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Il concetto di Dio nell'Einleitung all'Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel. "Cum-Scientia", pp. 79-101

Authors:
  • Università degli Studi di Perugia e Università per Stranieri di Perugia

Abstract

Si riflette sul concetto di Assoluto come viene trattato da Hegel nella Introduzione alla Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.
Aldo Stella*
Il concetto di Dio nell’Einleitung all’Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel
1. Per introdurre
In questa Annotazione intendiamo riflettere sul concetto di Dio, così come emerge nell’Introduzione
all’Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel. Si tratta di una Annotazione teoretico-critica, nel
senso che svolgeremo una riflessione misurandoci direttamente con il testo, senza la mediazione di
altre interpretazioni.
Abbiamo scelto i paragrafi dell’Introduzione all’Enciclopedia poiché in essi il richiamo a Dio è
frequente e, inoltre, compaiono affermazioni estremamente significative, delle quali Hegel non sempre
mostra di tenere nel dovuto conto il valore. Precisamente per questa ragione, l’importanza dei passi in
cui si parla di Dio risulta ancora maggiore. Come mai, è da domandarsi infatti, Hegel fa delle
affermazioni che poi non vengono adeguatamente tenute in considerazione né in questa opera né nelle
altre?
Il nostro progetto è il seguente: dopo avere svolto l’indagine annunciata, ci proponiamo, in un lavoro
successivo, di prendere in esame il concetto di Dio come emerge nell’opera Lezioni sulle prove
dell’esistenza di Dio, che raccolgono alcune lezioni di Filosofia della religione, tenute da Hegel per un
decennio a partire dal 1821. Si tratta, dunque, di riflessioni che seguono l’Enciclopedia, pubblicata per
la prima volta nel giugno del 1817 (del 1830 è la terza edizione).
Vogliamo stabilire se quanto annunciato nei passi, che prenderemo ora in considerazione, troverà
una qualche conferma almeno nell’opera espressamente dedicata al concetto di Dio, nella quale la
prova della sua esistenza viene essenzialmente intesa come l’elevazione stessa dal finito all’infinito.
2. Dio come unica verità
La prima affermazione riguardante Dio viene posta da Hegel nel § 1 dell’Introduzione
all’Enciclopedia. Parlando della filosofia e della religione, così egli scrive: “Entrambe hanno come
oggetto la verità, e nel senso più alto – nel senso che Dio è la verità ed egli soltanto è la verità (in dem,
daß Gott die Wahrheit und eralleindie Wahrheit ist)”1.
Egli specifica successivamente il concetto: “Tanto la filosofia quanto la religione trattano poi anche
il finito, la natura e lo spirito umano, la loro relazione reciproca e la relazione a Dio come loro verità
(deren Beziehung aufeinander und auf Gott als auf ihre Wahrheit)”2.
Dai due passi, si evince che Dio è l’infinito e l’infinito è la verità. Di contro, il finito è ciò che risulta
insufficiente a sé stesso e per questo ciascun finito deve rapportarsi ad altro finito nonché alla verità,
che del finito costituisce il fondamento. Non a caso, Hegel afferma del finito quanto segue: “tutte le
cose finite invece, hanno una non verità in sé […]. Perciò devono perire”3.
Il punto che domanda di venire chiarito, prima di ogni altro, riguarda la relazione tra il finito e Dio:
come va intesa questa relazione? A noi sembra di poter dire che, se la si intende nel senso del rapporto
ordinario, cioè come un nesso tra estremi, ciò non possa non comportare che si finisce per includere
1* Università per Stranieri di Perugia, Piazza Fortebraccio 4, 06123 Perugia, aldo.stella@unistrapg.it ; Università degli Studi di Perugia,
Piazza Ermini 1, 06123 Perugia, aldo.stella@unipg.it .
G.W.F. HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), in Sämtliche Werke, dritte Auflage der
Jubiläumsausgabe, Bd. 6, hrsg. von H. Glockner, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1968; trad. it. di V. Verra, Enciclopedia
delle scienze filosofiche in compendio, Parte Prima, La scienza della logica, UTET, Torino 1981, p. 123.
2 Ibidem.
3 Ivi, p. 168.
Dio nel nesso, riducendolo a termine in rapporto con l’altro termine e, dunque, negando la sua
infinitezza, che è poi la sua verità.
Per approfondire la questione riguardante l’infinità di Dio, è importante considerare anche l’altro
aspetto, quello per il quale Dio è considerato la realtà autentica, cioè la realtà effettiva (Wirklichkeit):
si presuppone tanta cultura da sapere non soltanto che Dio è effettivamente reale ( daß Gott wirklich), è ciò che vi ha
di più effettivamente reale, egli soltanto è effettivamente reale ( daß er das Wirklichste, daß er allein wahrhaft
wirklich ist), ma anche che, dal punto di vista formale, l’esistenza in generale è in parte fenomeno, e soltanto in parte
è realtà effettiva. […] Ma, già per il sentimento comune, un’esistenza contingente non merita il nome enfatico di
realtà effettiva – il contingente è un’esistenza che non ha un valore molto superiore al possibile, un’esistenza che può
non essere allo stesso modo che è4.
Ci sembra molto significativo che Hegel affermi che ogni realtà empirico-fattuale, proprio in quanto
solo contingente, non è una realtà effettiva; essa, anzi, è una realtà che tanto può essere quanto può non
essere, così che è una realtà che non coincide con il vero essere, il quale deve venire attribuito solo a
Dio: Dio e il vero essere, o la realtà effettiva, sono dunque un medesimo.
Altrimenti detto: la determinazione empirico-fattuale, proprio perché contingente, tanto è quanto
non è, cioè tanto è apparizione5 quanto è realtà, e ciò non può non significare che ciò che in essa v’è di
effettivamente reale è solo quell’essere che, in ultima istanza, coincide con Dio stesso.
Ci sembra, così, di essere pervenuti a un punto cruciale: se il finito è il suo finire (perire) perché non
ha una verità in sé, allora l’unica verità della determinazione finita è il suo risolversi nella realtà
autentica, nell’infinito essere che è Dio stesso.
Lo Auf-hebung, di cui a più riprese parla Hegel, è un Er-hebung, ossia un’elevazione: il finito non
può non elevarsi, ossia non può non andare oltre (trascendere) la propria finitezza. Ciò equivale a dire
che non può non togliersi, perché solo togliendosi come finito può acquisire la vera realtà che lo fa
essere come infinito.
La domanda che si impone è, allora, questa: nel togliersi, il finito si conserva in qualche modo?
Questa domanda è di estrema rilevanza anche perché prelude all’altra, che è fondamentale: l’essere (la
vera realtà, l’infinito, Dio stesso), se deve venire inteso come assoluto, cioè come emergente oltre
l’ordine dei determinati (oltre tutto ciò che è relativo), può venire pensato come sintesi, come insieme?
A noi sembra, infatti, che, se l’assoluto viene inteso come insieme, allora il determinato viene
comunque conservato, dal momento che l’insieme è una collezione di due o più determinazioni.
Se il finito (determinato) non può non superarsi, ne ricava, allora, che l’assoluto (l’essere) non può
venire pensato come sintesi, cioè come un insieme, ma come la necessità che impone al determinato
dunque, anche all’insieme – di togliersi, oppure, detto con altre parole, come quell’unità (Einheit) nella
quale la molteplicità viene meno e che, per questa ragione, non è riducibile all’unificazione
(Vereinigung)6, che è ancora una relazione.
Per continuare a riflettere sulla necessità che il finito si tolga e, di conseguenza, che l’assoluto non
venga inteso come un insieme di determinazioni, ricordiamo che lo Auf-hebung indica un “togliere
(tollere)” che è anche un “conservare”. Ci chiediamo: che cosa, propriamente, si conserva del finito,
stante la necessità del suo “togliersi”? Rileviamo che, da un lato, se la determinazione si conservasse
così come è empiricamente, allora essa non si sarebbe effettivamente tolta. Ma, dall’altro, la
4 Ivi, p. 129.
5 Nella edizione dell’Enciclopedia curata e tradotta da Benedetto Croce, l’espressione Erscheinung, che Verra traduce “fenomeno”, viene
tradotta “apparizione”, definita “fuggevole e insignificante”, precisamente per sottolinearne la non consistenza teoretica (Laterza, Roma-
Bari 19788, vol. I, p. 9).
6 Così scrive E. DE NEGRI: “Per indicare questa [l’unità], lo Hegel usa Einheit; mentre per indicare l’universalità che supera la scissione e
la Einheit, preferisce più spesso Einigkeit (traducibile in modo approssimativo come unione) e Vereinigung, unificazione. Quest’ultima
nel suo valore supremo è l’assoluto o idea” (Interpretazione di Hegel, Sansoni, Firenze 19733, p. 47). L’unificazione è l’idea stessa
proprio perché l’intero viene concepito come una sintesi.
determinazione non può neppure venire “cancellata”: se venisse cancellata, sarebbe un toglimento
ancora empirico, così che si determinerebbe un toglimento empirico dell’empirico.
A nostro giudizio, quindi, ciò che si deve cogliere in forza delle parole di Hegel, per evitare di far
valere un’inintelligibile cancellazione dell’empirico, è la necessità di un toglimento trascendentale
dell’empirico, nel senso che la determinazione non può venire sostituita da un’altra determinazione,
secondo una disposizione orizzontale, ma domanda di venire oltrepassata verticalmente, nel senso che
non può non valere come l’atto del suo stesso trascendersi, che è anche l’atto del suo elevarsi
(inverarsi).
In tal modo, il trascendersi del finito, da un certo punto di vista, può venire inteso anche come un
“conservarsi”, e ciò per la ragione che, proprio in virtù di questo atto, il finito si toglie nell’infinito: è
questo atto, intrinseco al finito, che trasforma il finito in infinito, che lo eleva, ed è precisamente
questo atto che si conserva proprio per trasformare il finito.
Ma va immediatamente aggiunta una precisazione, che è della massima importanza: l’atto che toglie
il finito, da un altro punto di vista, è anche l’atto che, togliendo il finito, toglie stesso intendendo
essere uno con l’Uno, cioè con Dio. In questo senso, insomma, si toglie anche ciò che, per altro verso,
si conserva, e si toglie per la ragione che, in quanto atto, esso mantiene ancora una sua determinatezza,
che invece è proprio ciò che deve togliersi, in quanto indice di finitezza.
Si potrebbe dire che è in virtù di questo atto che il mondo si toglie in Dio, come riteniamo emerga
anche dalle Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio, opera della quale come precisato ci
occuperemo in un prossimo lavoro, che deve venire pensato in continuità con il presente.
Il fatto è che questa nostra interpretazione, che pure ci sembra legittimata anche da vari passi
dell’opera citata, e dedicata espressamente a Dio, viene parimenti smentita dallo stesso Hegel, il quale
in molteplici altri passi tende a interpretare l’assoluto, l’infinito, cioè Dio, come una totalità, ma nel
senso non dell’intero, bensì dell’insieme, in modo tale che il determinato (finito) entrerebbe nella
costituzione stessa dell’infinito e si conserverebbe in esso in quanto finito (determinato).
3. Intelletto e ragione
Per descrivere il rapporto che intercorre tra lo spirito, che costituisce il fine cui tende la filosofia, e il
pensiero, così scrive Hegel:
lo spirito, in quanto senziente ed intuente, ha come oggetto il sensibile, in quanto fantasia, immagini, in quanto
volontà, scopi ecc.; contro, o anche semplicemente a differenza di queste forme del suo essere determinato e dei suoi
oggetti, lo spirito soddisfazione anche alla sua interiorità più alta, al pensiero ed acquisisce il pensiero come
proprio oggetto. Così lo spirito giunge a se stesso, nel senso più profondo del termine, poiché il suo principio, la sua
pura ipseità è il pensiero7.
Nel descrivere l’itinerario mediante il quale lo spirito perviene a stesso, Hegel dice che le
determinazioni che appartengono alla sensibilità, all’immaginazione, alla volontà e, in genere, a tutto
ciò che non appartiene al pensiero costituiscono proprio ciò che lo spirito trova come ostacolo al
proprio procedere, così che di tali determinazioni dovrà liberarsi onde giungere alla propria autentica
destinazione, che è costituita dal pensiero stesso.
Pensare significa, dunque, trascendere le determinazioni indicate. Il pensiero, che costituisce
l’essenza dello spirito, non è, infatti, il pensiero “soltanto intellettivo”, cioè il pensiero che si ferma a
quelle determinazioni che esso stesso pone.
Così Hegel descrive questo fondamentale punto nella Prefazione alla prima edizione della Scienza
della logica: “L’intelletto determina e tien ferme le determinazioni. La ragione è negativa e dialettica,
7 G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., p. 136.
perché dissolve in nulla le determinazioni dell’intelletto (Der Verstand bestimmt und hält die
Bestimmungen fest; die Vernunft ist negativ und dialektisch, weil sie die Bestimmungen des Verstands
in Nichts auflöst)”8.
La differenza fondamentale è quella che sussiste tra intelletto e ragione. L’intelletto si ferma alle
determinazioni che pone, stante la sua attività analitica: senza analisi, non v’è determinazione, così che
la determinazione è l’esito del processo scompositivo e, dunque, dell’attività del negare. Analisi di
cosa, ci si deve domandare?
Ciò che costituisce l’oggetto dell’analisi non può essere l’intero, anche se, a rigore, solo l’intero ne
costituisce il prerequisito, cioè la conditio a parte ante che potrebbe legittimare l’operazione dello
scomporre. In effetti, l’intero, precisamente in quanto intero, non può non sottrarsi a quell’analisi che,
applicandosi su di esso, lo negherebbe nella sua interezza e lo ridurrebbe a una molteplicità di elementi
i quali, riunificati, genererebbero il composto.
Se ne deve concludere che, a rigore, l’analisi può esercitarsi soltanto sul composto, perché solo esso
può venire analizzato senza venire alterato. Può esercitarsi solo sul composto, ma senza un fondamento
che possa effettivamente legittimarla.
Inoltre, poiché il composto non può non essere il prodotto di un’analisi preliminare, che genera
quegli elementi che poi vengono riunificati, ne consegue, allora, che tra composto e analisi sussiste un
circolo, che non può non essere vizioso: l’uno rinvia all’altra, all’infinito.
Per questa ragione, l’attività dell’intelletto, che consiste precisamente nell’analizzare, deve venire
superata, stante il suo costituirsi come il circolo del presupporre. Non soltanto, tuttavia, deve venire
superata l’attività dell’analizzare, ma devono venire superati anche i suoi prodotti. Le stesse
determinazioni, infatti, sono segnate dal limite proprio perché sono esito di una scissione, di una
separazione. Dalla scissione originano i separati, i quali non di meno presentano ciascuno un’identità
con sé solo in quanto si riferiscono alla loro differenza.
La ragione, di contro, vale come il superamento dell’intelletto, nel senso che è “negativa” ( negativ),
perché dissolve le determinazioni dell’intelletto e le dissolve “dialetticamente”, cioè in virtù di una
negazione che non sopraggiunge estrinsecamente alla determinazione come se quest’ultima si
togliesse solo dopo essersi posta –, bensì indica il suo togliersi nell’atto stesso del suo porsi, poiché
essa – lo vedremo nel prossimo paragrafo – è intrinsecamente contraddittoria.
4. Inseparabilità tra le determinazioni
L’intelletto, dunque, presume di poter dividere l’intero affinché possano emergere le determinazioni:
“La determinatezza è la negazione posta come affermativa; è la proposizione di Spinoza: Omnis
determinatio est negatio9. Che è come dire: l’attività del determinare coincide con l’attività del negare,
ossia con l’attività del separare. Separare “A” da “non-A” è tutt’uno con la posizione di entrambi;
porre “A”, infatti, equivale a contrapporlo a “non-A” o, detto altrimenti, “A” è “A” solo in quanto è
negazione di “non-A”.
Se non che, in tal modo “non-A” viene ad avere un ruolo costitutivo di “A”: se “A” si pone solo
perché si contrappone a “non-A”, allora la contrapposizione è quella relazione che consente la
posizione di entrambi, così che le due determinazioni non possono venire pensate come separate,
proprio perché sono inseparabili. E la domanda diventa: se sono inseparabili, sono due determinazioni
oppure si tratta di un’unica realtà?
Ecco, a noi sembra che Hegel, in alcuni passi, faccia coincidere il fondamento (l’essere) con la vera
unità, così che l’inseparabilità viene colta nel suo senso autentico: come oltrepassamento della dualità;
8 G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, in Sämtliche Werke; trad. it. di A. Moni (rev. e intr. di C. Cesa), Scienza della logica, Laterza,
Bari 19743, vol. I, p. 6.
9 Ivi, p. 108.
in altri, invece, mantenga l’inseparabilità come nesso tra inseparabili, così da ridurre l’unità a
unificazione, a sintesi. In tal modo, le determinazioni non solo non vengono tolte, ma entrano a
costituire il fondamento stesso, lo spirito, che pure è assoluto.
Nell’Introduzione all’Enciclopedia, Hegel, quando deve indicare due determinazioni che si pongono
opponendosi, sceglie di fare riferimento ai concetti di “immediatezza” e “mediazione”, ma il discorso
che svolge per esse vale per ogni coppia di opposti, dunque per ogni determinazione: “seppure
entrambi i momenti si manifestino anche come distinti, nessuno dei due può mancare ed entrambi sono
inseparabilmente connessi. Pertanto il sapere che concerne Dio […] contiene essenzialmente
un’elevazione al di sopra della sensazione o dell’intuizione sensibile”10.
Quel sapere, che intende cogliere la verità, cioè Dio stesso, non può non elevarsi, quindi, oltre le
determinazioni, a cominciare dalle determinazioni sensibili, la cui separatezza è palese e viene anche
percepita. Ebbene, quella separatezza che sussiste tra le determinazioni, ancorché percepita, non è vera,
non è autentica, stante il fatto che ciascuna determinazione si pone solo perché si rapporta ad altra
determinazione, contrapponendosi ad essa.
Per fare un’esemplificazione del concetto di “inseparabilità”, Hegel sceglie quello di “forza” e dice
che la forza è espressione di un nesso, il nesso di polarità, che vale quale “differenza” (Unterschied)
“nella quale i differenti son legati insieme inseparabilmente (in Welchem die Unterschiedenen
untrennbar verbunden sind)”11.
Il punto sul quale si deve insistere è il seguente: quale significato ha l’espressione “legati insieme
inseparabilmente”? Ciò che discutiamo, insomma, è “il legame tra inseparabili”. A noi sembra che,
parlando di “legame”, si è eo ipso separato ciò che, invece, si dichiara inseparabile. Il legame, infatti,
implica la dualità e quest’ultima non può non valere quale separatezza.
Si tratta di un nodo concettuale di grande rilevanza: se si continua a parlare di “inseparabili”, al
plurale, allora non si risolve la dualità nell’unità, ma si riduce l’unità a sintesi, la quale poggia proprio
sulla dualità.
Se non che, mantenere la dualità significa mantenere la determinatezza, così che ci si trova in questa
situazione: se si sceglie l’unità, allora si deve andare oltre il determinato; se, di contro, si sceglie
l’unificazione, si è nella condizione di potere attribuire ad essa una determinatezza e si evita il rischio,
più volte paventato da Hegel, di cadere nell’indeterminato, ma semplicemente perché la dualità
permane.
Per chiarire ulteriormente il nodo indicato, ripartiamo dal concetto di “legame” e svolgiamo alcune
considerazioni su di esso. Il legame postula la determinatezza dei termini vincolati e la determinatezza
impone che l’uno si distingua dall’altro, ossia si costituisca in forza di un’identità, che per essere
effettivamente tale deve valere quale autonoma e autosufficiente.
Ma la domanda è: può un’identità determinata essere autonoma e autosufficiente? La risposta non
può che essere negativa, dal momento che ciascuna identità determinata si pone solo perché si vincola
ad altra identità e si vincola inseparabilmente.
Siamo così tornati al punto: allorché si parla di “due inseparabili” si costruisce una contraddizione
in termini, un ossimoro, perché, se veramente vige l’inseparabilità, allora si tratta di un’unica realtà, la
quale solo contraddittoriamente può venire scissa in due componenti.
Con questa conseguenza: la contraddizione fondamentale consiste nell’assumere la determinazione
come una realtà effettiva. Su questo punto sembra concordare lo stesso Hegel, per lo meno in alcuni
passi che egli ci offre. Fino a quando il pensiero si lascia irretire dalle determinazioni, si tratta del
pensiero intellettivo, il quale “si impiglia in contraddizioni, cioè si perde nella salda non-identità dei
pensieri, e, quindi, non raggiunge se stesso, ma rimane piuttosto prigioniero nel suo contrario”12.
10 G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., p. 138.
11 G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, cit., p. 11.
12 G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., pp. 136-137.
Precisamente per questa ragione, egli afferma che la natura del pensiero è “dialettica”: “Capire che
la dialettica è la natura del pensiero stesso, che il pensiero come intelletto deve necessariamente cadere
nel negativo di se stesso, costituisce un aspetto capitale della logica”13.
La nostra lettura è la seguente: la dialettica non va intesa nel modo ordinario, cioè quello che separa
la tesi dall’antitesi e questa dalla sintesi: tale interpretazione della dialettica è quella che fornisce
l’intelletto, che non coglie l’inseparabilità perché si fonda sulla separatezza.
L’inseparabilità, che viene colta soltanto dalla ragione, indica la necessità che ciò che è separato,
ossia ciò che è determinato, venga meno a stesso, ossia si superi, si trascenda. E questo
trascendimento costituisce la dialettica intrinseca al finito: il suo dialettico andare oltre stesso.
L’unità, nella quale il finito si toglie, rappresenta, tuttavia, non soltanto l’esito del toglimento della
molteplicità, che coincide con la separatezza, ma altresì la ragione di tale toglimento, valendo quale
condizione trascendentale del togliersi del finito.
Orbene, tale lettura del testo di Hegel ci sembra confermata in forma esemplare da questo passo,
tratto dalla Scienza della logica:
Ma a questa unità non si riflette (Aber auf diese Einheit wird nicht reflektiert). E nondimeno è soltanto questa unità,
che evoca nel finito l’infinito e nell’infinito [che ancora si contrappone al finito] il finito (im Endlichen das
Unendliche, und im Unendlichen das Endliche hervorruft). Essa è per così dire la molla del progresso infinito (sie ist
sozusagen die Triebfeder des unendlichen Progresses). Questo progresso è l’esterno di cotesta unità, un esterno a cui
la rappresentazione si ferma (Er ist das Äuβere jener Einheit, bei welchem die Vorstellung stehen bleibt)14.
L’unità è il fondamento, un fondamento che non pone i fondati, ma che li toglie dialetticamente per
l’insufficienza di ciascuno a stesso. Si potrebbe anche dire: l’unità è quella condizione
incondizionata in virtù della quale si coglie il limite di ciò che si presenta come se fosse immediato,
cioè autonomo e autosufficiente, ma che si rivela “determinato”, cioè “finito”, proprio perché segnato
dal limite.
Poiché segnato dal limite, inoltre, esso non può non poggiare sulla differenza, sull’altro da sé, così
che ogni determinazione si rivela, in sé, sé et non-sé, sé et la negazione di sé. Ciascuna determinazione,
insomma, si rivela una contraddizione, ossia il proprio contraddirsi.
E va aggiunto, in continuità con quanto abbiamo affermato verso la fine del secondo paragrafo: il
pensiero va inteso secondo una duplice prospettiva. Esso, da un lato, vale come attività, ossia come
quella mediazione che interviene sull’immediato e lo trasforma, inscrivendolo nella relazione con
l’altro da sé. Da un altro lato, invece, va inteso come l’atto del trascendersi del finito, atto che è la
stessa intenzione di verità che all’assoluto tende e nell’assoluto intende compiersi.
Se inteso come intenzione di verità, il pensiero si essenzializza nel togliersi del finito nell’infinito,
cioè nell’assoluto, il quale può venire indicato come “emergente” oltre l’universo delle determinazioni
solo a condizione che si precisi che l’emergenza deve venire pensata senza il vincolo a ciò su cui si
emerge.
Si potrebbe precisare ulteriormente, dicendo che il pensiero è l’atto del trascendersi del determinato,
proprio perché l’atto è l’espressione dell’infinito nel finito, ossia è evocato da quell’infinito che è anche
il compimento dell’atto stesso. Nell’infinito (assoluto) il finito si compie togliendosi, così che anche il
pensiero, in quanto distinto da tale fondamento, non può non togliersi in esso per essere uno con esso.
Che è come dire: l’infinito, cioè l’assoluto, è quell’uno in cui l’atto si compie. Hegel lo dice così: “Il
pensiero libero e vero è in concreto, e pertanto è l’idea, e nella sua intera universalità [è] l’idea o
l’assoluto15.
13 Ivi, p. 137.
14 G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, cit., pp. 144-145.
15 G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., p. 141.
Tuttavia, la lettura che abbiamo fornito trova seri ostacoli in altri passi, alcuni dei quali sono
presenti anche in questa Introduzione. In tali passi, Hegel assume l’assoluto non come emergente oltre
ogni determinazione, ma come ciò che domanda, esso stesso, di venire determinato. Come conciliare,
allora, le due posizioni?
5. Dio come Verità
Lungo la direttrice di pensiero, che abbiamo indicata come l’unica veramente intelligibile, il
fondamento (ossia l’unità, ossia l’assoluto) risulta coincidere con la verità, ossia con Dio stesso.
Attraverso queste parole, Hegel imposta la questione della verità:
La prima questione è: qual è l’oggetto della nostra scienza? La risposta più semplice e più comprensibile consiste nel
dire che tale oggetto è la verità. Verità è parola elevata, e corrisponde a una cosa ancor più elevata. Se lo spirito e
l’animo dell’uomo sono ancora sani, questa parola deve subito farlo palpitare. Ma poi si presenta subito la questione,
il ma, e cioè se siamo in grado di conoscere la verità. Sembra che ci sia una sproporzione tra noi, uomini limitati, e la
verità essente in sé e per sé, e sorge il problema del passaggio tra il finito e l’infinito. Dio è la verità: come dobbiamo
arrivare a conoscerlo? Tale proposito sembra contrastare con la virtù dell’umiltà e della modestia. – Inoltre si pone
anche la questione se la verità possa essere conosciuta16.
Come si evince dal passo, Hegel sembra considerare la seguente alternativa: la verità, cioè l’assoluto,
può venire conosciuta o meno? Ebbene, ciò che intendiamo evidenziare è che la posizione di Hegel in
ordine al tema della verità assoluta, cioè di Dio, risulta decisamente ambivalente: nella maggior parte
dei casi egli, nelle sue opere, mostra di ritenere possibile la conoscenza dell’assoluto, dunque della
verità e di Dio, così che non si può non rilevare che tale posizione non può trovare conciliazione con
l’altra, quella che noi abbiamo inteso valorizzare, volta e negare che sia possibile ridurre l’assoluto a
oggetto di conoscenza, stante il fatto che è proprio Hegel a proclamare la contraddittorietà del
determinato.
Si impone così la domanda: come è possibile affermare la contraddittorietà del determinato e
procedere, poi, a determinare il fondamento, l’assoluto, che non può non essere incontraddittorio, se
vale come la condizione che consente di rilevare la contraddizione?
Il suo timore lo ripetiamo è finire nell’indistinto, e cioè che il suo discorso possa venire
interpretato come un procedimento logico che mette capo, però, a un esito mistico17, derivante dal fatto
che l’assoluto non viene determinato. È proprio da tale interpretazione che egli vuol mettere in guardia
il lettore.
A conferma di ciò, basti ricordare la critica rivolta all’assoluto schellinghiano, che Hegel paragona
alla notte in cui tutte le vacche sono nere. Tale immagine, tradotta in termini teoretici, indica il
convincimento per il quale Schelling avrebbe inteso la negazione ancora in senso empirico-formale,
quale “soppressione” ingenua delle differenze, così che ciò che verrebbe a prodursi sarebbe null’altro
che l’indistinto (l’indeterminato).
Se non che, proprio qui si impongono nuove domande. La prima domanda è la seguente: Hegel
intende determinare anche l’assoluto (Dio, l’essere), ma come non avvedersi che è precisamente per la
ragione che Dio è indeterminabile che risulta anche innegabile? Se Dio è l’unica vera realtà, non si
potrà mai dimenticare che ciò vale perché solo Dio si sottrae alla funzione logica del negare, la quale
si pone se, e solo se, si esercita su qualcosa di determinato, onde essere determinata come funzione
(negazione). Negazione di nulla, infatti, equivale a “negazione-nulla”.
La seconda domanda è questa: come deve venire intesa l’unità, se si vuol evitare l’esito nichilista,
per il quale il trascendimento delle determinazioni (e dei termini che costituiscono la relazione) si
16 Ivi, p. 150.
17 Cfr. G. DELLA VOLPE, Hegel romantico e mistico, Le Monnier, Firenze 1929.
riduce alla loro pura e semplice cancellazione? E, infine, la terza domanda: come deve venire intesa
l’emergenza della verità oltre l’universo dei determinati, se intenderla nella forma dell’indeterminato
significa ancora determinarla, proprio perché significa mantenere l’alternativa “determinato-
indeterminato” come vera?
Per argomentare in favore della nostra lettura del testo hegeliano, rispondiamo alla seconda
domanda in questo modo: è ben vero che mantenere la relazione consente di mantenere la
determinatezza che poggia sui suoi due termini, in modo tale che intendere l’assoluto nella forma di
una sintesi, di una unificazione, può avere il vantaggio di far valere un assoluto che sia anche
determinato. E questo modo di intendere l’assoluto è certamente prevalente in Hegel.
Tuttavia, è altrettanto vero che l’unificazione, cioè il mantenimento di due identità determinate
congiunte da un nesso, non può venire assimilata in alcun modo all’autentica unità, la quale si realizza
proprio in virtù dell’ablatio alteritatis, ossia del venir meno della dualità. La dualità, del resto, non può
valere come fondamento, stante il fatto che essa si pone solo a condizione che si ponga la relazione tra i
termini, la quale, a sua volta, si pone solo a condizione che si pongano i termini: come fondamento
verrebbe assunto, in questo caso, il circolo del presupporre.
Acclarato che il fondamento non può non coincidere con l’unità, deve venire precisato che il
toglimento della dualità non luogo, come suo esito, al nulla, semplicemente perché il “nulla” è
ancora una determinazione, quella che si oppone all’essere, per usare il linguaggio della Scienza della
logica.
Ciò significa – ma questa, lo ripetiamo, è soltanto la nostra interpretazione – che l’assoluto non può
venire inteso nella forma del determinato nella forma dell’indeterminato, giacché l’indeterminato,
per il suo contrapporsi al determinato, vale come termine in relazione e, pertanto, risulta “determinato
come indeterminato”. E il determinato, anche secondo Hegel abbiamo riportato alcuni passi che lo
attestano inequivocabilmente –, è il suo togliersi nell’assoluto, il quale deve venire inteso, quindi, come
la condizione incondizionata che impone al condizionato (determinato, finito) di togliersi.
Una condizione che, se venisse determinata essa stessa, cesserebbe di essere incondizionata e
inoltre, come abbiamo visto, cesserebbe anche di valere come innegabile, perché non sarebbe più fuori
dalla portata della negazione.
Non di meno, il punto che abbiamo rilevato è che in Hegel il togliersi del determinato viene
conciliato con il suo “conservarsi” ed è precisamente sul senso di questa “conservazione” che si deve
continuare a riflettere. A nostro giudizio, si conserva solo l’atto del togliersi del finito, il quale tuttavia,
alla fine – cioè nel suo compimento assoluto –, si toglie esso stesso in quanto intentio veritatis, dunque
in quanto intentio unitatis: nell’unità dell’assoluto anche l’atto si toglie affinché solo l’assoluto sia.
Alla terza domanda rispondiamo ribadendo che la verità non si lascia ridurre all’alternativa né a uno
dei due corni che la costituiscono. L’alternativa non è la verità: ce lo ricorda lo stesso Spinoza, che
afferma “veritas [est] norma sui et falsi18.
Questa affermazione consente di evidenziare, da un lato, che l’alternativa aut vero, aut falso”
configura un costrutto relazionale (si parla di “relazione disgiuntiva esclusiva”) che intende togliersi
proprio perché configura non altro che la conciliazione di due termini tra di loro inconciliabili. I due
termini sono inconciliabili per questo sono in alternativa l’uno con l’altro –, nonostante che la
determinatezza dell’uno si ponga in forza della contrapposizione all’altro. Di qui, la contraddittorietà
del costrutto e la necessità del suo contraddirsi.
D’altro lato, l’affermazione di Spinoza consente di evidenziare che il vero autentico non si
contrappone al falso, ma risulta essere precisamente ciò in virtù di cui il falso viene meno a sé stesso.
Non a caso, “falso” è participio passato (falsum) del verbo fallere e indica “ciò che è stato falsificato”.
18 B. SPINOZA, Ethica, parte II, prop. 43, scolio.
E il vero è proprio il falsificante, ossia ciò che smaschera la presunta verità del falso, allorché questo si
presenta come se fosse vero.
Il vero, dunque, non è termine in contrapposizione al falso, ma la condizione trascendentale
(incondizionata) che consente di evidenziare sia la falsità di ciò che appare vero, senza esserlo
veramente, sia il limite intrinseco di quel vero, che valga come una posizione determinata: se il vero
valesse come una posizione determinata, allora dovrebbe accettare di venire determinato proprio dal
falso (che costituisce il suo altro) e ciò configurerebbe, di nuovo, una contraddizione.
6. Dio come unità, come assoluto
Giunti a questo punto, il nostro intento è quello di chiarire ulteriormente il tema della “determinazione
dell’assoluto” e a questo scopo insistiamo con le domande. L’Introduzione all’Enciclopedia ci sembra
affermi cose importanti sul tema indicato, perché più volte si ripete che Dio, cioè l’assoluto, è la vera
realtà, l’unica vera realtà.
Se non che, poi vi sono anche dei passi che lasciano intendere come l’intenzione di Hegel sia di
coniugare assolutezza e determinatezza, ancorché egli per primo affermi la necessità che il finito
(determinato) si tolga. Come conciliare, insomma, queste due posizioni?
Poiché a noi sembrano inconciliabili, poniamo un’ulteriore domanda, partendo da una premessa: in
un passo, che abbiamo citato in precedenza e che è tratto dalla Scienza della logica, si dice quanto
segue (riportiamo il passo per comodità del lettore): “Ma a questa unità non si riflette. E nondimeno è
soltanto questa unità, che evoca nel finito l’infinito e nell’infinito [che ancora si contrappone al finito]
il finito. Essa è per così dire la molla del progresso infinito”19. Ordunque, come si può affermare, da
una parte, che l’unità trascendentale è quel fondamento che, non costituendo oggetto di riflessione, non
può neppure, più in generale, venire oggettivato (“Ma a questa unità non si riflette”) e poi, dall’altra,
come lo si può assumere quale oggettivabile?
Hegel assume il fondamento come oggettivabile, perché dell’assoluto ritiene che si possa dare
scienza: “La scienza di esso [appunto, dell’assoluto] è essenzialmente sistema, poiché il vero, come
concreto, è soltanto in quanto si dispiega in sé e si raccoglie e conserva nell’unità, cioè come totalità, e
soltanto mediante la distinzione e la determinazione delle sue distinzioni può essere la loro necessità e
la loro libertà”20.
A noi sembra che la totalità, ossia l’insieme delle determinazioni, non possa venire confusa con
l’intero: mentre l’intero è il prerequisito dell’analisi, lo ribadiamo, di contro il sistema è l’esito della
riunificazione degli elementi ottenuti con l’analisi stessa. La totalità, dunque, non è originaria e, per
questa ragione, non può nemmeno essere fondante.
D’altra parte, se l’intenzione non è quella di valorizzare le determinazioni (il determinato), delle
quali si è evidenziata l’intrinseca contraddittorietà, allora non si può non riconoscere che neppure il
sistema può venire valorizzato.
Infatti, parlando di sistema o di totalità, intesa come un tutto-di-parti (come unità di una
molteplicità), si finisce proprio per valorizzare le determinazioni fino al punto di fondare su di esse lo
stesso fondamento, il quale in questo modo si pone solo in quanto si pongono gli elementi che lo
costituiscono, contraddicendo il suo essere fondamento.
Come conseguenza ultima, si ha che, allora, non si può neppure valorizzare l’unificazione:
l’unificazione è la forma più semplice di sintesi del molteplice o la forma più elementare di sistema, il
quale precisamente sulle determinazioni poggia.
Per non valorizzare le determinazioni, ma anche per evitare di dissolverle in un “nulla”, che poi
sarebbe la “determinazione-che-è-il-nulla”, a noi sembra che si dia un’unica strada percorribile:
19 G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, cit., pp. 144-145.
20 G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., p. 141.
distinguere il livello in cui le determinazioni sono insostituibili, e che corrisponde all’ordine empirico-
formale – che è l’ordine nel quale ci si colloca nel dire –, dal livello in cui esse non possono non essere
“tolte”, là dove, insomma, esse vengono meno onde essere uno con il vero.
Si potrebbe dire, per chiarire ulteriormente questo punto cruciale, che la struttura relazionale, che
connota ogni determinazione, non deve venire intesa nella forma della relazione ordinaria – secondo la
modalità che vige nel livello in cui le determinazioni sono insostituibili –, ma come l’atto del riferirsi
di ciascuna21 secondo quanto suggerito dal secondo livello –: ciascuna determinazione è stessa
nella misura in cui esce da sé e si riferisce ad altra determinazione, ma senza instaurare con questa una
relazione, un costrutto, bensì permanendo atto.
Se si instaurasse un costrutto, sarebbe una relazione tra insufficienti, sì che il loro nesso produrrebbe
un’insufficienza ulteriore. Di contro, intendere la relazione come atto significa cogliere ciascuna
dterminazione come essenzializzantesi nel suo togliersi, che è unico e medesimo per tutte le
determinazioni.
Ebbene, precisamente in questo unico e medesimo atto la molteplicità delle determinazioni viene
meno e l’unità dell’atto, proprio in quanto unità, si risolve nell’unità dell’essere o dell’assoluto. Il
livello in cui vige il sistema non è, quindi, il livello in cui si impone l’unità dell’atto che è tutt’uno con
l’uno.
A noi sembra che solo mantenendo distinti i due livelli, e ricordando che la stessa distinzione
appartiene al livello in cui le determinazioni sono insostituibilise si pensa la distinzione a muovere
dall’uno, essa può solo dileguare –, il discorso hegeliano non cada, esso stesso, in quella
contraddizione, nella quale tende ad impigliarsi l’intelletto. Ed è proprio in virtù dell’irriducibilità del
trascendentale all’empirico-formale, cioè all’universo dei determinati, che Hegel può affermare, nella
Fenomenologia, “l’Assoluto solo è vero, o il Vero solo è assoluto”22.
La verità dell’assoluto viene ribadita a più riprese nell’Introduzione all’Enciclopedia, che abbiamo
cercato di analizzare. A nostro giudizio, se non si attribuisce alla parola “assoluto” un significato
diverso da quello che con essa comunemente si intende indicare (e che emerge dal suo stesso etimo),
allora esso non può venire ridotto23 a una determinazione né, quindi, a un insieme di determinazioni,
che formerebbe una nuova determinazione: l’insieme di tutte le determinazioni.
Indubbiamente, Hegel assegna all’assoluto anche questo significato, in particolare quando lo
considera come una totalità, cioè come l’impossibilità di astrarre una determinazione dal plesso che la
vincola a tutte le altre. Il fatto è che anche questo plesso configura, esso stesso, una determinazione e,
così come ogni altra determinazione, deve togliersi: deve venir meno aanche questo plesso. Che è
come dire: la totalità necessita di trascendersi nell’intero, che è l’assoluto, cioè la verità, cioè Dio.
Esattamente in questo senso, sempre a nostro giudizio, va interpretato il seguente passo, che
compare nel § 19 dell’Enciclopedia (Aggiunta n. 2), ossia immediatamente dopo l’Introduzione:
Questo contenuto, Dio stesso, è, nella sua verità, soltanto nel pensiero e come pensiero. In questo senso quindi il
pensiero non è soltanto pensiero, ma è piuttosto la forma più alta e, a guardar bene, l’unica in cui l’eterno e l’essente
in sé e per sé può essere colto. […] Il pensiero prende congedo anche da quest’ultimo elemento sensibile ed è libero
presso di sé, rinuncia alla sensibilità esterna ed interna, allontana tutti gli interessi e le inclinazioni particolari24.
21 Per un approfondimento del tema della “relazione” in Hegel, si rinvia ad A. STELLA, Il concetto di «relazione» nella «Scienza della
logica» di Hegel, Guerini, Milano 1994; ID., La relazione e il valore, Guerini, Milano 1995; ID., «Struttura originaria in Severino e
mediazione in Hegel: una riflessione sul concetto di relazione», Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CVI, 4, 2014, pp. 751-782; A.
STELLA, G. IANULARDO, «La relazione di coscienza e oggetto nell’Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel», Acta
Philosophica, XXVII, 2, 2018, pp. 289-311.
22 G.W.F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes (1807), in Sämtliche Werke; trad. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La
Nuova Italia, Firenze 1976, sec. rist. della sec. ediz. [1960], p. 67.
23 Per un approfondimento del concetto di “riduzione”, si rinvia ad A. STELLA, Sul riduzionismo. Dal riduzionismo teoretico al
riduzionismo teorico, Aracne, Canterano (RM) 2020.
24 G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., p. 152.
E sorge così un’altra domanda: cosa significa che il pensiero è l’unica forma in cui Dio, cioè la verità,
può venire colto? Secondo il punto di vista che abbiamo inteso sostenere, e che in numerosi passi lo
stesso Hegel sembra autorizzare, significa che, nel momento in cui il pensiero diventa universale, esso
perde il suo carattere determinato e diventa uno con l’assoluto, con la verità. Il discorso, pertanto, può
venire compreso fino in fondo soltanto se si intende adeguatamente il senso in cui si una l’espressione
“verità”. Così Hegel introduce questa spiegazione nel § 24 (Aggiunta n. 2):
Inoltre bisogna sapere come si deve intendere la verità. Abitualmente chiamiamo verità l’accordo di un oggetto con
la nostra rappresentazione, e presupponiamo quindi un oggetto a cui la nostra rappresentazione di esso deve essere
conforme. In senso filosofico invece si chiama verità, per dirla in un modo del tutto astratto, l’accordo di un
contenuto con se stesso, e questo è un significato della verità del tutto diverso da quello prima menzionato25.
Comunemente, l’accordo viene fatto sussistere tra la nostra rappresentazione e l’oggetto cui essa si
riferisce. In senso filosofico, invece, l’accordo è di un contenuto con sé stesso, ossia del concetto, che
costituisce il pensiero espresso nella sua forma autentica, la forma universale o essenza, con la realtà,
ossia con l’ente cui quel concetto si riferisce e che costituisce l’esistenza del contenuto stesso.
Se non che, se è questo il modo in cui la verità va intesa, non può non sorgere una terza domanda:
quando si potrà affermare che c’è effettivamente (veramente) questo accordo? Hegel lo dice con
estrema chiarezza: solo nel caso di Dio.
Solo in Dio, insomma, idea e realtà sono un medesimo, precisamente perché Dio è l’unità (l’infinito,
l’assoluto) che oltrepassa ogni separatezza e, dunque, ogni finitezza: “Soltanto Dio è il vero accordo tra
concetto e realtà; tutte le cose finite invece, hanno una non verità in sé, hanno un concetto e
un’esistenza che però non è adeguata al loro concetto. Perciò devono perire, perché in tal modo si
manifesti l’inadeguatezza tra il loro concetto e la loro esistenza”26.
L’accordo, questo è il punto essenziale (che compare nell’Aggiunta n. 3), va inteso nel senso
dell’unità. Solo nella misura in cui la dualità di concetto ed esistenza si risolve nella loro unità, così che
sia il “concetto” sia l’“esistenza” vengono meno in quanto tali, solo allora si impone la verità. Tutte le
forme finite di conoscenza, inclusi quindi i concetti determinati di “concetto” e di “esistenza”,
“contengono una contraddizione in sé”27, proprio perché ciò che è determinato si pone come se fosse
autonomo e autosufficiente senza esserlo.
Il determinato, insomma, si pone come se fosse l’assoluto e questa è la sua intrinseca
contraddizione. Affinché si superi la contraddizione, ogni separatezza deve venire tolta, dunque ogni
finitezza deve oltrepassarsi: il “punto di vista della scissione va poi anch’esso superato, e lo spirito
deve tornare all’unità mediante sé. Quest’unità è poi un’unità spirituale, e il principio di quel ritorno si
trova nel pensiero stesso. È il pensiero che infligge la ferita e anche la guarisce”28.
L’unità è il superamento della separatezza e della finitezza. Se non che, se questo è l’aspetto che
emerge innegabilmente dai alcuni dei passi di Hegel che abbiamo citato, è altrettanto innegabile che ve
ne sono altri che tendono a smentire l’aspetto da noi valorizzato, perché valorizzano, al contrario,
l’unificazione e, dunque, la determinazione.
Ciò che ci sembra di poter affermare, pertanto, è che il superamento del finito in Hegel se si
considerano molti passi, prescindendo però da altri – risulta solo parziale, giacché la determinazione,
ancorché come determinazione di pensiero, come determinazione determinante, permane.
25 Ivi, p. 167.
26 Ivi, p. 168.
27 Ibidem.
28 Ivi, pp. 169-170.
Seguiamo, essenzializzandolo, l’argomento esposto da Hegel (Aggiunta al § 28) e concernente
proprio questo punto: “Il pensiero è finito soltanto in quanto si ferma alle determinazioni limitate,
facendole valere come termine ultimo”29. Domandiamo: si danno anche determinazioni non limitate,
dunque? Ma, se la risposta è affermativa, perché continuare a chiamarle “determinazioni”? Così
risponde Hegel: “Invece il pensiero infinito o speculativo, anch’esso determinato, ma determinante,
delimitante, torna a superare questo difetto”30.
Per Hegel, quindi, per lo meno in base al passo citato per ultimo, vale come fondamento un pensiero
che è bensì infinito, ma è anche determinato: è determinato, dunque, ma è anche determinante. Se non
che, e questa è la domanda che riassume tutte le altre, come conciliare l’infinitezza (l’assolutezza) con
la determinatezza?
A nostro giudizio, solo la determinazione è tanto determinata quanto determinante. Essa, infatti, è
determinata da altra determinazione, che contribuisce non di meno a determinare. Di contro,
effettivamente determinante è quella condizione incondizionata che coincide con l’assoluto stesso, così
che il suo essere determinante significa il suo valere come la ragione del venir meno di ciò che assoluto
non è, cioè del determinato.
Non significa, cioè, l’intervenire sull’altro dalla condizione incondizionata, visto che l’altro
dall’assoluto è la negazione dell’assoluto stesso, ma l’impossibilità che questo altro sia, in modo tale
che, se ci si colloca nell’ordine che sembra far essere il relativo, l’assoluto non può non valere come la
condizione che lascia emergere l’inconsistenza teoretica (non l’insussistenza fattuale) di tale ordine.
7. Per concludere
A giudizio di Hegel, quindi, la determinazione “determinante” sembra costituire l’autentica verità. Ma
per quale ragione, ci chiediamo? Se ogni determinazione è tale in quanto finita, allora essa è sé stessa
solo in quanto si riferisce ad altro da sé, cioè solo in quanto poggia sul fondamento rappresentato da ciò
che la nega. In tal modo, la determinazione non può evitare di contraddire stessa (di negare
stessa). La determinazione determinante, cioè il pensiero nella sua attività, cessa forse di essere finito
(determinato) nel momento in cui è attivo e determinante? A noi sembra di no.
Proprio in quanto in relazione con ciò che da esso viene determinato, il pensiero determinante viene
anch’esso determinato e, in quanto determinato, non può sottrarsi alla contraddizione che investe ogni
determinazione.
La stessa contrapposizione di “determinato-determinante” deve, quindi, venire superata, per la
semplice ragione che, in quanto termine della relazione oppositiva, il “determinate” viene determinato
da ciò cui esso si contrappone, così che esso stesso non può non valere quale “determinato”. E ciò che è
determinato non può non essere finito, dunque deve necessariamente “perire”, secondo gli intendimenti
dello stesso Hegel: “tutte le cose finite invece, hanno una non verità in sé […]. Perciò devono perire”31.
Il quale precisa che solo la “forma assoluta” del pensare costituisce il pensare autentico, la verità
filosofica: «Che la forma del pensiero sia la forma assoluta e che la verità si manifesti in essa, come è
in sé e per sé, questo è quanto afferma la filosofia in generale»32.
A quanto detto, Hegel aggiunge un’importantissima postilla: «La prova di ciò si configura anzitutto
nel senso di mostrare che ogni altra forma del conoscere è una forma finita. Il grande, antico
scetticismo, ha adempiuto a questo compito, mostrando che tutte queste forme contengono una
contraddizione in sé»33.
29 Ivi, p. 176.
30 Ibidem.
31 Ivi, p. 168.
32 Ibidem.
33 Ibidem.
Come è possibile affermare che ogni forma finita contiene in sé una contraddizione e poi intendere
la verità (il fondamento) come una determinazione? Aut il fondamento (il pensiero che è tutt’uno con la
verità, l’infinito, Dio) vale come assoluto, ma allora non può non condizionare unilateralmente il
fondato, senza cioè venire condizionato da esso e per questa ragione vale come condizione
incondizionata; aut il fondamento si vincola a ciò che condiziona, cioè è termine in relazione al
fondato, ma allora non può valere come assoluto, cioè come infinito, essendo ancora determinato.
Se vale come assoluto et come determinato, allora all’assoluto si attribuisce un significato anomalo
e, inoltre, si richiede bensì che esso fondi senza venire ridotto al fondato, ma poi precisamente al
fondato lo si riduce, attribuendogli il carattere della determinatezza.
E, per concludere, riproponiamo la domanda fondamentale: come si può auspicare il venir meno
(contraddirsi) del finito (contraddizione), cioè del determinato, e mantenere l’assoluto come costituito
di determinazioni, onde valere quale determinazione esso stesso? Come si può, cioè, affermare che Dio
(l’incontraddittorio) è l’unica vera realtà e poi equipararlo a un assoluto che è anche determinato,
dunque ridurlo a qualcosa che si contraddice?
Ci sembra che l’unica lettura autenticamente intelligibile dell’Introduzione all’Enciclopedia consista
nell’intendere Dio come la ragione del togliersi del finito nonché come la destinazione stessa del
toglimento.
Poiché, tuttavia, Dio permane ciò di cui si dice, anche se si dice la necessità che emerga oltre ogni
dire, il livello innegabile in cui solo Dio è non può venire confuso con il livello inevitabile,
insostituibile nel quale anche Dio viene determinato, anche se viene determinato come emergente
oltre ogni determinazione.
Forse, e in questo si può ravvisare un contributo della nostra interpretazione, Hegel ha inteso
mantenere entrambi i livelli (sui quali vanno disposti il togliersi e il conservarsi della determinazione),
anche se non li ha adeguatamente specificati, così che spesso il lettore rischia di confonderli e di
equivocare.
A nostro giudizio, pertanto, Dio non può non venire colto come quell’uno in cui il molteplice si
supera o, detto con altre parole, quell’uno in cui il pensare, inteso come l’atto del togliersi del
determinato, si compie effettivamente come atto, così che ogni differenza da Dio – colta con l’“occhio”
di Dio – viene meno e si inabissa.
Riassunto
Nell’Einleitung all’Enciclopedia delle scienze filosofiche, Hegel sovente fa riferimento a Dio,
indicandolo come la verità autentica: l’unica, autentica verità. Egli, inoltre, assimila il concetto di Dio a
quello di “infinito” o di “assoluto”. Se non che, sembra poi intendere l’assoluto (l’infinito) nella forma
di una totalità di determinazioni e, quando parla del “pensiero infinito o speculativo”, lo intende come
“determinazione determinante”. L’Annotazione sottolinea l’antilogia presente nella riduzione
dell’assoluto a determinato o dell’infinito a finito o di Dio a determinazione, antilogia che può venire
risolta solo individuando due distinti livelli di interpretazione del testo.
Parole chiave
Dio, assoluto, determinazione, contraddizione, livelli di interpretazione.
Abstract
In the Einleitung to the Encyclopaedia of philosophical sciences, Hegel often refers to God, indicating
Him as the authentic truth: the only, authentic truth. Moreover, he assimilates the concept of God to
that of “infinite” or “absolute”. However, then he seems to consider the absolute (infinite) as totality of
determinations and, when he talks about the “infinite or speculative thought”, he intends it as a
“determining determination”. This note highlights the antilogy inherent in the reduction of the absolute
to a determinate being or of the infinite to the finite or of God to a determination, antilogy that can only
be resolved by identifying two distinct levels of interpretation of the text.
Keywords
God, absolute, determination, contradiction, levels of interpretation.
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