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MICHELE SANVICO
SIBILLA APPENNINICA
IL MISTERO E LA LEGGENDA
“IL PARADISO DELLA REGINA SIBILLA” - LA VERITÀ
LETTERARIA SULLE MAGICHE PORTE NASCOSTE NEL
MONTE SIBILLA1
1. Antoine de la Sale fu originale? I flagelli saettanti, le porte battenti, i
veli di fuoco e ghiaccio
Nel rileggere Il Paradiso della Regina Sibilla, il noto testo quattrocentesco
di Antoine de la Sale, e tornando a considerare, in particolare, la pagina
nella quale l'autore descrive le porte di metallo, nascoste all'interno del
misterioso picco del Monte Sibilla, che eternamente si aprono e si
chiudono, non si può non provare un senso di magica avventura, con la
leggenda della Sibilla Appenninica alla conquista di nuovi adepti grazie al
suo antico, affascinante incantesimo:
«... dentro questa caverna, fino alle porte di metallo, che battono giorno e
notte incessantemente, chiudendosi e riaprendosi [...] all'interno della
grotta, vi sono due porte di metallo, le quali giorno e notte sbattono senza
mai fermarsi [...] Queste porte battono in modo tale che ognuno che sia
intenzionato ad entrare ben conosce come egli non potrà evitare di essere
catturato tra le due, finendone schiacciato come una mosca. E questa fu la
cosa che maggiormente li spaventò...».
[Nel testo originale francese: «... dedans ceste cave, jusques es portes de
mettail, qui jour et nuyt et sans ceser battent, cloant et ouvrant [...] à
l'endroit de la cave, sont les deux portes de metal, qui jour et nuyt batent
1 Pubblicato il 28 gennaio, 3 e 11 febbraio 2018
(http://www.italianwriter.it/TheApennineSibyl/TheApennineSibyl_LegendOrigin.asp)
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sans cesser [...] Ces portes batent par telle maniere qu'il est proprement
advis à celluy qui entrer y doit, qui'il n'y pourroit entrere sans estre entre
deux cueilly et tout effroissé comme une mousche. Et ce fut la chose qui le
plus espouvanta...»].
Per centinaia e centinaia di anni, questa descrizione ha colpito la fantasia
degli uomini di tutta Europa: quelle porte di metallo, quasi dotate di vita
propria, custodivano l'accesso all'incantato mondo sotterraneo della Regina
Sibilla, con le sue ricchezze, le bellissime damigelle, e la malignità dei
propositi. Cavalieri, aristocratici e avventurieri si recavano fino alla grotta
sulla vetta del Monte Sibilla nella speranza di trovare la propria strada
attraverso quella tenebra, attraversare il ponte magicamente sotttile,
oltrepassare il sortilegio delle porte metalliche e giungere, infine, all'impuro
oracolo che regnava su quel principato del sottosuolo.
Fig. 1 - Una visione artistica delle magiche porte illustrate da Antoine de la Sale nella sua descrizione
dell'interno della grotta della Sibilla Appenninica (immagine composita realizzata da Michele Sanvico)
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Ma Antoine de la Sale è stato veramente sincero quando ha deciso di
inserire, nel suo Il Paradiso della Regina Sibilla, il racconto delle porte che
eternamente si aprono e si chiudono?
O non è invece possibile che egli non abbia fatto altro che prendere in
prestito - da una precedente fonte letteraria - un'ulteriore idea, brillante e
accattivante, che fosse adatta al suo pubblico di nobili cortigiani? Proprio
come il ponte sottilissimo, la cui immagine egli trasse da un'illustre
ascendenza di antichi 'ponti del cimento', utilizzati nel giudizio delle
anime? È possibile che lo scrittore provenzale abbia tratto le porte di
metallo dal Tractatus de Purgatorio Sancti Patricii, oppure dalla Visione di
St. Adamnán, o da qualche altro antico manoscritto contenente il racconto
di un viaggio sovrannaturale nell'aldilà?
Ancora una volta, Antoine de la Sale non fu affatto originale nel descrivere
le sue porte di metallo. Qualcosa di estremamente simile esisteva già, e si
manifestava attraverso una lunga sequenza di racconti letterari più antichi.
Un primo sospetto viene suscitato nello studioso quando si prende in
considerazione, per esempio, il poema epico duecentesco Huon de
Bordeaux. Già in un precedente articolo avevamo avuto occasione di
vedere come il poema contenga un episodio, ambientato presso una magica
torre, che sembra presentare molte somiglianze con la più tarda narrazione
di de la Sale:
«Ci sono due uomini all'ingresso della torre; Sono fatti tutti di bronzo ben
rifinito, Ognuno di essi impugna un doppio flagello, tutto di metallo,
paurosi a vedersi. Essi battono continuamente, sia d'estate che d'inverno. E
vi dico, in verità, che un uccellino che sapesse volare veloce, non
riuscirebbe a volare fino all'interno del palazzo Senza esserne ucciso; non
potrebbe fuggirne» [nel testo originale francese: «Et s'a deux hommes à
l'entrer de l'ostel; Tout sont de keuvre et fait et compasé, Si tient cascuns un
flaiel acouplé, Tout sont de fer, moult font à redouter. Tout adès batent et
yver et esté, Et si vous di, par fine veritè, Une aloete, que bien tost set
voler, Ne poroit mie ens el palais voler Que ne fust morte; ne poroit
escaper»].
Tutto ciò appare essere molto, molto simile rispetto a quanto raccontato da
Antoine de la Sale: un analogo meccanismo di metallo, in perpetuo
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movimento, che batte continuamente, impedendo così l'accesso degli
uomini; piccoli animali (uccelli, insetti) vengono utilizzati per
esemplificare gli effetti potenzialmente distruttivi sul visitatore troppo
audace.
È tutto? No. Perché se andiamo a rileggere un altro poema cavalleresco,
Ugone d'Alvernia, troviamo un ulteriore episodio del tutto analogo, stavolta
ambientato presso il castello di Lucifero:
«Alto è il palazzo, una torre si erge di fronte,
Non è di pietra come le torri sono costruite,
Questa è di metallo e di ferro temperato;
Alte sono le mura che circondano il palazzo,
Di fronte una porta guardata da due leoni,
E quelle porte hanno tale natura
Che non appena esse sono dischiuse,
Non esiste rasoio tanto tagliente e affilato
Che tagli così facilmente come quelle porte fanno;
Che chiudersi e aprirsi esse altro non fanno».
[nel testo originale franco-italiano:
«Alto è el pallaço, una tore davanti lì à,
No è de piere como le tore se fa,
Ançy è d'açalle e de fero tenperà;
Alti son li muri ch'el palaço cricundà,
Davanti à una porta che do lion guardà,
E quele porte tal natura si à
Si tosto como elle averte incontenente se serà,
El non è raxori tanto taienti e filà
Che taia cossì soave como quele porte fa;
De serar e de avre alltro elle non fa»].
Ancora: un portale metallico in perenne movimento, acuminato come un
rasoio, in grado di impedire al visitatore indesiderato di penetrare
all'interno di un luogo proibito. Non suona forse come la medesima
invenzione descritta anche da Antoine de la Sale nel Paradiso della Regina
Sibilla?
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Comincia ad apparire chiaro, ai nostri occhi, che le favolose «porte di
metallo, che battono giorno e notte incessantemente» menzionate nel
Paradiso della Regina Sibilla e nascoste nelle viscere del Monte Sibilla, in
Italia, non sono mai state lì, in quanto esse non appartengono ad alcuna
originale tradizione locale che sia relativa alla Sibilla Appenninica.
Antoine de la Sale trasse quelle porte da precedenti tradizioni letterarie e le
inserì nella sua narrazione per dilettare il suo aristocratico pubblico, allo
scopo di ricolmare i cuori degli ascoltatori, come d'uso per ogni bravo
scrittore, di sorpresa e meraviglia. Esattamente come il ponte magicamente
stretto e dall'ampiezza crescente che abbiamo avuto modo di considerare in
un precedente articolo.
Ma, queste porte di metallo, da dove provengono?
Se andiamo a rileggere il Tractatus de Purgatorio Sancti Patricii, l'antica
leggenda irlandese narrata in un manoscritto del dodicesimo secolo - che,
abbiamo visto, riporta la descrizione del famoso ponte utilizzato per
mettere alla prova la purezza delle anime - troviamo qualcosa di
apparentemente analogo, ma solo in parte:
«Vide innanzi a sé una enorme ruota di ferro e di fuoco, i cui raggi e la cui
circonferenza erano dotati di uncini di fiamme, dai quali pendevano uomini
appesi. [...] E i dèmoni [...] spingevano la ruota verso l'alto. Dall'altro lato
[...] ulteriori dèmoni la spingevano verso il basso e la facevano ruotare con
tanta velocità che a malapena essa era visibile» [nel testo originale latino:
«Vidit ante se maximam rotam ferream et igneam, cujus radii et canti unciis
igneis undique erant circumfecti, in quibus singulis pendebant quasi
homines infixi. [...] Demones igitur [...] rotam levaverunt. Alii ex alia parte
[...] deorsum depresserunt tantaque eam agilitate fecerunt rotare, ut nullus
omnino alium posset discernere»].
Nel Purgatorio di San Patrizio, questo episodio è caratterizzato da alcuni
aspetti peculiari: un apparato metallico, un dispositivo che ruota e che non
cessa mai la propria maligna rivoluzione. Un meccanismo immaginato da
Dio per la punizione dei peccatori nell'Inferno. E un legame sospetto con
alcuni aspetti simili già incontrati nell'opera di Antoine de la Sale.
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Ma se siamo in cerca di un indizio probante, dobbiamo invece rivolgerci
alla Visione di Sant'Adamnán, una narrazione dell'undicesimo secolo
raccontata nell'Lebor na hUidre, il Libro della Giovenca dal Manto Oscuro,
un antico manoscritto irlandese. Abbiamo già avuto occasione di vedere
come esso contenga il medesimo ponte magicamente sottile descritto anche
da Antoine de la Sale come se esso si gettasse oltre un abisso posto
all'interno della grotta della Sibilla Appenninica. Ma non c'è solamente
questo: il manoscritto irlandese contiene anche delle porte molto speciali, le
quali proteggono l'accesso alla città della Terra dei Santi:
«All'ingresso principale della città, essi sono arrestati da un velo di fuoco e
da un velo di ghiaccio, che sbattono perennemente l'uno contro l'altro. Il
rumore e il frastuono assordante prodotto da questi veli, mentre si
scontrano assieme, sono uditi in tutto il mondo, e il seme di Adamo, se
dovesse udire questo suono, ne sarebbe preso da pauroso e insopportabile
sgomento».
[Nel testo originale irlandese: «Fíal tened ocus fíal d'aigriud i prímdorus
inna cathrac inna fíadnaisse...»]
Ed eccola di nuovo: la stessa idea di una barriera che sbatte e che mai
arresta il proprio micidiale movimento, con lo scopo di impedire a
chiunque l'accesso a un luogo soggetto a proibizione.
E, dunque, risulta ora necessario tentare di rispondere ad una domanda
precisa: da dove provengono quelle 'porte sbattenti'? Verso quale direzione
dobbiamo dirigere il nostro sguardo per riuscire a identificare la fonte
originale di questo meraviglioso, affascinante mito?
Nel prossimo articolo, continueremo questo incredibile viaggio, lasciando
dietro di noi Antoine de la Sale e le visioni ultramondane del Medioevo per
recarci, passando attraverso il leggendario ciclo arturiano, fino all'antichità,
al mondo classico. Un viaggio che condurrà la nostra ricerca verso la
sorgente originale di una leggenda: le porte magiche in perenne
movimento.
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2. La Sibilla Appenninica, Re Artù e i magici punti di passaggio verso
reami ultraterreni
Magiche porte di metallo che si aprono e si chiudono notte e giorno nel
testo di Antoine de la Sale sulla Sibilla Appenninica. Statue di bronzo che
brandiscono fruste sibilanti nell'aria sia in estate che in inverno nel poema
cavalleresco Huon de Bordeaux. Un portale che sbatte incessantemente,
tagliente come un rasoio, in Huon d'Auvergne. Veli di ghiaccio e fuoco che
si scontrano in perpetuo gli uni contro gli altri nell'antico manoscritto
irlandese che racconta la Visione di Sant'Adamnán.
Un pericoloso punto di passaggio. Un luogo di transizione tra il nostro
mondo, abitato da esseri mortali, e regni di sovrannaturale magia. Una
minaccia per tutti quegli avventurosi visitatori che osino attraversare un
confine proibito, che può aprirsi solamente al passaggio di spiriti puri e
incorrotti.
Da dove proviene tutto questo? È possibile rintracciare l'origine letteraria
ultima delle specialissime porte che, nel quindicesimo secolo, Antoine de la
Sale volle inserire nella sua avvincente narrazione relativa al regno
nascosto della Sibilla Appenninica?
Esse provengono da molto, molto lontano. E hanno compiuto un
lunghissimo viaggio attraverso la storia.
Come già illustrato in un precedente articolo, abbiamo potuto rintracciare le
orme del magico passaggio perennemente in movimento attraverso la
letteratura europea, sia medievale che di epoca successiva: Il Paradiso
della Regina Sibilla, Huon of Bordeaux, Huon d'Auvergne, the Vision of St.
Adamnán.
Molto significativamente, troviamo esempi di questa peculiare immagine
letteraria anche all'interno del ciclo arturiano e dei Cavalieri della Tavola
Rotonda. Un manoscritto del tredicesimo secolo (Berna, Burgerbibliothek,
Cod. 354) riporta La Mule sens Frein (La Mula senza Redini), un poema in
lingua francese nel quale Galvano, cavaliere della corte di Re Artù, si
imbatte in un castello molto speciale, in perenne rotazione:
«Esso non aveva né porta né portale,
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Il castello ruotava su se stesso così rapidamente
Come se fosse stato una mola di molino che gira
O come una trottola che
Si srotoli lungo la sua corda [...]
Il castello ruotava senza fermarsi [...]
Dopo avere ben considerato il momento opportuno [...]
Come vide la porta venire verso di lui,
Egli spronò così forte la mula [...]
Che poté precipitarsi attraverso la porta»].
[Nel testo originale francese:
«Ne huis ne porte n'i avoit.
Li chastiax si fort tornoioit
Con muele de molin qui muet,
Et con la trompe que l'en suet
A la corgiee demener [...]
Li chastiax tot ades tornoie [...]
Mout a bien son point esgardé [...]
Atant voit la porte venir,
Si point la mule de randon [...]
Si s'est en la porte ferue»].
Galvano penetra così in un luogo proibito, all'interno de quale egli sarà
sfidato da un personaggio maligno, dopo essere transitato attraverso un
portale pericoloso e strettissimo, in rapido e perenne movimento, una
negromanzia che solo un cuore coraggioso può tentare di superare.
Nel ciclo arturiano, questa variante del transito pericoloso rappresentato
come un 'castello ruotante' è rinvenibile in numerosi esempi ulteriori.
Prendiamo, ad esempio, La Nobile Storia del Santo Graal (Li Hauz Livres
du Graal), un romanzo scritto in antico francese all'inizio del secolo
tredicesimo. Nel Capitolo XVII, dedicato al Santo Graal, i cavalieri
Galvano, Lancillotto e Parsifal giungono in prossimità di una fortezza, il
Castello del Grande Cimento («le chastel de Grant Esfort»). E l'ingresso del
castello è una pericolosissima porta roteante:
«Si avvicinarono al castello e videro che esso ruotava tutt'attorno più
veloce del vento stesso [... Parsifal] diede un colpo di speroni e si lanciò
verso il castello con tutta la velocità con la quale il suo cavallo poteva
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portarlo. Con la sua spada, colpì il portale così violentemente, che intaccò
di ben tre dita un pilastro di marmo [... e] riuscì a passare».
[Nel testo originale francese: «Il aprochent le chastel et voient qu'il tornoie
tout environ plus tost que vet ne court [... Perceval] atant fiert des esperons
et s'an vet vers le chastel tant conme li chevaus li peut randre, vers le
chastel tornoient. Il fiert de l'espeée à la porte si très durement que il l'an
ferra bien trois doie en un piler de marbre [... et] il fu outre»].
Ulteriori castelli rotanti, con i loro cancelli quasi impossibili da
attraversare, per potere accedere a luoghi magicamente proibiti, sono
rinvenibili anche nelle antiche leggende irlandesi, come quella riportata ne
La Festa di Bricriu (Fled Bricrenn in lingua irlandese): «... ogni notte sulla
fortezza egli cantava un incantesimo, finché il forte non cominciava a
ruotare come una pietra di mulino. E l'ingresso non poteva essere più
trovato dopo il tramonto del sole...».
Ma cosa hanno a che fare i castelli rotanti con la Sibilla Appenninica e con
le sue porte in perpetuo movimento, descritte da Antoine de la Sale?
Esiste, in realtà, una stretta connessione tra questi due tipi di pericolosi
punti di transito, quelli che sbattono e gli altri che ruotano: nel suo saggio
Galvano e il Cavaliere Verde, il Professor G. L. Kittredge afferma che «i
castelli rotanti appartengono alla medesima categoria delle porte
eternamente sbattenti». Le porte nella caverna della Sibilla, il castello di
Galvano: essi sono collegati dalla medesima idea di un pericoloso
passaggio, di uno strettissimo accesso verso un luogo differente, magico o
oltremondano.
Vogliamo cercare un altro esempio di insidioso passaggio all'interno del
ciclo di Re Artù? Non dobbiamo allontanarci troppo. Rimaniamo infatti a
La Nobile Storia del Santo Graal e andiamo a leggere il capitolo
successivo alle avventure, che abbiamo già visto, del nostro valoroso
cavaliere Parsifal presso il Castello del Grande Cimento. Egli prosegue il
suo viaggio, finché non giunge al Castello di Rame.
Il Castello di Rame: un luogo estremamente peculiare. Perché è qui che
troviamo qualcosa di cui abbiamo già sentito parlare in relazione ai racconti
sulla Sibilla Appenninica:
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«All'ingresso della porta del castello, si trovavano due uomini opera
dell'arte di negromanzia, che tenevano in mano due grossi martelli di ferro,
intenti a colpire e colpire ripetutamente, e lo facevano in modo così
violento che nulla vi è di mortale in questo mondo che possa passare
attraverso i loro colpi, e che non ne risulti schiacciato. [... Una voce gli
disse di non temere, perché] essi non avrebbero potuto fare alcun male ad
un buon cavaliere quale egli era. Egli trovò grande conforto in ciò che la
voce gli diceva; si avvicinò ai due malvagi esseri di rame, ed essi cessarono
subito di colpire, e mantennero immobili le loro mazze di ferro; ed egli
entrò nel castello».
[Nell'antico testo francese: «A l'entrée de la porte del chastel avoit deux
homes fez part l'art de nigromence, si tenoient deus gros maus de fer, si
s'acoupoient de férir li uns après l'autre, et feroient si très durement qu'il
n'est riens mortel el monde, qui péust passer parmi lor cox, qui touz ne fust
confinduz. [... Une voix lui dit de ne pas s'épouvanter parce-que] il
n'avoient povoir de mal feire si bon chevalier cnme il estoit. Il se conforte
mout en ce que la voiz li dit; il s'aproche des vileins de coivre, et il se
targent tantost de férir, et se tiennent les max de fer touz coiz; et il entre el
chastel»].
Si tratta, in tutta evidenza, di un ulteriore esempio del pericoloso punto di
transito, questa volta rappresentato tramite mazze perennemente martellanti
(simili alle fruste in Huon de Bordeaux).
E cosa si trova all'interno del castello? Ecco cosa ci racconta La Nobile
Storia del Santo Graal:
«C'era lì dentro uno spirito malvagio, che forniva risposte su qualsiasi cosa
venisse a lui domandata» («avoit mauveiz esperiz dedanz qui lor donnoient
respons de quanque il onques vouloient demander»).
Qualcosa, lì dentro. Che rendeva responsi oracolari ai propri visitatori. Uno
spirito malvagio che sembra essere simile ad una Sibilla Appenninica. E
protetta dallo stesso meccanismo eternamente in movimento, porte
metalliche per la Sibilla, martelli per il Castello di Rame (notare che l'idea
di metallo appare in entrambi i racconti, così come anche in molti altri
esempi letterari che narrano di questi insidiosi passaggi).
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Dunque, questa non rappresenta altro che un'ulteriore conferma - se mai la
si reputasse necessaria - del fatto indubitabile che Antoine de la Sale non fu
né originale, né sincero quando egli decise di inserire le porte metalliche
eternamente sbattenti nella propria descrizione del Paradiso della Regina
Sibilla, profondamente sepolto al di sotto dei fianchi del Monte Sibilla, in
Italia. Egli non fece altro che copiare e trarre ispirazione da una ben
consolidata tradizione di portali e passaggi pericolosi che un eroe
dall'animo incorrotto è chiamato ad affrontare nel corso della propria
ricerca tesa a raggiungere luoghi magici e sovrannaturali.
Fig. 2 - Una miniatura raffigurante le porte di metallo situate al di sotto del Monte Sibilla, tratta dal
Manoscritto n. 653 conservato presso la Bibliothèque du Musée Condé a Chantilly (Francia) contenente Il
Paradiso della Regina Sibilla di Antoine de la Sale
E c'è ancora qualcosa di più. Perché dobbiamo ora tornare alla nostra
domanda fondamentale: da dove provengono le porte, i flagelli, i veli di
ghiaccio e di fuoco, i castelli roteanti, i martelli, tutti in rapidissimo e
perenne movimento?
La risposta si trova, ancora una volta, nell'analisi condotta dal Professor
Kittredge, il quale continua la propria frase affermando che i castelli rotanti
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e le porte sbattenti appartengono alla stessa categoria delle «rocce che si
scontrano (simplègadi)».
Le Simplègadi, le rocce che si scontrano. La fonte originale di un mito che
Antoine de la Sale ha voluto successivamente inserire nel suo Il Paradiso
della Regina Sibilla, tramite la mediazione letteraria di un mondo fatto di
poemi, romanzi cavallereschi e visioni altomedievali dell'oltretomba. Un
mito che trova la propria origine nella Grecia classica, e che si nutre di
racconti leggendari di eroi, navigazioni avventurose e viaggi nel
sovrannaturale.
Come vedremo nel prossimo articolo.
3. Antoine de la Sale e l'antico mito greco delle Simplègadi
Il 18 maggio 1420, Antoine de la Sale, gentiluomo e letterato provenzale,
salì sulla cima del Monte Sibilla per recarsi a visitare la già famosa, a quel
tempo, Grotta della Sibilla Appenninica. Molti anni più tardi, egli scrisse
un resoconto di quel viaggio così peculiare, compiuto attraverso una remota
regione dell'Italia. E, per divertire il proprio pubblico di gentildonne, non
esitò ad aggiungere alcuni letterari colpi di pennello al pittoresco paesaggio
da lui disegnato.
Una di queste pennellate è costituita dal ponte magicamente stretto,
un'immagine sovrannaturale che - come già abbiamo modo di vedere in un
precedente articolo - l'esperto scrittore trasse da un'antica tradizione di
'ponti del cimento' rinvenibili in molte descrizioni medievali di viaggi
oltremondani.
Con il suo pennello letterario, de la Sale provvide inoltre a dipingere un
ulteriore tratto di colore, con la menzione delle terrificanti porte di metallo
eternamente sbattenti l'una contro l'altra, che impediscono con il loro
perpetuo, automatico movimento, giorno e notte, il passaggio a quei
visitatori che non dispongano di sufficiente coraggio per affrontare questa
inquietante sfida.
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Abbiamo dimostrato come quelle porte appartengano anch'esse ad una
illustre discendenza di straordinari meccanismi letterari in grado di aprire le
proprie minacciose fauci ai cuori incorrotti dei coraggiosi, per ammetterli
all'interno di regioni incantate o sovrannaturali: da Huon de Bordeaux a
Huon d'Auvergne, dalla Visione di Sant'Adamnán ai 'castelli roteanti' del
ciclo arturiano, abbiamo infatti trovato una varietà di porte metalliche,
fruste sferzanti, veli di fuoco e di ghiaccio, portali rotanti, tutti in rapido
movimento e aventi lo scopo di schermare l'accesso ad un luogo magico o
divino situato al di là di quegli ostacoli stregati.
Ma da dove viene tutto ciò? In quale direzione possiamo rivolgerci per
ricercare il prototipo originale delle barriere perpetuamente in moto, il
tristo passaggio pericoloso che solamente il vero eroe può tentare di
attraversare e superare?
A questo scopo, dobbiamo rivolgerci alla Grecia antica. Perché, come
delineato da illustri studiosi, tutti i meccanismi letterari elencati in
precedenza appartengono alla stessa categoria delle «rocce che si scontrano
(simplègadi)».
Le Simplègadi. Le rocce che eternamente cozzano le une contro le altre. Il
portale che non può essere oltrepassato se non accompagnati dalla mano di
un Dio.
Ascoltiamo le parole antiche di Apollonio Rodio, un autore vissuto nel
terzo secolo a.C., funzionario della Biblioteca di Alessandria, e la cui fama
è giunta fino a noi grazie al poema epico Argonautica, dal quale citiamo il
seguente brano (Libro II, versi 581 e seguenti):
«Quando raggiunsero lo stretto [...] essi avanzarono angosciosamente nel
terrore; e ora il suono sordo delle rocce sbattenti cominciò a colpire
incessantemente il loro orecchio [..] E, dopo avere superato un meandro,
essi videro le rocce aprirsi per l'ultima volta. Il loro spirito si sciolse dentro
di loro, ed Eufemo lanciò innanzi la colomba che dardeggiò rapida nel volo
[...] Essa volò tra le rocce, e le rocce si slanciarono le une contro le altre e
si scontrarono faccia contro faccia [...] e fu allora che le rocce tagliarono di
netto, a quella colomba, l'estremità delle penne della coda; ma essa riusci a
sfuggire saettando via indenne [...]».
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Gli Argonauti, la loro nave, il loro temerario viaggio verso la Colchide per
impossessarsi del Vello d'Oro. Un pericoloso passaggio, posto in un luogo
preciso: all'ingresso del Mar Nero, proprio là dove lo stretto del Bosforo
permette l'immissione verso quel grande mare interno. Giàsone e il suo
equipaggio devono attraversare questo passaggio per poter raggiungere la
Colchide, ma chi può mai essere in grado di superare questo magico
ostacolo?
Solamente un Dio potrà aiutarli:
«[...] i vortici della corrente trattennero la nave tra le rocce sbattenti; e da
entrambe le parti esse si scuotevano e tuonavano [...] Ma Eufemo corse tra i
compagni e gridò loro di piegarsi sui remi con tutta la propria forza [...] E
allora Pallade Atena con la mano sinistra respinse indietro una delle
possenti rocce e con la destra sospinse la nave attraverso di esse. Ma le
rocce, che mai cessavano di scontrarsi, mentre la nave passava ne
tagliarono di netto l'estremità della poppa [...] E gli eroi poterono respirare
di nuovo dopo la loro terrificante paura, perché sapevano di essere sfuggiti
a malapena alla morsa dell'Ade».
È questo il prototipo originale di tutte le porte sbattenti e fruste e veli e
castelli roteanti. Le Simplègadi: un mito e un'immagine letteraria così
potente da avere attraversato migliaia di anni, trasformandosi e
presentandosi secondo modalità differenti, così da adattarsi a situazioni
poetiche ed eroiche avventure di diverso genere.
Finché quel mito non è caduto nelle mani di Antoine de la Sale, attraverso
una pluralità di mediazioni letterarie: egli decise così di inserirlo nella
propria descrizione di un sovrannaturale regno sotterraneo nascosto al di
sotto del Monte Sibilla. Un viaggio all'interno di una di quelle regioni
oltremondane dove hanno ragion d'essere sia i ponti magicamente stretti
che le porte eternamente sbattenti, sin dalle età più antiche dell'uomo.
A. B. Cook, nel suo Zeus, a Study in Ancient Religion, afferma che le
Simplègadi «narrano di quell'antica credenza popolare relativa ad un
portale verso l'Oltretomba, formato da mura-montagne perennemente in
collisione». E nell'interessantissimo saggio di A. K. Coomaraswamy,
Symplegades, il grande studioso ha espresso in maniera efficacissima
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quello che, nella storia della cultura, è «il pieno significato dottrinale delle
Simplègadi»:
Fig. 3 - Una stampa seicentesca raffigurante la nave Argo mentre attraversa il passaggio tra le rocce in
collisione delle Simplègadi, conservata al Metropolitan Museum of Art, New York
«Chiunque intenda passare da questo mondo al mondo sovrannaturale, o
tornare da esso, dovrà farlo attraverso quell''intervallo' adimensionale e
atemporale che divide forze correlate ma opposte, tra le quali, se si voglia
realmente passare, sarà necessario che tale passaggio avvenga in modo
'istantaneo'. Il passaggio è, naturalmente, ciò che è anche chiamato lo
'stretto portale', e 'la cruna dell'ago'. [Questi sono] opposti, il cui moto è
'automatico' [...] Dunque, è proprio esattamente da questo 'accoppiarsi' che
la liberazione deve scaturire, è da questo conflitto che dobbiamo sfuggire,
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se vogliamo liberarci dalla nostra mortalità ed esistere come e quando
vogliamo: se, in altre parole, intendiamo veramente raggiungere la Spiaggia
Più Lontana e L'Altro Mondo».
Le rocce sbattenti - proprio come i ponti magicamente stretti -
appartengono al regno delle idee più antiche mai sviluppate dall'uomo nel
proprio tentativo di comprendere la vita e la morte. Ed è lo stesso
Coomaraswamy a presentarci ancora ulteriori visioni 'collidenti' dello
stesso tipo, questa volta tratte da antichi cicli mitologici orientali.
Così, il meccanismo perennemente in moto di Antoine de la Sale emerge, di
fronte al nostro sguardo stupito, da un passato ancora più remoto: nel
Satapatha Brâhmana, un testo in sanscrito risalente all'ottavo secolo a.C.,
dove troviamo «due foglie d'oro, dai bordi taglienti come rasoio, che
scattavano insieme ad ogni battito di ciglia»; e nel Suparnadhyaya, un
antico testo vedico, nel quale sono descritti «due lampi insonni, sempre
all'erta, dal tagliente profilo, che colpiscono da entrambi i lati».
E dunque, nessuna porta eternamente sbattente è mai esistita nella
tradizione originale, locale, concernente la Sibilla degli Appennini, viva al
di sotto del Monte Sibilla. Antoine de la Sale ha semplicemente inserito
questa immagine nel proprio resoconto intitolato Il Paradiso della Regina
Sibilla, traendo ispirazione da una varietà di meccanismi magicamente in
collisione che hanno attraversato la letteratura orientale e occidentale a
partire da molti secoli prima della venuta di Cristo.
È opportuno rimarcare il punto fondamentale costituito dal fatto che questo
risultato - assieme a quello analogo già dimostrato in relazione al 'ponte del
cimento' magicamente stretto descritto in un precedente articolo - non era
mai stato raggiunto prima: solamente Sibilla Appenninica - Il Mistero e la
Leggenda è stata in grado di svelare la vera origine delle descrizioni
inserite da Antoine de la Sale nella sua opera sulla Sibilla. Esse
appartengono a diverse narrazioni tradizionali, non correlate con la Sibilla,
e nulla hanno dunque a che fare con la vera leggenda sibillina. Ciò non
deve affatto stupire: come già notato da Patrizia Romagnoli, studiosa
svizzera nonché traduttrice italiana de Il Paradiso della Regina Sibilla,
«grazie ad Antoine de la Sale la storia diabolica si è trasformata in un
raffinato divertimento di corte per passare piacevolmente i momenti di
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svago». In questa ottica, ogni episodio del racconto può essere
«significativo per l'economia del racconto, spazio ludico dell'artificio».
E allora, cosa ci attende ora? Nuovi, stupefacenti scenari sembrano aprirsi
di fronte ai nostri occhi.
E difatti, questi risultati così significativi ci forniscono un indizio
assolutamente fondamentale: il nucleo originale della leggenda della Sibilla
Appenninica non è nascosto nel testo di de la Sale, il quale contiene una
serie di sovrastrutture letterarie appartenenti ad altre e diverse tradizioni.
Ora sappiamo che il vero nucleo della leggenda della Sibilla Appenninica
giace altrove. E stiamo per andare a formulare una teoria completamente
nuova in merito all'origine della leggendaria tradizione che ha avvolto di
terrificante mistero la caverna solitaria posta sulla cima del Monte Sibilla,
in Italia, per secoli e secoli.
Una teoria, basata sui risultati che abbiamo appena delineato e su ulteriori
studi originali, che nessun altro ha mai enunciato in precedenza. Una teoria
che aprirà una nuova, rivoluzionaria linea di ricerca in relazione all'antico
mito della Sibilla Appenninica.
4. Post scriptum (considerazioni integrative relative all'Eneide virgiliana)
[A completamento della presenta ricerca, riportiamo nel presente articolo il testo
contenuto in un articolo pubblicato successivamente, all'inizio del 2020, Monti Sibillini,
un Lago e una Grotta come accesso oltremondano (Cap. 4.2), nel quale si menzionava
un ulteriore importante esempio, tratto dalla latinità classica, di magico meccanismo
posto a guardia di una regione oltremondana].
E [...] vogliamo aggiungere anche un ulteriore esempio di potenziale
trasmigrazione di temi e immagini letterarie dall'Ade cumano, così come
descritto nell'Eneide, verso la Grotta della Sibilla descritta da Antoine de la
Sale, un trasferimento che non abbiamo avuto occasione di citare nel nostro
precedente articolo La verità letteraria sulle magiche porte nel 'Paradiso
della Regina Sibilla'. Nel corso di quella ricerca avevamo preso in
considerazione le porte di metallo eternamente battenti, il leggendario
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meccanismo inserito dall'autore quattrocentesco nella sua rappresentazione
del regno incantato della Sibilla Appenninica:
«... dentro questa caverna, fino alle porte di metallo, che battono giorno e
notte incessantemente, chiudendosi e riaprendosi [...] all'interno della
grotta, vi sono due porte di metallo, le quali giorno e notte sbattono senza
mai fermarsi...»
[Nel testo originale francese: «... dedans ceste cave, jusques es portes de
mettail, qui jour et nuyt et sans ceser battent, cloant et ouvrant [...] à
l'endroit de la cave, sont les deux portes de metal, qui jour et nuyt batent
sans cesser...»].
Avevamo visto come i meccanismi di metallo in perenne movimento
fossero tipiche invenzioni letterarie in contesti oltremondani, punti di
passaggio che aprivano le proprie minacciose fauci al fine di potere mettere
alla prova le anime al momento della loro ammissione verso regioni
magiche o oltremondane, con un illustre antecendente rintracciabile nel
magico varco costituito dalle Simplegadi, le rocce che si scontrano,
impedendo il passaggio agli Argonauti. Risultava però mancare una
convincente spiegazione in merito alla ricorrente natura metallica di tali
porte e meccanismi, una spiegazione che possiamo ora rintracciare nella
visionaria, agghiacciante visione che Publio Virgilio Marone ci fornisce nel
Libro VI dell'Eneide. È qui che sono descritte le spaventose porte del
Tartaro, l'abisso dei malvagi condannati, sorvegliato da una Furia, Tisifone
(vv. 552-556 e 570-573):
«Di fronte, enorme, la porta: resistenti come il diamante i suoi pilastri,
non forze d'uomini, non per mezzo di guerra
possono gli stessi dèi celesti distruggerli; si erge la torre di ferro nell'aria,
e Tisifone siede, avvolta in cruento mantello,
posta a guardia del vestibolo, vegliante notte e giorno, [...]
Continuamente i rei la vendicatrice, con il suo flagello,
colpisce e opprime, avventando con la sinistra
le crudeli serpi [...]
Allora, stridendo sugli orridi cardini, s'aprono
le sacre porte».
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Fig. 4 - La torre di ferro dei cancelli del Tartaro dell'Eneide di Publio Virgilio Marone (manoscritto Vat.
Lat. 3225, Biblioteca Apostolica Vaticana, folium 50v)
[Nel testo originale latino:
«Porta adversa ingens, solidoque adamante columnae,
vis ut nulla virum, non ipsi exscindere bello
caelicolae valeant; stat ferrea turris ad auras,
Tisiphoneque sedens, palla succincta cruenta,
vestibulum exsomnis servat noctesque diesque, [...]
Continuo sontes ultrix accincta flagello
Tisiphone quatit insultans, torvosque sinistra
intentans angues[...].
Tum demum horrisono stridentes cardine sacrae
panduntur portae»].
Di nuovo, troviamo un varco di metallo e meccanismi eternamente
scattanti, un'immagine potente che pertiene tipicamente a narrazioni
oltremondane sin dall'antichità classica, e che rinveniamo successivamente
in un resoconto che riguarda la Sibilla Appenninica e i Monti Sibillini, con
un'illustre ascendenza che può essere rintracciata indietro nel tempo fino al
celebre racconto leggendario connesso a Cuma, alla sua Sibilla e al
passaggio verso un antico Aldilà, l'Ade, e fino al suo abisso più profondo, il
Tartaro.
Michele Sanvico
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