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Giulio Lughi
La corsa al digitale negli ambienti artistici:
entusiasmi e contraddizioni
Pubblicato in “Agenda Digitale”, 2 dicembre 2020
https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/la-corsa-al-digitale-negli-ambienti-
artistici-entusiasmi-e-contraddizioni/
Artisti, gallerie, musei, istituzioni stanno scoprendo - con qualche anno di ritardo -
l’esistenza (e le potenzialità) del digitale. Complice la riduzione forzata delle presenze
dal vivo dovuta alla pandemia, assistiamo al fiorire di iniziative di varia natura e diverso
spessore culturale: dalle semplici gallery di immagini, all'utilizzo di piattaforme per
webinar e talk, all’allestimento di database per sviluppare le vendite online, alla
promozione (o produzione) di format innovativi di visita immersiva: un ventaglio di
applicazioni del digitale che va dal semplice uso "di servizio" alle sperimentazioni più
creative. Come interpretare e catalogare questi fenomeni?
Indice degli argomenti
Cultura digitale
Tecnologie e terminologie
Ambienti partecipativi
Strategie espositive
Conclusioni
Cultura digitale
Una criticità di fondo che caratterizza gli ambienti artistici e culturali è la
mancanza di cultura digitale, intesa naturalmente non come scarsa conoscenza delle
tecnologie (che non è compito loro), ma come difficoltà o incapacità di ripensare la
propria attività nella prospettiva del digitale. Occorre insistere su questo punto: non si
tratta della mancanza di competenze specifiche, ma della mancanza di progettualità e
visione complessa di lungo periodo.
Eppure gli esempi da seguire non mancano: già nel 2010 la Smithsonian Institution
aveva elaborato un piano strategico intitolato Digitization Strategic Plan, nel quale erano
affrontate in maniera integrata le problematiche implicite in un progetto di questa portata:
la conversione dei materiali analogici in digitale; la produzione originale di materiali in
formato digitale; l’identificazione di formati standard; l’aggiornamento delle tecnologie
e dei metadati per prevenire la perdita di informazioni; l’approccio formativo in grado di
fidelizzare e mantenere il parco utenti; l’attenzione alle forme social di partecipazione e
condivisione dell’esperienza; i criteri per la individuazione e dismissione del materiale
obsoleto.
Come si vede un vero e proprio cambio di paradigma, adottato anche dalla Tate
Gallery che elabora un documento intitolato Tate Digital Strategy 2013–15: Digital as a
Dimension of Everything, dove la focalizzazione su “Everything” indica l’approccio
globale al problema: mettere tutta la ricchezza dei contenuti disponibili alla portata dei
pubblici attuali e futuri, creare e sostenere i gruppi di utenti, sviluppare al massimo tutte
le possibilità di rientro economico. Un vero e proprio approccio strategico nel senso che
il digitale non viene più visto come strumento occasionale di intervento, ma come il
nuovo ecosistema di tutta l’organizzazione nel suo complesso.
Malgrado queste (e altre) anticipazioni, gli ambienti artistici e culturali hanno
sempre opposto notevoli resistenze all'avvento del digitale: l’ambiente creativo, degli
artisti, in molti casi legato a tecniche e linguaggi pre-digitali; l’ambiente documentale-
gestionale, dei musei e delle istituzioni, in forte ritardo nell'adozione di piattaforme
digitali per la gestione dei dati e l'organizzazione e valorizzazione dei patrimoni
archiviati; l’ambiente critico, degli storici dell'arte e curatori, che cercano di mantenere
accuratamente distinti i linguaggi espressivi tradizionali dalle potenzialità offerte dal
digitale.
Ora paradossalmente - ripeto: complice la pandemia, che però ha solo accelerato un
processo già avviato - assistiamo ad un drastico cambio di rotta, per cui il mondo
artistico-culturale si è lanciato in una serie di inziative digitali che per forza di cose
mostrano una forte dose di improvvisazione, con risultati a volte solo ingenui, altre
decisamente discutibili.
Terminologie e tecnologie
Una spia inequivocabile dell’approccio approssimativo è certamente la
terminologia: con le dovute eccezioni (poche) i termini “digitale”, “multimediale”,
“crossmediale”, “transmediale”, “virtuale”, “immersivo”, “interattivo”, ecc. sono usati
disinvoltamente come quasi-sinonimi, senza preoccuparsi del fatto che indicano cose
diverse; e troppo spesso un semplice slideshow di immagini online viene spacciato come
“multimedia”, o il video girato per una mostra è definito “visita virtuale”.
In particolare è “virtuale” il termine-ombrello che si sta imponendo come etichetta
generalizzata (e generica) di apertura al digitale: un virtuale che naturalmente non ha
niente a che fare con le specifiche tecnologiche della Virtual Reality (VR), né con i
dibattiti teorici che hanno accompagnato questo fenomeno da ben prima degli anni
Duemila, ma significa banalmente che si stanno usando le potenzialità comunicative
offerte dal digitale e dal web. Ecco che allora anche un importante soggetto museale come
il MoMA definisce “Virtual Views” dei semplici accessi online al materiale d’archivio, o
chiama “Virtual Cinema” il suo servizio di film in streaming. E non è che un esempio,
nel proliferare generalizzato di Virtual Room, Virtual Exposition, Virtual Gallery, ecc.
Indubbiamente, a livello di mentalità diffusa, si fa sentire il peso di un player
mediatico come Google, che attraverso il suo progetto Arts & Culture ha sdoganato negli
ambienti artistici la fruizione “virtuale” del patrimonio culturale, soprattutto mediante
due approcci indubbiamente suggestivi: in primo luogo la possibilità di vedere le opere
in alta risoluzione, consentendo un effetto zoom di grande impatto visivo; in secondo
luogo attivando la visione (foto o video) a 360° dei beni artistici e culturali, con un effetto
di immersività certamente meno tecnologico della Virtual Reality, ma per molti aspetti
più realistico e più “normale” dal punto di vista dello spettatore.
Passando ora dalle terminologie alle tecnologie, occorre sottolineare che la Virtual
Reality (quella vera, con immagini di sintesi, visori, dataglove, ecc) è stata certamente
una delle scommesse più suggestive di rinnovamento del mondo dell’arte, dando luogo,
ad esempio, a progetti ambiziosi come il Klimt’s Magic Garden. A Virtual Reality
Experience del filmmaker e videoartista Frederick Baker, presentato al MAK di Vienna,
sviluppato utilizzando gli schizzi preparatori di Klimt per un celebre mosaico realizzato
poi al Palazzo Stoclet di Bruxelles.
Tuttavia bisogna riconoscere che si tratta di una scommessa in parte persa: in
primo luogo per ragioni economiche, in quanto il mondo dell’arte e della cultura non
dispone dei budget necessari per sviluppare sistematicamente costosi progetti di VR, a
differenza di quanto possono permettersi le industrie delle applicazioni simulativo-
immersive, o la stessa industria dei videogiochi; in secondo luogo per ragioni socio-
culturali, in quanto la “pesantezza” dei visori e di altri dispositivi invasivi risulta
fortemente limitante (e di fatto limitata ad esperimenti avanzati tecnologicamente, ma di
nicchia) rispetto alla “leggerezza” e libertà di movimento che si associa alla naturalezza
dell’esperienza estetica (vedi il fallimento del cosiddetto “cinema 3D”, o dei Google
Glasses); in terzo luogo perché la complessità della VR non risponde alle necessità
comunicative ed estetiche di un progetto culturale, restando invece confinata nel limbo
della sperimentazione tecnologica fine a se stessa. Se aggiungiamo il fatto che -
nonostante il battage pubblicitario - i visori non hanno avuto il successo commerciale
sperato, è chiaro perché oggi accanto alla VR “pura” siano fiorite molteplici etichette e
sperimentazioni (Mixed Reality, Extended Reality, Enhanced Reality, Hybrid Reality,
Video 360°, Real Time Experience) che diluiscono l’impatto “pesante” della VR
aprendosi a modalità di fruizione immersive e tridimensionali più vicine all’esperienza
“leggera” dell’utente.
Tra queste modalità è da segnalare in campo artistico la Realtà Aumentata, una
forma di virtualità a schermo caratterizzata da leggerezza e non-invasività, con
esperimenti come quelli proposti dalla piattaforma Acute Art, che consente - grazie alla
visualizzazione via smartphone - di collocare “oggetti” virtuali, progettati da importanti
protagonisti dell’arte contemporanea, nei più diversi ambienti; o il progetto Arboree
Volanti di Simone Berti pensato per diverse collocazioni ambientali. Esperimenti molto
simili a quello proposto da Louis Vuitton con il progetto Objets Nomades, che permette
di collocare, sempre via smartphone, negli ambienti domestici gli articoli di design
proposti dalla casa francese: un caso molto interessante di convergenza sempre più stretta
tra mondo dell’arte e mondo della moda.
Sempre nel campo delle tecnologie va considerato l’impiego - non molto frequente
- dell’intelligenza artificiale (di cui ho già trattato su questa rivista); come pure
l’interscambio con il mondo dei videogiochi, da cui la sperimentazione artistica importa
a volte strumenti come Unity o Unreal Engine per la visualizzazione immersiva 3D;
mentre resta confinato in un ambito ristretto di fruitori, con una vaga sfumatura nerd,
l’utilizzo delle piattaforme che consentono la presenza di un avatar del visitatore
all’interno degli spazi artistici, come Second Life, Altspace VR, o Sansar. Più
interessanti, anche come impatto culturale in ambito musicale, le sperimentazioni Live
VR che mescolano la dimensione virtuale con le performance dal vivo, come il
concerto Alone Together di Jean-Michel Jarre in cui l’esperienza dello spettatore si apre
a nuovi territori estetici.
In prospettiva futura, o forse meglio futuribile, va considerato infine il fatto che gli
sviluppi tecnologici del digitale (capacità di processing, larghezza di banda, cloud
computing, IoT, device 5G, immersività a 6 gradi di libertà - 6DOF) consentiranno di
lavorare sul rendering in real time a livelli qualitativi inimmaginabili poco tempo fa,
aprendo scenari di grande interesse ma tutti da verificare, soprattutto per la loro
effettiva funzionalità all’ambito artistico.
Ambienti partecipativi
Il digitale sta rispondendo all’esigenza, pressante soprattutto nel sistema dell’arte
contemporanea, di stabilire e mantenere contatti e canali di comunicazione tra gli addetti
ai lavori, e tra questi e i potenziali pubblici: ecco quindi il fiorire di piattaforme
partecipative, utili per sostituire le (o affiancarsi alle) fiere e manifestazioni, dove
accanto all’aspetto artistico è preponderante quello commerciale, un tema sempre più
studiato nelle sue varie implicazioni. Uno degli esempi storici di piattaforma partecipativa
è CaFÉ, che dal 2005 - attraverso varie evoluzioni - favorisce negli Stati Uniti il lavoro e
i contatti di artisti e istituzioni funzionando da database dei progetti ma anche da
infrastruttura finanziaria, organizzativa e di indirizzo, sostenendo la ricerca e
l’interscambio tra i soggetti partecipanti, dando supporto alla programmazione di mostre
e attività, segnalando opportunità di finanziamento e di partecipazione a bandi.
Più limitate, nel senso che rimangono attive soltanto per il ristretto periodo di quella
che doveva essere la fiera fisica, le Online Viewing Rooms di Art Basel: sono inziative
più limitate anche in senso funzionale, nel senso che si tratta semplicemente di classiche
strutture di database, con possibilità di ricerca attraverso filtri (galleria, artista, data,
tipologia, provenienza), accompagnate da una chat online dedicata. Simili (nel senso di
limitate nel tempo e nella funzionalità) anche le proposte di miart, la fiera d’arte
contemporanea milanese, e di Artissima a Torino. Quest’ultima tra giugno e luglio 2020
ha lanciato il progetto Fondamenta, ripreso a novembre dello stesso anno come Artissima
XYZ, “inedita piattaforma cross-mediale che trasforma le sezioni curate della fiera in
un’immersiva esperienza digitale” dove “grazie ai numerosi contenuti interattivi [...]
vivrete a trecentosessanta gradi la genesi creativa di alcune delle opere presentate dalla
sezione in uno speciale incontro virtuale”: in realtà anche qui “immersivo”, “cross-
mediale”, “interattivo”, “360 gradi”, “virtuale” sono termini usati in senso generico per
dare una spruzzata di novità alla tradizionale consultazione del database, peraltro molto
ben organizzato, con un’interfaccia di consultazione intuitiva, e arricchito da interessanti
materiali aggiuntivi.
Diverso invece l’approccio di June Art Fair, ospitata sulla piattaforma online della
potente galleria internazionale Hauser & Wirth. Qui non si tratta di esposizioni
temporanee, ma di una vera e propria repository di dati destinata a crescere nel tempo,
e con una significativa inversione dei rapporti di forza: non è più la galleria che va alla
fiera, bensì è la fiera che diventa occasionale evento online nell’ambito delle attività della
galleria.
Il tutto nella prospettiva della “corsa all’oro dei dati” di utenti e collezionisti,
approccio ormai ampiamente diffuso nel mondo digitale industriale e amministrativo ma
ancora estraneo al mondo dell’arte, ad ulteriore riprova della sua posizione attardata. E
ancora, su questa linea, la proposta di Artland: qui non si tratta di un soggetto del mondo
artistico, come una fiera o una galleria, ma di un soggetto imprenditoriale neutro il quale
svolge funzione di service, raccogliendo e organizzando l’offerta, l’esposizione e la
commercializzazione di opere d’arte, e garantendo i contatti tra espositori, collezionisti e
acquirenti occasionali.
Strategie espositive
Tralasciamo qui le applicazioni più ovvie e scontate del digitale, come l’ormai
dilagante proliferare di webinar, internet talk, tavole rotonde "virtuali", lezioni online,
ecc. che genera un overload informativo fuori dalla portata degli stessi addetti ai lavori;
così come tralasciamo i proclami di “approdo sui social” troppo spesso vantati dalle
istituzioni artistiche come prova della loro apertura al digitale; o i cataloghi online, quasi
mai strutturati in database con indicatori semantici; o la semplificazione dei processi
amministrativi come la possibilità di acquistare i biglietti online: lodevoli iniziative, che
tuttavia da tempo potevano essere allestite sull’esempio di istituzioni come il Prado o il
Rijksmuseum, e che contrabbandate oggi come grandi passi avanti tecnologici appaiono
purtroppo solamente come indizi di quel ritardo culturale digitale di cui parlavo all’inizio.
Piacerebbe vedere invece sperimentazioni che rielaborano in chiave creativa
l’utilizzo dei media digitali, come il progetto Love Stories - A Sentimental Survey by
Francesco Vezzoli per Fondazione Prada che reinterpreta le abitudini e le ossessioni di
presenza su Instagram, forzando l’impiego della piattaforma social ben oltre il suo utilizzo
standard.
Su un piano generale, un ambito interessante verso cui molte istituzioni si stanno
muovendo è la visualizzazione tridimensionale dei propri spazi e quindi delle mostre
allestite. È il caso ad esempio del progetto VSPACE di Massimo De Carlo, galleria che -
previa registrazione - consente di visitare in modalità immersiva alcune delle mostre
organizzate. Un altro caso è quello di Hauser & Wirth, galleria già citata sopra, che
propone le sue Online Exibitions: alcune sono semplici prodotti multimediali, sul modello
dei longform giornalistici; altre, chiamate Virtual Reality Exibitions, sono invece
visualizzazioni immersive in 3D. Il caso di Hauser & Wirth è interessante in quanto sta
sviluppando nel proprio laboratorio di ricerca ArtLab uno strumento specifico di
modellizzazione 3D, ricavato contaminando tecnologie impiegate in architettura con le
metodiche di progettazione di videogiochi, in modo da restituire accuratamente la
percezione, la sensazione e la presenza dinamica dello spettatore nella galleria.
Ma si tratta di un caso praticamente unico: il modello che si sta diffondendo vede
invece dei soggetti industriali puramente tecnologici offrire - con piani commerciali
diversificati - software specifici o piattaforme autoriali su cui caricare le proprie mostre.
È il caso ad esempio di Kunstmatrix, che raccoglie ormai diverse centinaia di mostre
immersive; o di Metareal, utilizzato per la visita virtuale di MEET, centro di cultura
digitale appena inaugurato a Milano; o di Matterport, piattaforma complessa con un
sistema proprietario di scansione fotografica, che garantisce una modalità di fruizione
simile a Street View ma con molta maggiore fluidità, e con la possibilità di intervenire in
editing con la sovrapposizione di immagini dettagliate e testi esplicativi. Orientata invece
in senso non commerciale di libero accesso la piattaforma Mozilla Hubs, sviluppata come
location immersiva per interazioni e ambienti sociali, ma già utilizzata ad esempio da
Trieste Contemporanea per articolati progetti espositivi che connettono diverse location
espositive, caratterizzati da una grafica minimal ed una intuitiva semplicità d’uso.
Accanto a queste forme tecnologicamente avanzate - dove però il processo di
fusione delle immagini (lo stitching, in termini tecnici) conferisce al prodotto un tono
artificiale, una sorta di “aria da videogioco” a volte straniante - ci sono efficaci prodotti
di esplorazione immersiva basati su semplici immagini sferiche, dove l’uso
dell’immagine fotografica non rielaborata restituisce un confortevole senso di realismo
visivo: come la Visita Virtuale dell’Hermitage di San Pietroburgo; o il progetto da me
sviluppato per la mostra fotografica di Letizia Battaglia all’Istituto Italiano di Cultura di
Berlino, dove la visita a 360 gradi si colloca all’interno di un articolato sistema di
visualizzazione interattiva.
Un posto a sé hanno gli esperimenti in cui il digitale entra nel campo della
spettacolarizzazione dell’arte, uscendo dalla dimensione solo virtuale per recuperare la
componente fisica del museo e dando vita alle cosiddette experience, videoesposizioni
multimediali immersive, organizzate in ampi edifici (spesso post-industriali) dove pareti,
soffitti e pavimenti diventano schermi per proiezioni a grande scala di immagini e video
con accompagnamento musicale surround: iniziative a volte discutibili, e spesso discusse
da un punto di vista “puristico”, che tuttavia hanno un forte impatto sul pubblico e
richiedono quindi uno sforzo di inquadramento teorico.
È il caso del progetto Meet Vincent Van Gogh, prodotto e gestito direttamente dal
Van Gogh Museum di Amsterdam: un caso esemplare di come il digitale possa estendere
il campo d’azione di un’istituzione artistica, andando ben al di là della semplice
riproduzione delle opere per arrivare invece ad un prodotto multimediale interattivo e
immersivo esportabile in tutto il mondo, una proposta espositiva fortemente innovativa
che ha la caratteristica di essere anche un modello di business.
Un passo ulteriore lo compie Team Lab, un collettivo internazionale di artisti che
non riproduce opere d’arte esistenti ma propone autorialmente un’esperienza visiva
globale a tutto campo, caratterizzata da digitalizzazione, immersività, visione soggettiva
dello spettatore, ibridazione estetica totale, con evidenti contaminazioni con la
dimensione ludica dei parchi a tema e di divertimento. Ha sede a Tokyo, dove ha fondato
il primo museo digitale, ma esporta le sue attività in tutto il mondo con sedi permanenti
e con esposizioni temporanee.
E infine, tornando nel campo della fruizione desktop, va citata una proposta
sperimentale di Google Experiments, l’esplorazione della Piana dei Templi di Bagan, un
progetto articolato che prevede la scansione di dati di diverso genere (fotogrammetrici,
GIS, LIDAR) per offrire la visita virtuale di un esteso sito archeologico in Birmania, con
la consultazione di materiali informativi di vario genere, l’eplorazione immersiva in
prima persona all’interno dei templi, la possibilità di esplorare la mappa del territorio:
un’esperienza fra informazione, visualizzazione e spettacolarizzarione che rappresenta
una delle possibili frontiere avanzate del digitale applicato ai beni culturali.
Conclusioni
Come si è visto, il digitale esercita una forte suggestione sugli ambienti artistici, in
alcuni casi solamente a livello superficiale, puramente grafico: ad esempio, il progetto
di identità visiva di Artissima 2020 utilizza le tipiche gabbie colorate dei programmi di
Facial Recognition e Object Detection, usati nei sistemi di video sorveglianza, ma lo fa
come semplice artificio visuale, senza alcun nesso con le effettive funzionalità di gestione
dati; un po’ come la pubblicità televisiva di fine Novecento esibiva la grafica “a finestre”
per imitare i sistemi operativi dei personal computer. Sono esempi di quanto il digitale
continui ad esercitare una seduzione di superficie, generando solo raramente un vero e
proprio cambio di paradigma a livello sistemico, e soprattutto senza rispondere ad
effettive esigenze di funzionalità comunicativa ed estetica.
Non è un problema di tecnologia, ma di cultura: come detto sopra, un tipico esempio
è la Realtà Virtuale (quella “pesante”, con i visori), che a varie ondate è stata riproposta
- fin dagli anni Novanta del Novecento - come profonda rivoluzione nel modo di
accostarsi ai prodotti mediatici e culturali, ma che in realtà non è mai uscita dalla sua
dimensione di nicchia “nerd”, non è mai evoluta fino a raggiungere un pubblico
generalista e di massa. Un esempio classico di incerta cultura digitale dei decisori
istituzionali, i quali cedono troppo spesso alle lusinghe dei fornitori di tecnologia, o ai
proclami dei media non specializzati, cavalcando spensieratamente l’onda dell’ultima
novità annunciata.
Un impatto positivo e fruttuoso del digitale nell’ambiente artistico sarà possibile
nel momento in cui - come è avvenuto nel mondo dell’amministrazione e dell’industria -
le sue potenzialità sistemiche e strutturali verranno introiettate in profondità e assimilate
dai decisori come una vera e propria cultura digitale.