma la presentazione di un enigma, un
mistero deliberato che conferisce all’ascolto le caratteristiche del perturbante
10
.
Il primo disco di musica dichiaratamente hauntologica è forse Selected Memories From The
Haunted Ballroom di James Leyland Kirby [1999], pubblicato sotto lo pseudonimo The
Caretaker. L’autore dice di essersi ispirato ad alcune sequenze del film The Shining di Kubrick,
ambientate in un salone popolato da fantasmi. L’anacronismo, l’esistenza di fatti collocati
contemporaneamente nel presente e nel passato, è uno dei temi della pellicola. Il protagonista del
film che appare al centro di una fotografia scattata nel passato, il suo volto identico a quello del
10
Il termine si contrappone a heimlich, usato da Freud in relazione alla sua teoria sull’inconscio per descrivere una
situazione o elemento avvertito come familiare (dal tedesco Heim, casa) e al tempo stesso intimo o segreto. In
psicoanalisi, il perturbante (das Unheimliche) è il ritorno di qualcosa che era stato psichicamente rimosso e per
questo motivo viene sentito dal soggetto come estraneo e al tempo stesso familiare. Per Freud infatti quando si scava
a fondo nel familiare ciò che è normalmente avvertito come accogliente può diventare improvvisamente unheimlich,
perturbante, inquietante. Più che concetti opposti e distinti, heimlich e unheimlich rappresentano le facce di una
stessa medaglia: il perturbante e l’inquietante che si nasconde proprio dietro a ciò che è solitamente vissuto e
avvertito come familiare.
presente sebbene immortalato mezzo secolo prima, è uno dei tanti momenti in cui tale
anacronismo prende forma visibile. In poco più di settanta minuti il disco di Kirby raccoglie
venticinque frammenti di musica da ballo degli anni Trenta, processati e trattati in modo da
presentarsi all’ascoltatore come spettrali, ectoplasmatici
11
. Non solo le voci sono rallentate e
moltiplicate a tal punto da non sembrare più umane, ma l’intera orchestra viene ricollocata in
ambienti dal riverbero parossistico, sospesa in un tempo «fuor di squadra»,
12
– il tempo
hauntologico descritto da Derrida [Hägglung 2008] – e in uno spazio acustico che appare a volte
etereo, altre acquatico, comunque privo di pareti solide. In alcuni casi le registrazioni vengono
progressivamente rallentate in modo da spandersi fuori dai margini del ritmo pulsato e divenire
materia sonora in disfacimento, in liquefazione. L’ascolto di Selected Memories ci trascina così
in un luogo, in un tempo e anche dentro una musica “non più” esistente in quanto dilatata e
rimodellata quasi oltre ogni sua forma originaria e riconoscibile. Poi, a deformazione completa,
si torna a scorgere in lontananza la riemersione di un elemento identificabile, di un tema
riconoscibile ma inequivocabilmente legato a un passato che non è più. A differenza di altri
lavori, il materiale qui non lascia dubbi sulla propria origine: si tratta certamente di registrazioni
d’epoca che l’artista ha rielaborato. In Miniatures di Thar-Nil invece questo aspetto non è
chiarito e nell’ascolto non è distinguibile ciò che è stato scritto, composto, eseguito, registrato da
quanto invece è stato raccolto da fonti precostituite.
4. La musica hauntologica come progetto e (ri)costruzione
Come già per altre musiche relative alle avanguardie degli anni Sessanta del secolo scorso è
possibile esaminare l’hauntology, oltre che per i suoi aspetti estetico-formali, anche dal punto di
vista del processo e del progetto compositivi, da intendersi sia come fine sia come mezzo del
compositore, secondo meccanismi ben descritti da Brown [2010] per le pratiche del minimalismo
e del postminimalismo. Nyman [1974] ha individuato cinque tipologie di processo nella musica
sperimentale: il processo determinato da fattori casuali o da una fonte; il processo legato alla
discrezionalità degli esecutori; il processo dovuto alla variabilità intriseca alla performance; il
11
Termine introdotto da Charles Richet in parapsicologia e spiritismo per indicare una sostanza di natura
sconosciuta che si materializza per dare corpo a entità soprannaturali.
12
«The time is out of joint - O cursed spite, that ever I was born to set it right!» (Amleto, I, V, 190) «Il tempo è fuor
di squadra: che maledetta noia, essere nato per rimetterlo in sesto!» trad. it. di E. Montale.
processo mediante ripetizione; il processo mediante l’uso dell’elettronica. A questi cinque Brown
aggiunge un sesto tipo: il processo matematico, fatto di addizioni, sottrazioni, permutazioni.
Queste tipologie non sembrano però descrivere esaurientemente la pratica hauntologica: sebbene
questa sia certamente attraversata anche da processi elettronici e di ripetizione, oggi tali
procedimenti sono diffusi nelle pratiche musicali più svariate e hanno così perduto di efficacia
nell’aiutarci a distinguere lo sperimentale dal consueto.
Oltre all’esame degli aspetti estetico-formali, un metodo per inquadrare alcune specifiche
pratiche di hauntology musicale potrebbe essere quello di muoversi lungo gli assi del processo di
(ri)costruzione e di (ri)composizione di un’opera fonografica andata perduta oppure rimasta
incompleta, un processo che anche nella hauntology rappresenta sia l’obiettivo artistico, sia il
mezzo per raggiungerlo. Un’opera sarebbe dunque hauntologica poiché ha “ontologicamente” a
che fare con il “non esistente” o il “non più esistente”. Questo tema potrebbe apparentemente
ricordare quanto esposto da Griffiths [1995, 172] riguardo al “tempo lontano” di composizioni
contemporanee che si riferiscono esplicitamente a epoche distanti oppure al “passato
immaginario” di lavori che azzardano ipotetiche archeologie musicali (per esempio Oresteia di
Xenakis o Uaxuctum di Scelsi, entrambe del 1966 ma riferite a luoghi ed epoche lontanissimi).
Tuttavia nella hauntology il riferimento non è necessariamente distante né immaginifico: da un
lato può anche consistere nella costruzione artificiale ma verosimile di un’eterotopia musicale,
dall’altro può invece concretizzarsi nella ricostruzione o nel recupero di opere incompiute o
perdute nel più prossimo dei passati. Alcuni studiosi hanno cercato di esaminare in tal senso un
episodio legato a La Monte Young, considerato uno dei padri del minimalismo [Papacci 2019].
Proprio The Well-Tuned Piano del 1964 (il titolo rimanda al clavicembalo ben temperato),
l’opera più rappresentativa di Young, sarebbe infatti stata concepita sulla base di elementi
presenti in November, una lunghissima composizione per pianoforte di Dennis Johnson della
durata di circa sei ore, fissata su nastro nel 1959. Nel ‘62 vi fu un’esecuzione pubblica, ma non
venne registrata e sembra che quasi nessuno (oltre a Young) avesse avuto modo di ascoltare il
nastro di tre anni prima. Questo fino al 1992, quando fu lo stesso La Monte Young a incaricare il
compositore Kyle Gann di realizzare la prima trascrizione di November, proprio a partire dalla
versione del 1959, di cui Young rese allora disponibile la registrazione. L’impresa non era affatto
semplice poiché il nastro si interrompeva dopo meno di due ore, aveva molti difetti e il tempo
l’aveva ammalorato. Come se non bastasse, La Monte Young era stato perentorio nel richiederne
una “trascrizione” della durata di circa sei ore. Gann si mise al lavoro e riuscì a recuperare anche
alcune pagine della partitura, direttamente da Johnson [Gann 2010]. November è un brano che
consiste di note singole e accordi cluster disseminati in modo sparso. In un’intervista, Johnson ha
detto che la musica voleva rappresentare il lento avvicinarsi del freddo invernale e ha inoltre
esplicitato che l’opera andava ricostruita proprio a partire dal nastro del 1959, giacché la
partitura era incompleta, disordinata, piena di cancellazioni, con frecce e numerose indicazioni
testuali a loro volta poi barrate o sormontante da eloquenti “NO!” [Johnson 2013]. Nel 2009,
dopo anni di lavoro, si giunge all’esecuzione di una versione di circa quattro ore; quella da oltre
cinque ore arriverà solo nel 2013. Il processo di (ri)composizione di un’opera così misteriosa, la
cui esistenza è sospesa tra registrazioni parziali e partiture cancellate, potrebbe essere detto in sé
hauntologico.
Un altro caso interessante da diversi punti di vista è il disco Mutator di Alan Vega,
13
artista
sperimentatore, alieno tanto alla tradizione della musica colta quanto all’industria culturale di
massa. Una prassi musicale lontana dagli schemi della canzone, dalla melodia, dal formalismo e
che si articola nella costruzione di tappeti sonori umbratili, attraversati da pulsazioni ritmiche
continue, timbri sintetici scuri e sferzanti, sopra i quali si dipana il filo della voce salmodiante di
Vega, avvolta e “inumidita” da riverberi profondi, in quella che sembra la performance di un
delirio mistico o narcotico, ma anche un sinistro avvertimento. Dal punto di vista del contenuto
musicale è assolutamente coerente con i precedenti lavori del suo autore, tuttavia Mutator non è
propriamente un disco di Alan Vega. Almeno, non del tutto. Si tratta infatti di un “originale”
postumo: dalle note di copertina apprendiamo che il disco sarebbe un «album perduto» – sarebbe
meglio dire ritrovato – registrato tra il 1995 e il 1997. Un caso però diverso dai dischi post-
mortem [Bratus 2019, 68] basati su improvvisazioni registrate che non avevano la pretesa di
diventare opere compiute e anche dai posthumous albums registrati da gruppi musicali ormai
sciolti, pubblicati nel contesto delle pratiche nostalgiche della retromania (Niemeyer 2014, 74).
Mutator è stato pubblicato solo nel 2021, cinque anni dopo la scomparsa di Vega e venticinque
anni dopo che egli ne aveva sospeso la realizzazione. Quale può essere considerato il primo
esemplare di quest’opera? Le registrazioni di Vega degli anni Novanta oppure la prima edizione
postuma del disco? Qual è lo scarto tra le registrazioni di 25 anni fa e quanto ci viene oggi
13
Pseudonimo dell’artista americano Boruch Alan Bermowitz (1938-2016), principalmente attivo in duo con Martin
Reverby nel progetto Suicide.
consegnato? Quanto il “manoscritto sonoro” di Vega è stato rimaneggiato o completato da un
editor (nella fattispecie, l’artista e musicista Jared Artaud)? Si è trattato, come per November, di
un lavoro di ricostruzione oppure di qualcosa di differente? Certamente il materiale non è stato
pubblicato così com’era stato lasciato da Vega, con appena qualche aggiustamento tecnico volto
a ottimizzarne la resa. Non sarebbe nemmeno corretto considerare come “originale” dell’opera
l’insieme delle registrazioni lasciate da Vega, poiché queste non erano ancora complete e
necessitavano di un consolidamento per raggiungere la forma finale per cui erano state create: il
disco. Le registrazioni degli anni Novanta sarebbero quindi materiali di lavoro forse anche
sviluppati, certamente qualcosa di più che bozzetti o provini, forse anche frammenti veri e propri
del lavoro finale, in ogni caso essi non possono essere considerati opera compiuta. È il disco
pubblicato a presentarsi come prima opera finita [Vega 2021], la cui “originalità” è testimoniata
da Liz Lamere, compagna di Vega presente alle registrazioni del 1995.
5. Lo “scomparire” del suono registrato e il riaffiorare del futuro perduto
La hauntology prende forma anche nella quadrilogia The Disintegration Loops di William
Basinski [2002-2003]. Il compositore texano stava operando per trasferire in formato digitale
alcune registrazioni realizzate su nastro una ventina d’anni prima. I supporti, forse non
opportunamente conservati, si erano deteriorati e la porzione magnetica del nastro si stava
staccando. Questa “precarietà” produceva un risultato sonoro diverso ad ogni tentativo di
conversione. Proprio mentre si stava cercando di consegnare le registrazioni all’eternità della
digitalizzazione queste, poco alla volta, svanivano per sempre. Basinski fu incuriosito da questa
inaspettata catastrofe e decise di avvantaggiarsene. Così lasciò girare i nastri in loop per ore ed
ore, con l’intento di immortalare non più una copia fedele del loro contenuto, ma i diversi
momenti della loro “perdita”, gli istanti in cui la registrazione originale veniva irrimediabilmente
distrutta. Il materiale fu poi rielaborato in quattro dischi della durata complessiva di quasi cinque
ore. Si potrebbe obiettare che, in fondo, quella di Basinski non sia un’operazione molto lontana
da I am sitting in a room. Vi è tuttavia una differenza profonda: il suono in Lucier è
progressivamente degradato da un meccanismo di feedback che ri-registra quanto diffuso dagli
altoparlanti nella stanza e il nastro è un dispositivo che serve soprattutto a documentare il
processo mentre questo si compie. Non vi è un interesse specifico per le caratteristiche del
supporto analogico in sé. Infatti la “esecuzione” audiovideo di Liddel è altrettanto efficace pur
non servendosi di nastri magnetici. The Disintegration Loops è invece quasi interamente basato
sulla materialità del nastro magnetico, sul suo deteriorarsi, e anche sulle caratteristiche “di
progetto” del dispositivo di lettura che consentono (tra le altre cose) la riproduzione in loop e che
prevedono un “scontro fisico” tra nastro e la testina di lettura, un incontro che ad ogni passaggio
modifica inesorabilmente il nastro magnetico deteriorato, erodendo il suono in modo non
prevedibile e non ripetibile. Inoltre, la voce di Lucier (e il volto di Liddel) sono dei “segnali”
inizialmente chiari e decifrabili che progressivamente si perdono, la musica di Basinski invece
non contiene messaggi prima decodificabili e poi incomprensibili. Non c’è voce, non c’è testo: la
comprensione e il riconoscimento del “contenuto” non sono importanti. Non vi sono infatti
istruzioni da eseguire. Ciò che conta è il manifestarsi hauntologico della “sparizione”, il risultato
dell’incontro materiale tra il suono registrato e la macchina che, riproducendolo, lo annienta.
La hauntology riguarda anche una parte di quella musica elettronica extracolta efficace nel
descrivere un senso di smarrimento del futuro, l’incapacità di poter accedere all’immaginazione
per creare mondi fantascientifici, come invece sapevano ancora fare gli autori delle decadi
precedenti. Sotto questi aspetti, l’artista per molti ineludibile è William Bevan, in arte Burial. Lo
stesso pseudonimo rimanda alla celebrazione della perdita, al lutto per qualcosa che non è più,
ma anche alla stessa condizione di Bevan, volontariamente “sepolto vivo” in una stanza a
raccogliere e assemblare suoni presi da vecchi dischi, da videogiochi e dalla rete. In un presente
desolato, come in una distopia cinematografica ambientata in un mondo che ha rinunciato al
proprio futuro o che non lo ha saputo progettare, la firma sonora di Burial è caratterizzata da
ritmi sincopati che rimandano alla jungle music e al drum’n’bass, ma che suonano come
“imbavagliati”, attraversati dal fruscio del disco, attutiti da tappeti sonori di pioggia, crepitii di
elettricità statica, talvolta perfino “bruciati” da fiamme evocate mediante suoni di combustioni. I
brani sono sormontati da vocalità mutanti, campionamenti distorti e irriconoscibili di caduche
dive del pop, ma anche da voci narranti e frammenti di discorsi che testimoniano momenti di non
accettazione di sé, del sentirsi in disparte, alla ricerca dei fantasmi del passato, in un mondo che,
nel presente, ha smesso di essere interessante: «Sometimes you get that feeling like a ghost
touched your heart» [Bevan 2012]. Se, in un contesto artistico e sociale completamente diverso,
Luigi Nono dichiarava in un’intervista del 1986 che il tratto principale del suo carattere era
proprio la «nostalgia del futuro» [De Benedictis e Rizzardi 2019, 468], anche in Burial il senso
del futuro è da cercare nel passato. Un futuro che (per dirla con McLuhan) si allontana come
visto da uno specchietto retrovisore: nei ritmi e nelle esperienze dei rave e dei warehouse party
conosciuti solo indirettamente attraverso i dischi e i racconti del fratello maggiore di Bevan;
suoni e visioni del mondo che, anche allora, venivano esclusi dal discorso del presente proprio
perché recavano con sé una visione futuristica non comprensibile ai più. Il secondo lavoro
Untrue [Bevan 2007] sembra confessare già nel titolo una nostalgia per cose mai davvero vissute
direttamente sulla propria pelle ma che – ecco il meccanismo hauntologico – in qualche modo
“possiedono” l’artista come uno spettro immaginativo.
Sempre nell’ambito della popular music elettronica, ben prima di Burial vi è un esempio di
hauntology piuttosto cospicuo, sebbene non rilevato a dovere dalla pubblicistica: si tratta dei
Boards of Canada, duo composto dagli scozzesi Michael Sandison e Marcus Eoin, noti già negli
anni Novanta per le loro creazioni sonore di musica elettronica melodica accoppiata a ritmiche
breakbeat di derivazione hip-hop. Nonostante nella loro produzione discografica vi sia la
presenza di campionamenti radiotelevisivi e di altri frammenti mediali del passato (oltre alla
presenza di “effetti/difetti” sonori come le fluttuazioni di velocità di nastro magnetico,
degradamenti digitali, estetizzazioni del danneggiamento del supporto mediale), i Boards of
Canada non vengono indicati dalla stampa musicale come possibili capostipiti del “suono
hauntologico”. Un motivo potrebbe essere che, pur avendone anticipato le caratteristiche sonore
e concettuali, i BoC non hanno dato un nome alla loro “formula” né parlato di spettri derridiani.
Ciononostante ci troviamo di fronte a pratiche di tipo hauntologico anche esplicite, come per
esempio la frase campionata «the past inside the present» nel brano Music Is Math [Sandison e
Eoin 2002, 0:52]. Una nostalgia musicale che non si esaurisce nella riproposizione del passato,
ma che si articola nelle giustapposizione di frammenti familiari, suoni “invecchiati”
artificialmente, atmosfere “disturbanti”, ripetizione di frammenti melodici con variazioni minime
su accordi lunghi con sospensione di seconda e di quarta:
There are textures in what we try to do, which borrow from certain sounds or eras – even in visual things
that we do as well, artwork – to trigger something, almost a cascade. It’s like a memory that someone has
– even though it’s artificial, they never even had the memory; it’s just you’re ageing a song. And then
people feel, is that something familiar I knew from years ago? [Sandison e Eoin 2005]
La copertina del disco Music Has The Right To Children [Sandison e Eoin 1998] è
un’ulteriore evidenza dell’apparato hauntologico: una fotografia molto sgranata, saturata in toni
verdi e blu, ritrae un gruppo di tre adulti e quattro bambini dal cui abbigliamento possiamo
dedurre di trovarci nel passato degli anni Sessanta o Settanta. L’elemento perturbante è che si
tratta di persone senza volto, manichini o spettri umani la cui identità è stata cancellata.
6. Il rumore dei dispositivi fonografici come confine tra digitale e analogico
Se l’utilizzo del rumore del fonografo è considerato il principale marchio sonoro della
hauntology, la turntable music – genere interamente basato sulle potenzialità espressive del
giradischi – non è però necessariamente hauntologica, sebbene metta certamente in primo piano
le caratteristiche di quel dispositivo sonoro. Non è infatti sufficiente avvalersi del crepitio di un
disco per innescare il processo hauntologico, bisogna anche saper “evocare il fantasma”, il tempo
disarticolato, il “non più” esistente, e farlo agire in musica mediante sovrapposizioni con
elementi, segnali, tracce provenienti da tempi altri. Il fruscio/crepitio hauntologico non è infatti
(solo) rumore: è un oggetto musicale [Arbo 2012] oppure un master-sound [Strawson 1959]
senza origine definita da cui talvolta sembrano emanare gli altri strati della composizione o
dentro al quale gli altri oggetti, di per sé privi di rumore di fondo, vanno a smarrirsi. A proposito
di creazione di senso attraverso il rumore, potremmo oggi rileggere una riflessione di Attali alla
luce di questo particolare utilizzo del rumore di fondo:
Il rumore è alla sorgente di cambiamenti di codici strutturanti. Perché esso è, in effetti, in sé stesso, nonostante la
morte che contiene, portatore di un ordine, di una informazione nuova […] Infatti, il rumore crea un senso: da una
parte, perché l’interruzione di un messaggio significa il divieto del senso diffuso, la censura e la rarità. D’altra parte,
perché l’assenza stessa di senso, nel rumore puro o nella ripetizione senza senso di un messaggio, canalizzando le
sensazioni uditive, libera l’immaginazione dell’ascoltatore. L’assenza di senso è allora la presenza di tutti i sensi,
ambiguità assoluta, costruzione fuori dal senso. [Attali 1978, 50]
Oltre alla caratterizzazione fornita dal livello del rumore del medium (livello qui inteso non
come “quantità” bensì come “strato”, elemento cardine della teoria di Harper sul quale torneremo
nel paragrafo conclusivo), può essere utile soffermarsi sulla strumentazione, su un “organico”
hauntologico composto da dispositivi e supporti mediali. Un compositore e performer sovente
accostato alla sonic hauntology è Philip Jeck. Precursore della turntable music in ambito
sperimentale, la sua pratica si estrinseca nella giustapposizione di vecchi dischi, accostati e
sovrapposti per creare elegie malinconiche. L’elenco degli strumenti utilizzati in un recente
concerto in Italia [Jeck 2019] è già in sé una lista di ingredienti la cui combinazione suggerisce
risultati hauntologici:
- una tastiera giocattolo
14
Casio SK1 (un modello del 1985 con timbri e ritmi
preprogrammati, accompagnamenti automatici e dotato di un rudimentale campionatore
con frequenza di soli 9,38kHz e una risoluzione di 8 bit)
- due giradischi degli anni Sessanta (che appaiono subito come oggetti non del
presente, ma più probabilmente usati da Jeck perché i giradischi dell’epoca avevano ben
quattro velocità diverse selezionabili: 16, 33, 45 e 78 giri)
- alcuni lettori/registratori miniDisc (dispositivo del passato recente, un medium
magneto-ottico il cui supporto ha la peculiarità di poter essere completamente riscrivibile,
senza usurarsi, inoltre è possibile passare istantaneamente da una traccia all’altra e
ripetere alcune sezioni ad anello)
- due effetti a pedale, in particolare lo Zoom B1 (un simulatore digitale di
amplificatori e casse acustiche, con cui è possibile selezionare rapidamente i diversi
modelli e cambiare così le caratteristiche sonore) e un’eco Boss DD-6.
Un certo mistero avvolge anche le esecuzioni (ma sarebbe meglio dire creazioni) dal vivo di
musica hauntologica, probabilmente perché i suoi meccanismi generativi non sono puntualmente
osservabili. Per quasi tutte le altre musiche – fatta salva la laptop music – una performance
pubblica comporta spesso un qualche disvelamento del processo: c’è la presenza dei musicisti, ci
sono strumenti che vengono suonati con una certa perizia, c’è una manualità da cui originano gli
eventi sonori, nella peggiore delle ipotesi si vede almeno un disc-jockey “lanciare” il brano. Il
processo nella hauntology rimane invece opportunamente misterioso, comunque non
14
La definizione di giocattolo non toglie valore all’utilizzo di piccoli strumenti come il Casio SK1 in campo
artistico, anzi sottolinea l’originalità e la capacità del musicista che se ne avvale. Molte tastiere giocattolo degli anni
Ottanta sono basate su sintesi additiva, sottrattiva o modulazione a impulsi codificati (PCM) e dotate di rudimentali
campionatori. Destinate a giovanissimi e principianti, i produttori ne esaltavano particolarmente l’aspetto ludico,
come si può osservare dal materiale pubblicitario dell’epoca. https://www.youtube.com/watch?v=n6QisfCGtSk
immediatamente evidente agli spettatori ma solo ipotizzabile a partire dai gesti (spesso minimi)
dell’esecutore e in parte, forse, intuibile attraverso un ascolto attivo.
Si potrebbe concludere che, anche quando viene presentata dal vivo, la musica hauntologica
resta un’arte primariamente fonografica, innanzitutto perché necessariamente basata sui
dispositivi e sui supporti di registrazione/riproduzione sonora, ma anche perché proprio la qualità
materiale di tali tecnologie costituisce la trama del suono hauntologico.
Oltre che singoli compositori, è doveroso citare il collettivo britannico Ghost Box attorno al
quale operano diversi ensemble come The Focus Group, Belbury Poly e The Advisory Circle. Il
mondo di Ghostbox (il cui nome rimanda agli albori della televisione e del dispositivo televisore
descritto come “scatola di fantasmi”) oltre che come pratica hauntologica si configura come una
eterotopia, una Wunderkammer di suoni – ma anche di testi e di progetti grafici – creata nel
presente a partire da alcuni riferimenti storici e culturali precisi: la cosiddetta «utopia
tecnocratica della Gran Bretagna del dopoguerra» [Reynolds 2006]. Gli artisti di Ghost Box
coniugano così un’estetica musicale basata sulla library music
15
, sulle colonne sonore della
fantascienza televisiva, degli sceneggiati sul soprannaturale, da cui ricavano loop ripetitivi,
punteggiati da arpeggi o brevissimi frammenti melodici dal sapore infantile, a loro volta estratti
da dischi di musica jazz e folk. I due livelli, quello di “sfondo” di colonne sonore riassemblate e
quello micromelodico di “figura”, sono spesso in dissonante contrasto. Inoltre, il materiale è
tagliato e rimontato in modo netto, brusco, senza dissolvenze, caratterizzato da “scossoni”
sonori. La tecnologia del montaggio audio si manifesta in modo sinistro e inquietante, come un
improvviso rumore notturno, una porta che sbatte o un cassetto inspiegabilmente aperto forse
perché mosso dalla mano invisibile di un fantasma. Come in molta musica hauntologica, anche
qui si articola un dualismo tra analogico e digitale, quindi non già il feticismo passatista della
retromania che rifiuta o nasconde la natura digitale dei dispositivi, ma un’intenzionale
dissoluzione del confine tra analogico e digitale, tra reale e virtuale, tra ciò che accade dentro il
computer e ciò che invece proviene da fuori: «the recording of space, real reverb/room sound
and the virtual space on the hard drive, they are like different dimensions» [Sexton 2012, 577
]
.
15
raccolte di brani realizzati appositamente per poter essere poi liberamente usati da registi e montatori come
commento musicale per programmi, film e documentari televisivi. Musica quindi solitamente composta senza
particolari intento artistico ma come complemento per la produzione di contenuti audiovisivi.
7. Due teorie sulla hauntology: una spiegazione funzionale e una suddivisione tipologica
Una teoria sul funzionamento dell’arte hauntologica è stata formulata da Harper e, sebbene
questa non riguardi esclusivamente l’hauntology in musica, può giovare riportarne qui i concetti
principali. L’arte che «consente una lettura hauntologica o che provoca effetti hauntologici»
[Harper 2009] si articolerebbe su due livelli differenti. Il primo strato presenta un elemento
(un’immagine, un suono) che riporta al passato oppure sembra giungere dal futuro. Tale
elemento però si presenta in maniera completamente avulsa dal suo contesto storico-temporale. Il
secondo strato adombra o compromette il primo strato, danneggiandolo o rendendolo precario e
realizzando così l’effetto hauntologico: si tratta spesso di un elemento o punto di vista del
presente, una prospettiva che interferisce col primo strato e in qualche modo si esprime su di
esso come opinione critica, dubbio, talvolta disilluso sarcasmo. I due strati non sono
immediatamente separabili poiché vengono presentati al fruitore in contemporanea e in stretta
relazione tra loro. Il primo strato, quello tipicamente relativo al passato o all’altrove, è infatti
contenuto nel secondo (un elemento passato o futuro contenuto nel livello del presente) e viene
percepito sempre attraverso la “lente” del presente, in modo da non poter essere colto in modo
separato, come avverrebbe per una citazione storica. Il processo di offuscamento del tempo
presente su quello passato è come un ricordo vago e nebbioso che restituisce un’esperienza
pregressa come “spettro”, minandone la consistenza e talvolta anche la verità/realtà. È proprio il
ruolo “lenticolare” del secondo strato che distingue la pratica hauntologica da quella meramente
nostalgica [Boym 2001]. Il secondo livello decostruisce il primo e, attraverso il meccanismo
appena descritto, i testi hauntologici sarebbero tali proprio perché si decostruiscono da sé. Come
si è visto nei diversi casi prima esaminati, questo processo è spesso ottenuto mediante effetti di
abbassamento della fedeltà e di decadimento del segnale, con l’evidenza di un malfunzionamento
della tecnologia di registrazione/riproduzione oppure con la messa in primo piano del rumore di
funzionamento (visivo o sonoro) del dispositivo mediale. La teoria di Harper è affascinante e in
qualche modo sembra cogliere nel segno ma, volendo egli descrivere e spiegare anche e
soprattutto le pratiche hauntologiche del visivo, non ci è forse del tutto utile per comprendere le
diverse forme di hauntology in musica.
Una suddivisione della sonic hauntology in tre tipologie è stata proposta da Ulrich e Fogel
[2012]. I due autori distinguono tra una hauntologia brute, “in purezza”, fatta esclusivamente di
suoni “storici” recuperati e riassemblati in una versione alternativa del passato e una seconda
modalità “residuale” in cui suoni preesistenti vengono utilizzati insieme a suoni “nuovi” creati
dal compositore. L’hauntologia “residuale” si costituirebbe quindi mediante la comparsa di
residui del passato all’interno di musiche per il resto dichiaratamente attuali. La differenza tra
brute e résiduelle sembrerebbe situarsi nel “dosaggio” delle tracce provenienti dal passato, che
nella seconda tipologia sarebbe di quantità inferiore: un travaso, un’interferenza o una
decorazione “storica” apposta su una musica di per sé “moderna”. Vi sarebbe infine un
hauntologia di terzo tipo, definita “traumatica”, priva di suoni pre-esistenti ma caratterizzata da
riferimenti estetici e culturali a sonorità e tòpoi musicali di un passato inquietante. Si tratta di una
forma di hauntology che secondo Fogel scaturirebbe da uno stato psicologico del compositore,
da un’attività subconscia volta a esprimere appunto traumi che lo perseguitano: affermazioni
queste difficilmente dimostrabili da qualsivoglia analisi musicologica. Gli esempi forniti a
supporto (Spettro Family, Father Murphy, Heroine in Tahiti, Donato Epiro) sembrano guardare
perlopiù a una certa scena musicale italiana popular definita “psichedelia occulta” [Fogel 2012,
25]. Si tratta di musiche fortemente debitrici delle sonorizzazioni cinematografiche degli anni
Sessanta e Settanta (in particolare i b-movies all’italiana di soggetto horror o cannibale) per cui si
scomoda il termine hauntology per fornire una controparte italiana alla hauntologia britannica di
Ghost Box, ma che musicalmente non presentano una particolare attenzione ai meccanismi di
stratificazione temporale né alla rievocazione di un “futuro perduto” e che si potrebbero forse
collocare (al netto delle intenzioni dichiarate dagli autori) in un solco passatista e tenebroso della
retromania. È però vero che, mentre queste opere dovrebbero richiamare la nostalgia, ci
forniscono invece una visione fantastica e alternativa del passato popolata da “mostri”. Per
questo l’hauntologia traumatica è descritta dagli autori come «musica d’incantesimo, preghiera
occulta, tra spiritualismo e sciamanesimo» [ibid.], definizioni culturali anche interessanti però
poco utili in un’analisi musicale. Tra gli esempi “traumatici” appare più hauntologicamente
rilevante il lavoro del duo canadese Esprits Frappeurs [Lambert e St–Onge 2011] in cui si
esplorano i limiti del trattamento digitale della voce. Inizialmente registrata in un'unica ripresa, la
voce di Lambert viene allungata e ridotta (mediante time-stretching) e degradata da distorsioni e
downsampling per ridursi infine quasi a un’onda quadra che ricorda un segnale morse o un sonar
marino, come se il duo stesse cercando di entrare in contatto con l’aldilà: «activate electronic
sounds processes as a mean to communicate with spirits» [ibidem]. Nel disco Haunted
Woodland, Glover [2010] realizza invece una ambient music hauntologica coniugando lunghi
bordoni armonici a strati di field recording, al fine di rievocare e “animare” le foreste delle
Midlands inglesi. Le registrazioni ambientali vengono descritte come “trappole per i fantasmi” e
in effetti contribuiscono a conferire una “spettralità” che è solitamente assente dalla ambient
music più canonica.
Tralasciando la problematica categoria del “traumatico”, la divisione tra hauntology “pura” e
“residuale” può apparire concettualmente sensata, gli autori sembrano però non tenere conto
dell’intervento della modellazione sonora – oltre che ovviamente del lavoro di sviluppo del testo
musicale – che completa e determina il risultato finale delle opere fonografiche. Anche quando
materiali sonori sono tutti pre-esistenti, a un ascolto attento e meno categorico è del tutto
evidente che il lavoro hauntologico non risieda nel mero assemblaggio. L'idea che riesumare i
suoni del passato per portarli alla luce senza rielaborarli costituisca di per sé un forte gesto
hauntologico appare peraltro piuttosto fragile. Il caso limite è fornito dall’archeofono di Henri
Chamoux – dispositivo che permette di “estrarre” i suoni intrappolati nei vecchi cilindri di cera e
che consente l’ascolto delle voci di personaggi vissuti nel XIX secolo – oppure dall’acquisizione
digitale che ci consente di udire i fonoautogrammi di Édouard-Léon Scott de Martinville [Feaster
2019]. Entrambi esempi di preziosi recuperi storici, in certi casi affascinanti poiché possono
comportare anche una “conversione concettuale” del materiale registrato [Camlot 2015], tuttavia
il lavoro di recupero in sé appare privo della complessità discronica
16
che provoca lo
straniamento della hauntology. Nemmeno lo “spostamento” operato nelle pratiche di ri-
mediazione di Aleksander Kolkowski [2012] che utilizza cilindri di cera per documentare le voci
del presente, o il cosiddetto “effetto Edison” di Paul DeMarinis [1993] ottenuto leggendo vecchi
supporti fonomeccanici con tecnologie ottiche [Gottschalk 2016, 256] sembrano dare adito al
senso di smarrimento multitemporale che caratterizza il meccanismo hauntologico. Quando in
March [DeMarinis 1995] si sovrappone il suono della batteria elettronica Roland TR-808 alla
16
Nella letteratura hauntologica «dyschronic» è un termine che Fisher [2013] attribuisce a Reynolds [2006] ma di
cui lo stesso Reyonolds ha in seguito negato la paternità: «I didn’t come up with that one. Not sure if it’s Mark’s
dreaming.» [Reynolds 2021]. Una definizione potrebbe essere quella che oppone il discronico al diacronico. Mentre
in una diacronia si ha la distinta successione degli eventi secondo una sequenza prima-dopo, nella discronia si ha
l’accostamento e la sovrapposizione di diverse temporalità, secondo stati di continuità e di discontinuità: «il presente
cronologico separa un futuro che sarà da un passato che è stato; nel presente discronico c’è un futuro che è stato e un
passato che sarà» [Chiodi 2010, 57]. In ambito neuropsicologico la discronia è il sintomo di malattie collegate
all’incapacità di riconoscere il passare del tempo, oppure della presenza di difetti nell’organizzazione ritmica del
sistema nervoso o nella fisiologia degli orologi biologici [Schmid 2020, 54].
vecchia registrazione di una marcia militare di John Philipp Sousa, l’effetto complessivo è
leggero, quasi ridanciano e affatto perturbante.
Un possibile limite delle teorie e delle suddivisioni tipologiche della sonic hauntology è che le
prime sembrano porre attenzione sul “senso”, sul “significato” della musica intesa come
linguaggio fornito di regole, legami tra le parti e sulla struttura di un discorso musicale inteso
nella sua dimensione testuale, vexata quaestio [Jankélévitch 2000] che esula dalle finalità di
questo articolo e che forse non aiuta in ogni caso a comprendere le caratteristiche sonore della
hauntology né la sua pratica musicale. Le suddivisioni basate su presenza e quantità di suoni
recuperati ci illudono di poter distinguere tra diverse sottogeneri di hauntology misurando il
“dosaggio” degli “ingredienti”, ovvero i rapporti quantitativi tra frammenti sonori del passato e
nuove creazioni del compositore, tra citazione e immaginazione (che può essere a sua volta
nostalgica o futuribile), categorie in realtà non così nettamente separabili nell’ascolto (una nuova
melodia dal sapore antico è più o meno hauntologica del campionamento di un vecchio disco?) e
che finiscono per non cogliere il progetto/processo dell’opera dal contenuto sonoro delle parti
musicali in essa stratificate.
8. Conclusioni: la musica hauntologica come progetto o come testo sonoro.
Pur lavorando con materiali e dispostivi propri dell’era della riproducibilità e talvolta anche con i
“residui” dell’industria dell’intrattenimento e del consumo culturale massificato, la hauntology si
connota come pratica artistica anche fortemente “teorica” e, in questo senso condivide la
progettualità (l’essere “progetto”, “concetto” ed esercizio intellettuale) della musica “d’arte”.
Proprio perché teorica e al tempo stesso basata su artefatti dell’industria culturale, la musica
hauntologica rende evidenti gli “stampi” della musica registrata, i cui processi e i rumori di
riproduzione vengono riproposti come forme contemplabili. Il “ristagno” delle vecchie
registrazioni viene così sottratto alla «distruzione permanente» [Attali 1978, 194] necessaria e
imposta dall’industria culturale e – attraverso la ricontestualizzazione “spettrale
” dei residui del passato – si evoca e si critica lo “stoccaggio” del suono mercificato, dove il
godimento per l’accumulo di “merci musicali” può arrivare a sostituire il piacere per la musica
stessa. In questo appare concretizzarsi anche l’auspicio (o il monito) di Kittler che, nella sua
opera più importante sulla storia e sugli effetti delle “tecnologie della memoria”, scrive: «Media
always already provide the appearances of spectres» [Kittler 1999, 12]. In ambito sonoro le
manifestazioni degli “spettri” sono spesso intrecciate con la cultura dei dispositivi mediali e degli
artefatti sonori materiali.
Riprodurre una registrazione al contrario, concentrarsi sul fruscio del solco finale di un album
dimenticato sul piatto e lasciato girare all’infinito, sperimentare come variano le caratteristiche
sonore di un disco riprodotto alla velocità sbagliata, udire la puntina del giradischi saltare con
precisione sempre nello stesso punto su disco graffiato creando un loop “sbagliato” ma che si
ripresenta sempre perfettamente allo stesso modo: tutte cose che anche un ascoltatore non
specialista può sperimentare e che contribuiscono a completare l’esperienza del medium con
quella dei suoi stessi limiti tecnologici, dei suoi vincoli materiali e a portare l’esplorazione del
supporto (accoppiato al dispositivo) al di là della sua riproduzione canonica, increspandone – per
così dire – la superficie sonora con effetti talvolta stranianti e psicologicamente significativi
[Gallerneaux 2018], almeno per chi vi si cimenta per le prime volte. Tuttavia quanto appena
descritto non è sufficiente a innescare il meccanismo hauntologico: quest’ultimo va
necessariamente creato o evocato attraverso un processo compositivo che – sebbene possa avere
origine da eventi accidentali o “incontri” con la materialità caduca dei supporti fisici o con la
fallibilità meno prevedibile ma certamente presente anche nei media e nelle reti digitali
[Appadurai e Alexander, 2020] le cui precarietà si manifestano all’improvviso con arresti di
buffering o errori/glitch – deve prevedere un’esplicita intenzionalità del musicista, qui inteso
come artista del suono che sa padroneggiare gli aspetti tecnici e formali degli “spettri” musicali.
Da quanto esposto ed esaminato nei paragrafi precedenti abbiamo visto come in musica si
possano distinguere essenzialmente due tipi di apparato hauntologico, talvolta utilizzati insieme
all’interno della stessa opera. In alcuni casi la musica hauntologica sembra essere tale per
progetto e per processo, in particolare per gli aspetti di recupero pseudo-archeologico inseriti
nella fase creativa, ovvero quando il musicista opera una (ri)costruzione artificiosa e personale,
una (ri)composizione di materiali perduti o incompleti [Rutherford 2017, 253], come nella
“trascrizione” di sei ore November di Johnson basata su una registrazione parziale, o nel
completamento di Mutator dopo la morte del suo autore e dopo un quarto di secolo dall’iniziale
abbandono del progetto. In questa prima tipologia il processo hauntologico non è di per sé
autoesplicativo e necessita di essere raccontato a latere dell’ascolto per essere colto. Va
sostanzialmente rivelato “cosa” è stato realizzato dal compositore, anche se non necessariamente
il “come”. Si tratta dunque di “hauntology per progetto” che potrebbe non essere compresa
mediante il solo ascolto dell’opera (tranne nei casi in cui sono presenti anche tracce sonore della
ricostruzione o del ritrovamento di un artefatto frammentario o smarrito). Si può quindi mettere
in moto un meccanismo hauntologico primariamente legato al paratesto che descrive il processo
musicale, talvolta anche senza che quest’ultimo realizzi una sonic hauntology vera e propria.
La tipologia più diffusa di prassi musicale hauntologica è invece quella sonora in senso stretto. Il
processo non è dichiarato ma compaiono elementi e tecniche ricorrenti che si possono dire
segnalanti il meccanismo hauntologico, in quanto presenti in molte di quelle opere che hanno
innescato la discussione sugli “spettri” sonori. Proveremo qui a fornirne una sistematizzazione in
forma di elenco ragionato.
- Il rumore dei dispositivi di riproduzione, il fruscio del nastro, il ronzio di un
campo elettromagnetico, il crepitio della puntina del giradischi oppure dell’elettricità
statica. Il rumore appena descritto era già ritrovabile in certa popular music degli anni
Sessanta, ma nella hauntology il rumore segnala la “presenza” (o rappresenta il
simulacro) di macchine, di supporti di registrazione e di tecnologie obsolete, non
necessariamente relative al presente della composizione. In linea teorica si potrebbe
anche immaginare di utilizzare il suono continuo di altri media e di altri dispositivi che,
tanto come il fonografo, possonx\o rimandare a tempi e a luoghi diversi, ad esempio il
suono del motore di un hard disk, il rumore meccanico delle testine di lettura, il
cinguettio digitale dei fax, oppure ancora i gravi delle interferenze di grounding o i ronzii
acuti degli alimentatori switching. Non appare essenziale limitarsi a giradischi e radio.
- Il rumore hauntologico, al contrario di quanto avviene nella glitch music, non
consta di “errori” estemporanei, di “refusi” audio transitori: è un materiale sonoro
mediale di lunghezza indefinita e che può avvolgere il “contenuto” musicale come una
patina. Anche il glitch può avere natura mediale, ma è riferito (letteralmente) al
malfunzionamento di una tecnologia, mentre il rumore hauntologico è quasi sempre il
suono emesso da un dispositivo in funzione.
- L’utilizzo creativo di objets trouvés musicali e extramusicali. La hauntology
emerge in un’epoca in cui il consolidamento delle reti digitali, delle piattaforme di
distribuzione online, degli archivi a libero accesso, consentono a professionisti e amatori
di avere immediato accesso a registrazioni di ogni tipo, provenienti dai diversi periodi
storici. Questa dimensione tecnologica dell’accesso a materiali d’archivio è fondamentale
per la pratica hauntologica, poiché consente la “resurrezione” di frammenti di epoche
diverse e anche la successiva disseminazione della musica che ne risulta in quelle stesse
piattaforme [Sexton 2012].
- Creazione artificiale di ambienti sonori dilatati, rarefatti, per indicare che l’origine
del suono risieda in un’epoca lontana (o comunque in un tempo altro), che la fonte sonora
sia come sospesa nel vuoto o affondata un liquido (in un luogo quindi del tutto diverso da
quello dell’ascolto), come già in The Sinking of the Titanic di Bryars (1969-1972), ben
descritto in Rutherford [2017, 209]. Il contenuto musicale primario si può far dissolvere,
evaporare o scomparire progressivamente anche mediante un’erosione relativamente
incontrollata del supporto [Basinski 2002], oppure lasciando solo il segnale in uscita da
riverberi e delay ma eliminando il suono originale; o ancora “diluendo” i segmenti
registrati (mediante reiterazioni di time stretching e pitch shifting) in un lento “magma”
sonoro, come nei frammenti espansi e deformati di Kirby [1999].
- Un’intenzionale oscurità sul processo utilizzato e sull’origine dei materiali
raccolti e rielaborati, che causa una difficoltà nel discernere cosa è composizione e cosa
invece è appropriazione, campionamento, rielaborazione. Si ha spesso anche una relativa
indifferenziazione tra lo “sfondo”, il “contenitore” (i suoni lontani, i crepitii, gli ambienti)
e la “figura”, il “contenuto” musicale vero e proprio (suoni brevi, frammenti melodici).
A livello ideale, la sonic hauntology si contrappone alla “estetica della presenza”, caratteristica
per esempio di una concezione storica della musica rock in cui l’esperienza della musica è
vissuta in connessione alla “presenza” dell’artista/performer (visione peraltro contestata da studi
recenti [Atton 2019] che riconoscono una certa ambiguità e “virtualizzazione” della presenza). I
fautori e gli estimatori dell’estetica della presenza idealizzano infatti un generico “presente”,
disprezzando il sintetico, l’artificiale. Il grande rimosso di questo modo di intendere la musica
sono però le tecnologie che rendono possibili tali “autentiche” esecuzioni e registrazioni. Mentre
l’estimatore della “presenza autentica” preferisce illudersi che le tecnologie e i supporti non
esistano o che siano trasparenti, l’artista hauntologico mette in luce proprio il suono dei
dispositivi, rende chiaramente udibile la materialità dei supporti e le caratteristiche dei media.
Per il musicista hauntologico il medium fonografico coincide con il suono della musica, non è un
mero supporto, un contenitore di “significanti”: è esso stesso significato. Così, nella pratica, un
campionamento ritagliato e modellato non è solo un oggetto musicale che, oltre ad avere una
funzione nella composizione, rimanda anche alla propria origine mediale (ad esempio, una voce
presa dalla radio o da un disco). Il frammento hauntologico è anche e soprattutto la “voce” della
stessa tecnologia che lo riproduce, che lo reitera in modo sovente innaturale, non “fedele”, che
rende percepibile la “grana” di supporti analogici logorati dal tempo, oppure che passa un suono
“ricco” al setaccio di un’acquisizione digitale a frequenza di campionamento appositamente
ridotta, proprio per rendere udibile lo stesso processo di conversione.
Per molte decadi la musica elettronica è stata considerata la musica del domani e quindi i suoi
timbri, gli oggetti musicali elettrici ed elettronici prodotti a partire dall’inizio del potevano (e
possono ancora) essere intesi come “segnali dal futuro”. Oggi però sappiamo che quel futuro non
è arrivato. Mentre l’approccio postmodernista e la nostalgia mode cercano di assemblare
elementi di epoche diverse senza soluzione di continuità, nascondendo o glissando su
collegamenti e anacronismi, la sonic hauntology si costruisce anche mettendo in primo piano la
“sutura” e gli elementi di raccordo, rendendo così evidente l’innaturalità degli accostamenti, il
loro presentarsi in modo discronico. Quando il continuum temporale viene spezzato e ricomposto
“fuori squadra”, non è più possibile dividere i frammenti del passato da quelli del presente, un
presente in cui il riaffiorare dei ricordi – memorie di un futuro atteso e mai giunto – ci svela
l’inganno insito nella modalità nostalgica e nel pastiche postmodernista. Se la modernità è
caratterizzata dall’emersione di «tecnologie che ci hanno reso tutti dei fantasmi» [Fisher 2012] e
nella postmodernità il tempo storico è ormai sostituito dal tempo spettrale dei dispositivi di
registrazione/riproduzione – dispositivi che si sanno essere onnipresenti ma di cui si cerca di
schermare la presenza o di “normalizzarla” – la hauntology rende nettamente percepibili la
presenza e gli effetti di tali tecnologie, esponendoci così al perturbante. La nebbia sonora della
musica hauntologica, il suo connotarsi con crepitii e fruscii, ci indica che il suono ha origine in
un tempo e in un luogo diversi rispetto a quelli dell’ascolto ma non è solo testimonianza storica,
traccia del passaggio cronologico o, come nell’opera di Lucier [1969], di un procedimento che
oblitera il suono originale. Si tratta di uno “spettro”, della traccia di eventi e cause non
chiaramente individuabili che si solleva come polvere dagli oggetti sonori recuperati [Fisher
2013a, 206]. Ci si domanda quale possa essere la loro origine, senza essere in grado di dare una
risposta certa. Il “non darsi” dell’evento musicale primigenio ricorda il tema dell’originale
assente in arte classica, in cui l’opera originale, come l’archetipo e il mito, è detta esistere solo
fuori dalla storia e non nello spazio-tempo della sua manifestazione empirica di artefatto: un
originale che dunque «latita sotto la realtà concreta dell’esemplare» [Centanni et al. 2005, 29].
Nella musica hauntologica l’originale però non è un archetipo, esso è contemporaneamente
assente e presente: si manifesta non come esemplare compiuto ma come “fantasma empirico”. I
frammenti sonori ritrovati chissà dove – ammesso che non siano anch’essi una creazione
dell’artista – e inseriti nella composizione, ci appaiono distanti, le loro fonti non determinabili,
ma al contempo sono impossibili da percepire come nettamente separati dall’opera che li
contiene. L’incertezza su quale sia davvero stato il processo compositivo è essa stessa esperienza
hauntologica.
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CV Italiano
Guglielmo Bottin (1977) Dopo gli studi in psicologia della musica all’università di Padova, si dedica alla
libera professione come compositore di musica per i media, arrangiatore di popular music e infine come
artista e performer di musica elettronica, esperienza che lo porta a esibirsi in oltre trenta paesi nel mondo.
Autore di una cinquantina di pubblicazioni discografiche per etichette europee, britanniche e statunitensi,
nel 2017 è chiamato a chiudere il 62° Festival Internazionale di Musica Contemporanea de La Biennale di
Venezia con il progetto di live electronics Robòttin, in collaborazione con Alexander Robotnick. Nel
2019, sotto la direzione di Ivan Fedele, contribuisce alla progettazione del CIMM (Centro Informatico
Musicale Multimediale, struttura permanente de La Biennale di Venezia) di cui coordina le attività negli
anni successivi. È attualmente dottorando presso l’Università degli studi di Milano.
English
Guglielmo Bottin (1977) After studying psychology of music at the University of Padua, he worked as a
composer of music for the media, arranger of popular music, and finally as an artist and performer of
electronic music in his own right, an experience that led him to perform in over 30 countries around the
world. Author of over 50 releases on European, British and North American record labels, in 2017 he
performed at the 62nd International Festival of Contemporary Music of La Biennale di Venezia with the
live electronics project Robòttin, in collaboration with Alexander Robotnick. In 2019, under the direction
of Ivan Fedele, he contributed to the establishing of Biennale's Centre for Electronic Music and
Multimedia (CIMM), whose activities he kept on developing in the following years. He is currently a
doctoral candidate at the University of Milan.