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Abstract and Figures

The paper, which is related to two previous works, has two objectives. The first objective is the identification of Italian startup companies that are actually financed by external investors (such as venture capital funds, business angel networks or individual business angels, industrial firms operating as financiers of innovative firms). This identification is carried out through the empirical examination of a large sample of articles of association of s.r.l. and S.p.A. registered in the special section of the italian company register in the years 2019-2020. The second objective is to verify how the by-laws of Italian VC-financed start-ups concretely address some specific problems posed by Italian company law, with particular regard to the reformed s.r.l. regulations. In this perspective, the study is, to the best of our knowledge, the first empirical contribution to investigate the contractual architecture of the Italian innovative start-up world.
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Il Mulino - Rivisteweb
Antonio Capizzi, Peter Agstner, Paolo Giudici
Il design contrattuale delle startup VC-financed in
Italia
(doi: 10.1433/102781)
Analisi Giuridica dell’Economia (ISSN 1720-951X)
Fascicolo 1-2, giugno-dicembre 2021
Ente di afferenza:
Freie Universitat - Bolzano (unibz)
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Analisi Giuridica dell’Economia - 1-2/2021
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
Il design contrattuale delle startup
VC-financed in Italia
1. INTRODUZIONE
Il presente studio ha due obiettivi. Il primo, di carattere preliminare,
consiste nell’individuazione delle società startup realmente finanziate da
investitori esterni (quali fondi di venture capital, network di business angels
o singoli business angels, imprese industriali che operano quali finanziatori
di imprese innovative). Tale identificazione è effettuata attraverso l’esame
empirico di un vasto campione di statuti di s.r.l. e S.p.A. iscritte nella se-
zione speciale del registro delle imprese negli anni 2019-2020. Definiremo
per semplicità nell’ambito del presente articolo le società così individuate
come startup VC-financed.
Il secondo obiettivo è quello di verificare come gli statuti delle startup
italiane VC-financed affrontino in concreto alcuni specifici problemi po-
sti dal diritto societario italiano, con particolare riguardo alla disciplina
riformata della s.r.l. Da questa prospettiva lo studio costituisce, a quanto
consta, il primo contributo di carattere empirico ad indagare l’architettura
contrattuale del mondo delle startup innovative italiane.
La nostra indagine si ricollega a due precedenti lavori. In un primo studio
abbiamo verificato come il fenomeno statunitense delle startup innovative
abbia influenzato la politica legislativa europea, producendo un impatto
profondissimo sul diritto societario italiano, la cui disciplina della s.r.l. è
stata radicalmente riformata per facilitare la creazione di nuove imprese
innovative da parte di giovani startuppers. Abbiamo illustrato le ragioni
per cui l’intervento riformatore si è focalizzato sulla s.r.l. e con quanta forza
Il presente lavoro è il contributo di una ricerca congiunta svolta dagli autori nell’ambito
di un progetto finanziato dalla Libera Università di Bolzano-Bozen; al solo scopo di faci-
litare l’individuazione dell’apporto di ciascuno degli autori, si precisa che i §§ 4, 5, 6, 7 e
8 sono attribuibili ad Antonio Capizzi, i §§ 2, 3, 9 e 11 sono attribuibili a Peter Agstner
ed i §§ 1, 10 e 12 sono attribuibili a Paolo Giudici.
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
228
abbia subito l’influenza del diritto societario statunitense (in particolare
del Delaware). In un primo accenno di analisi empirica, abbiamo anche
mostrato l’esistenza del fenomeno delle c.d. dual companies, ossia s.r.l.
startup innovative costituite in Italia per lo svolgimento della sola attività
operativa, controllate da società costituite dallo stesso team italiano nel
Delaware per raccogliere finanziamenti nel mondo del venture capital
americano (Giudici-Agstner, 2019).
In un successivo studio ci siamo dedicati all’analisi della nuova disciplina
italiana della s.r.l. al fine di indagare i limiti che essa ancora pone ad un
pieno recepimento dell’architettura contrattuale tipicamente impiegata
nel modello statunitense di finanziamento delle startup e per formulare
alcune proposte di interpretazione adeguatrice alla luce delle linee di po-
litica legislativa qualificanti le riforme del 2012-2017 (Agstner, Capizzi
e Giudici, 2020).
Il presente contributo si inserisce in questo filone di ricerca, in primo luogo,
attraverso una verifica empirica della diffusione delle società italiane che
effettivamente utilizzano gli schemi del VC-financing e che, quindi, possono
considerarsi, al di là dell’etichetta normativa di startup innovativa, come
realtà che attuano gli scopi di policy dichiarati dal legislatore; in secondo
luogo, analizzando come gli statuti delle startup così individuate abbiano
concretamente affrontato le questioni poste dal recepimento in Italia di
alcune delle clausole caratterizzanti il VC-financing.
L’indagine empirica conferma che il fenomeno delle startup VC-financed
è ancora piuttosto marginale in Italia e, soprattutto, che le poche startup
VC-financed non riescono a replicare appieno il design contrattuale in uso
nella prassi internazionale, che governa in termini ormai molto ben studiati
i diversi incentivi cui rispondono i partecipanti all’operazione. I problemi
derivano sia da norme espresse che nei fatti impediscono alcune soluzioni
contrattuali, sia dal consolidamento di indirizzi interpretativi dettati da
considerazioni estranee alle opzioni di politica legislativa alla base delle
riforme del 2012-2017 e che andrebbero, per questo, riconsiderati.
2. IL DESIGN CONTRATTUALE DELLE OPERAZIONI
DI VC-FINANCING
Il finanziamento di una startup è un processo complesso. Il finanziatore deve
decidere se investire o meno in un’impresa che il più delle volte consiste
in una semplice idea di business proposta da un soggetto o da un team di
giovani startuppers (Gompers e Lerner, 1999). Si pongono di conseguenza
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
229
significativi agency problems, tutti riconducibili ad asimmetrie informative,
incertezza contrattuale e fenomeni di opportunismo vario (Nigro e Stahl,
2021; Giudici e Agstner, 2019; Kuntz, 2016; Bartlett III, 2006; Gilson,
2003). La soluzione di tali problemi è affidata, nella prassi contrattuale
internazionale, all’impiego coordinato di svariati strumenti di governo della
relazione, quali: obbligazioni convertibili, azioni privilegiate convertibili,
schemi di incentivazione dell’azionariato dei collaboratori (c.d. work for
equity), clausole anti-diluizione, diritti di covendita, contingency rights
(cioè poteri condizionati), preferenze liquidatorie e ulteriori prerogative di
exit (Agstner, Capizzi e Giudici, 2020; Klausner e Venuto, 2013; Cumming
e Johan, 2009).
La logica ultima che presiede al complesso design contrattuale delle ope-
razioni di finanziamento delle startup innovative è duplice: per un verso,
si tratta di congegni funzionali ad assicurare che il finanziatore fornisca al
founder «onesto e lavoratore», tipicamente in modo scaglionato al raggiun-
gimento di determinati traguardi, la liquidità occorrente per sviluppare al
meglio la propria idea imprenditoriale; per l’altro verso, tali meccanismi
risultano strumentali ad evitare che il finanziatore rimanga intrappolato
in una società per nulla o anche solo scarsamente profittevole (c.d. living
dead), consentendogli una rapida smobilizzazione dell’investimento.
3. LA RICERCA EMPIRICA SULLA STRUTTURA CON-
TRATTUALE DELLE OPERAZIONI DI VC-FINAN-
CING: LO STATO DELL’ARTE
La dottrina economica riserva ampia attenzione al design contrattuale
concretamente adottato nelle operazioni di finanziamento delle imprese
innovative (per generali ragguagli sullo stato della letteratura, Burchardt
et al., 2016). I primi contributi empirici risalgono agli anni ’90 del secolo
scorso, ponendosi come obiettivo quello di dare conto del fenomeno dell’in-
dustria del venture capital, per esaminare principalmente la struttura dei
fondi di VC ed il rapporto di agency corrente tra quest’ultimi e le società
portafoglio oggetto di finanziamento (Sahlman, 1990; Gorman e Sahlman,
1989). Nei lavori successivi, maggiormente dedicati al design contrattuale
dei rapporti tra founders e VC, spiccano i contributi di Kaplan e Strömberg.
In particolare, in un’indagine basata su di un campione di 213 finanziamen-
ti effettuati da 14 fondi VC in 119 società portafoglio, con ampio accesso
alla rilevante documentazione societaria, finanziaria e contrattuale, questi
studiosi descrivono e misurano l’allocazione differenziata tra imprendi-
tore e VC dei più significativi diritti sociali (Kaplan e Strömberg, 2003;
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
230
e similmente già Aghion e Bolton, 1992). Viene, anzitutto, rilevato che i
contratti di finanziamento prevedono l’assegnazione non proporzionale
rispetto al capitale investito delle prerogative patrimoniali (diritti sui flussi
di cassa e/o sul residuo netto di liquidazione) ed amministrative (diritti di
voto e/o di nomina dei componenti del board), nonché di ulteriori poteri
di controllo. Frequentemente l’esercizio di tali diritti, in particolare nella
fase c.d. early stage del finanziamento, risulta condizionato al verificarsi
di determinati parametri oggettivi di natura finanziaria o non finanziaria
(contingency rights). In generale, viene evidenziato che i diritti di nomina
degli amministratori, i diritti di voto e le preferenze liquidatorie vengono
allocati in modo che il VC ottenga il pieno controllo quando il rendimento
dell’impresa è insoddisfacente, con riappropriazione progressiva di tali
diritti da parte del fondatore al miglioramento della performance. Se, in-
vece, l’impresa realizza risultati pienamente soddisfacenti, il VC conserva
i suoi diritti sui flussi di cassa, ma rinuncia alla maggiore parte dei diritti
di controllo e alle preferenze liquidatorie. Inoltre, risulta comune l’impiego
di clausole di non concorrenza e di schemi di vesting per rendere l’uscita
dell’imprenditore dalla società più costosa, così mitigando eventuali pro-
blemi di hold-up. Infine, gli incentivi sui flussi di cassa, i diritti di controllo
e i contingency rights vengono utilizzati nei contratti di finanziamento
più in funzione complementare che sostitutiva. Il contributo di Kaplan e
Strömberg conclude rilevando una maggiore complessità dei real-world
contracts rispetto a quanto prospettato in teoria, ad esempio per via della
sistematica correlazione tra l’allocazione dei diritti di controllo e dei cash
flow rights e l’utilizzo dei contingency rights.
Altri studi si soffermano su specifici aspetti del rapporto di agenzia tra
l’agente-imprenditore e il principale-investitore. In particolare, viene inda-
gato empiricamente il processo di selezione delle società portafoglio oggetto
di successivo investimento da parte del VC (Kaplan e Strömberg, 2001).
Esaminando il memorandum d’investimento sotteso a 58 finanziamenti in
42 società portafoglio da parte di 10 fondi VC, questi autori concludono
che la spinta alla scelta d’investimento è data dall’attrattività della rela-
tiva opportunità (grandezza del mercato, strategia, tecnologia, capacità
di penetrazione e competitività del prodotto), dall’assetto contrattuale,
nonché – in modo assolutamente decisivo – dalle capacità professionali e
dall’impegno del team di startuppers a realizzare l’idea imprenditoriale.
Inoltre, lo studio si concentra sul ruolo del processo di valutazione nella
configurazione delle clausole contrattuali e, precisamente, se il VC modifichi
l’allocazione delle prerogative contrattuali e lo scaglionamento dei round di
finanziamento al fine di tenere conto di variazioni intervenute nella qualità
e nel rischio dell’investimento. Soprattutto in presenza di un rischio di
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
231
inefficiente gestione imprenditoriale è stato osservato un corrispondente
incremento dei diritti di controllo in capo al VC, in termini sia di maggiore
potere di voto e di rappresentanza nel board, sia di ridotta disponibilità
ad erogare le ulteriori tranches di finanziamento promesse sino a quando
gli obiettivi prefissati non vengano raggiunti. Infine, viene analizzata la
relazione corrente tra il rendimento finale dell’investimento e la valutazione
iniziale condotta dal VC. Le evidenze empiriche così raccolte confermano
l’impressione generalizzata secondo cui la risorsa più scarsa di cui dispone
il VC non è il capitale, ma il fattore tempo (Gladstone, 1988; per conferme
empiriche in tal senso già Gorman e Sahlman, 1989).
In Europa l’attenzione si rivolge perlopiù al raffronto tra le industrie del
venture capital attive nel vecchio continente e negli USA. Gran parte
della letteratura europea è quindi volta a verificare l’attendibilità o meno
dell’assunto secondo cui il modello VC diffuso in Europa soffrirebbe di uno
svantaggio competitivo rispetto alla sua controparte statunitense (Kräussl,
Krause e Manigart, 2012; Hege, Palomino e Schwienbacher, 2009;
Schwienbacher, 2005). È, però, assente un’analisi empirica di dettaglio
del design contrattuale utilizzato nel contesto europeo del VC-financing e
degli eventuali limiti posti dagli ordinamenti europei rispetto alla ricezione
delle clausole sviluppatesi nell’archetipico modello statunitense. In Italia e
in Europa, infatti, l’approfondimento dei giuristi ha investito quasi esclusi-
vamente aspetti prettamente teorici dei diversi istituti coinvolti (ex multis,
in Italia, Cian, 2018; Benazzo, 2017; Cagnasso, 2016; prime eccezioni in
Europa Kuntz, 2016; Giudici e Agstner, 2020, con preliminare esame del
predetto fenomeno delle c.d. dual companies). Il presente lavoro è quindi,
a quanto ci risulta, il primo in Europa ad affrontare queste tematiche sul
piano dell’analisi empirica.
4. METODO E CAMPIONE D’INDAGINE
Nei modelli del VC-financing statunitense la struttura contrattuale delle
operazioni è articolata in un’ampia serie di contratti tra loro collegati
(Voting Agreement, Term Sheet, Stock Purchase Agreement, Right of First
Refusal and Co-Sale Agreement, Model Legal Opinion, Management Rights
Letter, Investors’ Rights Agreement, Indemnification Agreement, Certificate
of Incorporation: per questo set contrattuale, v. National Venture Capital
Association-NVCA, 2020). Un’analisi completa tesa ad indagare il recepi-
mento di queste pattuizioni da parte delle startup italiane richiederebbe
idealmente l’esame di tutti i documenti che compongono l’operazione di
costituzione e finanziamento (sulla scia del lavoro di Kaplan e Strömberg,
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
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2003). Ciò presupporrebbe di condurre la ricerca attraverso un approccio
top-down, acquisendo direttamente dagli operatori di VC la documenta-
zione di ciascuna operazione, con tutti i problemi che questo comporta in
termini di identificazione dei VCs attivi in Italia e di loro disponibilità a
condividere documenti riservati. Un approccio di questo tipo, basato sulle
qualità soggettive del finanziatore esterno, impedirebbe comunque di co-
gliere tutte quelle operazioni che vedono coinvolto un partner industriale
in veste di finanziatore, come tale non facilmente identificabile a priori.
Abbiamo, pertanto, deciso di non seguire questo percorso.
Il criterio d’indagine qui adottato è, invece, del tipo bottom-up. Siamo
quindi partiti dagli statuti, pubblicamente accessibili presso il registro delle
imprese, per individuare le startup realmente VC-financed e per verificare
come le clausole di interesse siano concretamente recepite nell’ambiente
giuridico italiano. Infatti, è ragionevole presumere che le startup italiane
VC-financed optino per l’inserimento direttamente in statuto delle clausole
fondamentali per l’operazione, senza quindi confinarle ai patti parasociali.
Il maggiore vantaggio, come noto, di tale opzione è rappresentato dall’ef-
ficacia erga omnes delle previsioni statutarie, tanto più importante alla
luce dell’esigenza di assicurare la piena effettività ed opponibilità delle
pattuizioni, ad esempio al momento dell’exit o in occasione di successivi
round di finanziamento. Peraltro, anche nell’esperienza statunitense la
maggior parte delle clausole di nostro interesse sono inserite in statuto
(Certificate of Incorporation), come dimostra chiaramente il modello
fornito dalla NVCA.
Il campione esaminato è costituito dagli statuti, estratti in formato pdf
su nostra apposita richiesta da Infocamere S.p.A., gestore per conto delle
Camere di Commercio del registro delle imprese, di 2115 società startup,
costituite nella forma di s.r.l. (2100) e di S.p.A. (15) nel periodo dal 1°
gennaio 2019 al 31 dicembre 2020 nelle province di Bolzano (40), Firenze
(73), Genova (63), Milano (1042), Napoli (211), Roma (495) e Torino
(191). I vincoli di bilancio hanno impedito di estendere la ricerca a tutte le
province italiane. È stato necessario, quindi, fare una selezione. Le province
di Milano, Roma e Napoli sono state scelte in quanto dai dati nazionali
risultano quelle con il maggior numero di imprese startup costituite nel
periodo di riferimento (82% del campione). La provincia di Bolzano è stata
scelta in quanto il progetto è finanziato dalla locale Università. Genova è
stata scelta per la presenza dell’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia). Torino
e Firenze sono state scelte casualmente.
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
233
Fig. 1. Province di costituzione.
I dati mostrano l’assoluta prevalenza del tipo s.r.l. su quello della s.p.a.
(quest’ultime costituiscono solo lo 0,7% del campione). Si conferma così
l’ipotesi della scarsa appetibilità della s.p.a. a causa degli eccessivi costi
di costituzione e gestione (Agstner, Capizzi e Giudici, 2020).
Fig. 2. Distribuzione del campione tra s.r.l. e S.p.A.
I pdf degli statuti frutto di scansione ottica sono stati preliminarmente resi
ricercabili grazie ad un software OCR (Optical Character Recognition).
Successivamente, con ricorso ad un apposito software di indicizzazione,
sono stati individuati 568 statuti di società costituite con la modalità online
secondo il modello uniforme ministeriale relativo alla s.r.l. di cui all’art.
4, co. 10-bis, d.l. 3/2015 e ai decreti ministeriali di attuazione del 17
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
234
febbraio 2016 e del 28 ottobre 20161 che, a differenza di quella tramite
atto notarile, consente unicamente di scegliere tra le opzioni prestabilite
dal modello. Per la relativa individuazione abbiamo ricercato nel campione
gli statuti contenenti alcune espressioni usate esclusivamente dal modello
ministeriale (quali «selezionare una delle seguenti opzioni», «prima op-
zione» e «seconda opzione», ecc.). I risultati dell’analisi hanno mostrato
che la costituzione telematica tramite modello standard è stata utilizzata
da poco più di un quarto degli statuti ricompresi nel campione2.
Fig. 3. S.r.l. statuti standard/non standard.
Giunti a questo punto, la nostra ipotesi di ricerca era che le startup VC-
financed non avrebbero fatto ricorso alla modalità di costituzione online
secondo lo statuto standard ministeriale, preferendo fare riferimento ai più
sofisticati modelli in uso nella prassi internazionale del VC. Questa ipotesi è
stata confermata dalla successiva analisi testuale, all’esito della quale è emerso
che, ad eccezione dei patti di drag-along e tag-along, le clausole che a nostro
giudizio caratterizzano maggiormente il VC-financing (convertibilità, clausole
antidiluitive e preferenze liquidatorie), e che tratteremo più estesamente in
seguito, non sono contenute in nessuno degli statuti standard del campione3.
1 A seguito della recente decisione del Cons. Stato, 29 marzo 2021, n. 2643, che ha annul-
lato il D.M. 17 febbraio 2016 e il Decreto Direttoriale 1o luglio 2016, non è più possibile
adottare la modalità di costituzione esclusivamente digitale.
2 Dato percentuale che è confermato anche rispetto al totale delle startup, visto che secondo
il 18o rapporto trimestrale del MISE al 31 dicembre 2020 erano in tutto 3.579 (su circa
12.000 complessive) le startup innovative avviate con la modalità di costituzione digitale
(reperibile su: www.mise.gov.it/images/stories/documenti/18_rapporto_nuova_modali-
ta_costituzione_startup_Q4_2020_29_01_2021.pdf).
3 Si potrebbe discutere se e come tali clausole possano essere inserite nel modello standard,
ma è tema che non rientra negli scopi del presente lavoro.
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
235
5. I CRITERI DI RICERCA DEL CAMPIONE: IL SET DI
CLAUSOLE CARATTERIZZANTI
Il campione di 1532 statuti non standard, oggetto ultimo della nostra
ricerca, è stato così sottoposto ad un’ulteriore indicizzazione sulla base di
una lista di 76 parole chiave (v. tabella allegata), volta ad individuare le
startup VC-financed, cioè contenenti tutti gli elementi del design contrat-
tuale tipico del VC-financing. L’ipotesi di partenza è che, prescindendo
per un momento da eventuali vincoli posti dall’ordinamento italiano, lo
statuto di una startup idealmente VC-financed dovrebbe contenere il se-
guente set di clausole caratterizzanti: clausole di covendita (in particolare,
drag-along e tag-along) ed eventuali clausole di lock-up; convertible notes;
categorie di quote o diritti particolari dei soci, ovvero strumenti finanziari
partecipativi, con meccanismi di conversione legati alla struttura a fasi del
finanziamento (stage financing) della startup o alla necessità di exit dei
finanziatori; clausole di antidiluizione, sempre legate allo stage financing;
clausole sulla nomina degli amministratori e su materie riservate, con quo-
rum rafforzati o diritti di veto del finanziatore o dei suoi amministratori;
preferenze liquidatorie; altre clausole disciplinanti l’exit del finanziatore,
quali per esempio quelle relative alla quotazione della società.
Alcune di queste categorie di clausole, prese singolarmente, non denota-
no con sicurezza la presenza di una startup realmente VC-financed. Per
esempio, le clausole di nomina degli amministratori e quelle sulle materie
riservate sono comuni nella prassi statutaria delle società di capitali chiu-
se (Agstner, 2020). Più complesso è il discorso relativo alle clausole di
covendita, che sono oramai molto diffuse probabilmente grazie alla loro
inclusione nel modello standard ministeriale e, ancor prima, al dibattito
dottrinale e giurisprudenziale sulla loro validità e sul loro funzionamento.
Nel nostro campione di statuti non standard, infatti, esse sono enormemente
sovrarappresentate rispetto a tutte le altre clausole del VC-financing (215
statuti prevedono il drag-along, 347 il tag-along).
Per procedere ad un’identificazione più precisa è, quindi, necessario ricer-
care la presenza di altre clausole caratterizzanti. Tra queste ne abbiamo
selezionate in particolare tre, ovvero quelle di convertibilità, di antidi-
luizione e di preferenza liquidatoria. Dall’indicizzazione del campione è
emerso che solo 57 statuti, pari al 2,6% del totale, contengono almeno
una di queste tre altre clausole caratterizzanti.
Di questi 57 statuti, 47, pari all’82%, contengono una clausola di covendita.
I restanti 10 statuti non la contengono vuoi perché il finanziatore dispo-
ne di altri diritti che gli garantiscono l’exit vuoi, in soli tre casi, a causa
dell’estrema semplicità dello statuto che si limita a regolare un aspetto
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
236
(in particolare quello della diluizione) in modo piuttosto rudimentale4.
La nostra attenzione si è quindi in ultima istanza focalizzata proprio su
questo campione di 57 statuti, che consideriamo in qualche misura rap-
presentativi – con diversa intensità – di startup VC-financed.
Un discorso a parte merita il work for equity. Anch’esso caratterizza il
mondo delle startup VC-financed, ma nel campione esaminato abbiamo
riscontrato un numero esiguo di clausole, molto generiche, concernenti
questo fenomeno, lontane dalla prassi statunitense e meramente ripro-
duttive della possibilità concessa alle startup di assegnare quote proprie
ai collaboratori e dipendenti. Abbiamo in ogni caso esaminato i 21 statuti
che regolano il work for equity e ne tratteremo in modo sintetico nella
parte finale del lavoro.
6. L’ESIGUO NUMERO DI STARTUP REALMENTE VC-
FINANCED EMERGENTE DAL CAMPIONE
Nell’ambito del ristretto campione di 57 statuti ve ne sono 26 disciplinan-
ti, nelle più varie forme, il fenomeno della convertibilità; 22 contenenti
clausole antidiluitive; 33 contenenti una liquidation preference.
Fi g . 4. Statuti non standard con clausole caratterizzanti.
4 Per ulteriore controllo abbiamo verificato in questa selezione di 57 statuti quelle conte-
nenti altre clausole che possono denotare la presenza di un investitore esterno quali quelle
di lock-up (cioè quelle che impediscono la circolazione delle quote per un certo periodo di
tempo) e quelle c.d. «di quotazione» (che considerano la quotazione come presupposto per
il sorgere di determinati diritti). Le clausole di lock-up sono presenti in 20 dei 57 statuti
anzidetti, a loro volta pari al 42% dei 47 statuti del campione complessivo contenenti tali
clausole. Le clausole disciplinanti la successiva quotazione sono presenti in 9 dei 57 statuti,
a loro volta pari al 75% dei 12 statuti del campione contenenti tali clausole.
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
237
L’individuazione di questi 57 statuti costituisce il primo risultato della
ricerca. Essi rappresentano il 2,6% del campione (e meno del 3,7% degli
statuti non standard). Questo numero si riduce a 30 se si considerano gli
statuti che disciplinano almeno due profili e a 6 per quelli che disciplinano
tutti e tre.
Il secondo risultato è che, tra i 57 statuti individuati, un numero percentual-
mente rilevante (superiore al 50%) contiene almeno due, se non addirittura
tutte e tre le clausole di interesse, da ciò risultando che i redattori hanno
probabilmente una discreta familiarità con la prassi del VC-financing.
Il terzo risultato della nostra ricerca è, invece, che nessuno degli statuti
contenenti clausole di incentivazione dei dipendenti contiene anche una sola
delle altre tre clausole, da ciò probabilmente emergendo l’assenza di ogni
correlazione tra tali schemi e la presenza di finanziatori esterni. Tratteremo
comunque il tema, per le ragioni già accennate, in chiusura del lavoro.
Possiamo trarre alcune prime indicazioni dai dati appena esposti. La di-
sciplina della startup innovativa come introdotta con le riforme del 2012-
2017 mirava ad attivare anche in Italia la creazione di imprese innovative-
tecnologiche a rapida crescita, finanziate tramite VC o crowdfunding e
capaci di incidere sul modello economico e, quindi, negli auspici, anche
sul tasso di crescita del nostro paese. I numeri sulla costituzione di star-
tup innovative estratti dalla sezione speciale del registro delle imprese e
ampiamente pubblicizzati a livello politico-amministrativo e dalla stam-
pa specializzata non rispecchiano, sulla base del campione esaminato, il
raggiungimento dei predetti obiettivi di politica legislativa. Le startup
VC-financed costituiscono nel panorama italiano, almeno sulla base dei
nostri dati, un fenomeno numericamente del tutto marginale.
Passiamo ora ad esaminare i risultati della ricerca con riferimento alle
modalità di adozione in Italia di alcune delle clausole caratterizzanti le
operazioni di VC-financing.
7. TITOLI CONVERTIBILI
I titoli convertibili vengono utilizzati nella prassi statunitense a partire dalla
fase di finanziamento ad opera dei business angels, che in tal modo si ga-
rantiscono la possibilità di convertire le loro azioni privilegiate in ordinarie
al momento del successivo intervento dei fondi VC, perlopiù ad uno sconto
(conversion price cap) tale da remunerare l’investimento fatto nella fase
iniziale. I modelli più utilizzati sono quelli delle obbligazioni convertibili in
azioni privilegiate (seed debt) e del SAFE (simple agreement for future equi-
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238
ty), generalmente utilizzati nella fase early stage, e delle azioni privilegiate
convertibili (seed equity), invece preferite dai VCs. In Italia, un chiaro limite
alla diffusione dei titoli di debito convertibili in quote è dato dall’art. 2483
c.c., che ne restringe il possibile collocamento ai soli investitori professionali
soggetti a vigilanza prudenziale (Agstner-Capizzi-Giudici, 2020). Gli statuti
del nostro campione, come tutti gli statuti di s.r.l., si limitano ad un generico
richiamo alla possibilità di emettere simili titoli nel rispetto della disciplina
legale. Dalla semplice analisi degli statuti non è dato quindi evincere l’effettivo
ricorso a siffatta, sia pure limitata, modalità di finanziamento.
Il fenomeno della convertibilità è osservabile esclusivamente per le quote
e gli strumenti finanziari partecipativi convertibili; questi ultimi, in
particolare, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2483 c.c.
(Fregonara, 2021; Agstner, Capizzi e Giudici, 2020). Dall’analisi del cam-
pione emerge un uso quasi insignificante dei meccanismi della convertibi-
lità, che non sempre appaiono in linea con le finalità che questi strumenti
tradizionalmente perseguono nella prassi statunitense, ove la conversione
ha lo scopo di garantire ai finanziatori la possibilità di beneficiare, con uno
sconto, dell’incremento di valore della società in corrispondenza dell’ac-
cesso a nuovi finanziamenti secondo il modello dello stage financing.
Sono emersi solo 26 statuti (pari all’1,7% del totale degli statuti non
standard e all’1% del campione complessivo, di cui 21 di società costituite
nella provincia di Milano, 4 a Roma e 1 a Genova) contenenti una qualche
regolazione della convertibilità, seppur in modo molto eterogeneo. Più in
particolare, 7 statuti prevedono clausole di conversione: automatica al ri-
correre di specifici eventi (6 a Milano e 1 a Roma)5; facoltativa (1 a Milano,
contenente anche una clausola di conversione automatica)6; «penalizzante»
5 Le sei clausole di conversione automatica presenti nel nostro campione prevedono una
conversione, in misura pari al valore nominale, delle quote detenute dal VC in quote ordi-
narie al ricorrere di determinati eventi, tra i quali spiccano: i) la decisione di conversione
assunta dai soci a maggioranza qualificata; ii) l’ammissione alla quotazione, in alcuni statuti
solo se qualificata (cioè tale da comportare una raccolta superiore a un certo importo); iii)
la mancata integrale sottoscrizione da parte del VC dell’aumento di capitale già deliberato
a suo favore, e sempre che l’organo amministrativo, con maggioranze rafforzate, attesti il
raggiungimento degli obiettivi del business plan (così recependo, se non la forma, almeno
la sostanza della clausola c.d. pay to play prevista dal modello standard predisposto dalla
NVCA); iv) per una peculiare categoria di « quote correlate» (prevista da uno statuto
romano, aventi priorità sulla distribuzione degli utili generati da un comparto/settore),
nell’ipotesi di trasferimento o di cessazione dell’attività del settore correlato, con salvezza
di ogni diritto agli utili del settore maturati, ma non ancora corrisposti.
6 L’unica clausola che prevede una conversione facoltativa consente ai portatori di quote
privilegiate di convertirle in quote ordinarie al valore nominale, discrezionalmente e in
qualsiasi tempo.
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
239
in caso di cambio di controllo del soggetto giuridico che detiene le quote
per conto dei founders (1 a Milano)7.
Altri 13 statuti (11 a Milano, 1 a Roma e 1 a Genova) utilizzano la con-
versione automatica per impedire ad un socio di diventare titolare di quote
di altra categoria rispetto a quella già posseduta. Per esempio, nel caso in
cui il socio che possiede una quota di categoria A acquisti una quota di
categoria B, quest’ultima si converte automaticamente in quota di categoria
A. Quest’uso della convertibilità potrebbe essere strumentale a mantenere
sempre distinte le posizioni dei founders e del finanziatore esterno.
Gli ultimi 6 statuti (4 a Milano e 2 a Roma) disciplinano nel dettaglio,
con interessanti regolamenti allegati, l’emissione di SFP convertibili.
Queste clausole riflettono in pieno il modello del SAFE utilizzato sempre
più diffusamente nella prassi del VC-financing (Redoano, 2021). Infatti,
la conversione è solo automatica: i) al verificarsi di aumenti di capitale di
importo superiore ad un certo ammontare previamente stabilito, in questo
caso con un tasso di conversione particolarmente scontato8 vuoi tramite
uno sconto fisso espresso in percentuale, vuoi utilizzando al contrario la
tecnica delle weighted average antidilution provisions (su cui, per i dettagli,
infra al par. 8); ii) al decorrere del termine finale previsto dal regolamento,
in quest’altro caso stabilendosi un tasso di conversione talvolta basato
su una previa valutazione della società (vantaggiosa per il portatore)9. Il
recepimento di questo schema contrattuale nell’ambito delle s.r.l. pone
tutta una serie di questioni.
Quanto alla possibilità di circolazione, essa è fortemente limitata da tutti
gli statuti, in 5 casi sottoponendola a gradimento dell’organo ammini-
strativo (in un caso a pena di «estinzione» del titolo alienato in violazione
7 Uno statuto prevede una conversione penalizzante in quote prive di diritti di voto e con
residuali diritti patrimoniali per quei founders che cedano senza il consenso del VC il con-
trollo della persona giuridica tramite la quale detengono le quote nella startup.
8 In uno statuto, però, prevedendosi un tetto massimo alla percentuale post-aumento
detenibile dai singoli titolari.
9 I regolamenti allegati agli statuti stabiliscono che l’apporto derivante dalla sottoscrizione
degli strumenti sia iscritto in apposita riserva «targata» di patrimonio netto, utilizzabile
per copertura perdite solo in ultima istanza (cioè solo prima della riserva legale), da im-
putare a capitale in ipotesi di conversione. Alcuni statuti si premurano di precisare che la
riduzione sino a zero della riserva non comporta il venir meno del diritto di conversione
dei portatori, statuendo alcuni che in tal caso sarà necessario imputare a capitale altre
riserve disponibili. Uno statuto si preoccupa, infine, di regolare cosa avviene in ipotesi di
assenza di riserve disponibili, stabilendo che l’ammontare nominale della partecipazione
attribuita si riduce proporzionalmente, a meno che il portatore dello strumento non accetti
di integrare in denaro la differenza.
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
240
della clausola), oppure addirittura in un caso escludendola radicalmente.
Ciò a conferma del fatto che tale tipologia di strumenti è destinata a una
ristretta cerchia di finanziatori, in un caso addirittura già soggettivamente
individuati dal regolamento di emissione.
Quanto ai diritti patrimoniali degli SFP, 3 statuti prevedono, in ciò se-
guendo la prassi statunitense, delle vere e proprie liquidation preferences
(v. infra par. 9), in due occasioni strutturate in modo tale da permettere al
portatore di richiedere, quale che sia il patrimonio netto di liquidazione,
addirittura l’immediata restituzione dell’intero apporto.
Per i diritti amministrativi, tutti gli statuti tranne uno si disinteressano
totalmente della questione, limitandosi due di essi a prevedere unicamente
degli specifici diritti informativi10. Sembra, quindi, che i redattori degli
statuti non si siano fatti intimorire dalla pur ventilata possibilità che
la stringente disciplina dell’art. 2483 c.c. sia applicabile agli strumenti
finanziari, come a prima vista parrebbero quelli esaminati, privi di di-
ritti amministrativi. Tale decisione, quantomeno nel caso dei 6 statuti in
esame, ci sembra confortata dalle conclusioni cui siamo già giunti circa
l’impossibilità di qualificare come di debito uno strumento, pur privo di
diritti amministrativi, quale il SAFE (Agstner, Capizzi e Giudici, 2020).
Solo 2 statuti prevedono la deliberazione di un aumento di capitale a
servizio della conversione (peraltro di svariate tranches di SFP emessi nel
tempo), mentre tutti gli altri si limitano a contemplare l’obbligo per i soci
di deliberare l’aumento man mano che se ne presenti la necessità, come è
consentito dal diritto delle s.r.l., che non statuisce l’obbligo di deliberare
un aumento di capitale a servizio contestualmente all’emissione dei titoli
convertibili. Certo è che l’eventuale scelta strategica da parte della società
di rimandare la deliberazione sull’aumento di capitale la espone al rischio
di comportamenti opportunistici al momento della successiva delibera di
aumento, con la possibilità per i soci dissenzienti di esercitare il recesso ex
art. 2481-bis c.c. (Agstner-Capizzi-Giudici, 2020). Tale rischio potrebbe
essere considerato e superato da eventuali patti parasociali, ma resta il
fatto che l’art. 2481-bis c.c. si atteggia ancora una volta come un serio
ostacolo all’ottimale design contrattuale delle operazioni VC-financed.
10 Tutti gli statuti, però, stabiliscono una soglia massima di SFP emettibili senza il previo
consenso dei portatori di quelli già emessi. Interessante notare che un solo statuto prevede
espressamente degli aggiustamenti necessari in caso di «mutamenti rilevanti», peraltro in
modo abbastanza difforme da quanto dettato dalle norme codicistiche in tema di obbli-
gazioni convertibili nella s.p.a. (artt. 2420-bis, 2503 c.c.).
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
241
8. LE CLAUSOLE ANTIDILUITIVE
Le antidilution clauses comportano una distribuzione non proporzionale
tra i soci della diluzione, nominale e sostanziale, conseguente all’entrata
di un nuovo finanziatore. Si distingue, a seconda del livello di protezione
accordata, tra clausole c.d. full ratchet (letteralmente di «incremento
pieno»), che consentono al beneficiario di ottenere gratuitamente le quote
necessarie a mantenere l’esatta partecipazione (in termini di valore e poten-
za di voto) detenuta prima dell’aumento diluitivo, e clausole c.d. weighted
average, che consentono di ottenere gratuitamente un incremento della
partecipazione in base al peso dell’aumento diluitivo rispetto al comples-
sivo capitale ante-aumento (broad based w.a. clauses, meno protettive)
o alla partecipazione del socio beneficiario (narrow based w.a. clauses,
più protettive) (v. analiticamente sul punto, anche per una descrizione del
concreto funzionamento delle clausole, Agstner-Capizzi-Giudici, 2020).
Nell’ambito del campione sono stati riscontrati 22 statuti11 contenenti
clausole che mostrano di aver presente il fenomeno della diluizione del VC
conseguente a successivi round di finanziamento, seppur secondo approcci
e metodi tra di loro assai eterogenei e, comunque, a parte 3 eccezioni,
perlopiù assai distanti dal modello statunitense12.
Più in particolare, solo 9 statuti (tutti di società milanesi) affrontano il
problema della diluizione conseguente all’aumento di capitale offerto a
terzi, obbligando i soci, in 6 statuti nel solo caso di aumenti qualificati
come «diluitivi»13, a deliberare un ulteriore aumento di capitale riservato
ai soci beneficiari. Tra questi, solo 3 statuti adottano un approccio funzio-
nalmente equivalente alle clausole antidilution della prassi statunitense,
assegnando gratuitamente le quote «di compendio» ai soci beneficiari
secondo le formule full ratchet o weighted average.
11 Pari al 1,4% del totale degli statuti non standard e allo 0,8% del campione complessivo,
di cui 14 di società costituite a Milano, 3 a Napoli, 3 a Firenze, 1 a Roma e 1 a Genova.
12 La protezione antidiluitiva è, inoltre, qualificata come diritto particolare dei soci bene-
ficiari ex art. 2468 c.c. in un solo statuto, essendo espressamente escluso che tale diritto
possa successivamente circolare insieme alla quota. Tutti gli altri statuti qualificano la
prerogativa come diritto di categoria, peraltro prevedendo l’applicazione del metodo delle
assemblee speciali, significativamente estesa in un caso anche agli aumenti deliberati nei
primi due anni dalla costituzione che modifichino la proporzione tra categorie di quote.
13 Così definiti, a seconda delle formulazioni, come quegli aumenti basati su una valutazione
pre-money (cioè prima dell’aumento) inferiore a un certo ammontare o che comportino
un prezzo di sottoscrizione delle quote complessivo (ovvero comprensivo di sovrapprezzo)
inferiore a quello pagato dal socio beneficiario della protezione. Tutte le clausole esaminate
ricomprendono tra le ipotesi di aumento diluitivo anche quella dell’aumento gratuito.
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
242
Gli altri 6 statuti, invece, prevedono che le quote di compendio debbano
essere sottoscritte o assegnate al valore nominale14. Uno di questi statuti
prevede una clausola antidiluizione narrow based weighted average molto
dettagliata e di grande interesse quanto alle concrete modalità esecutive
previste. Essa, infatti, per la sua attuazione impone in prima battuta di
deliberare un aumento gratuito attingendo a una specifica riserva statutaria
costituita dal sovrapprezzo a suo tempo versato dagli stessi soci beneficiari
della protezione. Solo nell’ipotesi in cui ciò non sia sufficiente a raggiungere
l’effetto antidiluitivo, si prevede la necessità di deliberare un aumento a
pagamento al valore nominale e senza sovrapprezzo. Lo stesso statuto
esclude la spettanza del diritto di recesso per tutti gli aumenti di capitale
offerti a terzi entro i ventiquattro mesi dalla costituzione, aderendo evi-
dentemente all’interpretazione che consente di derogare all’art. 2481-bis
c.c. quantomeno in sede di costituzione (Agstner, Capizzi e Giudici, 2020).
Altri 9 statuti affrontano il fenomeno della diluizione con strumenti diversi
rispetto alle clausole antidiluizione. Più in particolare, 5 statuti (3 di società
costituite a Firenze, 1 a Napoli e 1 a Roma) richiedono il voto favorevole
del socio finanziatore per l’approvazione di «operazioni che potrebbero
comportare una diluizione della partecipazione degli investitori», senza
meglio precisare in che cosa consista la «possibilità di diluizione» (ovvero
se riguardante il profilo amministrativo della potenza di voto o quello
patrimoniale del valore della partecipazione: per il distinguo v. Agstner,
Capizzi e Giudici, 2020); uno (di società costituita a Milano) pone un
quorum decisionale rafforzato (al 70%) per « ogni decisione che possa
comportare la diluizione della percentuale di partecipazione dei soci». Un
altro statuto (sempre di società costituita a Milano) detta una singolare
disciplina del diritto d’opzione spettante ai soci finanziatori, i quali pos-
sono esercitarlo solo se l’aumento comporta una diluizione (all’evidenza
nominale) superiore al 50% o se effettuato sulla base di una valutazione
pre-money superiore a un certo (rilevantissimo) importo, con spettanza,
se concesso dalla delibera di aumento, della prelazione sull’inoptato dagli
altri soci.
14 Quanto alle concrete modalità di attribuzione delle quote così emesse, le clausole più
basilari si limitano a richiamare la necessità di rispettare l’equivalenza tra conferimenti e
capitale sociale posta dall’art. 2464 c.c., per poi però specificare che tali quote debbono
essere attribuite «senza ulteriori conferimenti» da parte dei soci beneficiari. Le clausole
più elaborate del campione, invece, probabilmente perché consapevoli della criticità del
passaggio, ammettono che «l’emissione gratuita delle quote di compendio potrà essere
effettuata con ogni modalità tempo per tempo prevista dalla legge», tra le quali elencano
a titolo esemplificativo sia l’aumento gratuito del capitale sia l’aumento a pagamento con
assegnazione non proporzionale.
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
243
Tre ulteriori statuti (2 a Napoli e 1 a Milano), infine, si limitano ad enun-
ciare il problema della diluizione statuendo il diritto dei soci beneficiari
«a riparametrare il valore della loro partecipazione alla nuova valutazione
della società», ma solo in caso di aumenti di capitale «diluitivi» e, comun-
que, senza specificare le concrete modalità di attuazione del meccanismo
antidiluitivo.
Un ultimo statuto (di società costituita a Milano, con la partecipazione al
capitale sociale di un importante gruppo bancario) prevede un elaborato
e interessante meccanismo volto a permettere alla banca finanziatrice,
anche socia di minoranza della società finanziata, di mantenere inalterato
il proprio peso nelle ipotesi sia di successivi aumenti di capitale offerti a
terzi, sia di quotazione o cambio di controllo. Ciò, evidentemente, a tutela
del valore economico della partecipazione, che però viene rapportato non
alla partecipazione al capitale, ma al complessivo finanziamento erogato,
sia a titolo di mutuo sia a titolo di conferimento.
La clausola attribuisce anche al socio finanziatore un diritto d’opzione, il
cui prezzo è espressamente stabilito possa essere compensato con il debito
della società da finanziamento, nell’ipotesi di aumenti di capitale offerti a
terzi successivamente deliberati di importi almeno pari al finanziamento
già concesso (a titolo di mutuo) o nell’ipotesi di quotazione o cambio di
controllo. L’opzione è esercitabile su delle quote di categoria speciale già
emesse e sottoscrivibili unicamente dal finanziatore che dovesse esercitare
l’opzione, costituendo non a caso l’adozione di tale delibera di aumento
riservato condizione per l’erogazione del finanziamento iniziale alla società.
In buona sostanza, la clausola sembra recepire la ratio di una narrow ba-
sed weighted average, ma con la particolarità di effettuare il calcolo della
quota sottoscrivibile in funzione antidiluitiva non con riferimento alla sola
quota di capitale detenuta dal soggetto beneficiario, ma anche all’importo
di un finanziamento (a titolo di mutuo) già erogato15.
In conclusione, si può notare che nessuno degli statuti esaminati replica
fedelmente il meccanismo delle antidiluition clauses dell’esperienza nor-
damericana, in cui è lo stesso aumento deliberato in sede di successivo
15 Uno statuto tra quelli esaminati, relativo ad una delle poche s.p.a. del campione, prevede
una peculiare categoria di azioni privilegiate determinate price adjustment shares, che,
in estrema sintesi, prevede una antidilution «al contrario». Le azioni in questione, oltre
a essere intrasferibili, una volta eseguito un secondo aumento di capitale già deliberato
sono destinate ad essere annullate in una percentuale «punitiva» che dipende dalla even-
tuale mancata sottoscrizione da parte dei portatori di tale secondo aumento. All’esito del
secondo aumento le azioni di categoria non annullate sono destinatarie di una clausola di
conversione automatica in ordinarie al momento della quotazione.
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
244
round a dover essere tale da permettere una protezione dei beneficiari
dalla diluizione nominale e sostanziale (per degli esempi numerici, v.
Agstner, Capizzi e Giudici, 2020). Al contrario, nell’esperienza italiana
sembra emergere una preferenza per gli aumenti di capitale «a servizio»,
a pagamento e al valore nominale, così imponendo al socio beneficiario
di supportare un ulteriore esborso, sia pure nella stragrande maggioranza
dei casi di ridottissimo ammontare. Tale approccio rivela probabilmente il
timore di incorrere in quella «sproporzione estrema» della cui legittimità, a
nostro parere non fondatamente, si discute (v. sul punto Agstner, Capizzi e
Giudici, 2020). I rari statuti che, invece, per raggiungere analoghi effetti,
optano per gli aumenti «a servizio» gratuiti corrono il rischio di scontrarsi
con la norma dell’art. 2481-ter, co. 2, c.c., che in tale ipotesi impone la
necessaria proporzionalità dei diritti attribuiti e la cui imperatività è di-
scussa (Agstner, Capizzi e Giudici, 2020).
In ogni caso, permane la già segnalata criticità costituita dalla causa di
recesso di cui all’art. 2481-bis c.c. nell’ipotesi, consustanziale alle clausole
in esame, di aumenti di capitale con esclusione del diritto d’opzione dei soci
preesistenti, che però due degli statuti esaminati radicalmente ed espres-
samente escludono per tutti gli aumenti deliberati entro un certo periodo
dalla costituzione. Emerge così, seppur in un campione limitatissimo e con
brevi vincoli di durata, l’insofferenza per una previsione incompatibile con
le regole del finanziamento VC come quella che impone il diritto di recesso
in caso di esclusione del diritto d’opzione.
9. LE PREFERENZE LIQUIDATORIE
Le liquidation preferences, nel modello paradigmatico statunitense di
finanziamento delle startup innovative, appartengono al repertorio con-
trattuale standard. La loro funzione di tutela delle aspettative finanziarie
facenti capo a fondi VC e business angels in sede di exit (c.d. downside
protection) viene unanimemente riconosciuta e valorizzata in dottrina e
nella prassi applicativa (Fried e Ganor, 2006; Bratton, 2002). In sintesi,
si tratta di preferenze spettanti agli investitori titolari di partecipazioni
privilegiate (appunto, business angels e VC) nella distribuzione del ricavato
dalla liquidazione dell’investimento in occasione di determinati liquidity
events, quali, tipicamente, scioglimento, fusione, cessione d’azienda o
dismissione del pacchetto di controllo. Si distingue tra preferenze liqui-
datorie di tipo participating e non-participating, entrambe presupponenti
un previo investimento in equity da parte del socio titolare. Le due forme
si differenziano a seconda che assegnino (nel primo caso) o meno (nel se-
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
245
condo caso), oltre all’incasso pieno dell’importo portato dalla preferenza
liquidatoria in sé (solitamente un multiplo dell’investimento originario o
un importo fisso massimo), anche il diritto alla distribuzione pro-quota
della residua parte delle somme disponibili a valle dell’evento di liquidità
(Kuntz, 2016; Klausner e Venuto, 2013).
L’impatto di tali prerogative sulla posizione partecipativa del fondatore è
marginale in caso di successo del progetto imprenditoriale, mentre note-
voli squilibri tra le aspettative dell’imprenditore fondatore e gli investitori
possono emergere nell’ipotesi in cui l’iniziativa si riveli un living dead. In
un simile scenario, infatti, può ben verificarsi che il ricavato dalla cessione
sia pari o di poco superiore alla liquidation preference spettante all’inve-
stitore, con conseguente disincentivo del fondatore ad investire risorse ed
energie nel progetto; ancora di più, almeno per il diritto societario italiano,
possono emergere profili di incompatibilità delle preferenze liquidatorie
con il principio di equa valorizzazione delle partecipazioni sociali (su que-
sto tema, da ultimo, Abu Awwad, 2021; con posizione in parte differente
Agstner, Capizzi e Giudici, 2020).
Rinveniamo nel nostro campione d’indagine, sotto il profilo quantitativo,
una discreta presenza di clausole di preferenza liquidatoria, che risultano
incorporato e in quote di categoria o in diritti particolari dei soci. Dal
punto di vista qualitativo-funzionale, il loro design è ben congegnato in
modo da permettere il conseguimento degli obiettivi tipicamente sottesi a
tali pattuizioni, così come sopra sommariamente illustrati. In quest’ottica,
pare apprezzabile il fatto che non si rintraccino significative deviazioni
rispetto alle omologhe clausole-modello predisposte per il mercato VC
statunitense (NVCA, 2020); ciò a testimonianza di un certo «effetto De-
laware» sul diritto societario italiano e di una circolazione transnazionale
dei modelli contrattuali tra startuppers ben informati e interconnessi
(Giudici e Agstner, 2019).
Esaminando da vicino le liquidation preferences presenti nel campione, si
tratta in totale di 34 statuti, di cui 32 relativi a s.r.l. e 2 a s.p.a.; le società
sono geograficamente distribuite nelle province di Firenze (3), Genova
(1), Milano (17), Napoli (1), Roma (7) e Torino (5). Nota qualificante
di tale campione è un notevole grado di standardizzazione delle clausole
in questione, il che fa presumere positive economie di rete e di apprendi-
mento tra i professionisti coinvolti (su questo fenomeno, in luogo di tutti,
Klausner, 1995; Kahan e Klausner, 1996; cenni anche in Agstner, 2020);
ciò pare soprattutto riconducibile, non diversamente da quanto si riscon-
tra nel mercato della Silicon Valley (Agstner, Capizzi e Giudici, 2020),
al coinvolgimento di una ristretta cerchia di professionisti specializzati
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
246
in operazioni di VC e private equity. L’assenza di vincoli posti da norme
imperative alla ricezione dei modelli del VC-financing indubbiamente
facilita la standardizzazione, qui pienamente osservabile a differenza di
quanto visto nell’eterogeneo panorama delle clausole antidiluitive, che
devono fare i conti con il tema della «sproporzione estrema» e con norme
come gli artt. 2481-bis e 2481-ter c.c.
Tutte le predette clausole circoscrivono, anzitutto, il raggio d’azione della
preferenza liquidatoria. Quest’ultima risulta così scattare in presenza di un
evento di distribuzione o, come variamente denominato, di un evento di
liquidità o di riparto. Negli statuti esaminati, con formulazione pressoché
speculare, questo scatta in presenza di operazioni determinanti un ritorno
finanziario per i soci quali l’incasso di interessi; la distribuzione di divi-
dendi e/o riserve; lo scioglimento e la messa in liquidazione della società;
la fusione, il consolidamento o l’acquisizione che coinvolge la società o sue
controllate; la vendita o cessione o altra disposizione dell’intera o di una
parte sostanziale dell’azienda; la cessione di partecipazioni di controllo;
il rimborso di finanziamenti concessi alla società (inclusi i titoli di debito
e gli strumenti finanziari); la quotazione della società su un mercato re-
golamentato di borsa.
Delimitato in questo modo l’ampio ambito operativo della liquidation
preference, gli statuti si preoccupano di stabilire l’ordine di ripartizione
dei proventi derivanti dall’evento di liquidità. Coerentemente alla funzione
propria di tali strumenti di protezione dell’investimento, il filo conduttore
dell’architettura contrattuale consiste nel riconoscimento, in primo luogo,
in favore dei soci investitori di una prerogativa liquidatoria tale da consen-
tire il recupero (integrale o parziale) delle somme investite nella startup, ivi
inclusi versamenti in conto capitale, in conto futuro aumento di capitale,
a fondo perduto e/o per copertura di perdite, di sovrapprezzo e prestito. A
seguire, poi, l’eccedenza di liquidità eventualmente disponibile dopo tale
primo riparto viene nella stragrande maggioranza dei casi assegnata ai
restanti soci, con inclusione tra quest’ultimi, in caso di preferenza di tipo
participating, degli stessi soci investitori, talvolta subito dopo il primo
riparto (participating «forte»), talaltra invece solo dopo aver rimborsato
il capitale investito dai soci diversi dai finanziatori esterni (participating
«debole»); in una minoranza dei casi, gli statuti prevedono invece prefe-
renze liquidatorie di tipo non participating.
Visto l’accennato elevato grado di standardizzazione delle clausole in og-
getto, quelle più frequentemente ricorrenti riportano, in sede di disciplina
delle modalità di ripartizione dei proventi derivanti da un liquidity event,
formulazioni del seguente tenore:
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
247
In occasione di una Exit, i proventi saranno distribuiti secondo quanto di seguito
previsto: (a) in primo luogo, al Fondo sino a quando abbia ricevuto un importo
pari a 1 volta il proprio Capitale Investito; (b) successivamente, a tutti gli altri
Soci (e quindi, per chiarezza, con esclusione del Fondo) che partecipano all’Exit,
in misura proporzionale alla propria rispettiva Quota; (c) ogni somma distribuita
eccedente quanto distribuito secondo i criteri riportati alle lettere (a) e (b) che
precedono, sarà ripartita tra tutti i Soci – inclusi quindi, per chiarezza, il Fondo
– che partecipano all’Exit, in misura proporzionale alla propria rispettiva Quota.
Meritevole di menzione è, inoltre, il fatto che in diversi statuti la preferenza
liquidatoria opera solo in corrispondenza del primo evento di liquidità,
mentre per i proventi derivanti da successivi eventi di distribuzione la
ripartizione avviene indistintamente pro quota tra tutti i soci, senza distin-
zione alcuna tra fondatore e VC. In altre occasioni, invece, si precisa che la
liquidation preference, qualora non soddisfatta integralmente al momento
del relativo riparto di liquidità, opera cumulativamente sulle eventuali
ulteriori ripartizioni che fossero effettuate, e ciò sino a quando l’importo
dovuto non sarà stato integralmente corrisposto ai soci privilegiati. Tal-
volta, poi, viene assicurato al socio investitore un rendimento minimo sul
capitale finanziato (con applicazione di un tasso d’interesse del 3% o del
6%, o di un tasso interno di rendimento del 10%), mentre diversi statuti
prevedono a carico dell’investitore un obbligo di investimento minimo in
società (oscillante nel campione tra euro 50.000 ed euro 400.000), non
oggetto di successivo rimborso.
Del tutto peculiare è la previsione in due statuti (entrambi relativi a s.r.l.
con sede a Torino) di una clausola di earn out a favore dei soci fondatori, i
quali, nel caso di cessione (almeno) della maggioranza del capitale sociale
ad un terzo, hanno il diritto a vedersi riconosciuto dagli investitori un
premio sul guadagno complessivo netto (differenza tra prezzo di vendita
e capitale investito) ottenuto dagli investitori, calcolato progressivamente
(ossia, applicando una percentuale di earn out che aumenta all’aumentare,
secondo precisi scaglioni, del guadagno), con la previsione di cap massimi
per ogni scaglione di aumento.
10. LE CLAUSOLE SUI DIRITTI DI COVENDITA
I diritti di covendita sono strumenti essenziali dell’architettura contrattuale
del VC-financing. Attraverso il drag along, il VC riesce infatti a imporre
l’exit al team dei founder e a liquidare il proprio investimento. Il tag along
permette invece all’investitore di beneficiare di un’eventuale liquidazione
dell’investimento promossa dal founder (per uno sguardo d’insieme, De
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
248
Luca, 2021). Non è un caso che queste clausole siano state inserite nel
modello standard predisposto a livello ministeriale e che, in conseguenza
di ciò, si assista ormai a un elevato grado di standardizzazione delle stesse.
La redazione di queste clausole, tuttavia, soffre di un limite normativo,
costituito dall’interpretazione maggioritaria che parifica l’esercizio del
diritto di trascinamento al recesso forzato del socio trascinato dalla socie-
tà e, quindi, vincola il prezzo offerto dal terzo acquirente al rispetto del
principio di equa valorizzazione della quota di tale socio. Questo limite
costituisce, naturalmente, un ostacolo alle operazioni di VC-financing, in
quanto consente al socio trascinato di azionare contestazioni sul prezzo
spuntato dal socio che esercita il drag along, aprendo il terreno a compor-
tamenti strategici che possono mettere in pericolo la velocità o, addirittura,
la stessa fattibilità dell’operazione di liquidazione dell’investimento.
Nel nostro campione, 40 delle 57 società realmente VC-financed contengo-
no clausole drag-along (pari al 70% del totale). Tutte le relative clausole
statutarie contengono un riferimento all’equa valorizzazione, per cui non si
osserva alcun tentativo, da parte degli statuti, di sfuggire ad una disciplina
evidentemente considerata imperativa e ineludibile.
Si sono rinvenuti 9 statuti che disciplinano il criterio di quantificazione
del prezzo di exit in modi meno standardizzati. Vi sono clausole le quali
specificano che il prezzo di acquisto a seguito del trascinamento deve essere
il più alto tra quello di recesso e un altro valore di riferimento (investimento
complessivo o valore post-money fisso); altre distinguono a seconda del
periodo d’esercizio (per i primi due anni si riconosce il doppio del capitale
investito e solo dal quarto anno il fair value); vi sono poi clausole secondo
cui, se il valore non è di mercato, il trascinante stesso può versare la relativa
differenza. Uno statuto in particolare detta una clausola molto analitica
di determinazione del prezzo corrispondente all’equa valorizzazione sulla
base dell’EBITDA, cui poi devono essere applicati sconti di minoranza e
di maggioranza.
11. IL WORK FOR EQUITY
I piani di incentivazione del personale rivestono un’importanza cruciale
nel percorso di crescita di una startup innovativa (Hart e Moore, 1994;
Kuntz, 2021, anche per i decisivi profili fiscali; Denga, 2021). Oltre a po-
sitivi effetti di fidelizzazione, essi contribuiscono a mitigare comportamenti
opportunistici degli amministratori e degli stessi collaboratori chiave della
società finanziata (Kuntz, 2016; Kaplan e Strömberg, 2001). Nella realtà
del VC statunitense, ove questi piani vengono indicati con l’espressione
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
249
vesting schemes, essi consistono nella previsione combinata di un divieto
di alienazione delle quote partecipative assegnate ai collaboratori a titolo
retributivo per un periodo c.d. di vesting, solitamente compreso tra 3 e 5
anni16, e di un correlativo diritto di riacquisto at cost in capo alla società
delle unvested shares durante il predetto periodo, normalmente a causa
dell’interruzione del rapporto di collaborazione per ragioni imputabili al
collaboratore (Kuntz, 2016). I vesting schemes, quindi, si sostanziano in
vincoli alla libera circolazione delle quote sociali, con il collaboratore le-
gittimato a disporre pienamente degli strumenti vested man mano che gli
obblighi lavorativi assunti risultino correttamente adempiuti e la società
dotata del corrispondente diritto di riacquistare, in caso di inadempimento,
la parte unvested al valore nominale.
In Italia, invece, il work for equity viene concepito come meccanismo di
assegnazione di quote e/o azioni nell’ambito di operazioni sul capitale
sociale. Le modalità di implementazione prospettate soprattutto dalla
prassi notarile sono diverse. Per un verso, si può pensare di procedere ad
un aumento gratuito con voto unanime e assegnazione delle quote, anche
di speciale categoria, a favore della società medesima, la quale poi a sua
volta le assegnerà ai dipendenti; o, con risultati analoghi, alla sottoscrizione,
sempre da parte della società, dell’inoptato negli aumenti a pagamento
mediante imputazione a capitale di riserve disponibili, con susseguente
assegnazione delle relative quote ai dipendenti beneficiari (Consiglio No-
tarile di Milano, Massima Commissione Società n. 178). Queste modalità,
evidentemente, sono divenute accessibili grazie al superamento del divieto
di cui all’art. 2474 c.c. ad opera del noto art. 26, co. 6, d.l. 179/2012.
Per l’altro verso, prospettabile risulta anche un aumento di capitale one-
roso riservato ai dipendenti, similmente a quanto disposto per le s.p.a. ai
sensi dell’art. 2441, co. 8, c.c. Mentre, però, nella s.p.a. il diritto d’op-
zione dei soci è al riguardo espressamente escluso, nella s.r.l. un ostacolo
rilevante sembra derivare dall’obbligo sancito dall’art. 2481-bis c.c. di
attribuire il diritto di recesso ai soci dissenzienti. La liberazione delle par-
tecipazioni sottoscritte dai dipendenti potrebbe invece avvenire o tramite
compensazione tra debito da conferimento e credito del socio-lavoratore
per l’attività prestata (Campobasso, 2020; Consiglio Notarile di Milano,
Massima Commissione Società n. 125); ovvero, in alternativa, fissando
l’ammontare del capitale sociale in un ammontare prossimo al minimo
legale, così consentendosi, visto l’importo irrisorio, di liberare l’aumento
sottoscritto integralmente in denaro con imputazione del credito per le
16 Il periodo di vesting potrà subire una scadenza anticipata in presenza di un c.d. accele-
ration trigger quale la cessione dell’azienda o la quotazione in borsa della startup.
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
250
prestazioni eventualmente già rese a sovrapprezzo; infine, il dipendente
potrebbe conferire la propria prestazione d’opera ai sensi dell’art. 2464, co.
6, c.c., ma siffatta opzione risulta in concreto fortemente scoraggiata dalla
necessità di dover prestare una garanzia personale (fideiussione bancaria
oppure polizza assicurativa), oltre che, secondo la dottrina maggioritaria,
una perizia di stima (Salamone, 2020; Nieddu Arrica, 2018).
Un fedele riscontro di tale approccio, tutto incentrato su forme di capita-
lizzazione della forza lavoro, si rinviene negli statuti del nostro campione,
ove gli schemi di incentivazione del tipo work for equity risultano presenti
in 21 statuti, tutti relativi a s.r.l. costituite a Bolzano (1), Firenze (2), Na-
poli (1), Milano (2), Torino (1) e, in modo predominante, a Roma (14).
Questi statuti, con una sola eccezione, riportano nella sostanza la medesima
formulazione, limitandosi a rendere fruibili le suddette diverse modalità
di acquisizione a capitale del fondamentale know-how degli startuppers.
In un solo caso, lo statuto, implementando un meccanismo «penalizzan-
te» simile a quello in uso negli schemi di vesting statunitense, detta una
clausola di bad leaver, in forza della quale il socio-lavoratore responsabile
della cessazione del rapporto di collaborazione dovrà offrire in vendita la
propria quota di partecipazione ai restanti soci ad un corrispettivo pari al
prezzo pagato dal bad leaver al momento della sottoscrizione delle stesse.
Fermo restando la possibilità che una regolamentazione più dettagliata dei
piani di incentivazione sia eventualmente contenuta in patti parasociali,
il quadro statutario emergente dalla nostra ricerca empirica evidenzia in
materia una disciplina del work for equity assolutamente scarna e lontana
dai vesting schemes statunitensi.
12. CONCLUSIONI
A quanto ci risulta, questo contributo è il primo studio empirico in Italia
che cerca di individuare, attraverso un’analisi degli statuti, le startup
innovative iscritte nella sezione speciale del registro delle imprese che
possano effettivamente considerarsi finanziate da uno o più investitori
esterni. Inoltre, è il primo studio che analizza sul piano empirico come i
redattori degli statuti abbiano affrontato alcuni potenziali problemi posti
dal recepimento nell’ordinamento italiano delle tecniche contrattuali ti-
piche del mondo del VC-financing.
Dall’indagine è emerso un numero molto limitato di startup VC-financed
rispetto al campione complessivo, ovvero 57, pari al 2,6 % del totale,
contenenti le tre clausole caratterizzanti della convertibilità, antidilui-
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
251
zione e delle preferenze liquidatorie. Tale numero si riduce a 47, pari al
2,2% del totale, se si include anche la contemporanea presenza dei diritti
di covendita. Questi numeri svelano che, al di là dei dati aggregati sulla
costituzione di startup innovative forniti al pubblico da fonti ministeriali
e dalla stampa specializzata, il fenomeno delle startup VC-financed, che
sono quelle che effettivamente possono costituire il driver dell’innovazione
cui mirava la riforma legislativa, è ancora percentualmente marginale.
Sul piano dell’analisi statutaria, abbiamo trovato conferma empirica di
quanto ipotizzato in un precedente studio (Agstner, Capizzi e Giudici,
2020). Laddove non avevamo individuato particolari problemi di rece-
pimento della prassi contrattuale del VC-financing, abbiamo trovato una
sostanziale corrispondenza tra le clausole statutarie italiane e gli omologhi
modelli statunitensi. Questo è il caso delle previsioni disciplinanti le pre-
ferenze liquidatorie, tutte caratterizzate tra l’altro da un elevato tasso di
standardizzazione, dovuto anche al coinvolgimento di un ristretto numero
di notai nella relativa elaborazione statutaria. Lo stesso vale per gli stru-
menti finanziari (partecipativi e non) convertibili in quote, che nel design
statutario replicano funzionalmente i SAFE dell’esperienza statunitense.
A maggior ragione, lo stesso vale per i meccanismi di conversione delle
quote in altre di diversa categoria, per cui pure non emergono ostacoli.
Nelle ipotesi in cui avevamo invece messo in luce l’esistenza di vincoli
eccessivi posti dall’ordinamento italiano, riscontriamo difficoltà nel rece-
pimento degli schemi contrattuali del VC-financing, a cui consegue una
scarsissima standardizzazione. Di ciò vi è traccia evidente nelle clausole
antidiluitive. L’analisi degli statuti mostra che non vi è un preciso alline-
amento rispetto agli schemi statunitensi. Un ristretto numero di statuti,
probabilmente timoroso di incappare nell’interpretazione che vieta la
«sproporzione estrema» nei conferimenti non proporzionali, tenta di rag-
giungere lo stesso risultato di protezione utilizzando però un meccanismo
diverso, quale quello dell’aumento di capitale (gratuito o a pagamento)
dedicato. Pur potendo questo meccanismo presumibilmente condurre in
astratto a risultati funzionalmente analoghi, esso si deve confrontare con
alcuni ineludibili vincoli normativi (necessaria proporzionalità ai sensi
dell’art. 2481-ter c.c. per l’aumento gratuito e diritto di recesso in caso di
esclusione dell’opzione ai sensi dell’art. 2481-bis c.c. per quello a paga-
mento), che ne mettono in pericolo l’efficace funzionamento. Si conferma,
perciò, l’assunto teorico della non totale riproducibilità dei meccanismi del
VC-financing a causa della presenza di norme imperative, esplicitamente
tali o ricavate per via interpretativa, non adatte all’architettura contrattuale
della materia in questione.
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
252
La ricerca ha confermato l’importanza delle clausole in tema di diritti di
covendita, che certamente sono essenziali nell’architettura di queste ope-
razioni, ma che dal nostro campione risultano oramai adottate anche da
società non finanziate da un investitore esterno e ampiamente consolidate
nella loro formulazione. Il consolidamento comprende anche il costante
riferimento alla necessità che il prezzo di trascinamento rispetti il prin-
cipio di equa valorizzazione della quota, anch’esso frutto di ossequio a
una norma imperativa dedotta in via di interpretazione analogica dalla
disciplina del recesso e capace potenzialmente di creare problemi ad una
rapida liquidazione dell’investimento da parte dei fondi VC.
Prima di concludere riteniamo necessario indicare alcuni possibili limiti
della nostra ricerca. In primo luogo, non abbiamo avuto accesso a tutto il
set documentale che caratterizza le operazioni di VC-financing: la nostra
analisi si è basata esclusivamente sugli statuti, che costituiscono una parte,
l’unica pubblicamente accessibile, di quel set documentale. Abbiamo illu-
strato le ragioni di tale scelta, ma ciò non toglie che l’ideale sarebbe stato
un accesso completo a tutti i documenti. In secondo luogo, non abbiamo
analizzato gli statuti redatti col modello standard, nell’assunto che non
costituisca il vero modello di riferimento per gli investitori esterni. Questo
assunto è supportato dalla nostra analisi testuale, all’esito della quale è
emerso che nessuno statuto standard tra quelli del nostro campione con-
tiene, oltre ai diritti di covendita, alcuna delle clausole caratterizzanti che
abbiamo considerato in questo lavoro. Naturalmente è possibile che alcune
operazioni abbiano invece utilizzato il modello standard collocando in sede
parasociale le predette clausole caratterizzanti. In terzo luogo, l’analisi
del campione è stata effettuata attraverso un elenco di parole chiave che
potrebbe non essere esaustivo. Infine, i software di OCR e di indicizzazio-
ne utilizzati sono di tipo commerciale e potrebbero non rappresentare il
massimo della tecnologia disponibile.
Nonostante questi possibili limiti, riteniamo che i risultati della nostra
ricerca siano significativi e forniscano il primo quadro sulla realtà italia-
na del VC-financing basato su un’analisi empirica della documentazione
contrattuale, confermando l’esistenza di problemi di disciplina che devono
essere, a seconda dei casi, affrontati dal legislatore o riconsiderati dagli
interpreti.
Antonio Capizzi, Sapienza Università di Roma, Facoltà di Giurisprudenza, Piaz-
zale Aldo Moro 5, 00185, Roma, antonio.capizzi@hotmail.it
Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
253
Peter Agstner, Libera Università di Bolzano-Bozen, Facoltà di Economia e Ma-
nagement, Piazza Università 1, 39100 Bolzano, peter.agstner@unibz.it
Paolo Giudici, Libera Università di Bolzano-Bozen, Facoltà di Economia e Ma-
nagement, Piazza Università 1, 39100 Bolzano, paolo.giudici@unibz.it
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Il design contrattuale delle startup VC-finanCed in Italia
255
APPENDICE
Lista delle parole chiave. Tutti i termini declinabili sia al singolare sia al plurale, oltre che quelli (perlopiù
stranieri) in cui graficamente i due termini potrebbero o meno essere separati da trattino (ad es. drag-
along), sono stati ricercati in entrambe le possibilità.
1. 1349
2. accodamento
3. anti-diluizione
4. bad leaver
5. business angels
6. cambio di controllo
7. casting
8. categoria di quota A
9. categorie di quota B?
10. convertibile
11. convertible
12. covendita
13. co-vendita
14. crowdfunding
15. dilui
16. diluizione
17. diritti particolari
18. diritto di nominare
19. diritto di seguito
20. diritto particolare
21. diritto di sottoscrizione
22. distribuzione
23. drag-along
24. early stage
25. equa valorizzazione
26. equo valore
27. esperto indipendente
28. evento di distribuzione
29. evento di liquidazione
Antonio Capizzi, Peter Agstner e Paolo Giudici
256
30. evento di liquidità
31. exit
32. founder
33. full ratchet
34. good leaver
35. investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale
36. liquidation preference
37. liquidazione preferenziale
38. liquidity events
39. lock up
40. mandato a vendere
41. modello uniforme
42. offerta pubblica
43. opzione
44. opzione di conversione
45. patrimonio netto di liquidazione
46. portafoglio
47. preferenza
48. preferenze di liquidazione
49. preferenze liquidatorie
50. prezzo predefinito
51. private equity
52. quote A
Article
Full-text available
This is the first European study to conduct an extensive empirical research of startup charters. Our aim is to test whether the significant reforms of the law on the Italian società a responsabilità limitata (the GmbH -type limited liability company) were successful in making Italian corporate law more amicable towards startups and venture capital contracting techniques. We explain why, in the Italian context, charters provide significant information on financing deals, and we analyse more than 5000 charters of Italian startups. We find almost 200 charters that reflect the features predicted by the financial contracting theory, albeit with some significant variations in comparison to the US experience. The main one is that convertible preferred shares are not used. We report the large use of (non-convertible) participating preferred shares but also the increasing adoption of preferred shares that are functionally equivalent to US convertible non-participating preferred shares. The absence of convertibility mechanisms also explains the different structure of antidilution clauses in the Italian market. Hybrids are used to provide SAFE- and KISS-like contractual solutions. Co-sale clauses (tag-along and drag-along) are widespread and also highly standardized. US-like vesting schemes are equally observed. Some of the peculiarities we report depend on Italian law idiosyncrasies that are mainly the product of doctrinal constructions. However, corporate practice is pushing the envelope in its efforts to adapt Italian charters to startuppers’ and investors’ needs. From this standpoint, the Italian reforms look, though not completely, successful. Startup law appears to be transforming the European corporate law tradition.
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Full-text available
This is the first European study to conduct an extensive empirical research of startup charters. Our aim is to test whether the significant reforms of the law on the Italian società a responsabilità limitata (the GmbH-type limited liability company) were successful in making Italian corporate law more amicable towards startups and venture capital contracting techniques. We explain why, in the Italian context, charters provide significant information on financing deals, and we analyse more than 5,000 charters of Italian startups. We find almost 200 charters that reflect the features predicted by the financial contracting theory, albeit with some significant variations in comparison to the US experience. The main one is that convertible preferred shares are not used. We report the large use of (non-convertible) participating preferred shares but also the increasing adoption of preferred shares that are functionally equivalent to US convertible non-participating preferred shares. The absence of convertibility mechanisms also explains the different structure of antidilution clauses in the Italian market. Hybrids are used to provide SAFE- and KISS-like contractual solutions. Co-sale clauses (tag-along and drag-along) are widespread and also highly standardized. US-like vesting schemes are equally observed. Some of the peculiarities we report depend on Italian law idiosyncrasies that are mainly the product of doctrinal constructions. However, corporate practice is pushing the envelope in its efforts to adapt Italian charters to startuppers’ and investors’ needs. From this standpoint, the Italian reforms look, even though not completely, successful. Startup law appears to be transforming the European corporate law tradition
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Full-text available
This paper investigates the implications of the fair value protections contemplated by the standard corporate contract (i.e., the standard contract form for which corporate law provides) for the entrepreneur–venture capitalist relationship, focusing, in particular, on unavoidable value-destroying trade sales. First, it demonstrates that the typical entrepreneur–venture capitalist contract does institutionalize the venture capitalist’s liquidity needs, allowing, under some circumstances, for counterintuitive instances of contractually-compliant value destruction. Unavoidable value-destroying trade sales are the most tangible example. Next, it argues that fair value protections can prevent the entrepreneur and venture capitalist from allocating the value that these transactions generate as they would want. Then, it shows that the reality of venture capital-backed firms calls for a process of adaptation of the standard corporate contract that has one major step in the deactivation or re-shaping of fair value protections. Finally, it argues that a standard corporate contract aiming to promote social welfare through venture capital should feature flexible fair value protections.
Article
Zusammenfassung Wagniskapitalinvestitionen führen zu einer Funktionsänderung von Geschäftsanteilen. Bei den international verbreiteten Vesting-Regimen werden Geschäftsanteile insbesondere auch zu Finanzierungs- und Vergütungsinstrumenten. Die Verbreitung und Akzeptanz von diesbezüglichen Musterklauseln im Markt lässt auf Handelsbräuche schließen, die auch für die rechtliche Beurteilung der Beteiligungsregime maßgeblich sein müssen. Die für herkömmliche Ausschlussklausen entwickelte Hinauskündigungsrechtsprechung kann um ein wirtschaftssoziologisches Moment modifiziert werden, um die Interessen der Beteiligten besser abzubilden. Es sollte eine Wirksamkeitsvermutung bei marktüblichen Beteiligungsklauseln gelten und nicht mehr im Einzelfall nach einem sachlichen Grund für den Gesellschafterausschluss gesucht werden. Dieser wirtschaftsnahe Ansatz kann Rechtssicherheit steigern und das deutsche Gesellschaftsrecht im internationalen Wettbewerb stärken.
Article
Résumé Cet article compare les performances des investissements en capital risque aux États-Unis et en Europe au regard de la valeur créée au cours du cycle d’investissement par les entreprises financées par ces fonds en capital risque. Nous montrons que les entreprises financées par des investisseurs américains créent significativement plus de richesse que celles financées par des investisseurs européens. Nous trouvons des différences dans les contrats, notamment sur la fréquence des rounds d’investissement et sur la création de syndicats, et montrons que celles-ci expliquent partiellement les différences de performances. Nous trouvons aussi que les investisseurs américains investissant en Europe n’obtiennent pas de meilleures performances que les investisseurs européens. Les entreprises de pays européens ayant un système juridique de « Common Law » et celles de pays ayant un système juridique codifié obtiennent des performances similaires. De même, le développement des marchés financiers et des aides à l’investissement en capital risque n’ont pas d’impact sur les performances. Les richesses crées par les entreprises dont les investisseurs sont sortis lors d’une introduction en bourse sont identiques des deux cotés de l’Atlantique. Par contre, concernant les sorties lors de ventes de gré à gré, les entreprises européennes sous-performent les entreprises américaines. De manière globale, la sous-performance des investissements en capital risque en Europe relativement aux États-Unis est attribuée au segment des entreprises ayant obtenus des mauvaises performances.
Article
This article examines venture capital (VC) investments and exits in the United States and the EU-15 countries throughout the period 1985-2008, while further classifying firms into six distinct industries. It considers the asymmetry in VC success when separately analyzing investment in seed and startup versus more mature firms. It also seeks to understand the institutional features and the legal environment associated with successful VC financing in the United States and in Europe. The results suggest that, inasmuch as some of the differences in performance can be explained by country-specific factors (in particular, when considering start-up/seed and early-stage firms), there are also important idiosyncratic differences across industries. Important differences across industries also emerge when considering infant versus mature firms, and their preferred exit.
Article
This article provides a comprehensive theoretical and empirical literature review of venture capital contracts. This outlines the differences between theoretical and practical uses of contract designs; that is, (1) how does the choice of securities give rise to different adverse selection problems in terms of attracting different types of entrepreneurial companies; how does the choice of securities in conjunction with cash flow and control rights provisions affect (2) the effort levels by the entrepreneur and the investor; and (3) ultimately affect entrepreneurial outcomes. This article highlights the major discrepancies between theory and practice and points out potential avenues for further research.
Article
This paper seeks to identify the core of the U.S. venture capital contracting model, and then assess the extent to which the model provides guidance in engineering venture capital markets in other countries and, in particular, in identifying a viable role for government in assisting that project. All financial contracts respond to three central contracting problems: uncertainty, information asymmetry and opportunism in the form of agency costs. The special character of venture capital contracting is shaped by the fact that investing in early stage, high technology companies presents these problems in extreme form. The genius of U.S. venture capital contracting lies in the use of powerful incentives coupled with powerful monitoring for all participants in the process, the braiding of the investor/venture capital fund and venture capital fund/portfolio company contracts, especially with respect to the role of exit and reputation, and the critical role of implicit contracts, especially through the reputation market, to support the dense set of explicit contracts comprising the structure of venture capital contracting. The paper then illustrates the implications of this analysis through consideration of three different government programs - a remarkably unsuccessful early effort in Germany; a more recent, more successful program in Israel; and a newly launched program in Chile.
Article
An implicit dichotomy of the corporation exists in legal scholarship. On one side of the dichotomy rests the publicly-held corporation suffering from a significant conflict of interest between its managers and dispersed shareholders; on the other side, the closely-held corporation plagued by intershareholder conflict. This Article argues that understanding the agency problems that can exist within a firm demands a rejection of this traditional dichotomy and the theories of the firm built upon it. Using venture capital (VC) finance, this Article demonstrates how this dichotomy obscures how all firms - public and private - often face the same agency problems. Start-up companies receiving VC investment are uniquely situated to examine this dichotomy, as they represent closely-held firms structured to transition quickly to public equity markets. Additionally, by separating investment from company management, VC investment creates many of the investor-manager conflicts inherent in public companies. By analyzing VC investment contracts, this Article reveals that start-up companies are indeed plagued by both vertical agency problems between investors and managers and horizontal agency problems among VC investors themselves. Significantly, academic scholarship has ignored the potential for interinvestor conflicts, using instead an analytical framework associated with public corporations that focuses exclusively on investor-manager agency problems. In so doing, VC scholarship provides a clear example of how the dichotomy of the corporation forces scholars to wear blinders in analyzing the agency problems in firms. To understand the full scope of these problems - and their implications for corporate investors - a new model of the firm is required that applies to all firms, public and private. This Article outlines this dynamic agency cost model and articulates its implications for corporate investors, corporate scholars, and corporate law in general.
Article
This paper focuses on exits by venture capitalists from their portfolio companies. Using a unique self-collected data set, we provide new stylized facts about the venture capital industry in Europe and in the US. Although there are numerous similarities between the US and Europe, there are also important differences, in particular with respect to the duration of exit stage, the use of convertible securities, the replacement of former management and deal syndication. Much of these differences can be brought to a common denominator, namely that European venture capitalists face a less liquid market for the human resources that go into the ventures as well as for the exit opportunities. The most striking difference is with respect to the use of convertible securities, which are by far less often used in Europe as compared to the US. Overall, we show that European venture capitalists monitor less. Finally, the paper analyzes the impact of venture capital firms' characteristics and the use of different monitoring devices (stage financing, board representation, use of convertible securities and reporting of activities) on the exit route. Some aspects of close monitoring seem to significantly affect the venture's likelihood of going public.