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DOI: http://dx.doi.org/10.5007/1980-4512.2017v19n36p177
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ISSNe 1980-4512 | v. 19, n. 36 p. 177-192 | jul-dez 2017
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Gabriela Seveso1
Daniela Finco2
Le Associazioni delle donne e i diritti dell’infanzia
in Italia (1861-1930)
Riepilogo: Lo scopo di questo articolo è quello di presentare la diffusione delle istituzioni
educative per i bambini piccoli italiani e il modo in cui è significativamente legato alle
associazioni delle donne e alle iniziative di pensatori e pensatori illuminati. L'articolo ricostruisce
la storia del diritto all'educazione per la prima infanzia in Italia nel periodo tra l'Unità d'Italia
(1861) e i primi decenni del XX secolo. Rivela come queste iniziative hanno sottolineato la
necessità di fornire istituzioni educative per giovani ragazze e bambini, non solo a fini di cura o
igiene; ma spesso con importanti principi educativi come l'attenzione agli spazi, i rapporti con
le famiglie e altri. L'articolo sottolinea anche come l'associazione delle donne abbia anche
combattuto duramente per un'adeguata formazione professionale di insegnanti e insegnanti.
Parole chiave: Storia dell'infanzia. Diritti dei bambini. Educazione per la prima infanzia.
Storia delle donne.
As Associações das Mulheres e os direitos da infância
na Itália (1861-1930)
Resumo: O objetivo deste artigo é apresentar a difusão das instituições de educação para as
crianças pequenas italianas e a forma como ela está ligada significativamente a associações
de mulheres e as iniciativas de pensadoras e pensadores iluministas. O artigo reconstrói a
história dos direitos à educação para a primeira infância na Itália no período entre a
Unificação da Itália (1861) e as primeiras décadas do século XX. Revela como estas iniciativas
enfatizaram a necessidade de garantir instituições com fins educativos para meninas
pequenas e meninos pequenos, não somente com fins de assistência ou de higiene; mas
muitas vezes, com princípios educacionais importantes como a atenção para os espaços, a
relação com as famílias, entre outros. O artigo aponta ainda como a associação de mulheres
também lutou muito para formação profissional adequada de professoras e professores.
Palavras-chave: História da infância. Direitos das crianças. Educação Infantil. História
das Mulheres.
Women’s Associations and Children’s Rights in Italy
(1861-1930)
Abstract: The aim of this article is to present the diffusion of educational institutions for Italian
young children and the way in which it is significantly linked to women’s associations and the
initiatives of thinkers of the Enlightenment. The article reconstructs the history of the right to
education for early childhood in Italy in the period between the Unification of Italy (1861) and
the first decades of the twentieth century. It reveals how these initiatives emphasized the need
to provide educational institutions for young girls and young boys, not only for the purposes of
care or hygiene; but often with important educational principles such as attention to spaces,
relationships with families, and others. The article also points out how the women’s association
also fought hard for adequate professional training of teachers and teachers.
Keywords: History of childhood. Child rights. Early Childhood Education. History of
women.
1 Dipartimento di Scienze Umane per la for mazione. Università degli Studi di Milano-Bic occa. E-mail: gabriella.seveso@unimib.it
2 Doutora em Educação pela Universidade de São Paulo – USP. Departamento de Educação da Escola de Filosofia, Letras e
Ciências Humanas, Universidade Federal de São Paulo – UNIFESP. E-mail: dfinco@unifesp.br
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Le Associazioni delle donne e i diritti dell’Infanzia in Italia (1861-1930)
Donne, associazioni femminili e infanzia alla fine dell’Ottocento
n Italia il dibattito sulle istituzioni per la prima infanzia si sviluppa soprattutto a partire dalla metà
dell’Ottocento attorno alla problematica delle condizioni dei bambini e delle bambine e delle loro
madri: “Nel corso dell’Ottocento – scrive Carlo Corsini – si moltiplicano i dibattiti, i congressi,
nazionali e internazionali, sulla protezione dell’infanzia, sull’igiene dell’allattamento, sull’assistenza e
la beneficenza all’infanzia, sul lavoro minorile e sulla tutela della madri lavoratrici” (Corsini, 1996, p. 264).
Questi dibattiti scaturivano dalla constatazione delle condizioni sovente drammatiche in cui si trovavano
i/le bambini/e e le donne delle classi lavoratrici e contadine, soprattutto a seguito del primo affermarsi di
un’economia industriale. In alcuni casi, le riflessioni erano sollevate da politici e da pensatori che in realtà
erano spinti dalla preoccupazione di mantenimento dell’ordine sociale o addirittura di controllo delle classi
lavoratrici al fine di implementare il profitto imprenditoriale. In altri casi, però, le proposte nascevano
dall’iniziativa filantropica e/o da manifestazioni caritatevoli che vedevano coinvolte e attive protagoniste le
donne di classi sociali più agiate; in altri ancora, cominciava a farsi strada una rivendicazione mossa da
maggiori consapevolezze politiche e sociali. Anche nel caso di iniziative filantropiche, comunque, si
ottenne sovente il risultato di porre all’attenzione dell’opinione pubblica il tema importante della tutela
dell’infanzia e del sostegno alle madri, e anche di realizzare prime forme di educazione infantile: queste
ultime avevano il merito di trasmettere alle classi più disagiate elementi di cura che non avrebbero potuto
conoscere in altro modo e di dare forma alle prime sperimentazioni che costituirono un esempio e un
modello dal quale partirono poi realizzazioni più mature e più consapevoli.
In questa cornice, si distinsero le opere di alcune donne che appartenevano a classi sociali più
elevate e che si proposero di diffondere i principi di cura e di attenzione all’infanzia e di sostegno alle
madri lavoratrici. Nel 1850 a Milano, nel quartiere di Santa Cristina e due anni dopo in zona di Porta
Ticinese, furono aperti due “ricoveri”: il primo deve la sua fondazione all’opera instancabile e feconda di
Laura Solera Mantegazza, affiancata dal filantropo Giovanni Sacchi: la donna, che apparteneva ad una
famiglia alto borghese di Milano, decise infatti di fondare il Ricovero dei bambini lattanti, utilizzando e
riadattando alcuni locali al piano terreno della sua casa con l’ingresso dalla Contrada Santa Cristina (poi
rinominata Via Mantegazza). Laura si era già distinta per le sue azioni filantropiche, quando, a seguito delle
Cinque Giornate, si era dedicata all’assistenza e alla cura dei feriti, riuscendo a raccogliere alcune somme
per sovvenzionare le loro cure, grazie al suo elemosinare casa per casa. Dopo il 1850, la Solera Mantegazza
decise di dedicarsi con impegno e con continuità ad opere umanitarie a favore delle donne, fondando la
Scuola per adulte analfabete, La Scuola professionale femminile, e l’Associazione Generale di Mutuo
Soccorso per le operaie milanesi. Resasi conto della necessità di offrire aiuto alle madri lavoratrici per la
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cura e l’allevamento dei figli, fondò il Ricovero di Contrada Santa Cristina per sostenere le madri sia dal
punto di vista materiale, sia dal punto di vista del benessere dei/delle bambini/e. Il ricovero, già dopo un
mese dalla fondazione, offriva ospitalità e cura a ben 40 bambini, le cui madri erano impegnate
nell’industria della seta, negli opifici, nelle fabbriche di tabacchi e di fiammiferi, e come lavoranti nelle
botteghe (Catarsi, 1982 p. 150). In questa istituzione, certamente erano presenti molti aspetti e finalità
igieniche e sanitarie, ma era molto evidente anche l’attenzione al benessere psicofisico, alla cura degli spazi
e dei materiali: erano messi a disposizione giochi e giocattoli e i/le bambini/e potevano fruire di un
giardino ove muovere i primi passi con l’ausilio di sostegni. Questa istituzione, pur avendo alcuni limiti
(per esempio, richiedeva alle madri dei lattanti di recarsi presso il ricovero alcune volte durante la giornata
e questo non era facile per le lavoratrici degli opifici), era però sorretta dall’idea che la prima infanzia aveva
diritto ad essere tutelata, a crescere all’interno di spazi adeguati e pensati, a poter fruire di cure e di
attenzioni sia sul piano psicofisico sia sul piano educativo.
Nel corso dell’Ottocento, purtroppo, queste istituzioni, che sorsero ad opera di donne molto
impegnate in una intensa attività sociale, furono anche oggetto di critiche accese: risulta interessante
osservare come queste critiche rimasero le stesse per tutta la seconda metà del XIX secolo, ma anche nel
Novecento, fino agli anni Settanta e oltre. Gli oppositori dell’educazione della prima infanzia, infatti,
sottolineavano gli alti costi di queste istituzioni, e il timore che esse contribuissero a mettere in crisi la
famiglia tradizionale; in particolare, sovente venivano rimproverate le donne lavoratrici, accusate di
dedicarsi troppo agli impegni extradomestici.
Negli ultimi decenni del XIX secolo, inoltre, i nidi furono al centro di riflessioni molto
controverse, relative alla loro funzione: all’interno di queste istituzioni, infatti, era presente sia personale
femminile addetto alla cura dei/delle bambini/e, sia medici e sanitari che le rendevano strutturate anche
con un taglio igienistico. La proposta di questi ultimi era di accorpare all’interno dei nidi, anche piccoli
ospedali, oppure asili per accogliere madri nubili e loro figli/e o anche sale per ricoverare bambini
abbandonati: queste proposte, purtroppo, ottenevano come risultato di rendere i primi nidi istituzioni
poco percepite come educative e ricche di potenzialità positive per bambini/e e famiglie e più percepite
come luoghi di assistenza per situazioni di difficoltà.
Nonostante le critiche e le non poche difficoltà, i primi nidi per l’infanzia si diffusero soprattutto
nel Nord Italia, a Varese, Venezia, Trieste, Verona ed erano fondati con aspettative e con intenti educativi
anche elevati, anche se purtroppo in quasi tutti i casi si trovavano poi a svolgere funzioni di custodia, a
causa delle difficoltà finanziarie in cui versavano. Essi, infatti, vedevano la luce grazie all’opera di privati e
private cittadini/e, che solo raramente ottenevano qualche finanziamento pubblico. In alcuni casi, invece,
l’intervento illuminato di alcune donne permetteva la realizzazione di istituti per bambini e bambine della
fascia di età 3-6: a seguito della diffusione delle teorie di Fröbel, tradotte in Italia da Adolfo Pick, ad
esempio, a Venezia alcune donne appartenenti alla borghesia ebraica (Adele Della Vida, Laura Goretti
Peruda, fra le altre) diedero vita ai primi giardini fröbeliani. Queste sperimentazioni, avviate da personalità
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illuminate e attente agli stimoli culturali provenienti dall’Europa, ebbero il merito di sollevare un dibattito
interessante sia relativamente alle metodologie utilizzate per l’educazione infantile, sia relativamente ai
diritti dell’infanzia: asili e asili nido in questi casi erano promossi da donne che sottolineavano gli aspetti
educativi e non di mera custodia o assistenza, e che intendevano i loro interventi come rispondenti al
diritto all’educazione di bambini e bambine e non solo come opere di beneficenza e di carità. Come
sottolinea Tiziana Pironi in una densa e significativa ricostruzione, la diffusione del metodo fröbeliano in
Italia fece sì che molte donne si impegnassero o nella realizzazione di iniziative a favore dell’educazione
infantile o nei dibattiti vivaci che si svilupparono intorno ai metodi adottati nelle istituzioni per bambini/e.
L’autrice ricorda a questo proposito l’opera del periodico “La Donna”, fondato da Gualberta Alaide
Beccari a Padova nel 1868: “Il giornale si distinse nella campagna a favore dei Giardini fröbeliani, in vista
del superamento della concezione custodialistica dell’asilo infantile, sottolineandone invece l’esplicita
valenza educativa” (Pironi, 2014, p. 26).
Le donne o le associazioni di donne che si impegnarono in questo cammino furono più di una e
si diffusero anche in Italia centrale. A questo proposito, possiamo ricordare a titolo di esempio l’opera di
Ernesta Galletti Stoppa nella zona di Ravenna: questa appassionata mazziniana si dedicò con fervore per
tutta la vita a iniziative in favore delle donne, per promuovere l’istruzione femminile, la partecipazione
politica, la consapevolezza e l’autonomia delle lavoratrici. Si impegnò inizialmente nell’associazionismo
femminile, nella convinzione che solo la promozione sociale delle donne avrebbe permesso loro di trovare
soluzioni concrete ai bisogni materiali e morali di una società che stava affrontando la diffusione
dell’economia industriale e le sanguinose lotte per l’indipendenza. Resasi conto della tragica situazione in
cui versava l’educazione di bambini e bambine in Italia in quel periodo, la Galletti Stoppa decise di fondare
un istituto comprensivo, articolato in un giardino di infanzia, una scuola elementare e un corso di
perfezionamento femminile: le opposizioni e le chiusure che incontrò da parte di alcuni ambienti
conservatori la costrinsero a realizzare questo progetto a proprie spese. (Pironi, 2014). La novità e
originalità di questa iniziativa consisteva nella realizzazione di un percorso formativo per bambini/e dai
due anni e mezzo (giardino di infanzia) fino alla scuola elementare, aperto a tutti e non solo ai bisognosi:
quest’ultimo aspetto dimostra come la fondatrice intendesse l’educazione di bambini e bambine non come
opera di assistenza alle classi disagiate, ma come un diritto di tutti/e. La Galletti Stoppa riuscì a realizzare
un giardino molto attento agli spazi, aereati, salubri, lontani dal traffico cittadino, ove bambini e bambine
potessero dedicarsi anche ad attività manuali e di giardinaggio.
Questa ed altre iniziative mostrano come le donne o le associazioni femminili cercassero con
vigore sia di mettere in atto vere e proprie sperimentazioni, sia di avviare riflessioni e dibattiti che
favorissero il passaggio da un’ottica assistenzialistica e custodialistica delle istituzioni per la prima infanzia
ad un’ottica educativa e centrata sui diritti.
Purtroppo, lo Stato italiano, che versava in condizioni economiche difficili e che si trovava ad
affrontare problemi sociali molto complessi, non dimostrava invece di accogliere queste istanze e di
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considerare con sensibilità e attenzione la questione del diritto educativo di bambini e bambine della fascia
prescolare. Sottolineiamo, infatti, come la Legge Casati (promulgata nello Stati piemontese, ma estesa a
tutta l’Italia all’indomani dell’Unità), non considerava gli asili di infanzia e li definiva “istituti di carità”: essi
erano dunque di competenza del Ministero degli Interni e questo dato risulta assai significativo nel
mostrare la chiusura degli ambienti politici nei confronti dei diritti educativi dell’infanzia.
Contemporaneamente, continuavano a diffondersi alla fine dell’Ottocento anche istituzioni
rivolte a bambini e bambine della fascia di età 3-6: prime fra tutti, gli asili aportiani, che ebbero buona
diffusione nel corso del secolo soprattutto in Italia del Nord, pur essendo avversati da alcuni importanti
esponenti politici o della cultura del tempo (un curioso esempio è costituito da Giacomo Leopardi che
scrisse un pamphlet proprio riguardo alle opere di assistenza e beneficenza all’infanzia).
Questi fermenti e queste iniziative erano peraltro sicuramente influenzate anche dalle riflessioni
culturali e pedagogiche e dai fenomeni che si stavano sviluppando in quel periodo in altri Paesi europei.
Ricordiamo che in Francia si erano già diffuse le écoles maternelles, con la funzione di offrire uno spazio
educativo ai/alle più piccoli/e, sostituite nel 1881 da una legge che istituiva le salles d’asyle, con intenti quasi
più vicini all’impostazione scolastica che a quella educativa. In Europa, inoltre, nel corso dell’Ottocento, si
era sviluppato un dibattito intorno al tema della maternità e al suo valore sociale, al ruolo pedagogico ed
educativo della donna: temi, questi, che si intrecciavano con quelli del diritto all’educazione di bambini e
bambine. Certamente ebbe una sua influenza su questi temi anche la diffusione del pensiero di Pestalozzi,
che riconosceva alla madre un ruolo prioritario e per la prima volta attribuiva all’opera educativa della
madre una capacità di riflessione: l’amore materno, negli scritti pestalozziani, era “amore pensoso”, ovvero
sentimento non innato né connesso al semplice istino, ma capacità di riconoscere il proprio agire, di
trasformare in sapere le tensioni affettive. Questa forte rivalutazione del sentimento materno riconosceva
per la prima volta alle donne un sapere seppure non formalizzato, attribuiva loro compiti importanti di
rigenerazione della famiglia e della società. Queste riflessioni contribuivano in maniera molto significativa
ad una decisa valorizzazione della centralità educativa dei primi anni di vita di bambini e bambine e
comportavano anche il concetto estremamente importante di supporto alla genitorialità.
I concetti che fanno da filo conduttore all’interno delle opere pestalozziane e in particolare in
Leonardo e Gertrude, Come Gertrude istruisce i suoi figli, Lettera sull’infanticidio, sono straordinariamente vicini a
quanto possiamo ritrovare negli scritti di alcune donne appartenenti ai movimenti e alle associazioni della
fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, le quali ribadiscono con vigore l’importanza sociale del
ruolo materno. Anche la diffusione del metodo fröbeliano ad opera di alcune appassionate estimatrici, finì
per saldare il tema dei diritti educativi di bambini e bambine e dei metodi didattici più adeguati con quello
del ruolo sociale della donna. Molte donne, inoltre, cominciarono ad interessarsi alle tematiche
dell’educazione della prima infanzia a seguito della diffusione del fröbelismo: Tiziana Pironi ricorda come
le divulgatrici e le sostenitrici di questo metodo erano in molti casi donne di classi sociali elevate, colte, a
volte di origini non italiane, che si appassionavano all’idea di un rinnovamento educativo (Pironi, 2014).
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Le istanze educative infatti esprimevano
“un’esigenza che si coniugava con la maturazione di una coscienza etico-civile, - scrive
Tiziana Pironi - che trovava espressione nell’idea, di derivazione mazziniana, di madre-
cittadina, ovvero di donna volta a interpretare la funzione materna come impegno sociale ed
educativo nei confronti non solo dei propri figli, ma dell’intera società” (Pironi, 2014 p. 26)
L’inizio del Novecento e il diffondersi delle iniziative a favore dei diritti educativi
dell’infanzia
Il dibattito politico si fece più vivace all’inizio del Novecento e prese in considerazione le
istituzioni e le iniziative per la prima infanzia con posizioni alterne e non sempre chiare; alla fine del XIX
secolo, lo Stato italiano tentò di regolamentare la situazione : una legge del 1890 mutava il vocabolario
giuridico, abolendo la dizione “opere Pie” e introduceva la dizione di “Istituzioni pubbliche di
beneficenza”: si voleva in tal modo svincolare l’assistenza dalla carità, sottolineando una diversità di valori
e la necessità di un approccio più razionale e il fatto che non era più possibile affrontare il problema dei
bisognosi in termini di pietà. La filantropia fu sostituita, quindi, gradatamente, nei primi anni del XX
secolo, da un più deciso intervento dello Stato e dai primi tentativi di una politica sociale che prendesse in
considerazione i problemi dell’infanzia da un lato, la tutela della maternità dall’altro (Seveso, 2003, p. 132).
E’ in questo clima che all’inizio del Novecento, si diffuse ulteriormente con vigore
l’associazionismo femminile, che si occupò con sensibilità e con attenzione della condizione di miseria
delle donne, dell’infanzia abbandonata, dei diritti all’educazione di bambini e bambine; in questo periodo,
inoltre, forti personalità femminili riuscirono a ricoprire importanti cariche all’interno di Istituzioni di
beneficenza, e a dare impulso ad iniziative assai significative.3 Tale associazionismo permise alle donne di
impegnarsi in alcuni ambiti della vita sociale, superando le remore e gli impliciti divieti di ambienti
conservatori: l’associazionismo femminile propose un’immagine di donna molto impegnata, attiva,
informata ed istruita, capace di soccorrere ma anche di dibattere sulle problematiche sociali e di tentare di
proporre soluzioni. É da sottolineare, inoltre, come l’associazionismo femminile si mobilitò proprio in
ambiti all’interno dei quali le principali vittime di disagi sociali erano le donne, maggiormente sfruttate
nell’ambito lavorativo, con un carico di lavoro e responsabilità enorme in ambiti familiare, e maggiormente
esposte a rischi sanitari o a rischi sociali.
La storia delle istituzioni per la prima infanzia, quindi, si intrecciò in maniera indissolubile a
quella dei movimenti delle donne, che si dimostrarono molto ferventi e determinate nel richiedere il
riconoscimento del diritto alla educazione e alla cura dei/delle più piccoli/e. A questo proposito, occorre
sottolineare come, accanto alle iniziative che sorsero in questo modo, in Italia videro la luce iniziative
parallele, ad opera di industriali che si ispiravano ai modelli messi in atto negli opifici inglesi:
“All’alba del nostro secolo, in alcune industrie femminili, per favorire una più sana
crescita dell’infanzia – scrivono Franco Cambi e Simonetta Ulivieri – si allestiscono
3 Molte donne, inoltre, si impegnarono all’interno di Associazioni sorte non da iniziative femminili: all’interno della Società Umanitaria,
per esempio, fondata nel 1912 grazie al lascito di 12 milioni di lire del magnate Prospero Moisé Loira, con scopi di beneficenza e di
diffusione della cultura, militavano molte don ne che si dimostrarono assai attive nel partecipare alle iniziative.
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delle camere di allattamento, dove a orari prefissati, qualche familiare (quasi sempre una
figlia più grandicella) reca il piccolo; in altre, molto all’avanguardia, vengono aperte delle
crèches, degli asili dove i bambini sono seguiti da donne o da religiose a spese della ditta e
dove le lavoratrici possono allattare i propri figli durante i riposi concessi. Queste
istituzioni sono determinate e motivate da un filantropismo imprenditoriale, che spesso
affonda le sue radici nella necessità previdente di avere in futuro lavoratori sani da poter
impiegare, e non un’umanità piena di patologie e incapace di produrre per debilitazione
fisica” (Cambi, Ulivieri, 1988, p. 212).
In questo modo sorsero a Milano le strutture dell’industria cartiera Binda e quelle dell’industria
di porcellane Richard, a Pistoia quelle di Cini, a Schio di Rossi. Queste iniziative, però, che erano a volte di
livello buono, non partivano dalla rivendicazione dei diritti dell’infanzia e delle donne lavoratrici, ma
piuttosto dalla convinzione degli imprenditori che fosse più produttiva una madre serena e meno
impegnata con i figli o anche dalla necessità che le donne sposate con figli non uscissero dal mondo della
produzione industriale, all’interno del quale erano utili per l’esperienza accumulata. Si tratta di una
notevole e significativa differenza che caratterizza le opere di industriali rispetto alle iniziative realizzate
dalle donne e dalle associazioni femminili: queste ultime si muovevano infatti nella ferma convinzione che
andasse perseguito l’obbiettivo del diritto all’educazione dei/delle bambini/e ed erano ben distanti dalle
motivazioni imprenditoriali degli industriali pur definiti “illuminati”.
La situazione delle sale di allattamento fu ratificata con la legge 242 del 1902. Essa può essere
considerata la prima legge a tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, costituita da una sorta di
mediazione fra la proposta socialista e quella governativa: essa, rivelando notevoli ritardi e arretratezze
rispetto ad altri paesi europei, elevava a dodici anni l’età minima per accedere al lavoro industriale e a
quindici quella per esercitare il lavoro notturno; vietava, inoltre, alle donne e ai minori il lavoro nelle
miniere e limitava l’orario giornaliero a dodici ore per le donne e a undici per i minori; prevedeva, infine,
un congedo mensile per parto e una cassa per la maternità; non viene menzionato l’assegno per congedo
di maternità. Nonostante l’approvazione rappresentasse comunque un passo avanti, in realtà,
l’applicazione della legge era non facile e alcune richieste proposte dalle associazioni femminili, prima fra
tutte l’Unione Femminile Italiana di Ersilia Bronzina Majno, non furono prese in considerazione.
A proposito delle sale di custodia previste e attuate all’interno delle fabbriche, inoltre, i
movimenti delle donne intervennero sovente con consapevolezza e con conseguente atteggiamento
critico, sottolineando come esse non avevano alcuna intenzionalità pedagogica, ma si preoccupavano
solamente di mettere le donne nella condizione di essere più produttive all’interno della fabbrica stessa. Le
donne stesse, dunque, giunsero a sottolineare che c’era una notevole differenza fra queste iniziative e quelle
proposte e messe in atto da donne e/o da gruppi femminili, che invece erano sorretti dalla consapevolezza
dei diritti all’educazione della prima infanzia e della necessità di tutelare e di supportare la maternità. In
questa direzione si mosse anche una celebre attivista quale Anna Kuliscioff, che nei suoi discorsi più volte
ribadì come la maternità non fosse percepita nel suo valore sociale, ma purtroppo solo come evento privato
della donna, e come le madri fossero abbandonate a se stesse nell’affrontare il parto e la cura dei/delle
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figli/e4. Nella direzione di una rivendicazione dei diritti dell’infanzia si mosse anche l’Unione Nazionale
Femminile, che si propose come scopi principali la creazione di circoli, ricreatori, biblioteche, e la formazione
di persone che si dedicassero alle opere di assistenza e di previdenza, la diffusione dell’istruzione femminile, il
miglioramento della condizione giuridica ed economica della donna; la difesa dell’infanzia della maternità, la
raccolta di notizie e dati statistici. Nel marzo 1905, l’associazione assunse inquadramento giuridico di
cooperativa e si diede per statuto obiettivi di assistenza e promozione umana e sociale. Il programma
dell’Associazione metteva in luce anche l’obiettivo di unificare gli sforzi di diversi movimenti per
l’emancipazione femminile, senza preclusioni legate all’appartenenza politica e/o sociale:
“All’intento di riunire le buone volontà e concentrare e coordinare le buone opere è sorta
l’idea di fondare la Casa dell’Unione Femminile. Questa dovrà diventare la sede delle
associazioni femminili, senza distinzione dei loro conformi o difformi caratteri politici o
religiosi, istituzioni che si propongono di aiutare la donna per metterla materialmente e
intellettualmente in grado di compiere la sua alta missione d’amore, di rigenerazione
sociale”.
A testimonianza dell’attenzione verso l’infanzia, occorre ricordare che nel 1908, partecipando ad
un Congresso Nazionale sui temi dei minori, Ersilia Bronzini Majno, fra le fondatrici dell’Unione, propose
una vivace e interessante relazione introduttiva sui diritti dell’infanzia, ribadendo la necessità di stabilire a
cosa avessero diritto i/le fanciulli/e per uscire da una concezione tradizionale fondata sula carità e sulla
pietà. A questo proposito, la Bronzini Majno, sia riguardo ai diritti dei bambini/e, sia riguardo ai diritti
delle donne, si batté costantemente ribadendo la necessità di una gestione razionale degli enti di assistenza
e delle iniziative, l’esigenza ineludibile di una accurata ed adeguata formazione del personale, l’urgenza di
uscire da atteggiamenti moralistici e di considerare invece il tema dei diritti sotto l’aspetto sociale.
L’associazionismo femminile e le iniziative delle donne a favore dei diritti di bambini e bambine
furono certamente influenzati dagli scritti di Ellen Key, divulgati in Italia all’inizio del Novecento da
Sibillla Aleramo: la scrittrice svedese aveva infatti proposto riflessioni molto articolate e profonde riguardo
alla condizione femminile e al “materno” e aveva saldato il tema del ruolo della donna con quello
dell’educazione infantile. Questa autrice sosteneva l’importanza della ricerca di un’autenticità e di una
reciprocità nella relazione fra uomini e donne e la necessità di una emancipazione femminile che non fosse
una semplice copiatura del ruolo maschile; attribuiva, inoltre, al materno un forte valore culturale,
intendendolo come forza presente nelle donne che può portare alla rigenerazione della società: “il materno
si qualificava perciò come quella “differenza” con cui le donne avrebbero messo il loro sigillo su tutto il
modo di pensare, di sentire, di volere e di agire” (Pironi 2010, p. 49). La Key poneva l’accento sulla
dimensione etica della riflessione sul ruolo delle donne e sulla dimensione dei diritti dei bambini e delle
bambine, ribandendo la necessità di uscire da un’ottica di carità e di assistenzialismo. Queste
argomentazioni ebbero un’eco molto consistente in Italia e trovarono le donne e le associazioni femminili
4 Anna Kuliscioff, laureatasi in Medicina dopo aver studiato nelle università svizzere e a Napoli e specializzatasi in ginecologia presso le
università di Torino e Padova, provò, grazie alle ricerche per la sua tesi, l ’origine batterica delle febbri puerperali, giungendo ad una
scoperta che salverà in seguito migliaia di donne dalla morte per parto. Istituì, quindi, a Milano, in Via San Pietro all’Orto, un
ambulatorio ginec ologico gratuito, e si dedicò alle visite a dom icilio o in loco delle pazienti più povere, nonché alla diffusione delle
più elementari norme di igiene e di profilassi, venendo presto soprannominata la “dottora dei poveri”.
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italiane molto pronte ad accoglierle. Possiamo trovare, ad esempio, alcune riflessioni molto simili in uno
scritto di Placida Stefanini del 1913:
“si sa che sulle ginocchia della madre che si formano i caratteri dei fanciulli, dalla madre
si ricevono i primi impulsi i quali hanno talvolta un’influenza preponderante su tutta la
vita. I figli diventeranno ottimisti o pessimisti a seconda dell’educazione ricevuta dalla
madre. È la donna che mette i germi dei futuri sentimenti nei cuori dei figli: se questi
germi non sono buoni, nulla di morale, di sano svilupperanno. Educhiamo la donna e
collocheremo una scuola in ogni famiglia…” (Stefanini, 1913).
Il dibattito sull’educazione per la prima infanzia conobbe poi, all’inizio del Novecento, una
formidabile e instancabile voce nell’opera di Maria Montessori. A questo proposito, vorremmo ricordare
come la biografia di questa autrice dimostra lo stretto legame fra riflessione sui diritti dell’infanzia,
attenzione ai diritti delle donne, impegno attivo per l’emancipazione femminile. La Montessori, infatti,
partecipò intensamente alle iniziative dei movimenti di donne dell’inizio del Novecento: nel 1896 prese
parte al Congresso Internazionale delle donne che si tenne a Berlino sottoponendo all’attenzione il tema
dell’analfabetismo infantile e della disparità economica delle lavoratrici; nel 1899 si recò a quello di Londra
come rappresentante delle donne italiane; al Convegno nazionale di Padova del 1899 propose una
relazione focalizzata sul concetto di “femminismo scientifico” e molto determinata nel sostenere
l’importanza che le donne fossero coinvolte nel cammino dell’istruzione e raggiungessero alti gradi di
istruzione. L’autrice ricordava, infatti, come la preparazione culturale della donna non interferisce con il
suo impegno familiare, ma anzi le permette di essere una madre più consapevole. Anche al Congresso di
Roma del 1908 la Montessori ribadì la necessità di sostenere il lavoro extradomestico femminile per
garantire alle donne l’autonomia e l’indipendenza nelle scelte di vita, in particolare per poter impegnarsi in
una relazione matrimoniale che non fosse basata sul calcolo, La celebre pedagogista, ponendosi in stretto
rapporto con altre importanti voci dei movimenti italiani (Bronzini Majno, Kuliscioff ecc.) e anche con
esponenti straniere (prima fra tutte, Elle Key, con la quale ebbe un interessante epistolario), si impegnò
con estrema dedizione per la causa del diritto delle donne al voto, partecipando alle principali iniziative del
1906. L’attenzione all’educazione dei bambini e delle bambine, infatti, correva parallela nei suoi scritti e
nelle sue iniziative, alla notevole sensibilità per il tema del ruolo delle donne nella famiglia e nella società.
Non è possibile in questa sede analizzare specificamente e in maniera esaustiva e articolata il pensiero
di Montessori, ma sottolineiamo alcuni aspetti significativi ai fini della presente trattazione: in particolare,
vorremmo ricordare come anche nel caso di questa celebre autrice, la sensibilità e l’attenzione ai diritti
dell’infanzia si saldarono al tema dell’emancipazione delle donne. La Montessori sottolineò inizialmente la
correlazione fra appartenenza sociale e risultati scolastici, rilevandola nelle sue prime ricerche e mettendo in luce
come bambini e bambine fossero quindi comunque persone inserite in un mondo sociale che forniva o meno
loro occasioni adeguate e stimolanti di crescita e come tutti/e avessero però diritto all’educazione.
L’attenzione alla situazione sociale delle famiglie e la conseguente sottolineatura del ruolo
scientifico ed etico dei servizi educativi e della scuola, restò molto presente nel pensiero montessoriano:
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non a caso, la prima casa dei bambini sorse a Roma in un quartiere disagiato nella zona periferica di San
Lorenzo, ove le famiglie vivevano sovente in condizioni di miseria e di degrado.
La Casa di Bambini propose in maniera rivoluzionaria e radicale l’idea che i bambini e le
bambine hanno diritto ad un ambiente educativo, salubre, non di mera custodia: la concezione sottesa è
quella di bambino/a come piccolo/a scienziato/a, che esplora l’ambiente circostante, formula ipotesi e ha
diritto a uno spazio a sua misura. Non meno importante è l’accento posto sulla bellezza e sull’estetica:
bambini e bambine hanno diritto a uno spazio bello, curato armonioso; infine, la Montessori ribadiva
come bambini e bambine fossero i/le futuri/e cittadini/e e quindi avessero diritto a sviluppare la loro
autonomia e il loro senso critico fin da subito.
Il tema della emancipazione femminile era giocato in maniera molto significativa nelle opere
montessoriane:
“alla “donna nuova” – scrive a questo proposito Manuela Gallerani - spetta la duplice
missione di socializzare su di un versante le virtù domestiche e diffonderle nella società,
insieme ai valori di amore e pace che tradizionalmente sono costruiti in famiglia;
sull’altro ha l’onere di concretarli e reintepretarli attraverso lo specifico contributo
femminile” (Gallerani, 2010 p. 101).
Queste riflessioni ponevano la Montessori in profonda sintonia con altre esponenti della cultura
femminile del tempo e con altre associazioni femminili: “l’esperimento montessoriano, con la
socializzazione della funzione materna, realizzava di fatto quel concetto di maternità sociale avanzato dal
femminismo del tempo, fornendo una risposta concreta alle perplessità sul lavoro extradomestico delle
madri avanzate da Ellen Key” (Pironi, 2010, 69-70).
La considerazione dell’importanza cruciale del ruolo materno di esplicitava, nella realizzazione
montessoriana, anche nell’attribuzione di un ruolo notevole all’interno della Casa dei Bambini: “la
socializzazione della funzione materna puntava al diretto coinvolgimento delle madri, non solo con
colloqui ed incontri settimanali, ma invitandole a visitare la Casa dei bambini in qualsiasi momento della
giornata (Pironi, 2010, p. 68).
Le richieste relative alla preparazione delle maestre/educatrici
Le iniziative dei movimenti delle donne dell’inizio del Novecento, oltre che rivolte ad offrire
istituzioni educative per la prima infanzia, si concentrarono sul problema della preparazione professionale del
personale che prestava servizio nei nidi e nelle scuole dell’infanzia: molto spesso, infatti, si trattava di
personale volontario, oppure assunto da coloro che avevano dato vita all’istituzione, ma senza alcuna
regolamentazione chiara a livello nazionale, in alcuni casi, la preparazione era per lo più sanitaria, in altri si
trattava di una preparazione fondata essenzialmente sulla buona volontà e sul desiderio di prestare assistenza.
Le richieste avanzate dai movimenti delle donne erano sovente molto attuali: la riqualificazione
dei percorsi formativi per le educatrici, la possibilità di aggiornamento, l’innalzamento degli stipendi; per
quanto concerne le istituzioni educative. Per quanto concerne invece gli asili, le donne sottolineavano che
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avrebbero dovuto essere resi laici e gratuiti, a carico dei Comuni, dotati di materiali didattici, locali igienici,
spazi verdi, gestiti da personale qualificato. In particolare, alcune associazioni o alcune esponenti di
movimenti femministi chiedevano che fosse riconosciuta la valenza educativa dell’asilo anche ai fini di
definire la preparazione del personale e che tali istituzioni fossero sottratte ad un’ottica assistenzialistica,
precorrendo rivendicazioni degli anni Sessanta e Settanta: l’asilo avrebbe dovuto essere riconosciuto non
come luogo di ricovero per bambini/e abbandonati da madri povere e lavoratrici, ma come vero e proprio
segmento del sistema scolastico e le educatrici come vere e proprie professioniste con competenze
educative e non meramente sanitarie. Ricordiamo, a questo proposito, l’opera significativa di Linda
Malnati, insegnante e direttrice, scrittrice, sindacalista, consigliera di amministrazione in istituti ed Opere
Pie, che denunciava con vigore la scarsità degli stipendi delle educatrici di asilo, l’arretratezza delle
strutture, l’ottica assistenzialistica con cui queste istituzioni venivano gestite:
“Quale rimedio? – si chiedeva in un articolo del 1912 la Malnati a proposito dei nidi
milanesi – ecco il problema da porre allo studio e da risolvere presto: la
municipalizzazione degli asili infantili. È questa l’invocata riforma già in uso in alcune
città e in alcuni borghi d’Italia. Solo con questa soluzione sarà garantita ai bimbi del
lavoratore la prima educazione, data come diritto, non concessa come un’elemosina. E
le donne del popolo, chiedono, per mezzo nostro, la difesa delle proprie creature,
affidate ora ad Asili che trascinano una vita stentata, con personale mal retribuito, in
locali inadatti nei quali è pressoché impossibile una educazione razionale, e
igienicamente sana” (Malnati, 1912, p. 2).
Come è evidente in queste righe, la Malnati sottolineava l’esigenza di vedere l’educazione della prima
infanzia come un diritto dei bambini e delle bambine e non come una concessione pietosa o come un atto di
generosità: per questo motivo, si rivelava necessario rendere gli asili ambienti salubri, curati, ordinati, sereni, in
cui operassero educatrici preparate, dotate di competenze pedagogiche, costantemente aggiornate.
Il tema della preparazione delle maestre fu affrontato più volte e con vigore anche da Maria
Montessori, sia nei sui scritti, sia nei suoi interventi. Ai Congressi di Londra e di Berlino, questa autrice
denunciò con determinazione la situazione di sfruttamento e di disagio nella quale si trovavano molte
maestre in Italia: esse infatti si trovavano ad esercitare la professione in paesi sperduti, abbandonati, con
un magro stipendio, spesso nell’isolamento sociale e senza possibilità di formazione (Seveso, 2001). La
Montessori ribadì la necessità di formare educatrici che coniugassero rigore scientifico, consapevolezza,
attenzione alla relazione e che avessero diritto ad una costante possibilità di aggiornamento. Le sue opere
mostrano costantemente l’importanza di questa dimensione:
“la maestra - scrive l’Autrice - tuttavia ha molte e non facili mansioni: la sua cooperazione
è tutt’altro che esclusa: ma diventa prudente, delicata e multiforme. Non abbisognano le
sue parole, la sua energia, la sua severità, ma quel che occorre è la sapienza occulta
nell’osservare, nel servire, nell’accorrere o nel ritirarsi, nel parlare o nel tacere, secondo i
casi e i bisogni. Essa deve acquistare una agilità morale, che finora non le fu chiesta da
nessun altro metodo, fatta di calma, di pazienza, di carità e di umiltà” (Montessori, 1980,
p. 165)
In questo ritratto, possiamo osservare come la Montessori sottolinei la necessità di un
cambiamento radicale nella preparazione professionale delle educatrici e delle maestre, preparazione che fino
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a quel momento era o sbilanciata sul versante igienico (per le scuole dell’infanzia) o molto connessa con i
principali rudimenti delle discipline (per le scuole elementari). La maestra ed educatrice montessoriana è
invece formata all’osservazione, alla riflessione sul proprio ruolo, alla capacità di entrare in relazione e porsi
in ascolto. É da sottolineare come nelle opere montessoriane emerga però con chiarezza che le doti e le
competenze delle educatrici non devono essere appiattite solo su una vaga capacità di relazione, ma devono
essere affinate e sviluppate come continua autoriflessione sulle proprie azioni, a tal punto che l’autrice giunge
a scrivere che ogni scuola si trasforma in un “gabinetto scientifico” (Montessori, 1986, p. 111) e ricorda
come la maestra si possa definire una sorta di fusione fra il santo e lo scienziato:
“la veggenza della maestra dovrebbe essere insieme esatta come quella dello scienziato e
spirituale come quella del santo. La preparazione alla scienza e la preparazione alla
santità, dovrebbero insieme plasmare un’anima nuova, perché l’attitudine della maestra
deve essere insieme positiva, scientifica e spirituale” (Ead. Ibidem, 121)
Non rientra fra gli scopi di questo contributi un’analisi approfondita di questi temi nell’opera
montessoriana, ma vorremmo sottolineare come queste istanze presenti nella Montessori fanno eco e si
collocano sula scia delle rivendicazioni interessanti e molteplici che le donne e le associazioni femminili
portarono avanti nei primi due decenni del Novecento.
La fondazione dell’ O.N.M.I.
A fronte di queste iniziative che si diffusero soprattutto alla fine dell’Ottocento e all’inizio del
Novecento, l’avvento del Fascismo in Italia comportò una apparente attenzione alle rivendicazioni
proposte dai movimenti delle donne e una politica che invece vanificò le conquiste che erano state
raggiunte. Nel 1925, il regime affrontò il problema dei diritti dell’infanzia e della tutela della maternità
fondando l’Opera Nazionale Maternità Infanzia (O.N.M..I.), un Ente parastatale che inizialmente era di
beneficenza e di assistenza nei confronti dell’infanzia abbandonata e in seguito perse questa coloritura per
assumere come obiettivi il controllo della salute e la tutela della razza. Questa istituzione nei confronti
delle madri si poneva con intento di moralizzazione e di assistenza, senza prevedere finalità di
emancipazione e di formazione; nei confronti dei/delle bambini/e era caratterizzata da finalità di igiene, di
custodia, di assistenza senza alcuna finalità educativa. Una caratterizzazione purtroppo, che influì non
poco sulla successiva storia delle istituzioni per la prima e la primissima infanzia in Italia.
L’O.N.M.I. venne fondata all’inizio per sostenere le famiglie bisognose che a causa delle
condizioni di miseria materiale e sociale non erano in grado di accudire i propri figli, e quelli che in seguito
sarebbero stati chiamati “casi sociali”: in particolare si rivolgeva alle madri nubili, vedove, o con mariti che
non provvedevano al mantenimento della famiglia (perché carcerati o invalidi…). In realtà, la sua
diffusione fu capillare e Victoria De Grazia (1993) sottolinea come a causa di tale diffusione l’Opera ebbe
un influsso consistente sui comportamenti e sulle convinzioni delle donne, anche perché intratteneva
relazioni molto strette con medici, ostetriche, farmacisti e così via: diffondeva quindi nozioni di igiene, di
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puericultura, pratiche di cura prenatale, e post partum, in alcuni casi non prive di contraddizioni: si ricordi,
ad esempio, il fatto che l’Opera promuoveva l’allattamento al seno ma in realtà distribuiva campioni
gratuiti di latte in polvere Nestogen (Nestlé) incentivando l’utilizzo di questo prodotto.
Per quanto riguarda l’organizzazione e la gestione degli sili nido, l’O.N.M.I. nono operava
nell’ottica del riconoscimento, del sostegno e della promozione dei diritti di bambine e bambine, di fatto
vanificando e contraddicendo tutte le iniziative e i dibattiti fino a quel momento promossi dalle donne e dalle
associazioni femminili: infatti non era rivolta a tutti/e ma soltanto a famiglie bisognose: l’offerta dunque era
di un servizio di assistenza e privo di caratteri educativi. La dimensione pedagogica era del tutto oscurata da
quella igienica, sanitaria e soprattutto di custodia: questo dato risulta evidente anche dall’organizzazione degli
spazi e delle routines, molto centrati sui compiti del medico pediatra e non sui bisogni, interessi, desideri di
bambini e bambine. Non erano previsti spazi per l’esplorazione autonoma da parte dei/delle piccoli/e, ma
una struttura molto rigida a asettica, pensata per evitare contagi o incidenti e per controllare rigorosamente le
azioni dei/delle piccoli/e ospiti. Susanna Mantovani (2006) sottolinea come questo fosse anche connesso alla
preparazione del personale, che era molto sbilanciata sulle esigenze di sorveglianza e di igiene e che era
prevalentemente infermieristica. Infine, è da rilevare la rigida separazione fra interno ed esterno: il nido era
isolato dal resto del territorio e solo il personale aveva accesso.
Per tutti gli aspetti sopra elencati, l’O.N.M.I. costituiva un’istituzione del tutto differente dalle
realizzazioni delle associazioni femminili e delle donne, e rappresentava un vistoso passo indietro riguardo
al tema importantissimo del diritto all’educazione di bambini e bambine.
Curiosamente, l’O.N.M.I. che era nata con evidenti scopi stabiliti dal regime fascista, sopravvisse
alla caduta del fascismo per molto tempo, fino al 1975, per complesse e molteplici ragioni e purtroppo per
molti aspetti ebbe un’influenza molto pesante in Italia sul destino delle istituzioni per la prima infanzia.
I nuovi servizi, gli asili nido di tipo nuovo sorgeranno proprio cercando di differenziarsi da
questa istituzione, ritenuta del tutto inadeguata per i bisogni e gli interessi di bambini e bambine: è
interessante notare come anche la fondazione e la diffusione di questi ultimi sarà strettamente connessa, in
Italia, con le iniziative, i dibattiti, le realizzazioni avanzate dalle donne e dalle loro associazioni.
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