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MICHELE SANVICO
SIBILLA APPENNINICA
IL MISTERO E LA LEGGENDA
IL MONDO DELLA SIBILLA: GLI APPENNINI E I MONTI
SIBILLINI1
1. Una Sibilla negli Appennini
Che cosa è una “Sibilla”? Nel mondo classico, le Sibille erano donne alle
quali era stato conferito il dono della profezia. Esse parlavano nel nome e
con le parole di un dio. Ispirata da Apollo, la Sibilla di Delfi cantava le
visioni dalle quali era invasa quando richiesta di un responso oracolare. A
Cuma, nelle vicinanze di Napoli, un'altra Sibilla aveva trasmesso la
saggezza contenuta nei propri libri ad un re romano, Tarquinio.
Fig. 1 - La Sibilla Delfica ritratta da Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina in Roma
1 Articolo pubblicato nel corso dell'anno 2017
(http://www.italianwriter.it/TheApennineSibyl/TheApennineSibyl_SibylsApennine.asp)
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Le Sibille erano generalmente considerate come sacerdotesse di Cibele, la
divinità frigia celebrata come madre vivificatrice della terra, tra i pendii e i
paurosi precipizi delle montagne. Le risposte da loro fornite erano
enigmatiche ed equivoche, tanto che spesso gli uomini trovavano in esse
semplicemente ciò che stavano già desiderando di ascoltare nel profondo
del proprio animo.
Citando da Varrone, un autore classico la cui opera è andata oggi perduta,
un altro famoso autore latino, Lattanzio, racconta che le Sibille erano dieci.
Si tratta della famosissima lista delle dieci Sibille classiche, che include la
Delfica, la Cumana, la Tiburtina e altre.
Gli apologeti cristiani, come Isidoro di Siviglia, affermavano che le Sibille,
benché pagane, avessero annunciato in anticipo l'arrivo del Cristo sulla
terra, predicendo la nascita del Figlio di Dio. In ciò, esse avrebbero fatto
uso delle loro capacità di preveggenza.
Qualcosa, però, sembra non trovare corrispondenza nella lista classica delle
sacerdotesse oracolari: nel quindicesimo secolo, un'altra Sibilla,
apparentemente una nuova Sibilla, aveva fatto la propria apparizione in una
sperduta regione dell'Italia centrale.
Si trattava della Sibilla Appenninica. Un mistero che dura da secoli, e il cui
incantesimo è ancora vivo ai nostri giorni.
2. Le Sibille che cantarono l'Incarnazione
Tra i primi Cristiani, le Sibille - benché pagane - furono considerate come
testimoni dell'Incarnazione. Grazie ai poteri oracolari ad esse attribuiti, gli
antichi autori cristiani poterono scrivere che le Sibille avevano
preannunciato la venuta del Figlio di Dio, prima dell'effettiva nascita di
Gesù a Betlemme. Isidoro di Siviglia, vissuto tra il sesto e il settimo secolo,
scrisse nelle sue Etymologiae sive Originum (Libro VIII, Capitolo 8) la
seguente frase a proposito delle Sibille:
«Quarum omnium carmina efferuntur, in quibus de Deo et de Christo et
gentibus multa scripsisse manifestissime conprobantur» («Sono noti alcuni
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canti delle Sibille nelle quali esse scrissero molte cose a proposito di Dio e
di Cristo, in modo che fossero comprensibili anche ai pagani»)
Fig. 2 - Il passaggio di Isidoro di Siviglia sulle Sibille tratto da un'antica edizione delle Etymologiae sive
Originum
Ed ecco perché il mito delle Sibille è sopravvissuto all'inizio della nuova
età cristiana e alla sparizione degli antichi dèi: esse erano infatti parte del
grande disegno di Dio per la salvezza del mondo.
Nel quinto secolo, Agostino di Ippona, il grande teologo e filosofo, incluse
le Sibille nel sistema teologico cristiano, conferendo così ulteriore vitalità
alla loro leggenda per i secoli a venire. Nel Libro XVIII, Capitolo XXIII
della sua opera La città di Dio, egli così scrisse a proposito delle Sibille:
«Sulla Sibilla Eritrea, la quale è noto abbia cantato molte cose a proposito
di Cristo più chiaramente delle altre Sibille. La Sibilla Eritrea ha
certamente e palesemente scritto molte cose concernenti il Cristo, e le
possiamo leggere per la prima volta in Latino, in cattivi versi latini, molto
dissonanti a causa della goffaggine, come in seguito abbiamo potuto
3
apprendere, di un qualche copista a me ignoto. Perché Flacciano, un uomo
molto famoso, che fu anche proconsole, personaggio di prontissima
eloquenza e grande erudizione, un giorno che stavamo discutendo di Cristo,
tirò fuori un manoscritto in greco, del quale affermava si trattasse delle
profezie della Sibilla Eritrea, tra le quali egli evidenziò un certo brano nel
quale le lettere iniziali dei versi andavano a formare le seguenti parole,
facilmente leggibili, in greco, che significano, “Gesù Cristo figlio di Dio
Salvatore.” […]
Ma la Sibilla, fosse essa l'Eritrea oppure, come molti piuttosto ritengono, la
Cumana, nel suo poema, del quale quella citata è solo una minima
porzione, non solo non contiene nulla che sia relativo al culto dei falsi dèi,
ma anche si esprime apertamente contro di essi e i loro seguaci, in un modo
tale che noi potremmo anche pensare che essa debba essere riconosciuta tra
coloro che appartengono alla città di Dio.»
Fig. 3 - Agostino di Ippona, il riferimento alla Sibilla dalla sua opera La città di Dio
[Nel testo originale latino: « Eodem tempore nonnulli Sibyllam Erythraeam
vaticinatam ferunt. Sibyllas autem Varro prodit plures fuisse, non unam.
Haec sane Erythraea Sibylla quaedam de Christo manifesta conscripsit;
quod etiam nos prius in latina lingua versibus male latinis et non stantibus
legimus per nescio cuius interpretis imperitiam, sicut post cognovimus.
Nam vir clarissimus Flaccianus, qui etiam proconsul fuit, homo facillimae
facundiae multaeque doctrinae, cum de Christo colloqueremur, graecum
nobis codicem protulit, carmina esse dicens Sibyllae Erythraeae, ubi
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ostendit quodam loco in capitibus versuum ordinem litterarum ita se
habentem, ut haec in eo verba legerentur: , quod est latine: Iesus Christus
Dei Filius Salvator. […] Haec autem Sibylla sive Erythraea sive, ut quidam
magis credunt, Cumaea ita nihil habet in toto carmine suo, cuius exigua ista
particula est, quod ad deorum falsorum sive factorum cultum pertineat,
quin immo ita etiam contra eos et contra cultores eorum loquitur, ut in
eorum numero deputanda videatur, qui pertinent ad civitatem Dei»].
3. An Apennine Sibyl in a fifteenth-century chivalric romance
Il romanzo di Andrea da Barberino Guerrin Meschino è un'opera
quattrocentesca nella quale viene registrata, per la prima volta nella storia,
la presenza di un oracolo sibillini su di una remota vetta del Monti Sibillini,
posti tra gli Appennini centrali, con una descrizione della grotta e dei suoi
favolosi abitatori.
In Italia, le storie del cavaliere Guerrino e le sue straordinarie imprese
erano a tutti note e familiari: i cantastorie erano soliti narrarne le gesta nelle
piazze, agli angoli delle strade, durante le fiere e i mercati, e in occasione
delle feste di paese. La gente rimaneva incantata ad ascoltare le
meravigliose vicende vissute da quell'ardito cavaliere, e la descrizione della
sinistra caverna e del magico regno occultati al di sotto della cresta di
roccia. E la fama della grotta viaggiava rapida tra le nazioni.
Come narrato da Andrea da Barberino in quel romanzo, il protagonista
Guerrino, valente cavaliere, aveva asceso la misteriosa montagna degli
Appennini nel corso di una lunga e perigliosa ricerca, condotta al fine di
ritrovare i propri genitori perduti. Egli era venuto a conoscenza del fatto
che una Sibilla dimorava in una grotta posta sulla cima di un monte, e
aveva deciso di raggiungere quel luogo per interrogarla su chi fossero i suoi
genitori e dove fosse possibile trovarli:
«Le montagne dove è la Sibilla è in mezo de Italia dove sono tuti venti per
ché sono alte e za lì stavano li grifoni; e la più pressa cità che li sia se
chiama Norza [...] e passò le montagne de Asperamonte e vene a la cità de
Norza la qual è in mezo de la grande montagna d'pinino [...] Respose uno
homo anticho che se fermò audire parlare e disse o gentilhomo lo è vero
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quelo che dice costui e che la Sibilla è in questa nostra montagna per ché io
me recordo venire tre gioveni in questa terra: che ando[ro]no lì, doi tornono
e l'altro non tornò mai».
Fig. 4 - Un brano tratto dal romanzo cavalleresco Guerrin Meschino
Nel romanzo cavalleresco Guerrin Meschino viene menzionata una
specifica connessione tra la Sibilla Appenninica e la Natività di Gesù, con
una peculiare sovrapposizione tra la figura della sacerdotessa pagana e
quella della Vergine Maria. Uno degli uomini ai quali Guerrino aveva
chiesto informazioni a proposito della Sibilla, aveva infatti risposto in
questo modo:
«Io ho udito dir che ze la savia Sibilla la quale si è vergene in lo mondo che
la credea che dio scendesse i(n) lei qua(n)do incarnò in Maria vergine. E
per questo lei desperò e fu ziudicata per questa casone in queste
montagne».
La Sibilla, una vergine come Maria, aveva desiderato di essere lei la
prescelta per concepire Gesù nel proprio grembo. La volontà di Dio, però,
non coincise con quella di lei: la prescelta fu Maria, e la Sibilla venne
punita per il suo ambizioso desiderio, venendo così confinata in un luogo
solitario degli Appennini.
È questa una reminiscenza del ruolo oracolare delle Sibille, che avevano
prefigurato la venuta di Gesù Cristo sulla terra, così come attestato da
Isidoro di Siviglia e Agostino di Ippona? È possibile. Nondimeno, è la
stessa Sibilla Appenninica a negare ogni connessione con la Vergine Maria,
6
indicando per se stessa una differente discendenza, come avremo modo di
vedere in seguito.
4. Gli Appennini come dimora di una Sibilla classica
Una Sibilla e gli Appennini, un legame che sembra apparire, per la prima
volta, all'inizio del quindicesimo secolo, con un romanzo cavalleresco
come Guerrin Meschino. Esistono evidenza di una tale connessione in
opere letterarie più antiche?
In effetti sussistono riferimenti agli Appennini come luogo adatto a ospitare
le Sibille e i loro oracolari responsi. Alcuni passaggi possono infatti essere
reperiti in opere precedenti, come mostreremo nei prossimi paragrafi.
4.1 La Sibilla e l'Appennino in un preziosissimo manoscritto del XII secolo
Non tutti sanno che il legame tra la Sibilla e i monti dell'Appennino non
risale al 1400 di Guerrin Meschino e di Antoine de La Sale, ma ad almeno
due secoli prima, come si rileva nel prezioso manoscritto n. 25407
conservato presso la Bibliothèque Nationale de France.
Il manoscritto contiene Le Livre de Sibile, antichissima opera attribuita a
Philippe de Thaon, nobile autore anglo-normanno di lapidarii e bestiarii
medievali.
Nel racconto contenuto in Le Livre de Sibile, al foglio 162, si racconta di
come, una notte, cento senatori dell'antica Roma sognassero lo stesso
incomprensibile sogno, nel quale campeggiavano nove diversi soli
multicolori. Perplessi, i senatori decisero di convocare a Roma la Sibilla
Tiburtina, oracolo di avvenente bellezza, affinché spiegasse loro il
significato del sogno.
7
Fig. 5 - Le Livre de Sibile nel manoscritto 25407 della Bibliothèque Nationale of France
Ma la «regine Sibille» (un titolo che è anche ampiamente utilizzato da
Antoine de la Sale) si rifiutò di interpretare quel sogno in Roma, luogo
impuro; e propose ai senatori di trasferirsi in un luogo adatto alla
rivelazione del vaticinio: nel testo anglo-normanno, «ki apenin anun”, che
si recassero dunque tutti «nell'appennino».
Fig. 6 - Un brano tratto da Le Livre de Sibile in cui la Sibilla è nominata con il titolo di «regina»
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Ed ecco un primo, straordinario legame tra una Sibilla e i monti
dell'Appennino. Attestato già intorno al 1120. L'Appennino, come luogo
congeniale alla magia e ai responsi oracolari.
Fig. 7 - L'Appennino menzionato in Le Livre de Sibile come luogo adatto alla resa di responsi oracolari da
parte della Sibilla
4.2 Una Sibilla Appenninica sin dall'Alto Medioevo?
Nondimeno, la cronaca anglo-normanna di Philippe de Thaun (Le Livre de
Sibile, XII sec.) non costituisce affatto la più antica menzione di una Sibilla
tra gli Appennini.
Fin dai più remoti secoli dell'Alto Medioevo e probabilmente sin dalla
tarda età romana, gli Appennini sono stati legati alle Sibille. Molti
manoscritti (es. Oxford Bodleian Library, manoscritto Laud n. 633, XIII
sec. - non disponibile online), i quali riportano versioni ancora più antiche
della Profezia della Sibilla Tiburtina in lingua latina, tratte da manoscritti
antichissimi oggi perduti, menzionano chiaramente e palesemente i monti
Appennini. Queste antiche versioni furono successivamente raccolte nel
Mirabilis Liber (1522), che così racconta la profezia della Sibilla:
«Rispose loro la Sibilla: non è confacente, in questo loco impuro e così
contaminato dalle lotte, che vengano svelati i sacri segreti di questa
visione; piuttosto venite con me, salirò al monte appennino, e lì vi dirò i
fati dei cittadini di Roma; ed essi fecero come ella aveva chiesto loro».
[Nel testo originale latino: «Respondens Sibila dixit ad eos: Non est equum
in loco stercoribus pleno, et diversis certaminatiationibus polluto,
sacramentum huius visionis detegere. Sed venite ascendam in montem
9
apennin, et ibi vobis pronunciabo que ventura sunt civibus Romanis, et
fecerunt, ut dixit»].
Fig. 8 - Il passo del Mirabilis Liber che contiene la profezia resa dalla Sibilla Tiburtina tra le montagne
dell'Appennino
Così la Sibilla Tiburtina aveva parlato ai senatori Romani: c'era una
montagna, negli Appennini, un luogo speciale dove lei avrebbe potuto
pronunciare oracoli in modo confacente.
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È possibile che questo luogo fosse ciò che oggi noi conosciamo sotto il
nome di 'Monte Sibilla'?
5. L'origine della Sibilla Appenninica: Cuma o Tivoli?
La Sibilla Appenninica sembra apparire all'improvviso, nel quindicesimo
secolo, quando se ne fa menzione per la prima volta nel romanzo Guerrin
Meschino e nell'opera di De La Sale Il Paradiso della Regina Sibilla. Come
è possibile che sia apparsa dal nulla? O forse, questa Sibilla è l'erede delle
Sibille classiche di età romana?
La risposta giusta potrebbe essere proprio questa, ed è possibile oggi
individuare almeno due diverse, potenziali ascendenze per la Sibilla degli
Appennini: si tratta, in entrambi i casi, di Sibille, e di Sibille italiche.
Fig. 9 - La possibile discendenza della Sibilla Appenninica, una connessione che potrebbe legare l'oracolo
quattrocentesco con la Sibilla Cumana o la Sibilla Tiburtina
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5.1 La Sibilla Cumana fuggì tra gli Appennini?
Una prima linea di ricerca ci riporta fino alla Sibilla Cumana, la pià famosa
sibilla italica dell'antichità. Publio Virgilio Marone scrive, nell'Eneide, che
«Cumaea Sibylla - horrendas canit ambages antroque remugit - obscuris
vera involvens»: enigmi paurosi essa canta mugghiando nell’antro, la verità
avvolgendo di tenebra. Nell'antica Roma, i preziosi Libri Sibillini,
contenenti le profezie della Sibilla Cumana, erano conservati presso il
Campidoglio.
Ma perché la Sibilla Cumana avrebbe dovuto abbandonare il suo famoso
antro di Cuma per rifugiarsi sulla cima di un isolato picco dell'Appennino?
Le antiche leggende ci raccontano di due diverse possibili cause. Secondo
una specifica tradizione, la profetessa di Cuma sarebbe stata la tutrice ed
insegnante della giovane Vergine Maria: in tale ruolo, la sacerdotessa
avrebbe accarezzato l'idea di prendere il posto della fanciulla e diventare
ella stessa la madre del Figlio di Dio. Per questo suo desiderio presuntuoso
e indegno, la Sibilla sarebbe stata punita e condannata a trascorrere
l'eternità tra le vette dell'Appennino.
Quando Guerrino il Meschino incontra la Sibilla, egli non manca di
interrogarla proprio su questo particolare argomento: «O sapientissima
Sibilla havendoti conceduta la divina providentia la gratia che tu fosti
maestra de quela verzene in cui incarnò el Salvatore de la humana natura,
coma p[er]destu el sen[n]o de non te salvare per ché te desperasti se la
divinità non des[c]ese in te?»
A queste parole, la Sibilla lo interrompe bruscamente e gli risponde, con
ira, di «non essere stata quella che insegna a nostra donna [...] Mis[s]ere
Guerino, el tuo sen[n]o non è perfecto come credeva: chi è colui che mostra
questo che tu hai dito?». Continua poi: «Io voglio che tu sapi el mio nome.
Io fui chiamata da Romani chumana per che io naqui in una cità de
campagna che ha nome chumana: e stete al mondo inanzi che io fosse
iudicata in questa parte mille e ducento anni, che quando Enea vene i
queste parte zoe i Italia, io lo menai per tuto lo inferno: e havea alhora sete
cento anni».
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Malgrado la risposta alquanto seccata, la Sibilla ammette di essere stata
"iudicata", condannata alle remote montagne dell'Appennino. Se non a
causa della Vergine Maria, le motivazioni di questa condanna possono
essere rinvenute nelle persecuzioni condotte dai primi cristiani contro le
divinità greche e romane dopo il IV sec. d.C. Ludovico Ariosto, l'autore
dell'Orlando Furioso, sembra riferirsi proprio a questa possibilità quando
scrive «la Sibilla Cumea, la qual ridotta / s’era in quei tempi a la Nursina
grotta / su gli aspri monti in una selva folta / da i luoghi ameni, ove
habitava prima». Un rifugio, dunque, contro le crescenti minacce
provenienti dalla nuova religione emergente.
La Sibilla Cumana e la Sibilla Appenninica: abbiamo appena visto come tra
di esse sussista uno stretto legame, tanto che nelle mappe antiche i Laghi di
Pilato, posti nel cuore del regno della Sibilla Appenninica, sono identificati
con il medesimo nome del magico lago della profetessa cumana: il Lago di
Averno.
In ogni caso, non è questa l'unica ascendenza che possiamo rinvenire verso
un'antica Sibilla. Esiste infatti un altro illustre legame, con un'altra Sibilla
dell'Italia classica: la Sibilla Tiburtina.
5.2 Un'ascendenza Tiburtina per la Sibilla Appenninica?
Oltre alla Cumana, c'è anche un'altra Sibilla classica per la quale può essere
posto in evidenza un qualche tipo di legame con la Sibilla Appenninica: la
Sibilla Tiburtina.
L'oracolo tiburtino fa parte della famosa lista di dieci Sibille presente nelle
Divinae Institutiones dello scrittore latino Lattanzio, una citazione da un
testo di Varrone: «la decima [Sibilla], tiburtina, nota anche come Albunea,
venerata come dea a Tivoli presso le rive del fiume Aniene, dai cui flutti si
racconta sia stata tratta una sua statua, reggente un libro nella mano».
Al tempo dei primi Cristiani, la Sibilla Tiburtina era nota per la leggendaria
profezia dei nove soli: una visione onirica, sognata da cento senatori
romani nel corso della stessa notte; una visione che la Sibilla interpretò
come una successione di età storiche, dall'impero romano all'avvento del
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Cristianesimo, seguiti da conflitti futuri e poi dalla fine del mondo. Il
racconto leggendario ci è stato tramandato nei secoli in dozzine di copie
manoscritte reperite in tutta Europa.
L'aspetto particolare di questa Sibilla consiste nel fatto che essa è legata
alle montagne e all'Appennino: in alcuni manoscritti che raccontano della
profezia sibillina relativa ai nove soli, l'oracolo risponde alla richiesta dei
senatori dicendo loro che fornirà il proprio responso «in apenninnum»,
sulle montagne dell'Appennino, considerate come sacre e incorrotte,
contrariamente alla sordida Roma. Questa stessa indicazione è presente
anche ne Le Livre de Sibile (Il Libro della Sibilla), un'opera anglo-
normanna del tredicesimo secolo attribuita a Philippe de Thaon, nella quale
si racconta il medesimo episodio concernente la Sibilla Tiburtina, la quale
esorta i senatori a recarsi «ki apenin anun». Un'antica versione manoscritta
in lingua francese della stessa profezia, risalente al 1300, riporta «alons en
la montagne ancyene» ('andiamo alla montagna antica'). Infine, nel Liber
Mirabilis, un'opera cinqucentesca che raccoglie una serie di profezie, la
Sibilla Tiburtina invita i senatori romani «in monte apennin».
Fig. 10 - Sibilla Tiburtina, Anna Bacherini Piattoli, 1750, Collezione Alessandro Marabottini, Palazzo
Baldeschi, Perugia, e testi tratti da antichi libri e manoscritti che menzionano tutti gli Appennini come
dimora della Sibilla Tiburtina
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È concepibile che la Sibilla Tiburtina abbia potuto prescegliere un remoto
picco dell'Appennino come proprio sito oracolare? Potrebbe riferirsi, tutto
ciò, alla cima del Monte Sibilla?
L'ipotesi è certamente affascinante. D'altra parte, è comunque necessario
tentare di rimanere ancorati ai fatti (quantomeno ai fatti letterari) e non
possiamo dunque affermare che sussista una qualsivoglia evidenza di un
legame diretto tra il Monte Sibilla e gli Appennini menzionati nella
leggenda della Sibilla Tiburtina e dei nove soli.
Inoltre, dobbiamo tenere presenti le parole illuminanti che Servio Mario
Onorato, un autore del quarto secolo, ha vergato nei propri Commentari
all'Eneide di Virgilio: «Albunea. [...] quia est in Tiburtinis altissimis
montibus», dice. È dunque chiaro che gli "altissimi monti" tra i quali la
Sibilla Tiburtina (o Albunea) aveva la propria dimora non erano altro che le
creste montuose di Tivoli, in prossimità di Roma: esse non sono certamente
elevate come il picco del Monte Sibilla, nondimeno si tratta di montagne
impressionanti e pittoresche, con scoscesi precipizi e fantastiche cascate,
che sono stati resi celebri nei secoli attraverso le descrizioni pubblicate da
innumerevoli artisti e letterati.
E così, la Sibilla Appenninica non è la Sibilla Tiburtina (se vogliamo
provare ad esplorare un ben più promettente legame, dovremo rivolgerci
alle vicende della Sibilla Cumana). Malgrado ciò, non c'è dubbio che, a
valle di questa nostra focalizzazione sul ruolo oracolare degli Appennini,
abbiamo potuto dimostrare come, nell'antichità, queste alte montagne
d'Italia siano state considerate come luoghi particolarmente puri e ancora
incorrotti: luoghi adatti, dunque, ad ospitare oracoli e profezie, come
avremo modo di vedere nel prossimo paragrafo.
5.3 La Sibilla Tiburtina e il suo legame con un pittoresco paesaggio
montano
Abbiamo visto in un precedente post come, nell'antichità, si ritenesse che la
Sibilla Tiburtina avesse la propria dimora tra «alte montagne», rendendo i
propri responsi oracolari tra gli «Appennini». Tutto questo, però, non
permette di stabilire alcuna diretta relazione con la Sibilla Appenninica.
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In effetti, come attestato da un brano di Servio Mario Onorato, ciò significa
semplicemente che la Sibilla Tiburtina aveva, come noto,la propria sede
oracolare a Tibur (l'odierna Tivoli): un luogo le cui pittoresche
caratteristiche, con cascate e precipizi circondati da alte montagne, hanno
affascinato da sempre non solo gli antichi romani, ma anche decine e
decine di viaggiatori del Grand Tour, a partire dal diciassettesimo secolo e
fino all'età contemporanea.
Nelle immagini qui proposte, potete osservare il Tempio della Sibilla
Tiburtina così come appare ai nostri giorni: il fiume Aniene si getta con
acque roboanti nel precipizio che si apre proprio al di sotto del tempio,
nella sinistra valle nota con il nome di 'Valle dell'Inferno'; da qui, l'acqua si
è poi scavata un passaggio che discende ancora più in basso, attraverso una
muraglia di roccia viva, e viene infine inghiottita all'interno di una sorta di
maligna fessurazione nella quale nessun essere vivente potrebbe mai
sopravvivere, se mai dovesse trovarsi a precipitare in essa.
Fig. 11 - Il Tempio della Sibilla Tiburtina a Tivoli, in prossimità di Roma
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Fig. 12 - Un'altra immagine del tempio della Sibilla Tiburtina a Tivoli
Fig. 13 - La cascata sottostante il tempio della Sibilla Tiburtina a Tivoli nei secoli del Grand Tour
In età classica, lo scenario si presentava in modo ancor più pittoresco di
oggi: la 'Valle dell'Inferno' era completamente inondata da grandi cascate e
innumerevoli rivoli di minori dimensioni, fuoriuscenti dai molteplici orifizi
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aperti nella roccia, come se si trattasse di una sorta di regno inumano
governato dalla potenza della natura (oggi, invece, la nuova cascata
realizzata nel diciannovesimo secolo ha quasi completamente cancellato
questo affascinante spettacolo d'acqua).
«Quae forma beatis ante manus artemque locis!», scrive Publio Papinio
Stazio nella sua opera "Silvae", che include una descrizione di questi
luoghi, «largius usquam indulsit Natura sibi. Nemora alta citatis incubuere
vadis: fallax responsat imago frondibus, et longas eadem fugit umbra per
undas. Ipse Anien - miranda fides - infraque superque saxeus hic tumidam
rabiem spumosaque ponit murmura, ceu placidi veritus turbare Vopisci
Pieriosque dies et habentes carmina somnos» [«Che dolce natura ha il
suolo, quale bellezza possiedono quei luoghi fortunati, anche senza il
lavoro e l’arte dell’uomo. In nessun luogo la natura è stata più generosa
verso se stessa. Alti boschi si protendono verso le acque scorrenti, le fronde
si moltiplicano in falsi riflessi, e le ombre fuggono sulle onde. L’Aniene
stesso – straordinario a credersi – che scorre sassoso a valle e a monte, qui
depone la sua tumida furia e i rimbombi spumeggianti, come se temesse di
turbare i giorni consacrati alle Muse e i sonni pieni di poesia del sereno
Vopisco»].
Ed ecco dunque perché la Sibilla Tiburtina è stata sempre considerata come
una Sibilla 'di montagna', 'degli appennini'. Ma ciò non ha nulla a che fare
con la Sibilla Appenninica, nascosta nel suo elevato rifugio posto nella
regione dei Monti Sibillini, una zona montuosa del tutto differente e
caratterizzata da ben diversi scenari naturalistici.
6. Un oracolo negli Appennini: l'Historia Augusta
Proseguendo nel nostro tentativo di investigare le origini della Sibilla
Appenninica, non possiamo certamente tralasciare una notissima citazione
tratta dall'Historia Augusta, un'antica raccolta di biografie di imperatori
romani compilata nel IV secolo.
Per la prima volta in assoluto, pubblicheremo in questa sede il testo
completo di questo brano, corredato da immagini del più antico manoscritto
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esistente dell'Historia Augusta (IX secolo), redatto con bellissimi caratteri
carolingi.
Fig. 14 - Il manoscritto dell'Historia Augusta, a cui è sovrapposto un busto dell'Imperatore Claudio II il
Gotico
Nella sezione Divus Claudius (Claudio il Divinizzato), scritta dall'autore
latino Trebellio Pollione e dedicata a Claudio II il Gotico, un soldato di
origini barbare che venne proclamato imperatore dalle sue legioni nel 268
d.C., troviamo questo ulteriore, importante riferimento ad un oracolo
localizzato tra gli Appennini.
Dopo avere richiesto un responso oracolare a proposito dei futuri destini
della propria discendenza, a Comagena (un avamposto imperiale situato
presso la frontiera del Norico, sul Danubio), l'Imperatore Claudio si reca
presso un ulteriore oracolo. Ed ecco come l'antico testo ci racconta questa
storia:
«Successivamente, essendosi egli recato nell'Appennino per conoscere del
proprio futuro, ricevette il seguente responso: "Solamente per tre volte
l'estate lo vedrà regnare sul Lazio". Poi, quando egli domandò della propria
discendenza: "Io non porrò al loro governo né limiti né confini". E infine,
chiedendo del proprio fratello Quintillo, che egli voleva associare nel
governo imperiale, gli fu risposto: "Non a lungo i fati lo mostreranno alle
genti"».
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Fig. 15 - Il brano tratto dalla Historia Augusta che menziona un oracolo appenninico
[Nel testo originale latino: «Item cum in Appennino de se consuleret,
responsum huius modi accepit: "Tertia dum latio regnantem viderit aestas”.
Item cum de posteris suis: "His ego nec metas rerum nec tempora ponam".
Item cum de fratre Quintillo, quem consortem habere volebat imperii,
responsum est: "Ostendent terris hunc tantum fata"»].
Ancora una volta, troviamo un oracolo che profetizza tra le vette scoscese
dell'Appennino (l'ultimo responso profetico è un verso tratto dall'Eneide
virgiliana). Per i Romani, la dorsale montuosa dell'Italia sembra essere un
luogo speciale, come abbiamo già avuto modo di vedere in relazione alla
Sibilla Tiburtina, la quale nella leggenda dei nove soli invita i senatori a
seguirla proprio tra gli Appennini, in modo da potere rendere il proprio
responso oracolare in un luogo adatto, in quanto incontaminato.
Esiste un legame tra la storia di Claudio II il Gotico e la Sibilla
Appenninica? Nessuno può saperlo: il testo non ci fornisce ulteriori indizi,
e potrebbe trattarsi semplicemente di un ulteriore riferimento alla Sibilla
Tiburtina. Eppure, è innegabile come questo antico racconto tratto
dall'Historia Augusta costituisca una conferma del fatto che gli Appennini
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erano un luogo speciale. Una dimora perfetta per una Sibilla degli
Appennini.
7. La veglia sacra di un Imperatore romano: Svetonio e gli Appennini
Abbiamo mostrato in precedenti post come la catena degli Appennini
presenti una speciale relazione con le Sibille classiche (Cumana, Tiburtina)
e i centri oracolari (Historia Augusta). Siamo inoltre in grado di rintracciare
un'ulteriore citazione che conduce la ricerca nella medesima direzione:
parole che sono tratte dagli scritti dell'autore classico Svetonio, vissuto nel
I sec. d. C., ed in particolare dalla sua opera più famosa, le Vite dei Cesari.
Voliamo insieme attraverso i fogli del più antico manoscritto conosciuto
contenente l'opera di Svetonio che ci narra dei dodici imperatori romani: è
conservato presso la Bibliothèque Nationale de France a Parigi, alla
collocazione Lat 6115, un vero e proprio tesoro che ci arriva direttamente
dal nono secolo (cfr. immagini). Nella sua opera, Svetonio ci racconta la
vita e le gesta di Aulo Vitellio Germanico Augusto, che fu imperatore dopo
Galba e Otone, entrambi destinati ad un brevissimo regno: anche l'imperio
di Vitellio durò solamente nove mesi, fino al termine dell'anno 69 d.C.,
quando egli fu assassinato dai sostenitori di Vespasiano.
Fig. 16 - La sezione dedicata a Vitellio nelle Vite dei Cesari di Svetonio
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Aulo Vitellio discendeva da una «stirpem ex Sabinis», una famiglia
originaria della provincia della Sabina, nell'Italia centrale, situata proprio
nel mezzo degli Appennini. E, probabilmente, ben sapeva come questi
luoghi fossero unici e speciali.
Quando le legioni di Vitellio sconfissero il suo rivale, l'imperatore Otone, il
quale infine si diede la morte con un pugnale, egli decise di recarsi proprio
tra gli Appennini per una notte speciale di festeggiamenti e celebrazioni.
Nelle parole di Svetonio:
«Egli aprì botti di vino puro e lo distribuì tra i suoi. Con la stessa arroganza
e vanità, osservando la lapide scolpita alla memoria di Otone, dichiarò di
essere lui stesso degno di un tale mausoleo, e inviò il pugnale con il quale il
suo nemico si era ucciso alla colonia di Agrippina, affinché fosse dedicato
al Dio Marte. Inoltre, egli celebrò anche una veglia rituale notturna tra i
gioghi dell'Appennino. Infine, entrò nella città (Roma) al suono delle
trombe, vestito come un generale e indossando la spada...».
[Nella versione originale latina: «plurimum meri propalam hausit
passimque divisit. Pari vanitate atque insolentia lapidem memoriae Othonis
inscriptum intuens, dignum eo Mausoleo ait, pugionemque, quo is se
occiderat, in Agrippinensem coloniam misit Marti dedicandum. In
Appennini quidem iugis etiam pervigilium egit. Urbem denique ad
classicum introiit paludatus ferroque succinctus...»].
Fig. 17 - Gli Appennini menzionati nelle Vite dei Cesari di Svetonio
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Dunque, secondo Svetonio, Vitellio aveva lasciato la Gallia e, nel dirigersi
verso Roma per essere acclamato nuovo e vittorioso imperatore, egli si era
fermato per un'intera notte con le sue truppe tra le vette dell'Appennino - la
terra natìa dei suoi antenati - per una festa sacra, una sorta di
ringraziamento reso agli Dèi per il favore concessogli.
Ancora una volta, per gli antichi Romani gli Appennini sembrano
rappresentare un luogo molto speciale, presso il quale effettuare riti e
celebrazioni. Quale montagna o quale valle aveva scelto Aulo Vitellio per
trascorrere la sua veglia sacra? Nessuno lo sa. Ma certamente gli Appennini
confermano la propria speciale vocazione per gli oracoli, i luoghi di culto e
le pratiche rituali e devozionali. La Sibilla Appenninica stava già per
arrivare.
8. Nel nome dei Sibillini: la "Tetrica rupes"
Dopo avere considerato il rolo degli Appennini nella tradizione sibillina,
andiamo a prendere in considerazione una specifica porzione di essi, il cui
nome stesso è marcato dal segno di una Sibilla: i Monti Sibillini.
Oggi 'Monti Sibillini' è il nome, molto conosciuto, di un territorio presso il
quale una natura straordinaria custodisce numerose leggende ricche di
mistero. Ma quale era il nome dei Monti Sibillini nel mondo antico?
I Romani chiamavano questa regione 'cupa, minacciosa montagna' ('Tetrica
rupes' in latino), come riportato da Virgilio nel Libro VII dell''Eneide, con
la descrizione delle schiere italiche inviate a fronteggiare l'invasore Enea:
«Ecce Sabinorum prisco de sanguine magnum Agmen [...] postquam in
partem data Roma Sabinis [...] qui Tetricae horrentis rupes [...] quos frigida
misit Nursia»
[Nel testo originale latino: «Ecco giunge il grande Esercito dell'antica stirpe
dei Sabini [...] dopo che Roma fu in parte data ai Sabini [...] ecco coloro
che venivano dalla spaventosa rupe Tetrica [...] e quelli che furono inviati
dalla gelida Norcia»].
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Fig. 18 - I paesaggi dei Monti Sibillini sono in grado pienamente di suscitare l'idea di luoghi magici,
sospesi nel tempo e nella storia
Fig. 19 - Il brano tratto dall'Eneide di Virgilio nel quale sono contenute le parole «Tetricae horrentis
rupes» - British Library, manoscritto Harley n. 2772, undicesimo secolo
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Servio Mario Onorato, un erudito del quinto secolo, ci fornisce il suo
commento su questo specifico verso di Virgilio (Commentarii in Vergilii
Aeneidos libros, Libro VII), specificando che «lo scosceso e impraticabile
Monte Tetrico si trova nella terra dei Sabini, dove gli uomini sono duri e
sono chiamati 'tetrici', scontrosi e cupi»: «Tetricus mons in Sabinis
asperrimus, unde tristes homines tetricos dicimus».
E anche Isidoro di Siviglia, nel Libro X del suo Etymologiarum sive
Originum (sesto secolo d.C.), aggiunge al testo di Servio una precisazione
relativa a quegli uomini che vivevano presso il Tetrico: «taciturni, inclini al
silenzio» («Taciturnus, in tacendo diuturnus»).
Lo stesso nome 'Tetricus' per i Monti Sibillini è menzionato anche da Silio
Italico, console e poeta romano vissuto nel primo sec. d.C. Nella sua opera
Punica (Libro VIII), egli fornisce un elenco delle schiere italiche convocate
dai Romani per affrontare Annibale nel corso della Battaglia di Canne (216
a.C.):
«Assieme ad essi arrivano i soldati di [...] Rieti, sacra alla grande Madre
degli Dèi, e Norcia abitata dalle brine, e coorti dalla rupe tetrica».
[Nel testo originale latino: «Hunc Foruli magnaeque Reate dicatum
Caelicolum Matri necnon habitata pruinis Nursia et a Tetrica comitantur
rupe cohortes»].
Anche Marco Terenzio Varrone, nel Libro II del suo De re rustica (primo
secolo d.C.), scrive che «anche ora ci sono in molti luoghi varie specie di
armenti selvatici. [...] Ci sono infatti in Italia molte capre presso i monti
Fiscello e Tetrica» («Etiam nunc in locis multis genere pecudum ferarum
sunt aliquot. [...] Sunt enim in Italia circum Fiscellum et Tetricam montes
multae»).
Ma cosa intendeva Varo per 'Monte Fiscello'? La risposta si trova in Plinio
il Vecchio, il quale nella sua Naturalis Historia (Libro III) dichiara che
«Velinos accolunt lacus [...] Nar amnis exhaurit illos sulpureis aquis
Tiberim ex his petens, replet e monte Fiscello Avens iuxta Vacunae nemora
et Reate in eosdem conditus» («vicino ai Laghi del Velino [...] il Nera con
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le sue acque sulfuree esce da questi laghi correndo verso il Tevere; il fiume
Avens scorre dal Monte Fiscello vicino ai boschi di Vacuna e Rieti»).
Dunque Plinio, nel brano citato, seppure forse in parte corrotto, sembra
confondere il fiume Nera (che nasce in effetti nel massiccio dei Monti
Sibillini) con il fiume Velino ('Avens'), che entra nel e fuoriesce dal Lago di
Piediluco, e la cui sorgente si trova nell'area del Monte Terminillo, insieme
a varie fonti sulfuree. Così il Monte Fiscello è probabilmente da
identificarsi con il Monte Terminillo.
'Tetrica rupes', cupa, minacciosa montagna: questo era, nell'antichità, il
nome dei Monti Sibillini. E - come vedremo in un successivo paragrafo -
questo nome si tramuterà in seguito in qualcosa di differente e misterioso:
un diretto ed inequivocabile 'Monte della Sibilla'.
9. Nel nome dei Sibillini: le Montagne della Sibilla
Non sappiamo né quando, né perché; eppure, ad un certo punto nel corso
del volgere dei secoli, la 'Tetrica rupes' (il nome dei Monti Sibillini
nell'antichità) sembra trasformarsi in qualcosa di differente: l'intero
massiccio montuoso diviene 'le Montagne della Sibilla'.
Nel Capitolo 137 del romanzo quattrocentesco Guerrin Meschino, al
protagonista viene raccontato che la Sibilla «li iera in li monti de pinino
i[n] lo mezo de Italia sopra una cità chiamata Norza»; e, poche righe più
sotto, Guerrino cerca di raccogliere informazioni su «dove era il monte de
la Sibilla». Antoine de La Sale, proprio all'inizio del suo Il paradiso della
Regina Sibilla riferisce di un «mont du lac de la royne Sibille» (l'odierno
Monte Vettore) e di un «mont de la royne Sibille», posto proprio di fronte
al primo.
Dunque, nel quindicesimo secolo non è più possibile rintracciare alcuna
menzione a proposito di un 'Monte Tetrico': il massiccio dei Monti Sibillini,
una porzione degli Appennini in terra d'Italia, risulta già essere indicato
come una montagna o un gruppo di montagne connesse ad una Sibilla.
Inoltre, nessun riferimento al picco oggi conosciuto come Monte Vettore
sembra essere reperibile nel volgere di questa tarda età medievale.
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Se saltiamo ancora più avanti nel tempo, ci imbattiamo in un ulteriore
indizio risalente al 1566: si tratta dell'incredibile mappa contenuta nel
manoscritto vaticano Vat. Lat. 5241, nel quale l'intero massiccio montuoso
viene identificato con la seguente frase: «questa montagna dicono de
chiavetoie (Vettore?), altramente La montagna della Sibilla». Di nuovo,
nessuna "Tetrica rupes" è più presente: il disegno mostra invece un gruppo
montuoso denominato nel suo complesso «la montagna della Sibilla»,
nonché un primo, embrionale riferimento a ciò che noi, oggi, conosciamo
come Monte Vettore.
Fig. 20 - Il manoscritto vaticano Vat. Lat. 5241 comprendente un diagramma dei Monti Sibillini
Nel secolo successivo, Padre Fortunato Ciucci, un monaco nursino,
concentra la propria attenzione sul Monte Vettore. Nelle sue Historie
dell'antica città di Norsia, scritte nel 1650, egli cita apertamente il «gran
Monte Vittore [...] si chiama Vittore per essere di tutti il maggiore, così egli
l'istessa qualità ritiene in bellezza ed altre prerogative». Padre Ciucci non
menziona alcuna specifica montagna relativa alla Sibilla, limitandosi ad
affermare che «nell'Istesso Monte Vittore s'apre un'orrenda Spelonca dove
[...] abita una mensogniera Sibilla».
In ogni caso, in tutte le mappe del sedicesimo e diciassettesimo secolo
relative a questi territori viene sempre mostrato un isolato Monte della
Sibila, senza alcun riferimento ad un adiacente Monte Vettore, né ad alcun
massiccio di più vaste dimensioni nelle vicinanze del famoso picco
sibillino.
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Fig. 21 - Scenari magici tra i Monti Sibillini
Per chiudere il cerchio, sarà necessario arrivare fino al 1869, quando un
erudito locale, Feliciano Patrizi-Forti, pubblicherà il suo Delle memorie
storiche di Norcia. Ed ecco cosa egli scriverà nella pagina iniziale della
propria opera da settecento pagine:
«Il gruppo appenninico alle falde del quale fu Norcia fondata, è detto
'Monte della Sibilla', anticamente 'Mons Tetricus'».
In una singola frase, troviamo riassunto l'intero percorso di trasmutazione
dalla "Tetrica rupes" degli antichi romani fino ai nostri moderni "Monti
Sibillini".
Da qualche parte lungo la strada del tempo, una Sibilla è apparsa
magicamente, donando il proprio nome leggendario ad un'intera regione
montuosa d'Italia: un evento stupefacente, che necessita certamente di
ulteriori studi ed investigazioni.
Michele Sanvico
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