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WHISTLEBLOWING: libertà di espressione o obbligo di condotta?

Authors:
  • SPAZIOETICO ASSOCIAZIONE PROFESSIONALE

Abstract

Dal novembre del 2019 il Whistleblowing è un istituto riconosciuto a livello europeo. La Direttiva del 23 ottobre 2019 riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione stabilisce con una certa chiarezza che il Whistleblowing è un diritto umano e che rappresenta una libertà fondamentale dell’individuo e del lavoratore. L’articolo approfondisce una questione aperta in materia di Whistleblowing: la condotta di segnalazione rappresenta una delle modalità in cui si esercita la libertà di espressione, oppure si tratta di una condotta collaborativa “doverosa” finalizzata a ridurre l’asimmetria informativa “primaria”, pienamente iscritta nell’architettura di prevenzione della corruzione i cui attori sono tutti i dipendenti dell’organizzazione?
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Di Rienzo M., Ferrarini A., Whistleblowing: libertà di espressione o obbligo di condotta?”,
SPAZIOETICO, Milano, marzo 2021
Whistleblowing: libertà di espressione o
obbligo di condotta?
di Massimo Di Rienzo & Andrea Ferrarini
SPAZIOETICO ASSOCIAZIONE PROFESSIONALE
Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione Non commerciale Non opere derivate 4.0
Internazionale.
ABSTRACT. Dal novembre del 2019 il Whistleblowing è un istituto riconosciuto a livello europeo. La Direttiva
del 23 ottobre 2019 riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione
stabilisce con una certa chiarezza che il Whistleblowing è un diritto umano e che rappresenta una liber
fondamentale dell’individuo e del lavoratore.
Larticolo approfondisce una questione aperta in materia di Whistleblowing: la condotta di segnalazione
rappresenta una delle modalità in cui si esercita la libertà di espressione, oppure si tratta di una condotta
collaborativa “doverosa” finalizzata a ridurre l’asimmetria informativa “primaria”, pienamente iscritta
nell’architettura di prevenzione della corruzione i cui attori sono tutti i dipendenti dell’organizzazione?
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La recente pubblicazione di un interessante Paper a cura di Wim Vandekerckhove offre l’opportunità di
riflettere sulle questioni aperte in materia di Whistleblowing.
Quando si parla del Whistleblowing come esercizio di una libertà fondamentale dell’individuo sembra di
parlare del sesso degli angeli. Eppure una corretta categorizzazione dell’istituto ha delle conseguenze
piuttosto importanti sulla vita di alcune persone, i cosiddetti whistleblower” ovvero gli autori di segnalazioni di
reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza in ragione di un rapporto di lavoro.
A noi di Spazioetico spesso giungono appelli da parte di persone che hanno segnalato illeciti e che hanno
ricevuto in cambio misure ritorsive, come demansionamenti e spostamenti “cautelativi”.
Alcuni di questi whistleblower vengono denunciati a loro volta per rivelazione di segreto d’ufficio perché il loro
atto di segnalazione o di denuncia contiene, ovviamente, informazioni riservate.
Tutto questo nonostante l’Italia si sia dotata di una legge sul Whistleblowing (la legge 179/2017) e che
l’Unione europea abbia adottato una nuova Direttiva (la Direttiva UE del 2019).
E, infine, nonostante ANAC, cioè l’Autorità anticorruzione, abbia posto in consultazione delle Linee Guida in
materia di tutela degli autori di segnalazioni (di cui si è persa di vista la conversione in Delibera).
Dal novembre del 2019 il Whistleblowing è un istituto riconosciuto a livello europeo. La suddetta Direttiva del
23 ottobre 2019 riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione
stabilisce con una certa chiarezza che il Whistelblowing è un diritto umano e che rappresenta una libertà
fondamentale dell’individuo e del lavoratore.
Ma il percorso di elaborazione della Direttiva ha avuto parecchi ostacoli e solo grazie alle campagne di
comunicazione e di lobbying delle organizzazioni internazionali a favore della tutela del whistleblowing attive
nei vari Paesi dell’Unione è stato possibile pervenire ad un risultato tutto sommato accettabile.
Uno dei risultati più importanti è stato il ritiro di una delle proposte della Commissione europea, il cosiddetto
approccio a tre livelli“.
Questo approccio, mutuato dalla legislazione francese, stabiliva che la tutela poteva essere riconosciuta solo
a chi seguiva un certo percorso di segnalazione“. Era necessario, al fine di ottenere una protezione,
segnalare prima internamente attraverso il canale messo a disposizione dall’organizzazione, poi ad un’Autorità
esterna e, solo al termine di questo percorso, si poteva segnalare ai media.
Dicevamo che l’approccio “a tre livelli” è stato superato. E non solo perché sembrava piuttosto complesso
nell’attuazione. Il fatto è che l’idea di una “tutela condizionata” che limita pesantemente l’esercizio della
libertà di espressione fa parte di un dibattito assai più ampio che, ad esempio, in Italia non è stato ancora del
tutto affrontato.
Tutto parte da una considerazione che molti di voi, siamo sicuri, avranno fatto. Il whistleblowing viene
riconosciuto dalla stessa Direttiva UE come una delle modalità in cui si esercita la libertà di espressione:
Coloro che segnalano minacce o pregiudizi al pubblico interesse di cui sono venuti a sapere nell’ambito delle
loro attività professionali esercitano il diritto alla libertà di espressione. Il diritto alla libertà di espressione e
d’informazione, sancito dall’articolo 11 della Carta e dall’articolo 10 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, comprende il diritto di ricevere o di comunicare
informazioni nonché la libertà e il pluralismo dei media” (considerata n. 31).
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Il problema riguarda il rapporto che intercorre tra la condotta di segnalazione e la rivelazione del segreto
d’ufficio (art. 326 cp) e del segreto professionale (art. 622 cp).
I confini sono molto sfumati e facilmente un segnalante potrebbe essere accusato di rivelazione di
segreto d’ufficio o del segreto professionale a patto che non intervenga una scriminante“, parola
terrificante del gergo penalistico che significa, in sostanza, la presenza di una causa di esclusione della pena
e che le Linee Guida ANAC in consultazione individuano nel seguente elenco:
il segnalante deve agire al fine di tutelare l’interesse all’integrità delle amministrazioni, pubbliche e
private, nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni (co. 1, art. 3);
il segnalante non deve essere un soggetto esterno all’ente o all’amministrazione che sia venuto a
conoscenza della notizia «in ragione di un rapporto di consulenza professionale o di assistenza» con
l’ente, l’impresa o la persona fisica interessata (co. 2, art. 3, l. 179);
le notizie e i documenti, oggetto di segreto aziendale, professionale o d’ufficio, non devono essere
rivelati con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell’eliminazione dell’illecito (co. 3, art 3, l. 179) e, in
particolare, la rivelazione non deve avvenire al di fuori del canale di comunicazione
specificamente predisposto per le segnalazioni.
Ecco spuntare fuori una condizione che limita la libertà di espressione del segnalante. Ebbene, proprio
recentemente, Wim Vandekerckhove, professore di Business Ethics all’Università di Greenwich, ha
pubblicato un interessante paper dal titolo Is It Freedom? The Coming About of the EU Directive on
Whistleblower Protection” in cui conclude che “nel whistleblowing, la libertà di espressione è cruciale e
implica che il segnalante ha il diritto di rivelare l’informazione. Il diritto si estende non solo
all’informazione nell’interesse pubblico ma implica anche che al segnalante venga assicurata
l’autonomia di scegliere a chi inviare l’informazione“.
Dunque un segnalante che non conformerà la propria condotta alle procedure aziendali e, ad esempio, invierà
la propria segnalazione alla stampa non riceverà alcuna tutela contro le ritorsioni eventualmente ricevute. Non
solo, potrà essere perseguito per violazione del segreto d’ufficio o professionale senza che operi la
famigerata scriminante.
Conclude Vandekerckhove, amaramente, che il 15 aprile 2019, nel bel mezzo delle celebrazioni per l’adozione
della Direttiva UE, Julian Assange viene arrestato a Londra.
In definitiva, la questione è la seguente: se il whistleblowing rappresenta uno dei massimi esempi di libertà di
espressione“, allora perché le Linee Guida ANAC in consultazione, richiamando la legge 179/2017,
costruiscono questa ed altre fattispecie condizionanti” senza il verificarsi delle quali non può essere
invocata alcuna protezione dal segnalante?
Per chi non fosse molto addentro a tali questioni, ricapitoliamo le condizioni poste da ANAC affinché possa
accordarsi la tutela:
il segnalante deve rivestire la qualifica di dipendente pubblico” o equiparato,
è necessario che la segnalazione sia effettuata nell’interesse all’integrità della pubblica
amministrazione
e che abbia ad oggetto condotte illecite” di cui il dipendente sia venuto a conoscenza “in ragione del
proprio rapporto di lavoro”
e che sia stata inoltrata ad almeno uno dei quattro destinatari indicati nell’art. 54-bis, co. 1.
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Tutte e quattro le condizioni sono di per sé controverse. Cosa vuol dire, infatti, nell’interesse della pubblica
amministrazione? Forse non era meglio riportare la terminologia usata dalla Direttiva UE, cioè interesse
pubblico“? L’interesse dell’amministrazione potrebbe essere facilmente malinteso o manipolato. Si pensi alle
ritorsioni fatte nei confronti del segnalante da un’amministrazione che invoca la tutela dell’immagine.
L’interesse pubblico è un riferimento più alto, che coinvolge il cosiddetto “Principale Delegante“, cioè la
collettività, i mercati, i titolari di diritti.
Inoltre, i dipendenti pubblici o privati che sono chiamati a segnalare saranno certamente rimasti dubbiosi di
fronte ad affermazioni secondo le quali il whistleblowing sarebbe una delle modalità in cui si esercita la libertà
di espressione. Se voi affermaste questo in un contesto formativo o convegnistico, alcuni partecipanti
solleverebbero più di un dubbio. Ma di quale libertà stiamo parlando“, essi direbbero. “La segnalazione
rappresenta per noi dipendenti un vero e proprio dovere di comportamento, sancito dall’articolo 8 del Codice
di comportamento dei dipendenti pubblici“. Tutta la vostra enfasi, di colpo, sparirebbe e verreste assaliti da più
di un dubbio a seguito della lettura dell’articolo in questione: “Il dipendente rispetta le misure necessarie alla
prevenzione degli illeciti nell’amministrazione. In particolare, il dipendente rispetta le prescrizioni contenute nel
piano per la prevenzione della corruzione, presta la sua collaborazione al responsabile della prevenzione della
corruzione e, fermo restando l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, segnala al proprio superiore
gerarchico eventuali situazioni di illecito nell’amministrazione di cui sia venuto a conoscenza“.
Altro che libertà di espressione! Si tratta di una condotta collaborativa doverosa” finalizzata a ridurre
lasimmetria informativa “primaria”, pienamente iscritta nell’architettura di prevenzione della corruzione i cui
attori sono tutti i dipendenti dell’organizzazione.
E qui vengono al pettine parecchi nodi. Sì perché la nostra concezione della condotta di segnalazione è
ancora piuttosto incerta. Si tratta di un comportamento individuale e come tale espressione di una libertà che
implica anche l’autonomia nella scelta dei canali, oppure si tratta di un comportamento organizzativo e come
tale espressione di un dovere di cooperazione che si conforma strettamente alle procedure aziendali?
La Direttiva UE sembra propendere per la prima interpretazione, così come lo stesso Vandekerckhove
riconosce al whistleblower il ruolo di parrhesiasta, cioè di un soggetto che esercita una attività verbale
fondata sul dire-il-vero senza paura(Can We Organize Courage? Implications from Foucault’s
Parrhesia). In questo senso il whistleblower incarna nel suo atto di segnalazione, forse, la
manifestazione più profonda e controversa della libertà di espressione.
Come abbiamo già affermato in un precedente post, il rischio di standardizzazione del Whistleblowing è
sempre dietro l’angolo. Le organizzazioni, naturalmente, cercano di standardizzare i propri processi, per
governare gli eventi. Ma governando il Whistleblowing si rischia di addomesticarlo, di ricondurlo a logiche
aziendali, laddove il segnalante è invece colui che rompe le logiche dell’organizzazione e segnala la necessità
di rivedere le politiche, modificare i rapporti di forza tra gli interessi, perseguire gli illeciti.
Queste considerazioni portano a concludere che il Whistleblowing dovrebbe essere tutelato in ragione della
sola qualità oggettiva” della segnalazione.
In molti Paesi dell’Ocse, ad esempio, è ammessa la segnalazione anonima, cioè la segnalazione che non
può essere ricondotta ad alcun individuo ma che, valutata per il suo contenuto, può far emergere un
pregiudizio attuale e concreto all’interesse pubblico. Su questo elemento e solo su questo dovremmo fondare
le nostre politiche di tutela del segnalante, aiutando, semmai, il nostro povero whistleblower a scegliere il
canale di segnalazione più sicuro per lui e più utile per un’efficace presa in carico.
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