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IL MANIFESTO DI TRIESTE SULLA CACCIA
Preambolo
A. Gli animali selvatici (la fauna) sono elementi vitali per l’ecosistema.
B. La loro conservazione è pertanto indispensabile.
C. L’utilizzo della fauna per finalità umane, esercitato in modo consapevole o anche
inconsapevole, può portare a conseguenze negative.
D. Esserne consci è solo un primo dovere per Homo sapiens.
E. Anche la fruizione apparentemente più innocua può avere effetti disdicevoli.
F. Pertanto, più che una politica di meri divieti è opportuno che Homo sapiens si dia delle
regole di comportamento basate su scienza e coscienza.
G. Corretta fruizione e conservazione non sono in contrasto.
Posto che la caccia non svolge più, in Italia, il suo antico ruolo di fonte essenziale di cibo, tuttavia nel
mondo contemporaneo c’è ancora posto per essa, a precise condizioni tecniche e scientifiche.
Le principali sono: conoscenza, utilizzo programmato scrupoloso e parsimonioso, sostenibilità,
trasparenza, contributo positivo alla gestione / conservazione degli ambienti naturali.
Non sono da sottovalutare comunque la storia, le tradizioni e il valore culturale della caccia, nelle loro
accezioni positive.
Inoltre, la caccia è in grado di fornire e produrre carni pregiate, come dimostra la situazione degli
Ungulati, stimabile in ordine ai due milioni di soggetti (sei specie) dei quali almeno 600-700 mila potrebbero
essere immessi, annualmente e ufficialmente, sul mercato.
La caccia e la gestione venatoria nel suo complesso, sono in grado di fornire informazioni e dati sulla
situazione faunistica delle specie oggetto di caccia (48), mediante una rete di volontariato già presente in
ogni territorio, la quale necessita solo di un congruo impianto organizzativo.
Non va dimenticato che il controllo di specie opportuniste, problematiche o invasive, effettuato
mediante il prelievo pur con metodologie venatorie, è spesso il più semplice da eseguire, tra l’altro con costi
minimi e buone ricadute sulla fiducia nei confronti dell’istituzione pubblica che le promuove.
Una prassi questa che tuttora è attiva nei Parchi Nazionali.
Dal punto di vista soggettivo, è alquanto logico che gli interventi a favore dell’ambiente (mantenimento,
riqualificazione, monitoraggio ecc.) siano tanto più facili e tanto meno onerosi se a eseguirli sono gruppi di
volontari, formati e consapevoli, nonché interessati alla permanenza di questi beni.
Tutto ciò, naturalmente, nella misura in cui la caccia ovvero la gestione venatoria nazionale si adeguino
ai principi e alle regole europee, alle quali il presente Manifesto fa implicitamente riferimento.
La legge sulla caccia
In base a queste premesse, va certamente fatta una valutazione critica della Legge Nazionale sulla caccia,
n. 157 del 1992 e successive modifiche, la quale è stata una modesta rivoluzione, per la caccia italiana ma,
sotto alcuni aspetti, anche positiva.
Essa ha confermato la definizione della fauna – l’aggettivo selvatica non è necessario: la fauna è per
definizione composta da animali selvatici – come proprietà indisponibile dello Stato, ha stabilito una qualche
forma di legame del cacciatore con il territorio, ha coinvolto alcuni portatori di interessi nella gestione delle
aree di caccia, ha attribuito all’ISPRA importanti funzioni di indirizzo scientifico.
Tuttavia, questa legge, all’epoca considerata innovatrice, mostra evidenti segni del trascorrere del
tempo. E precisamente, in senso generale:
A. non si inquadra in una normativa generale che disciplini l’utilizzo della fauna per finalità diverse,
come per esempio l’osservazione, la ricerca, l’economia, la necessità di conservare (chiamata
impropriamente “protezione”) ecc.;
B. è carente sia sotto l’aspetto giuridico (p.e. enunciazioni errate) che sotto il profilo biologico e tecnico;
C. è arretrata dal punto di vista della sensibilità sociale e culturale del Paese;
D. è inflazionata da una serie di errori sia tecnici che logici.
Inoltre, da un punto di vista più strettamente tecnico, interno cioè alla disciplina venatoria, le sue
manchevolezze sono ancor più eclatanti.
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Questa legge, che ancor oggi passa per “buona ma non applicata interamente” si avvale di definizioni
errate, contraddittorie e confuse, frutto di concezioni sorpassate e già allora erronee, oltre che di
improprietà terminologiche e lessicali dovute a una grave confusione fra le scienze del diritto e quelle
zoologiche.
La Legge Nazionale 157 e s.m.i., infatti:
1. non prevede un piano faunistico nazionale per le specie oggetto di prelievo venatorio;
2. non inquadra la caccia negli obiettivi nazionali di gestione faunistica, fattispecie che deve
comprendere anche le specie non oggetto di caccia;
3. stabilisce un regime del diritto di caccia slegato dalla proprietà dei fondi e non prevede forme di
compensazione per gli agricoltori che sopportano sui loro territori la fauna e l’attività venatoria;
4. ignora il concetto di “caccia di selezione” che è venuto nel frattempo a consolidarsi in tutta la
penisola, grazie al ritorno degli Ungulati in contingenti talvolta davvero imponenti, ignorando tra
l’altro la necessità di utilizzare munizioni a palla prive di piombo;
5. non prevede la ricerca degli ungulati feriti, per cause venatorie ed extravenatorie, fattispecie che è
essenzialmente un servizio a tutela del patrimonio faunistico;
6. non tiene conto della forte riduzione del numero dei cacciatori e di quella che con ogni probabilità vi
sarà nei prossimi anni, con positive conseguenze sul rapporto fauna cacciabile e prelievo;
7. non prevede in alcun modo la formazione permanente dei cacciatori (con la definizione di
competenze, soggetti accreditati ad erogare la formazione, contenuti e standard che sarebbero
necessari) e di tutti coloro che sono coinvolti nel processo di gestione delle aree di caccia;
8. non prevede il concetto, pur di competenza non esclusiva, di “animali problematici nonché di specie
alloctone” con relative misure di gestione;
9. non chiarisce la posizione giuridica degli Ambiti Territoriali di caccia nonché dei Comprensori alpini
di caccia, inserendovi, tra l’altro, nella composizione dei consigli direttivi figure / associazioni non
tecniche e potenzialmente ostili all’attività venatoria;
10. non disciplina in alcun modo - contrariamente a quanto accade in tutti i paesi europei ed extraeuropei
- l’attività sul territorio nazionale di cacciatori stranieri, europei in particolare, per attribuire alla
caccia un contenuto economico in chiave di turismo speciale e di qualità, naturalmente con regole
precise, p.e. sul modello sloveno;
11. si limita a citare il "falco" (termine improprio sotto il profilo sistematico) come mezzo consentito per
la caccia, senza prevedere modalità differenziate (accesso alla pratica, addestramento dei rapaci
ecc.), creando non poche disparità che ostacolano un processo di "formazione" di una comunità
coesa di praticanti;
12. non considera la possibilità di costruire una filiera di carni alternative agli allevamenti tradizionali
mediante la messa in commercio, previa verifica in appositi centri, delle spoglie degli Ungulati
abbattuti, nel rispetto del ruolo del cacciatore come produttore primario all’interno della normativa
europea, fiscale e sanitaria vigente;
13. non stabilisce in modo chiaro i limiti delle competenze statali e quelli delle competenze residuali
regionali, un problema che si è presentato ancor più pressante con l’abolizione delle Province;
14. sempre in seguito all’abolizione delle Amministrazioni provinciali, non ha colmato il vuoto normativo
creato nel settore, con la necessità di attribuire ad altri soggetti i compiti prima di pertinenza degli
Enti intermedi;
15. non stabilisce norme idonee a definire un concetto di responsabilità nella gestione del bene collettivo
rappresentato dalla fauna, come per esempio l’istituzione di Ambiti Territoriali di Caccia (o
Comprensori alpini di caccia), piccoli, quindi tali da rendere possibile "l'affezionarsi" al territorio
gestito;
16. ignora completamente l'obbligo di valutare il patrimonio faunistico non stabilendo l'obbligatorietà di
valutazioni numeriche ed un carniere annuale commisurato allo stato delle popolazioni;
17. non stabilisce i criteri di dipendenza, i percorsi formativi e le competenze specifiche delle figure
addette alla vigilanza;
18. non stabilisce norme relative alla pubblicazione annuale, sui siti istituzionali, dei dati di cui sopra
(stato delle popolazioni, piani di abbattimento, risultati);
19. non prevede la figura professionale del tecnico faunistico con percorso formativo adeguato;
20. non disciplina neppure e in modo organico il rapporto con il mondo scientifico e di ricerca.
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Si tratta, come si può vedere, di una legge datata e di impianto liberistico – ricreativo, inadeguata per
concretizzare i principi della conservazione del patrimonio faunistico nazionale e per la definizione ed il
raggiungimento di alti standard di sensibilità nei confronti della fauna e dell’ambiente.
Un po’ di storia
La caccia può essere considerata in modi molto diversi.
In Europa centrale e settentrionale la caccia è organizzata generalmente in funzione della conquista di
prede di prestigio. Nell’Europa mediterranea invece, la caccia è (ancora) concepita come libera raccolta.
I Romani infatti vedevano sostanzialmente la caccia quale necessità alimentare da affidare spesso a
persone di status sociale inferiore. Inoltre, poiché la società romana, nonché mediterranea in generale, era
legata all’agricoltura e all’allevamento, i selvatici erano nemici, non risorse. Ciò si tradusse nel concetto base
del diritto romano: la res nullius, che per definizione non ha padroni ma appartiene al primo che se ne
impossessa.
Con la caduta dell’Impero Romano d’occidente, le due culture, latina e germanica, si mescolarono ma, in
Italia, continuò a prevalere il concetto di res nullius, con una suddivisione sostanziale della caccia a seconda
delle classi sociali.
Per quelle altolocate, la caccia era svago virile, esercizio marziale e simbolo di stato. Per le classi
subalterne, la caccia era soprattutto una risorsa alimentare priva di regole particolari.
Un’eccezione a questo impianto generale furono le aree del Nord Est per lungo tempo collocate nell’area
geopolitica germanica e influenzate dall’ambiente culturale centroeuropeo, come le province di Trento e
Bolzano nonché la Venezia Giulia le quali, a partire dal XVIII secolo, assorbirono normative e tradizioni più
“tedesche”, infine austro-ungariche.
Con queste sostanziali differenze si pervenne, nel 1923, all’emanazione del primo Testo Unico (TU) sulla
caccia che abrogò tutte le leggi allora esistenti sul territorio nazionale, ben sette.
Venne riconfermata la res nullius ma furono introdotti tipici istituti venatori compresa la possibilità di
costituire Riserve comunali in alcune zone storiche (Nordest), sulla scorta della legislazione austro-ungarica.
Fu mantenuta tuttavia un’impostazione liberistico - ricreativa, ricalcata in parte su quella francese.
Le regole, ormai necessarie a causa del generale impoverimento faunistico, si limitarono a divieti più o
meno tecnicamente immotivati e mai legati a misure di carattere gestionale.
Nel 1939 uscì il TU n. 1016, legge di notevole riforma ma con non pochi difetti storici, per esempio la
riconferma dell’impostazione liberista nelle zone non sottoposte a riserva privata di caccia.
Più per convenienza politica che per convinzione furono mantenute le riserve sociali comunali e solo
sull’arco alpino.
Dopo un breve periodo di favore, dovuto anche al numero dei cacciatori (ben oltre al milione), la caccia
perse consensi e nel 1967 fu emanata una legge antiriservista, liberista e antigestionale, la 799.
Ciò portò il Nordest, che nel frattempo aveva ricevuto una discreta autonomia e cioè la Regione Trentino
Alto Adige (1964) e la Regione Friuli – Venezia Giulia (1965 e 1969) a cautelarsi e a dotarsi di leggi speciali.
Nel 1977 fu promulgata la legge nazionale 968, con la quale fu abolita la res nullius e la fauna divenne
patrimonio indisponibile della collettività, quindi dello Stato. Fu il maggior risultato ottenuto dai movimenti
ambientalisti la cui fioritura era patente già alla fine degli anni sessanta. Nel 1966 si era infatti costituito il
WWF e la LIPU, Lega Italiana per la Protezione degli Uccelli, lo era stata già nel 1965.
Tuttavia, l’apporto ambientalista non fu di tipo gestionale e mirò principalmente ad estendere le zone di
divieto (di caccia) con analoghi divieti per molte specie. Tutto ciò, sposato alla miopia delle associazioni
venatorie, pose le premesse per un deleterio divorzio fra cacciatori e ambientalisti che si consumerà nei
seguenti anni e dura tuttora.
Finalmente, l’attuale legge, la 157, uscì nel 1992 e fu denominata “Norme per la protezione della fauna
selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”. Il suo apporto gestionale fu ed è tuttora modesto e appare
oggi come un semplice compromesso al ribasso fra cacciatori liberisti e ambientalisti proibizionisti.
E come se non bastasse, le indicazioni tecniche di indirizzo dell’Istituto Nazionale di Biologia della
Selvaggina (INBS, poi INFS / ISPRA) furono infatti sistematicamente disattese, benché formalmente
richieste dalla stessa legge.
Le odierne necessità di riforma
Non possiamo dimenticare che la caccia fa parte della gestione faunistica, scienza che è la tecnica e
l’abilità di prendere decisioni ed agire, per conservare ed utilizzare al meglio il patrimonio faunistico.
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Esiste, di conseguenza, l’obbligo di discutere con urgenza e di porre sul tavolo della politica la necessità
di una radicale revisione della 157, mantenendone intatti alcuni dei criteri principali, aggiungendo però quelli
necessari ed eliminando drasticamente ciò che non è più attuale.
Il tutto, coinvolgendo nel dibattito i portatori di interessi, che intendano ovviamente contribuire a
formare una caccia moderna e non semplicemente ad abolirla tout court o a svuotarla artatamente di ogni
contenuto gestionale.
I seguenti principi sono pertanto indispensabili quali considerazione preliminare ad una revisione
profonda della sopracitata legge, pur nel rispetto delle autonomie provinciali non in oggettivo e palese
contrasto con i principi suddetti.
I principi della gestione venatoria
1. La caccia è l’esercizio concreto della gestione venatoria.
2. La gestione venatoria fa parte della gestione faunistica.
3. La caccia è in grado, se del caso, di contribuire al controllo della fauna.
4. La supervisione pubblica è indispensabile.
5. In particolare, la gestione venatoria deve:
5.1. avvalersi, oltre che della caccia, di attività quali valutazioni numeriche delle specie oggetto
di caccia, statistiche di prelievo ecc.;
5.2. non pregiudicare la conservazione delle popolazioni cacciate;
5.3. creare un alto senso di responsabilità negli esecutori;
5.4. basarsi su di una pianificazione poliennale, fondata sulla scienza e sulla tecnica;
5.5. avvalersi di tecnici specifici;
5.6. puntare ad una crescita tecnica e culturale degli operatori coinvolti.
La proposta
Si tratta di quindici punti, elencati in ordine prioritario di realizzabilità ma anche di opportunità (1-3)
1. Obbligo di pubblicare annualmente tutti i dati relativi alla fauna oggetto di caccia, in un registro
digitale pubblico, a libero accesso.
2. Normazione nazionale sulla filiera della carne di selvaggina cacciata, anche da un punto di vista
fiscale e sanitario.
3. Definizione e istituzione della figura professionale del tecnico faunistico.
4. Definizione delle forme di utilizzo della fauna, non solo venatorie, e della relativa disciplina.
5. Abolizione dei ripopolamenti anche di quelli pronta caccia e impulso alle reintroduzioni.
6. Unità Territoriali di Gestione Venatoria (UTGV), sociali o private, su base comunale o sub comunale,
federate in un Distretto Venatorio (ex ATC, CA).
7. Obbligo per ogni UTGV di dotarsi di un piano di gestione pluriennale.
8. Numero chiuso degli associati, basato esclusivamente sul massimo prelievo teorico sostenibile.
9. Associazione alle UTGV di cacciatori anche non residenti, ma sulla base di una graduatoria
adeguatamente regolamentata.
10. Possibilità di ricevere un numero programmato di cacciatori ospiti.
11. Restituzione dei risultati della gestione mediante conferenze annuali indette dai Distretti Venatori.
12. Danni da fauna oggetto di caccia a carico dei Distretti Venatori.
13. Formazione dei cacciatori, su standard elevati e stabiliti per legge, erogata da soggetti accreditati.
14. Sorveglianza specializzata a cura dell’Ente Pubblico competente.
15. Revoca della gestione venatoria, nel caso di gravi manchevolezze.
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IL MANIFESTO DI TRIESTE SULLA CACCIA
I PROMOTORI
• Franco PERCO. Zoologo. Già direttore del Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Presidente RiVA
• Stefano ASSIRELLI. Docente in politiche di sicurezza urbana e Consigliere RiVA.
• Duccio BERZI. Dottore forestale e Tecnico faunistico.
• Giulia CORSINI. Medico Veterinario.
• Gianferruccio DAL CORNO. Medico Chirurgo e Consigliere RiVA.
• Spartaco GIPPOLITI. Conservazionista e sistematico dei Mammiferi. IUCN/SSC Primate Specialist
Group.
• Pier Alessandro MAGRI. Dirigente d’azienda e Consigliere RiVA.
• Giuliano MILANA. Naturalista. Tecnico faunistico.
• Luigi SPAGNOLLI. Responsabile per la fauna selvatica della Provincia Autonoma di Bolzano, già
direttore del Parco dello Stelvio.
• Giovanni STARNONI. Dottore commercialista e Consigliere RiVA.
• Paolo TOSI. Docente universitario presso l’Università di Trento e Consigliere RiVA.
• Silvano TOSO. Già direttore dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica. Consigliere RiVA.
• Ettore ZANON. Formatore e giornalista professionista. Consigliere RiVA.
• Rinascita Venatoria e Ambientale (RiVA).
LE ADESIONI (Primo elenco)
• Francesco Maria ANGELICI. Zoologo, sistematico, conservazionista. Docente universitario
abilitato presso tutte le università nazionali.
• Aldo DI BRITA. Dottore Forestale e Tecnico Faunistico.
• Renzo BRUSCHI. Dirigente Prov. Federcaccia PR, già presidente ATC PR9.
• Ivano CONFORTINI. Funzionario biologo, Regione del Veneto, U.O. Coordinamento gestione ittica
e faunistico venatoria Ambito Prealpino e Alpino-Sede territoriale di Verona.
• Luciano CICOGNANI. Istruttore faunistico e presidente ARIF (Ass. Rilevatori Faunistici. Socio
fondatore di
• STERNA (Studi Ecologici Ricerca Natura e Ambiente).
• Gianluca DALL’OLIO. Vicepresidente FACE (Federazione delle associazioni cacciatori Europei
Brussels).
• Stefano DE VITA. Ornitologo ed esperto in gestione faunistica.
• Luca FADDA. Agrotecnico laureato. Tecnico Faunistico.
• Mauro FERRI. Veterinario. Esperto faunistico e tecnico faunistico accreditato presso l'INFS.
• Francesco LECIS. Naturalista, vicepresidente di AIN (Associazione Italiana Naturalisti), tecnico
faunistico.
• Raffaele LIACI PESSINA. Dottore agronomo, tecnico faunistico.
• Adriano MARTINOLI. Docente universitario di Zoologia e Conservazione della Fauna, presso
l’Università degli
• Studi dell'Insubria.
• Renato MASSA. Già docente universitario di zoologia presso l’Università di Milano.
• Stefano MATTIOLI. Zoologo. IUCN Deer Specialist Group.
• Pier Giuseppe MENEGUZ. Docente universitario presso l’Università di Torino.
• Andrea MUSTONI. Responsabile Area Ricerca scientifica ed Educazione Ambientale. Parco
Naturale Adamello
• Brenta.
• Luca PEDROTTI. Coordinatore Scientifico Parco Nazionale delle Stelvio.
• Paola PERESIN. Biologa.
• Luca ROSSI. Docente universitario presso l’Università di Torino.
• Aldo Giorgio SALVATORI. Presidente AIW (Associazione Italiana Wilderness).
• SATA. Sorveglianza Ambientale e Tutela Animali. Onlus.
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• Massimo SCANDURA. Docente universitario associato presso l’università di Sassari dip. di medicina
veterinaria.
• Fioravante SERRANI. Dottore agronomo.
• Renato SEMENZATO. Biologo.
• Mario SPAGNESI. Già docente universitario associato, in zoologia, presso l’Università di Bologna e
direttore generale INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica).