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MICHELE SANVICO
SIBILLA APPENNINICA
IL MISTERO E LA LEGGENDA
CAVALIERI, SIBILLE, PREFETTI ROMANI E MINNESÄNGER:
L'EREDITÀ LEGGENDARIA DEI MONTI SIBILLINI1
Nota dell'Autore
Questa breve panoramica relativa alle principali tradizioni leggendarie che hanno
illuminato nei secoli il territorio dei Monti Sibillini intende costituire un ausilio
introduttivo al percorso di ricerca delineato nella serie di articoli Sibilla Appenninica - Il
Mistero e la Leggenda (cfr. in particolare l'articolo riepilogativo Dai terremoti a una
Sibilla Appenninica e a un Lago di Pilato: una nuova ipotesi sull'origine della
tradizione leggendaria dei Monti Sibillini, 20212)
1. Il cavaliere Meschino: Guerrino e i Monti della Sibilla
È il 1410 e in Italia accade qualcosa di peculiare e, almeno in apparenza,
del tutto inedito.
Ed è una penisola frammentata, quella in cui tutto questo inizia ad avere
luogo. Al principio del qundicesimo secolo, grandi stati regionali si
suddividono e si contendono il potere dalle Alpi alla Sicilia. A settentrione,
sono il Ducato di Milano, guidato dalla stirpe dei Visconti, il Ducato di
Savoia, Genova e la Repubblica di Venezia, con la propria potenza
commerciale e navale, e lo splendore di una città dalla ricchezza
incomparabile, a dominare le terre che si estendono dal Piemonte
all'Adriatico. Piccoli marchesati, repubbliche e ducati, come Mantova,
1 Articolo pubblicato il 15/04/2022 su https://www.researchgate.net/
2 https://www.researchgate.net/publication/356195355_DAI_TERREMOTI_A_UNA_SIBILLA_APPE
NNINICA_E_A_UN_LAGO_DI_PILATO_UNA_NUOVA_IPOTESI_SULL'ORIGINE_DELLA_TR
ADIZIONE_LEGGENDARIA_DEI_MONTI_SIBILLINI
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Ferrara, Siena e Lucca, governati da aristocrazie colte e agiate, costituivano
importanti centri di elaborazione artistica e intellettuale. A Sud, il Regno di
Napoli e il Regno di Sicilia, controllati da angioini e aragonesi, occupavano
le terre e le isole poste a meridione. Al centro, la Repubblica di Firenze,
governata da una prospera borghesia mercantile, e lo Stato Pontificio, nel
quale i papi erano espressione delle più nobili e influenti famiglie italiane e
romane, in contrapposizione a quell'epoca con gli antipapi avignonesi, si
suddividevano il dominio sull'Italia centrale.
In una zona remota e appartata, nella porzione centrale della penisola
d'Italia, all'interno dei territori della Stato Ecclesiastico, si innalzavano
dirupate montagne: esse occupavano le terre di confine situate tra la città di
Norcia, isolato comune proclamatosi repubblica, seppure mantenendo la
propria fedeltà al Pontefice, e il piccolo borgo di Montemonaco, estremo
avamposto montano della Marca Anconetana. Queste montagne sarebbero
in seguito divenute note con una denominazione inquietante e fatidica: i
Monti della Sibilla.
In questo vivace, variegato e culturalmente effervescente contesto, inizia a
circolare, nell'Italia rinascimentale, prima a Firenze, tra un pubblico
popolare e mercantile, e poi presso le più raffinate corti italiane, come
quella estense e aragonese, un romanzo cavalleresco ricolmo di esotiche
avventure e di gloriosi fatti d'arme: è El Meschino di Durazo, meglio noto
in seguito come Guerrin Meschino.
Si tratta dell'opera, voluminosa e assai magniloquente, di un cantastorie
toscano prolifico e infaticabile, vissuto tra il 1370 e il 1432, originario di
Barberino in Valdelsa: Andrea di Jacopo de' Mangiabotti.
Ma chi era Andrea da Barberino? E perché il suo romanzo, Guerrin
Meschino, ha colpito in modo così profondo la fantasia dei lettori, tanto da
attraversare i secoli e giungere a far parlare di sé anche ai nostri giorni?
Per comprendere tutto ciò, dobbiamo ricordare come, tra il quattordicesimo
secolo e la prima metà del quindicesimo, prima dell'invenzione della
stampa, una delle principali forme di intrattenimento, per le classi più colte
e agiate, fosse proprio la lettura di romanzi e poemi manoscritti: oggetti
costosi e ricercati, contenenti le meravigliose e appassionanti avventure di
valorosi cavalieri impegnati nelle più favolose imprese: romanzi
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cavallereschi redatti in lingua francese, 'chanson de gèste' appartenenti al
ciclo carolingio, nelle quali i protagonisti sono Carlomagno, Orlando e altri
nobili cavalieri, alle prese con l'invasore saraceno; ma anche, come
vedremo in seguito, opere appartenenti alla Materia di Bretagna, legate alle
leggende bretoni e alle storie di Re Artù. Per il popolo minuto, invece, di
gusti più semplici e in massima parte illetterato, il divertimento era
rappresentato dagli spettacoli di piazza improvvisati o recitati dai
cantastorie, conosciuti anche come 'canterini': questa figura, oggi del tutto
dimenticata, conobbe tra il '300 e il '400 un enorme successo popolare,
tanto da essere addirittura sostenuta finanziariamente dalle pubbliche
autorità al fine di recare sollazzo e distrazione al pubblico delle città e dei
borghi, declamando versi, suonando strumenti e narrando le infinite,
mirabolanti gesta di eroici cavalieri di fronte ai volti stupiti e affascinati del
popolino radunato per l'occasione nelle piazze.
È su questo materiale letterario di origine francofona che Andrea da
Barberino e altri cantastorie toscani iniziano a elaborare le proprie
produzioni originali, che godranno di un successo straordinario presso il
pubblico italiano. Dopo una prima fase in cui i romanzi in lingua francese
penetrano nelle corti dell'Italia settentrionale, dando così vita a una serie di
opere manoscritte vergate in un linguaggio ibrido franco-veneto, sono
proprio i toscani a impossessarsi delle straordinarie storie cavalleresche
provenienti d'Oltralpe, modificandone forma e contenuti per meglio
adattarle al gusto di un pubblico meno sofisticato e in cerca di
appassionanti avventure, sfruttando anche la vivacità e la ricchezza della
lingua toscana.
Lo stesso Andrea sarà uno dei più fecondi e fantasiosi narratori del proprio
tempo. Creando e inventando su materiali francesi appartenenti al ciclo
carolingio, egli sarà l'autore di una nutrita serie di romanzi, come I Reali di
Francia, le Storie Nerbonesi, Ugone d’Alvernia, L’Aspramonte, la Storia di
Ajolfo del Barbicone e di altri valorosi cavalieri, tutti da raccontare nelle
piazze, e tutti trasposti inizialmente in manoscritti di scarso pregio,
destinati a un pubblico semicolto e mercantile, e in seguito riprodotti su
supporti di maggiore qualità, vergati con grafie eleganti e ricercate, da
accogliersi nelle biblioteche della più raffinata aristocrazia italiana; infine,
prodotti a stampa, a partire dall'ultimo quarto del quindicesimo secolo, per
una più vasta distribuzione territoriale.
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Ma, in particolare, sarà proprio l'opera che Andrea da Barberino scriverà
attorno al 1410 a rendere imperitura la fama di quel brillante cantastorie
toscano per i secoli a venire: e quell'opera è proprio il Guerrin Meschino.
Guerrino di Durazzo, detto il Meschino: così appellato perché, figlio del re
cristiano di Durazzo, ancora infante, è catturato dai corsari mentre è in fuga
dalla città con la propria nutrice dopo la riconquista da parte degli infedeli,
e viene così destinato a una grama vita di pesante schiavitù. Ma il sangue
reale non può non reclamare la dignità del proprio lignaggio: e il giovane
Meschino, adottato a Costantinopoli da un ricco mercante ed entrato ben
presto nelle grazie dell'imperatore, è liberato dalla condizione di schiavo e,
a motivo del proprio valore e in virtù della propria straordinaria abilità nel
combattimento, viene fatto cavaliere. Da questo momento in poi, per l'eroe
di Andrea da Barberino inizia un lungo, tormentato viaggio nel mondo
conosciuto, attraverso i principati cristiani e musulmani dell'epoca, alla
ricerca delle proprie origini: «io debo cercare», dice il Meschino, «da
levante a ponente austro et tramontana per tuto el mondo de la mia schiata
per sapere chi fu et chi è el mio padre».
Fig. 1 - Guerrino cavaliere da El libro de Guerrino chiamato Meschino (Venezia, 1493)
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E quale straordinario viaggio intraprenderà il nostro valoroso cavaliere in
cerca della propria stirpe! Di fronte ai lettori affascinati, nelle ricche sale di
palazzi e castelli, e innanzi agli ascoltatori rapiti e incantati nelle piazze dei
villaggi, si materializzeranno terre note e ignote, reali e fantastiche:
l'Armenia favolosa, le terre dei Tartari, sino ad arrivare in India, e poi la
Persia, Gerusalemme, l'Egitto, l'Etiopia, per passare in seguito in Tunisia,
Italia e Irlanda, raggiungendo poi la Spagna, la Francia, la Borgogna e le
Fiandre, e giungendo infine all'Albania e a Durazzo, riconquistata ora dal
braccio valente dell'intrepido guerriero, con l'agnizione finale della propria
nobile origine e l'incontro struggente con gli anziani genitori, liberati ormai
dalla prigione saracena. E quante imprese dovrà compiere il Meschino per
potere inverare il proprio desiderio, quante battaglie dovrà combattere,
quanti cavalieri batterà in duello, quante genti strane e fantastiche
incontrerà, e quanti grifoni, quante mostruose manticore, quanti draghi e
giganti dovrà egli affrontare, per la gioia del suo vasto e appassionato
pubblico.
Perché, occorre rimarcarlo chiaramente, Guerrin Meschino sarà una sorta
di best seller, a partire dal 1400 e per i secoli a venire: i manoscritti prima,
e le edizioni a stampa poi, narreranno in tutta Europa e in molte lingue le
strabilianti gesta di questo eroe popolare, che giungerà fino a sfiorare,
addirittura, il nostro ventunesimo secolo, con le novecentesche versioni per
ragazzi, le rappresentazioni nei teatrini dei pupi assieme agli eroici
paladini, e una rivista specializzata, il Guerin Sportivo, che ancora oggi
racconta di gol e campioni del calcio ispirandosi, nel nome della testata, al
figlio del re di Durazzo.
Nello scrivere il proprio romanzo d'arme e di gesta, Andrea da Barberino
non può non trarre ispirazione, in quanto a temi, situazioni e invenzioni
narrative, da quel ciclo carolingio che abbiamo avuto modo di menzionare
in precedenza: Milone, padre di Guerrino, è infatti un nobile cavaliere di
Borgogna, regione situata nel settentrione francese, che ha combattuto al
servizio di Carlomagno; e lo stesso nome 'Guerrino', utilizzato dal
cantastorie toscano, trova origine in quel Garin le Loherain protagonista
della raccolta di poemi denominata Ciclo dei Lorenesi, risalente al
dodicesimo secolo, nella quale si narrano le gesta di un'aristocratica stirpe
anch'essa originaria del nord della Francia, ai tempi di Carlo Martello.
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Cavalleria, imprese, luoghi esotici, amori e tenzoni. Centinaia e centinaia di
pagine di infinite, turbinose avventure. C'è molto, nel romanzo di questo
autore toscano vissuto tra il '300 e il '400. Come, d'altronde, in moltissimi
altri romanzi e poemi cavallereschi redatti in epoca medievale.
Eppure, nel testo di Andrea da Barberino c'è qualcosa di più. Qualcosa di
diverso, che contribuirà a promuovere nei secoli la fama di questa
ponderosa, interminabile narrazione, facendo in modo da rendere Guerrino
un personaggio particolarmente popolare, tanto che Alessandro Manzoni,
ne I Promessi sposi, racconterà di come il sarto del villaggio (il quale, pur
non avendo affatto studiato, si piccava di apparire come uomo di lettere e di
scienza), avesse «letto in fatti più di una volta il Leggendario de' Santi, il
Guerrin meschino e i Reali di Francia». Sarà proprio questo elemento
aggiuntivo, questo qualcosa in più a impedire che la polvere dell'oblio
rendesse quest'opera, così prolissa e ridondante, materia per i soli studiosi
della letteratura dimenticata dei tempi che furono.
L'elemento particolare, supplementare, inaspettato che si presenta allo
sguardo del lettore di ogni tempo nel Guerrin Meschino è la figura,
affascinante e sinistra, della Sibilla.
Perché è alla fine del libro quarto del romanzo che il Meschino, sempre alla
ricerca di rivelazioni in merito alla propria stirpe, trovandosi a Tunisi e
recandosi a fare visita a un indovino, viene a sapere che «la Sibilla
chumana non è ancora morta [...] e questa trovamo che è in Italia in le
montagne de penino le quale sono in mezo de Italia: se vui andate da lie
ella ve saperà del certo dire perché ella sa tute le cosse presente e passate».
Recatosi dunque in terra italiana, al nostro eroe viene detto ancora che la
Sibilla «la iera in li monti de pinino in lo mezo de Italia sopra una cità
chiamata Norza».
Ed ecco quindi irrompere, in una narrazione letteraria del primo
Quattrocento, la presenza di una Sibilla, una profetessa in grado di
conoscere il passato e il futuro: in apparenza legata alla Sibilla Cumana,
uno dei dieci oracoli sibillini della classicità; eppure, inopinatamente
trasferita dalla propria sede originaria, in Cuma, come tradizionalmente
attestato dai testi latini, fino a montagne segnate da «grande derupamenti e
[che] non se habitavano», situate «in lo mezo de Italia dove sono tuti venti
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per che sono molto alte e [...] za li stavano li grifoni, e [...] la più presso cità
che e li sia se chiama Norza».
È questa la prima apparizione della Sibilla Appenninica in un testo
manoscritto: in precedenza, non è possibile rinvenire assolutamente nulla.
È come se questa Sibilla fosse venuta improvvisamente a materializzarsi
all'interno della storia e dei racconti degli uomini, in un luogo
effettivamente sussistente del mondo reale, scaturendo però da una sorta di
impenetrabile caligine che ne avrebbe occultato le peculiari sembianze,
impedendone totalmente la visione nel corso dei secoli precedenti.
Questa repentina manifestazione, impreveduta e inattesa, non ha certo un
impatto marginale nelle vicende del romanzo: perché la «savia Sibilla»,
come viene più volte indicata da Andrea da Barberino, si presenta sin da
subito come un personaggio dal fascino inquietante e straordinariamente
potente, tanto da potersi immediatamente misurare, con rilevanza
particolarmente significativa, con lo stesso protagonista, fino a questo
momento assoluto e insuperato, del romanzo barberiniano, vale a dire
Guerrino detto il Meschino.
Fig. 2 - Il Monte Vettore come sarebbe apparso al Meschino recandosi da Norcia a Castelluccio
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L'impresa del recarsi alla Sibilla, infatti, non è cosa da poco, perché, come
viene riferito al Meschino, chi «era andato non erano amici de dio».
Profezia e negromanzia iniziano dunque immediatamente a combinarsi nel
racconto, mentre un senso di urgenza e di pericolo pare cominciare ad
avvolgere le parole di Andrea da Barberino, nel momento stesso in cui il
suo eroe si appresta ad ascendere le montagne.
E, nel leggere le parole vergate da Andrea da Barberino, possiamo tentare
di riconoscere i luoghi che conosciamo: quei Monti Sibillini che, oggi,
costituiscono una rinomata meta turistica e presso i quali tutti noi possiamo
recarci, in ogni momento e a nostro piacere, alla ricerca dei passi di
Guerrino detto il Meschino. Il cavaliere si reca infatti presso «la roca de la
Sibina [...] la quale era apresso a Nocea a sei miglia», identificabile forse
come il piccolo, isolato insediamento montano di Castelluccio di Norcia,
ancora oggi ultimo avamposto degli uomini verso le terre magiche e ignote
della Sibilla.
E non solo questo: ottenuta l'autorizzazione a passare oltre, e dopo essersi
confessato, il Meschino affronta infatti «aspere salite», fino a giungere al
«mezo del monte», dal quale «se moveva uno colo de monte che durava
uno miglio et era largo uno b[r]azo e pare la schena de uno sturione»: una
descrizione apparentemente fantasiosa, ma che pare invece delineare, con
particolare efficacia, la forma spettacolare e singolare del versante
occidentale del Monte Vettore, massa titanica che si erge dal Pian Grande
come la schiena di un enorme pesce, quale è in effetti lo storione, dal dorso
arcuato e dentellato come le sottili, precipiti creste della più grande
montagna dei Sibillini.
Con quali armi Guerrino si appresta a entrare nella grotta della Sibilla?
Sono le armi della fede, armi da opporre alla negromanzia, alle
«fantasime», affinché non si rischi di «andare a perdere l'anima el corpo»:
bisogna quindi che il Meschino «habia mente in lo core Yhesu christo
nazareno», come gli raccomandano gli eremiti, ultimo caposaldo dell'amore
divino prima della demoniaca dimora sibillina, e che «in tuti li tuoi
principii de le toe parole e de zo che tu fai tu dica prima el nome de
Yhesu».
Un cavaliere dunque, che tenta un'impresa pericolosa e, in buona sostanza,
pazzesca: penetrare all'interno di una grotta, situata sulla cima di una
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montagna posta al centro dell'Italia, per conferire con una Sibilla, una
profetessa avente un carattere marcatamente demoniaco, come avremo
modo di approfondire anche in seguito. Un'avventura meravigliosa, in
grado di stregare generazioni e generazioni di lettori. Un incontro che
avrebbe segnato il futuro destino di queste montagne, sin nel nome stesso
che, ai Monti Sibillini, sarebbe stato attribuito dopo tutto questo.
Perchè è proprio quando il Meschino inizia ad avventurarsi all'interno delle
cavità sotterranee della montagna, munito di doppieri, esca e acciarino, che
la sinistra magia della grotta della Sibilla inizia a inverarsi: nell'oscurità
egli si imbatte infatti in «una porta de metalo e da ogni lato era scorpito uno
demonio che pareva proprio vivi». Chi avesse attraversato quella porta e
avesse osato rimanere all'interno della grotta per un anno, afferma
l'avvertimento scolpito tra le dita dei demoni, avrebbe conquistato
l'immortalità; ma il giorno del giudizio, in anima e corpo, sarebbe morto, e
sarebbe stato dannato in eterno.
Dolce e suadente è il peccato e la rovina che per esso si ottiene: quando il
nostro cavaliere bussa alla porta, tre leggiadre damigelle ne aprono il
battente e, con dolce e seducente allettamento, introducono il Meschino nel
regno sotterraneo della Sibilla, tra meravigliosi giardini e logge istoriate.
E poi, ecco apparire la signora di quel mondo fantastico, circondata dalla
propria corte di bellissime donne: «in mezo de quele era una più bela donna
che li ochi soi mai havesse viduto; et una de queste tre li dise quela è
madonna la Sibila». Dominatrice di quel reame occultato al di sotto della
montagna, la Sibilla si presenta a Guerrino: «io voglio che tu sapi el mio
nome; io fui chiamata da' Romani chumana».
Immediatamente, l'animo di Guerrino viene quasi sopraffatto dal potente
incantesimo che muove quel mondo: «tanto era la sua vag[h]eza che ogno
corpo humano havereve inganato. [...] Era in lei tuta beleza et honesta; li
membri soi era smesurata zentileza, de grandeza più che comune e tanta
colorita, che quasi del suo proposito el cavò».
All'interno di queste montagne, dunque, non lontano da Norcia, scriveva
Andrea da Barberino, si apriva l'ingresso oscuro a un mondo nascosto,
pieno di «molte castelle e molte ville [e] molti palazi», giardini di delizie
simili a «uno paradiso novelo», dove erano «tuti li fruti che per lingua
humana se possono contare», e ricolmo di «tanto oro e tanto arzento tante
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perle et tante pietre preciose tanti zioieli e tante richeze», da rendere la
Sibilla più ricca dei più potenti re.
Ma tutto, lì dentro, è incantamento: «molti fructi» contenuti in quei giardini
erano «fora de stagione», «e per questo cognobe queste essere cosse false»;
e tutte quelle ricchezze, troppe in numero e qualità, «se non fosseno cosse
false, tuto questo mondo che lui [Guerrino in precedenza] havea cercato
non valeva la terza parte»; e quei palazzi, ville, castelli «imaginò questi tuti
essere incantamenti, perché in poco loco de la montagna non era possibile
che tante cosse vi fosseno».
Incantamento demoniaco, e sensuale. Perché la prova è cruciale, suprema,
quasi impossibile da superare: la Sibilla «preselo per la mano e con parole
amorose parlava», mentre lo osservava «con doi ochi acessi de ardente
amore», unendo «gli ochi soi con queli del Meschino» e «con certi ati de
mano rescaldando l'ardente fiama de amore», tentandolo con «tuti queli
piazeri e ziochi che fosse possibile e che a uno corpo humano se potesse
fare» e «monstrandoli la sua belleza e le suo bianche carne e le mamille che
pareano proprio che fosseno d'avolio».
Fig. 3 - La Sibilla e la seduzione in Guerino dito Meschino, cap. CXLVI, f. 132r (Padova, 1473)
Ma Guerrino sapeva. Sapeva che cedere avrebbe significato perdere la
propria anima immortale, disperare della salvezza eterna, consegnarsi
anima e corpo a un demone. E, eroe integro e puro, non cede, invocando
più volte, come gli è stato consigliato dagli eremiti, il nome divino: «Yhesu
christo nazareno fame salvo». La sua mente si libera, il suo cuore si
rischiara, e il Meschino riesce a resistere il maligno influsso promanante da
quell'entità che, in realtà, appartiene alla tenebra.
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Il cavaliere di Andrea da Barberino tenterà, invano, di ottenere dalla Sibilla
una risposta in merito alle proprie origini, interrogandola più e più volte;
ma la negromante rivelerà al Meschino solo verità parziali e frammentarie.
Sarà al sabato che la natura demoniaca di quei luoghi apparirà in tutta la
propria evidenza: è quello il giorno, infatti, in cui tutti gli abitatori del
regno sibillino, perdendo le proprie leggiadre fattezze, si trasformano in
orribili mostri: draghi, rospi, vermi, basilischi e altre abominevoli creature.
Solamente il lunedì, trascorsa la domenica del Signore, essi avrebbero
ottenuto di potere rientrare nei propri corpi, per riprendere una vita di
lussuria e perdizione all'interno della caverna.
Un anno intero trascorrerà il Meschino in quel luogo maledetto, sempre
resistendo alle sensuali sollecitazioni della Sibilla, e sempre implorando la
profetessa di volergli svelare la verità a proposito di quei genitori che egli
aveva perduto quando era ancora in fasce. Ma anche la Sibilla resisteva e
non rispondeva, tentandolo e tentandolo ancora, iniziando ella stessa a
disperare della riuscita del proprio empio proposito: ghermire quell'anima,
per trattenerla lontano da Dio fino alla fine dei tempi.
Lo scontro finale è drammatico. Guerrino scongiura ancora la Sibilla, lei
rifiuta di rivelargli il proprio sapere; ogni simulata cortesia cade infine tra
di loro, il Meschino apostrofa quella demoniaca creatura con ira ormai
incontenibile: «o iniquissima o renegata fada, maledeta da lo eterno dio»;
ma lei «se ne rise», aggiungendo «o falso christiano le tue sconzuratione
non me possono nozere [...] da mi non saperesti nessuna cossa più inanzi de
quelo che tu sa».
È la fine dell'incubo. Guerrino è rimasto all'interno di quella caverna per un
anno, senza però riuscire a ottenere le risposte che era andato cercando. Gli
è ancora consentito, al compimento dell'anno, uscire dal regno della Sibilla.
Accompagnato da una damigella della corte, egli percorre quel labirinto di
cavità sotterranee altrimenti inestricabile, e, varcando l'uscita, si sottrae
definitivamente all'incantamento.
Uscendo, la porta del reame fatato si richiude per sempre dietro di lui.
Ma la brama di potere entrare in quella regione di mistero e delizie, il
desiderio di accedere a quel luogo sensuale e lascivo, la cupidigia per tutte
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quelle ricchezze che giacevano sepolte nel cuore della terra, tutte queste
illusorie speranze e confusi turbamenti non sarebbero affatto rimasti chiusi
dietro quella porta.
Essi avrebbero viaggiato lontano, in terre remote e distanti, per molti
secoli.
Con il Guerrin Meschino, infatti, era iniziato il sogno, sinistro e
leggendario, della ricerca della Sibilla Appenninica.
2. Un gentiluomo dalla Provenza ai Monti Sibillini: Antoine de la Sale
In quel principio del secolo quindicesimo, non è solo l'eroe letterario
Guerrino detto il Meschino a risalire gli scoscesi versanti dei Monti
Sibillini.
Qualcun altro, infatti, si accinge in quegli stessi anni ad ascendere i fianchi
del Monte Sibilla; e, questa volta, non si tratta di un personaggio di
fantasia.
È la mattina del 18 maggio dell'anno 1420 e alcuni uomini si stanno
inerpicando lungo il ripido sentiero che conduce dal piccolo borgo di
Montemonaco su fino alla cima di quella incantata montagna. I cavalli sono
condotti per la cavezza e, seguendo la traccia segnata nell'erba, si riesce a
condurli sin quasi sulla vetta.
Uno di quegli uomini è un francese. Si chiama Antoine de la Sale.
Ma cosa è venuto a fare un gentiluomo, raffinato ed elegante, in questa
remota regione dell'Italia centrale, popolata solamente da pastori ignoranti
e rozzi contadini? E perché ha voluto scalare proprio questo monte, uno dei
numerosi picchi che si ergono in questo territorio così dirupato e ostile?
Antoine de la Sale, nato probabilmente in Provenza, è figlio di un noto
capitano di ventura, il quale molto aveva combattuto in Italia per difendere
gli interessi dei Duchi d'Angiò; e anche Antoine, poco più che trentenne,
conosce bene l'Italia, perché già da molti anni si trova anch'egli al servizio
di quel potente casato originario della Francia nordoccidentale, il quale
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controllava, ormai da più di un secolo e mezzo, il Regno di Napoli. Nel
1406 Antoine de la Sale, all'epoca giovanissimo, aveva già visitato Messina
e forse anche Taranto, al seguito di Luigi II d'Angiò, pretendente al trono
napoletano contro Ladislao d'Angiò-Durazzo. In quell'occasione, seguendo
la propria passione per l'avventura e il mistero, si era recato a visitare le
affascinanti, fiammeggianti isole Eolie, con i loro meravigliosi fuochi
vulcanici. Tra il 1409 e il 1411 egli si trova di nuovo in Italia, tra Pisa,
Siena,Viterbo e Roma, nella sua qualità di giovane scudiero di Luigi II
quando il duca, alla testa di truppe angioine, tenta nuovamente di opporsi al
proprio grande nemico Ladislao, che aveva osato spingersi verso
settentrione, sino a occupare la Città Eterna.
In quel 1420, dunque, Antoine de la Sale si reca nuovamente in Italia, al
seguito di Luigi III d'Angiò, figlio ed erede di Luigi II (scomparso alcuni
anni prima), nel tentativo di ottenere il riconoscimento dei propri diritti sul
Regno di Napoli. E, precedendo di qualche mese il proprio re, deviando dal
percorso più diretto verso il meridione italiano e dopo essersi inoltrato
lungo strade raramente battute da eserciti, pellegrini e viandanti, in quella
bella mattina di maggio, partendo da Montemonaco, tra «prati così belli e
piacevoli che a malapena si potrebbero descrivere», pieni di «erbe e fiori di
tutti i colori [...] talmente profumati che è proprio un piacere», il gentluomo
provenzale sale al Monte della Sibilla.
Antoine de la Sale è alla ricerca del mistero, seguendo le tracce di un mito
che, in quelle prime decadi del quindicesimo secolo, è già famoso in tutta
Europa. Uomo d'arme e d'avventura, raffinato scrittore, profondo
conoscitore del mondo cavalleresco, egli vuole incontrare la leggenda. E si
tratterà di un incontro personale e meraviglioso, che contribuirà a rendere i
Monti Sibillini celebri nei secoli a venire.
Di questa straordinaria escursione, infatti, possediamo il resoconto,
suggestivo e impressionante, vergato dallo stesso Antoine de la Sale,
conservato in un prezioso manoscritto realizzato circa venti anni dopo in
onore della duchessa Agnese di Borgogna, la cui figlia, Maria di Borbone,
era andata in sposa al nipote di Luigi III, Giovanni II d'Angiò, del quale il
colto e benvoluto Antoine era divenuto precettore.
Ed era stata proprio Agnese di Borgogna a chiedere al de la Sale di volerle
raccontare, per iscritto, di quella visita compiuta venti anni prima alla
strana e famosa montagna italiana e al Paradiso della Regina Sibilla, come i
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luoghi sibillini sono denominati in quel manoscritto: perché alla corte dei
Borbone, a Moulins, era appeso un grande arazzo, che raffigurava proprio il
magico monte della Sibilla. Una montagna ormai celebre, a quell'epoca, in
tutta Europa. E la nobile Agnese, che tutti i giorni poteva contemplare
quell'immagine, pittoresca testimonianza di un magico incanto, nascosto
tra le montagne della lontana Italia, voleva saperne di più.
Immediatamente, nel racconto di Antoine de la Sale, risalendo il fianco
della montagna la potenza della leggenda sibillina inizia a dispiegare tutta
la propria fascinazione. E i luoghi stessi sembrano modellare le proprie
forme allo scopo di comporre lo scenario più adatto alla rappresentazione,
magica e inquietante, che sta per essere offerta allo spirito, emozionato e
ricettivo, del nuovo visitatore: «bisogna procedere sulla cresta del monte
per circa due miglia», scrive de la Sale, «fa un grande spavento scorgere la
vallata da tutti i lati, e soprattutto dal lato destro, poiché la scarpata è
talmente orribile per ripidezza e profondità che è cosa difficile da credere».
Lassù, sospeso tra cielo e terra, Antoine de la Sale percorre la lunga dorsale
che conduce alla cima del Monte Sibilla, esposta al sole e al vento: è il
principio di un itinerario quasi iniziatico, che conduce il visitatore, oggi
come allora, fino al pauroso punto di accesso, fisico e simbolico ad un
tempo, alla parte sommitale della montagna: la grande corona di roccia che
circonda il regno della Sibilla.
Fig. 4 - L'ascesa al Monte Sibilla con la visione della corona di roccia
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«Questa corona del monte», scrive ancora Antoine, «è una roccia
naturalmente tagliata in circolo, dell'altezza di almeno tre lance; essa si
trova dal lato della montagna da dove si arriva e si sale, mentre dagli altri
lati la roccia è dell'altezza di sei miglia o più, e scende dritta come un
muro». È la straordinaria descrizione della corona rocciosa che marca e
difende la vetta del Monte Sibilla, così come appare anche oggi, ai nostri
giorni: e noi possiamo osservarla con gli occhi stessi di Antoine de la Sale,
il quale ne riproduce la conformazione nella splendida miniatura che
compare nel manoscritto del Paradiso della Regina Sibilla.
Simbolo di regale potenza, parete invalicabile intagliata nel monte, barriera
che separa il mondo degli uomini dalle regioni precluse del mito, la corona
di roccia del Monte Sibilla rappresenta il punto di ingresso alla leggenda
sibillina. E quando Antoine de la Sale, come anche gli escursionisti della
nostra contemporaneità, ne supera la sinistra elevazione affrontando l'unico
percorso più facilmente praticabile, viene finalmente a trovarsi alla
presenza del cuore della leggenda.
Fig. 5 - La vetta del Monte Sibilla rappresentata da Antoine de la Sale (manoscritto n. 0653 (0924),
Bibliothèque du Château (Musée Condé), Chantilly, folium 6r)
Lì, in prossimità della vetta del monte, giace l'ingresso alla Grotta della
Sibilla. Ma, già ai tempi di de la Sale, si tratta di un ingresso quasi del tutto
occluso, «piccolo, a forma di scudo, acuto in cima e largo di sotto», nel
quale è possibile entrare solo «carponi, discendendo a ritroso», per
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accedere a un piccolo vestibolo dove si trovano «sedili intagliati nella
roccia» e dove è presente uno stretto passaggio che, in ripida discesa,
conduce verso le profondità della montagna.
Da questo momento in poi, per Antoine de la Sale giunge il tempo dei
racconti leggendari, delle narrazioni inquietanti e fantastiche, dei resoconti
mai da alcuno verificati. I villici di Montemonaco, che lo hanno
accompagnato sulla cima della montagna, gli narrano infatti di cinque loro
compaesani, che avrebbero affrontato la discesa nel buio della grotta, ben
muniti di corde e torce; e che quel piccolo gruppo sarebbe penetrato nei
cunicoli più profondi di quel luogo oscuro, fino a giungere a una porzione
di roccia crollata, dalla quale «fuoriusciva un vento così orribile e
straordinario che non vi fu alcuno che osasse percorrere un passo in più, nel
timore che quel vento li portasse via».
E altri gli raccontano, ancora, che, dopo avere superato la spaventosa
corrente di vento, ci si sarebbe imbattuti, nel buio della grotta, in «un ponte,
del quale non si capisce di quale materia sia costruito, ma si dice che non
sia più largo di un piede e sembrerebbe essere molto lungo. Al di sotto di
questo ponte si trova un grande e spaventoso abisso di enorme profondità, e
in fondo si ode scorrere un grandissimo fiume». Un ponte strettissimo e
terrificante, apparentemente insuperabile da piede umano; una prova
spaventosa, che nessuno potrebbe fallire senza precipitare nell'oscurità
della caverna, tra le rocce crudeli e appuntite, fino a trovare la morte e a
giacere, per sempre, nelle acque gelide che attendono immemori nel fondo
della grotta.
Eppure, quella prova può essere superata: perché «non appena si pongono i
due piedi sul ponte», scrive de la Sale, «esso diviene largo a sufficienza; e
più si procede innanzi e più esso si fa largo e l'abisso meno profondo», così
che quel magico ostacolo può essere infine affrontato e vinto.
Dopo il ponte, nuove e terribili prove attendono il visitatore: perché,
proseguendo lungo i cunicoli sotterranei, e dopo avere superato, come già
nel Guerrin Meschino, «due dragoni scolpiti che [...] sembrano proprio
essere vivi e hanno gli occhi talmente brillanti da fare luce intorno a loro»,
il passaggio risulta essere ostruito da magiche «porte di metallo, che
sbattono giorno e notte senza posa, aprendosi e chiudendosi». E tentare di
passare significa rischiare di «essere preso e completamente stritolato tra i
due battenti», trovando una morte orribile nel buio della grotta.
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Ma anche questo magico ostacolo può essere superato, se nel petto batte un
cuore impavido e si procede con passo sicuro oltre l'incantamento, la cui
essenza non è altro che mera illusione.
E, oltre quelle porte, ci dice Antoine de la Sale, c'è qualcosa. Si ode, scrive,
«il vociare di una folla». Qualcuno, dunque, esiste e vive, incredibilmente,
all'interno di quella grotta.
Dopo quelle prove, dopo quei pericoli, da superare senza vacillare, si entra
nel regno del mito. Si accede, infine, al reame della Sibilla.
Perché stanze di cristallo rilucente attendono il visitatore. E poi un'ultima
porta, oltre la quale una corte di bellissime damigelle accoglie chi, con
cuore saldo, sia riuscito a giungere fin lì. Oltre quella porta, ricchezze
infinite sembrano riempire quei luoghi, tanto da parere impossibile che «in
dieci mondi vi potesse essere altrettanta ricchezza di quanta ne fosse riunita
unicamente laggiù», come già notato anche nel Guerin Meschino.
Come nel romanzo di Andrea da Barberino, la tentazione del peccato
pervade quelle aule sotterranee: al visitatore viene offerta una dama, quella
che più egli possa gradire, per il proprio piacere e soddisfazione. «Tutti
hanno quanti vestiti desiderino e ognuno è servito di cibo secondo il
proprio appetito; possiedono ricchezze a volontà, piaceri secondo il loro
desiderio. [...] Di delizie mondane ve ne sono tali che il pensiero non
potrebbe concepirle, né la lingua descrivere».
Ma chiunque, desiderando di godere delle gioie più lascive e proibite
presenti in quelle aule sotterranee, fosse rimasto all'interno del Paradiso
sibillino per più di trecentotrenta giorni, ne sarebbe rimasto per sempre
prigioniero: «l'usanza di quel luogo era che non se ne potesse più uscire».
Si trattava, scrive de la Sale, di un vero e proprio «congiungersi con il
Nemico, perché si poteva ben percepire come proprio del Nemico si
trattasse».
E che si trattasse di demoni immondi ne è la riprova, come già narrato
anche da Andrea da Barberino, il fatto che la sera del venerdì tutte quelle
splendide dame andassero a occultarsi, assieme alla Sibilla, in stanze
riservate, dove ognuna subiva ripugnanti trasformazioni in «vipere e
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serpenti», tutte rimanendo tali fino alla mezzanotte del sabato, e
riassumendo successivamente le proprie fattezze, più belle e giovani che
mai.
Quanti cavalieri, provenienti da ogni parte d'Europa, avevano già posto a
rischio la propria anima immortale penetrando nel Paradiso della Regina
Sibilla, negli anni che avevano preceduto quel 1420? Certamente molti. E
lo stesso Antoine de la Sale è in grado di osservare numerosi graffiti,
intagliati nella roccia, che riportano «i nomi di molte persone, che a
malapena si riescono a leggere»: tra questi, nomi di cavalieri tedeschi e di
nobili francesi. Perché quel luogo, all'inizio del quindicesimo secolo, era
già rinomato e assai frequentato da chiunque fosse alla ricerca di magiche
avventure e piaceri proibiti.
I villici di Montemonaco riferiscono inoltre ad Antoine de la Sale molte
altre storie, inquietanti e sinistre. «Un cavaliere originario della Germania,
paese nel quale vivono genti amanti dei viaggi e in cerca delle avventure
del mondo», sarebbe penetrato nei recessi più segreti della montagna,
superando il vento, il ponte e le porte, per godere delle delizie peccaminose
occultate in quel regno sotterraneo, salvo poi pentirsi di quell'empia
permanenza, vissuta nel disprezzo dell'amore di «Gesù Cristo Nostro
Salvatore». Pentito e mortificato, il cavaliere decide di uscire dalla grotta
sibillina poco prima dello scadere di quell'irrevocabile termine, e di recarsi
a Roma, allo scopo di implorare il perdono del papa, «vicario di Dio in
terra» e confessare i propri «abominevoli peccati, per i quali così tanto
stava offendendo Dio».
E poi ci sarebbe stato un altro cavaliere, questa volta francese, il quale si
sarebbe spinto sino al Monte Sibilla alla ricerca del fratello, che era
penetrato all'interno della grotta in cerca del leggendario regno nascosto
sotto la montagna, e mai più ne era uscito. Solo il suo nome, intagliato nella
dura roccia del monte, era rimasto visibile all'esterno dell'imboccatura della
caverna, a testimonianza della perdizione eterna alla quale il fratello
dell'aristocratico cavaliere aveva scelto di andare incontro.
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Fig. 6 - Antoine de la Sale narra a Pierre de Chissey e a Gauthier de Ruppes la propria visita al Monte
Sibilla (manoscritto n. 0653 (0924), Bibliothèque du Château (Musée Condé), Chantilly, folium 24v)
Questo, dunque, è ciò che Antoine de la Sale poté vedere di quella grotta, e
udire nelle parole degli abitanti del luogo, nel corso della propria visita al
Monte Sibilla, nel maggio dell'anno 1420. Lo stesso viaggiatore
provenzale, trovandosi nuovamente in Italia, a Roma, pochi anni dopo, nel
1422, si troverà a raccontare di questa sua particolare esperienza a Pierre
de Chissey, abate di Senlis, e a un gentiluomo del rango di Gauthier de
Ruppes, entrambi ambasciatori del re d'Inghilterra presso il pontefice
Martino V: personaggi appartenenti alla più elevata società del tempo, i
quali desideravano ardentemente conoscere le informazioni di prima mano
che un visitatore come Antoine de la Sale era in grado di fornire loro a
proposito del misterioso, sensuale, fantastico regno della Regina Sibilla.
Sarà l'affascinante resoconto contenuto nel manoscritto quattrocentesco di
Antoine de la Sale, ripubblicato a stampa un secolo dopo, a Parigi nel 1527,
a sancire definitivamente la fama europea del Monte Sibilla e del suo
mondo sotterraneo abitato da demoni in forma di leggiadre damigelle,
perduto tra quelle cime che saranno conosciute, in seguito, con il nome di
Monti Sibillini. Una fama che durerà molti secoli e che attirerà visitatori di
ogni genere, dai nobili ai negromanti, dagli scienziati ai cacciatori di tesori,
fino a queste remote montagne collocate al centro dell'Italia.
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E si tratterà di una fama che sarà ulteriormente magnificata dalla presenza
di altre leggende affini, connesse in vari modi a quella della Sibilla
Appenninica.
Si tratterà della leggenda del Lago di Pilato, anch'essa descritta da Antoine
de la Sale nel proprio manoscritto, e del racconto leggendario relativo a
Tannhäuser: il favoloso cavaliere tedesco che avrebbe fatto ingresso,
anch'egli, in un regno d'incanto, occultato al di sotto di una montagna,
dimora non certo casuale di bellissime dame, dal fascino sensuale e lascivo.
3. Una leggenda per un prefetto romano: il lago di Ponzio Pilato
Un reame incantato occultato al di sotto di una montagna. Una Sibilla,
maga e profetessa, che vivrebbe nell'oscurità di una grotta assieme alla
propria corte di leggiadre damigelle. Nobili cavalieri in cerca della verità
sulle proprie origini, o desiderosi di vivere una peccaminosa esperienza nel
più totale appagamento dei sensi, al prezzo però della perdita della propria
anima immortale. Tutto questo pare dimorare, all'inizio del quindicesimo
secolo, tra le vette del massiccio montuoso che si erge tra le Marche e
l'Umbria, tra la città di Norcia e il piccolo borgo di Montemonaco. Ed è
oggetto di romanzi cavallereschi e raffinati resoconti, i quali inizieranno a
circolare in tutta Europa, alimentando la fama di quei luoghi remoti e quasi
del tutto disabitati.
Eppure, quella della Sibilla non è la sola leggenda ad avere trovato dimora
tra quelle stesse montagne. E questa è una storia che pare quasi incredibile
a raccontarsi.
A poche miglia dal Monte Sibilla, infatti, e in piena linea di vista rispetto
ad esso, nel contesto del medesimo gruppo appenninico, si innalza la
cresta, fiabescamente arcuata, del Monte Vettore.
Questa montagna, dalla forma così particolare, modellata dal vigore di un
antico ghiacciaio, ospita tra le proprie titaniche braccia, in altitudine,
un'ampia vallata, circondata da paurosi dirupi.
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E, nel fondo di quella valle, priva di ogni presenza umana e abitata
solamente dall'echeggiare sinistro delle pietre che, distaccandosi dai costoni
verticali, precipitano rotolando verso il basso, si trova un piccolo lago.
Il suo nome è Lago di Pilato.
Pilato: una parola che non può che riportare alla mente le tragiche,
straordinarie vicende narrate nei Vangeli. Un nome che è indissolubilmente
legato alla storia della Passione di Gesù Cristo, e che appartiene a quel
prefetto romano della Giudea che ordinò, sotto il principato dell'imperatore
Tiberio, la crocifissione del Figlio di Dio.
Ma cosa c'entra, Ponzio Pilato, con la Sibilla e i Monti Sibillini?
A raccontarcelo è lo stesso Antoine de la Sale, il quale, nel medesimo
manoscritto in cui riferisce alla nobile Agnese di Borgogna del Monte
Sibilla e della sua grotta, ci parla anche di un'altra leggenda, oscura e
inquietante.
Fig. 7 - I laghi di Pilato così come appaiono ai nostri giorni, circondati dalle creste del Monte Vettore
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«Innanzitutto», esordisce Antoine, «vi parlerò del monte del lago della
Regina Sibilla, che alcuni chiamano il monte del lago di Pilato [...] dalle
parti del Ducato di Spoleto e nel territorio della città di Norcia. [...] Sulla
cima del monte vi è una depressione profonda circa un quarto della sua
altezza; e là è il lago di cui si dice non si trovi il fondo».
Il lago descritto da de la Sale esiste veramente ed è ancora oggi adagiato
all'interno del circo glaciale custodito dalle creste precipiti del Monte
Vettore. È ancora il viaggiatore provenzale a spiegarci il motivo per il quale
quel piccolo specchio d'acqua, gelida e immota, fosse intitolato al nome di
Ponzio Pilato: «si narra che quando Tito, figlio di Vespasiano, ebbe
distrutto la città di Gerusalemme, cosa che alcuni affermano sia stata
compiuta per vendicare la morte di Nostro Signore Gesù Cristo [...] quando
egli ritornò a Roma, portò con sé Pilato, che a quel tempo era governatore
presso la detta città di Gerusalemme. [...] Avendo considerato la volontà di
tutto il popolo di Roma, egli decise di metterlo a morte, perché anche se
Pilato non aveva desiderato condannare il nostro vero salvatore Gesù
Cristo, non aveva comunque adempiuto al proprio dovere di proteggerlo
dalla morte».
Pilato, dunque, vedendosi perduto, avrebbe chiesto all'imperatore
un'estrema concessione: «che, dopo la sua morte, il suo corpo fosse posto
su di un carro tirato da due coppie di bufali, e che esso fosse lasciato vagare
là dove i bufali avessero potuto trasportarlo». Tale peculiare grazia, così
come ci racconta Antoine de la Sale, gli fu effettivamente concessa: «i
bufali arrivarono ai bordi di questo lago e si gettarono nelle sue acque
insieme a tutto il carro e al corpo di Pilato, così rapidamente che fu come
se, inseguiti, stessero fuggendo alla massima velocità. E per questo motivo
il lago è detto di Pilato».
Questa leggenda, così apparentemente incongrua e connessa in modo assai
debole a questi luoghi, era ben viva già in quell'inizio del quindicesimo
secolo, quando Antoine de la Sale si era recato presso quelle montagne così
distanti e fuori mano. E i visitatori, così come già abbiamo potuto registrare
in relazione alla grotta situata sul vicino Monte Sibilla, non mancavano
neppure al lago: «nel mezzo si trova una piccola isoletta costituita da
un'enorme roccia, che un tempo fu murata tutt'attorno, e in molti punti sono
ancora visibili le parti inferiori di questo muro. Dalla riva a quest'isola
corre un piccolo passaggio, sommerso nell'acqua profonda cinque piedi,
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così come la gente mi disse, il quale fu danneggiato dagli abitanti del luogo
al fine di renderlo impraticabile, in modo che coloro che si recavano
all'isola per consacrare i loro libri per arte di negromanzia non la potessero
trovare più».
Il lago era dunque frequentato da maghi e negromanti, i quali
consideravano il circo glaciale del Monte Vettore come un luogo adatto alla
consacrazione di libro magici. E si trattava di una frequentazione assai mal
vista dagli abitanti di quelle terre: «non è passato molto tempo», scrive
ancora Antoine de la Sale, da quando vi furono presi due uomini, di cui uno
era un prete. Il prete fu condotto alla detta città di Norcia e là fu torturato e
arso vivo. L'altro fu fatto a pezzi e poi gettato nel lago dagli stessi uomini
che lo avevano catturato».
Il cortigiano dei d'Angiò non è il solo uomo di lettere a riferirci della
peculiare fama che pareva caratterizzare questo luogo. Già il poeta toscano
Fazio degli Uberti, nel suo Dittamondo, vergato nel corso della seconda
metà del Trecento, aveva parlato della fama del «monte di pillato, dov’è il
lago - che si guarda l'estate [...] - però che qua s’intende in Simon mago -
per sagrar il suo libro in su monta»; e ulteriori riferimenti saranno
rinvenibili nella letteratura dei secoli successivi, la quale riferirà di
negromanti tedeschi che si recheranno presso queste remote acque per la
consacrazione dei propri grimori.
Fig. 8 - Il Monte Vettore e il lago di Pilato nella miniatura di Antoine de la Sale (manoscritto n. 0653
(0924), Bibliothèque du Château (Musée Condé), Chantilly, folium 5v)
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Lago di Pilato, ma anche lago di Norcia o lago della Regina Sibilla, come
Antoine de la Sale lo identifica nella splendida miniatura contenuta nel suo
raffinatissimo manoscritto: un'immagine che, posta fianco a fianco con
quella del Monte Sibilla, ci presenta il Monte Vettore con tutta l'imponenza
della propria vetta dalla sommità cava, occupata dalle acque del lago,
esprimendo al contempo la potente carica leggendaria di luoghi che,
affacciati l'uno sull'altro, sembrano rilanciarsi un vicendevole richiamo,
seppure con voce appartenenti a leggende differenti e del tutto prive,
almeno in apparenza, di qualsivoglia relazione reciproca.
Tutto ciò non può che aprire la strada a una serie di questioni, marcate dal
segno del dubbio e anche di una qualche forma di sconcerto. Quale solido,
consistente legame narrativo può mai sussistere tra un personaggio storico
dell'antichità classica, menzionato nei Vangeli, e un massiccio montuoso
situato al centro della penisola italiana? Perché i Monti Sibillini risultano
ospitare questa leggenda così peculiare, così bizzarra, così a tratti
incoerente, con il suo carro, i suoi strani bufali, il suo erroneo imperatore,
Tito, il quale probabilmente era solo un bambino quando Pilato morì? E
come è possibile che due leggende così diverse e totalmente indipendenti
l'una dall'altra possano dimorare su due diverse vette dei Monti Sibillini,
situate però a pochi chilometri di distanza reciproca e in piena linea visuale
reciproca?
Come avremo modo di vedere, l'attenzione degli studiosi, dei lettori e degli
odierni visitatori ha preferito concentrarsi maggiormente sulla leggenda
della Sibilla Appenninica piuttosto che su quella relativa al lago di Pilato,
sia per motivazioni prettamente filologiche, sia per la maggiore capacità
attrattiva del mito sibillino, di volta in volta interpretato come fiaba erotica,
sensuale e lasciva, oppure come bandiera di un femminismo archetipico e
pacifista ante litteram.
Ma le domande rimangono. E sospingono il ricercatore più avvertito nella
direzione di un'investigazione meno superficiale, che sia in grado di
ripercorrere le tracce delle ascendenze medievali di entrambe le leggende,
estrapolandone così i più profondi caratteri comuni: caratteri in grado di
rendere evidenti alcune profonde affinità, a prima vista non visibili,
occultate dalla presenza del prefetto romano e della profetessa sibillina.
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Prima, però, di intraprendere questo specifico percorso, è necessario
occuparsi di un ulteriore nucleo leggendario, che pare anch'esso impegnare
lo spazio, già molto affollato dei Monti Sibillini.
Questa ulteriore leggenda è collegata a un nome dal suono aspro, tedesco.
E questo nome è Tannhäuser.
4. Il canto doloroso di Tannhäuser
«Ora comincia invero il mio poema
di Tannhäuser io ti canterò
e delle meraviglie da lui vissute
con Venere, la nobile Dama.
Tannhäuser fu un valente cavaliere
in cerca di cose mirabili egli
bramò entrare nella montagna di Venere
ove sono donne bellissime».
Questo è il celebre incipit di uno dei più noti poemi mai scritti in
Germania: il Tannhäuserlied, o Canto di Tannhäuser, le cui versioni più
antiche a noi note risalgono alla metà del quindicesimo secolo, ma che si
riferiscono certamente a un nucleo leggendario di origine medievale. Il
poema, del quale esistono differenti versioni, in lingua sia tedesca che
fiamminga, narra di Tannhäuser, un cavaliere e minnesänger tedesco, che
visse realmente nella Germania del tredicesimo secolo, ma della cui vita e
gesta si conosce assai poco.
Ma perché ci occupiamo, in questo capitolo, di un cavaliere di nome
Tannhäuser? Cosa ha a che fare una leggenda tedesca, viva in area
nordeuropea nel tardo Medioevo, con i nostri Monti Sibillini? E quale
legame può esistere tra questo antico poema, lungo poche decine di strofe,
e la Sibilla degli Appennini?
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Fig. 9 - Tannhäuser (Codex Manesse Pal. Germ. 848, Universitätsbibliothek, Heidelberg, folium 264r)
La risposta si trova all'interno dello stesso Tannhäuserlied. Perché quei
versi raccontano la storia di un cavaliere e poeta che si sarebbe immerso in
una vita peccaminosa e dissoluta alla corte della Dama Venere, la dea
dell'amore.
E la corte fatata della divinità si troverebbe, secondo l'antico poema, al di
sotto di una magica montagna, chiamata 'Venusberg' o 'Frau Venus Berg'.
Qualcosa, dunque, parrebbe richiamare alla nostra mente una leggenda che
ben conosciamo, e che è stata raccontata sia da Andrea da Barberino che da
Antoine de la Sale, in relazione a una Sibilla che avrebbe dimorato, però, in
Italia, tra le vette degli Appennini.
Tannhäuser, protagonista del breve testo poetico, avrebbe dimorato
all'interno di quel monte, il 'Venusberg', «per un anno, assieme alla fata
Venere». Il cavaliere tedesco, però, così racconta il lied, avrebbe
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cominciato a temere per la salvezza della propria anima immortale, perché
prolungando la propria permanenza in quel luogo sotterraneo e demoniaco
egli «sarebbe stato destinato a bruciare per sempre all'inferno»; Tannhäuser
inizia dunque a desiderare di potere abbandonare quel mondo di lussuria e
perdizione, fuggendo le gioie e i piaceri lascivi che Venere continua
malignamente a volergli offrire:
«La vita mia qui mi opprime,
oltre io non indugerò;
lascia dunque che io parta
e mi separi da te, o meravigliosa fata!»
La bellissima dea, sensuale e ammaliante, tenterà di impedire al cavaliere
di abbandonare la caverna; ma Tannhäuser riuscirà comunque a liberarsi e a
dirigersi verso Roma, la città dalla quale il sommo pontefice domina la
Cristianità, per implorarne l'assoluzione. Il papa, però, non accetterà di
concedere al cavaliere tedesco la propria benedizione: e, battendo con forza
a terra il proprio bastone pastorale, simbolo dell'autorità a lui conferita in
quanto Vicario di Cristo sulla terra, proclamerà che mai avrebbe potuto
perdonare un tale peccatore, come parimenti mai avrebbe potuto fiorire il
vincastro di legno, morto e disseccato, che il pontefice stesso stringeva
nella propria santa mano.
E così Tannhäuser - uomo reietto e ormai gravato dal peso di una condanna
irrevocabile, apparentemente pronunciata per volere divino - ripercorrerà i
propri passi fino a raggiungere nuovamente il 'Venusberg'; con la
disperazione nel cuore, egli entrerà ancora una volta nel peccaminoso regno
sotterraneo, abbandonando il nostro mondo per sempre.
La leggenda assume, poi, toni portentosi e particolarmente struggenti.
Perché, dopo tre giorni, accadrà che quel bastone, così aridamente
avvizzito e privo di ogni vita, fiorisca improvvisamente, andando a
ricoprirsi di meravigliose, delicatissime rose, e rendendo così veridica
testimonianza alla pura innocenza dell'anima di Tannhäuser. E allora il
papa, pentitosi della durezza del proprio cuore, avrebbe inviato araldi e
messaggeri in ogni angolo delle terre pontificie, cercando quel cavaliere per
ogni dove, affinché fosse ricondotto a Roma per ricevere dal pontefice il
perdono che, Dio lo proclamava, egli pienamente meritava.
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Fig. 10 - Tannhäuser chiede l'assoluzione al pontefice (dipinto di Ferdinand von Piloty, Castello di
Neuschwanstein, Füssen, Baviera)
I messaggeri andarono; gli araldi cercarono; ma, di Tannhäuser, non v'era
più traccia alcuna. E nessuno poté più dire di averlo visto ancora, vivo, in
questo mondo.
Questo racconto, così meraviglioso, così ricolmo di commovente
malinconia, conoscerà nei secoli, in area tedesca, una grandissima fortuna,
fino a essere rielaborato, nel diciannovesimo secolo, da Heinrich Heine e
poi da Richard Wagner, il quale porterà sulle scene d'Europa e del mondo il
dramma di Tannhäuser e della sua permamenza nel demoniaco regno
sotterraneo del Venusberg.
Ed ecco che, di fronte al nostro sguardo, gli elementi di questa favola nata e
diffusasi nel nord dell'Europa iniziano a comporsi in un quadro che ci pare
di conoscere ormai da tempo: una montagna e un cavaliere; un regno
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sotterraneo, pieno di incantamenti, nel quale una divinità fiabesca ha
stabilito la propria dimora; un'empia permanenza tra sensuali fanciulle,
dalla divina, splendente avvenenza; il rimorso e la vergogna, il timore per
la propria condotta peccaminosa; la terribile visione del castigo divino; la
frenetica fuga da quel luogo incantato; il tentativo di ottenere il perdono e
la benedizione dal papa di Roma.
Troppe assonanze, troppe vistose corrispondenze sembrano legare la
leggenda di Tannhäuser con la narrazione vergata da Andrea da Barberino
nel libro quinto del suo Guerrin Meschino, e con il dettagliato racconto che
Antoine de la Sale ci propone nel manoscritto del Paradiso della Regina
Sibilla.
È possibile che quella montagna magica, il 'Venusberg', al cui interno si
cela il lascivo regno di gioia e perdizione governato da una dama dalla
peccaminosa bellezza, non sia altro che il Monte Sibilla, la fatidica vetta
coronata situata negli Appennini italiani, tra Norcia e Montemonaco?
Il Venusberg e il Monte Sibilla sono la stessa montagna? La leggenda di
Tannhäuser è in realtà ambientata in Italia, tra i vertiginosi picchi dei Monti
Sibillini? Esiste una connessione stretta, inaspettata tra la leggenda tedesca
della Dama Venere e la leggenda italiana della Sibilla?
La risposta è che quel legame esiste. Perché il Venusberg non sarebbe altro,
in effetti, che il Monte Sibilla.
Già nel 1444 papa Pio II, al secolo Enea Silvia Piccolomini, prima di essere
elevato alla dignità pontificia, scriverà una lettera nella quale, rispondendo
alle richieste di informazioni a lui rivolte proprio da un personaggio
proveniente dalla Sassonia in merito all'esistenza di un monte di Venere in
Italia, riferirà che «esiste un lago, in Umbria, detta anche provincia del
Ducato, non lontano dalla città di Norcia, dove un'impervia montagna
ospita una immane caverna, attraverso la quale scorrono le acque. Mi
ricordo di aver sentito dire che lì si trovano streghe e demoni e ombre
notturne, un luogo nel quale coloro che posseggono un animo audace
possono ascoltare le voci degli spiriti malvagi, parlare con loro ed
apprendere le arti magiche».
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Ma è nelle parole vergate da un canonico svizzero vissuto nel quindicesimo
secolo, Felix Hemmerlin, che questa connessione, in apparenza quasi
incredibile, emerge in modo inequivocabile Nel suo trattato De nobilitate
et rusticitate, completato nel 1450, Hemmerlin scrive infatti che «è noto
come il Monte Sibilla si trovi presso la città di Norcia e il castello di
Montefortino [...] In queste montagne vi sono caverne e spelonche, che
traforano quei luoghi con vani, aule e passaggi praticabili, tanto che la
montagna è conosciuta comunemente con il nome di Monte di Venere. Si
dice infatti che Venere, moglie di Vulcano, qui pratichi eternamente il
proprio ufficio amoroso, non senza ardente passione [...] essendovi in
questo luogo incubi e succubi, in forma di leggiadre damigelle, cosi che
uomini si recano qui da ogni luogo per ottenerne le grazie».
E questa identificazione tra 'Venusberg' e Monte Sibilla sarà confermata da
ulteriori testimonianze letterarie che, nel corso dei secoli successivi,
sanciranno un diretto collegamento tra la leggenda germanica di
Tannhäuser e il mito italiano della Sibilla Appenninica.
Questa relazione risulterà essere tanto manifesta ed esplicita da avere
suscitato, molti secoli dopo, tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del
ventesimo secolo, un dibattito accesissimo e assai erudito che coinvolse, tra
Europa e Stati Uniti, studiosi, letterati e filologi di grande fama
internazionale: il dilemma sarebbe divenuto non più se il 'Venusberg' e il
Monte Sibilla fossero o meno la stessa montagna, fatto ormai considerato
quasi incontestabile, ma se la leggenda avesse avuto origine prima in
Germania oppure in Italia, con gli studiosi tedeschi schierati a favore della
prima ipotesi e gli accademici italiani e francesi attestati sulla seconda.
Forse, però, l'intera diatriba era stata posta nei termini sbagliati.
Il problema, difatti, non consiste affatto nello stabilire quale leggenda sia
nata prima, e dove.
Il nucleo centrale della questione riguarda, invece, la natura e l'origine delle
analogie che sono rinvenibili nelle due differenti tradizioni leggendarie,
quella relativa alla Sibilla e quella che riguarda Tannhäuser.
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Una montagna, una dama incantatrice, una sensualità lasciva e
peccaminosa, una corte di illusori fantasmi racchiusa in un luogo segreto
protetto da magici sortilegi.
Quelle analogie rimandano, infatti, a una fonte comune: un'unica sorgente
narrativa, dalle quale parrebbero scaturire entrambe le leggende. Leggende
che, successivamente, sarebbero andate a sovrapporsi l'una all'altra,
seguendo gli itinerari di cavalieri, menestrelli, cantastorie e soldati di
ventura, in continuo movimento tra Germania e Italia.
Ma in cosa consisterebbe questa fonte comune? E cosa unisce tutto ciò con
la leggenda negromantica relativa al Lago di Pilato?
Cosa si cela dietro l'incredibile, straordinaria ricchezza leggendaria dei
Monti Sibillini?
5. Sibilla Appenninica, il mistero e la leggenda
Un cavaliere, un gentiluomo, un prefetto romano e un minnesänger; e poi
una Sibilla, una grotta, un lago e una fama oscura e negromantica diffusa in
tutta Europa, per molti secoli.
È in questa isolata porzione dell'Appennino centrale, in Italia, che una
complessa e articolata tradizione leggendaria è venuta a depositarsi e
consolidarsi.
Perché tutto questo? E perché proprio qui?
Da molti secoli, in effetti sin dai tempi di Antoine de la Sale, studiosi e
appassionati hanno tentato invano di trovare una risposta a questi enigmi.
Oggi, la serie di articoli Sibilla Appenninica - Il Mistero e la Leggenda
propone al mondo della ricerca un'analisi esaustiva dell'intera materia, con
un approfondimento mai tentato in precedenza, investigando l'origine
medievale delle leggende che vivono tra i Monti Sibillini e delineandone la
scaturigine più antica e più profonda.
E la parola-chiave sarà illuminante e terribile: terremoti.
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Una congettura che è pienamente illustrata nell'articolo riepilogativo Dai
terremoti a una Sibilla Appenninica e a un Lago di Pilato: una nuova
ipotesi sull'origine della tradizione leggendaria dei Monti Sibillini3.
Fig. 11 - I Monti Sibillini, una visione dall'alto
Michele Sanvico
3 https://www.researchgate.net/publication/356195355_DAI_TERREMOTI_A_UNA_SIBILLA_APPE
NNINICA_E_A_UN_LAGO_DI_PILATO_UNA_NUOVA_IPOTESI_SULL'ORIGINE_DELLA_TR
ADIZIONE_LEGGENDARIA_DEI_MONTI_SIBILLINI
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