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Demoni di Sicilia. Il nichilismo europeo di Federico De Roberto, "Oblio" nn. 38-39, 2020

Authors:
  • Universidade Aberta de Lisboa

Abstract

The aim of this article is to draft the problematic influences concerning Federico De Roberto’s nihilism, as represented by the ‘cosmic vision’ of the world as evil in the novel L’Imperio. I stress thus Giacomo Leopardi’s influence, which was direct or mediated by other authors, such as Pirandello. I also stress De Roberto’s connection with European pessimist philosophers, with the French psychologists, as well as the consonance between some of his characters and those of Dostoevskij. The study provides thus a configuration with many points of contact with the diagnosis of the mal du siècle furnished by other contemporary authors and resumed as a «European nihilism» by Nietzsche. If we assume that Sicilian writers had an innovator effect on Italian literature, we can highlight finally its dimensions both peripheral and continental..
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Gianfranco Ferraro
Demoni di Sicilia
Il nichilismo europeo di Federico De Roberto*
L’articolo traccia alcune delle complesse influenze che incidono sul nichilismo di Federico De Roberto, per
come si manifesta nella ‘visione cosmica’ del mondo come male de L’Imperio. Oltre all’influenza di
Giacomo Leopardi, diretta o mediata attraverso altri autori, come Pirandello, vengono evidenziati il rapporto
con i filosofi pessimisti europei, gli psicologi francesi e le assonanze con Dostoevskij. Ne risulta una
configurazione con molteplici punti di contatto con le diagnosi del mal du siècle offerte da altri autori
contemporanei e riassunte da Nietzsche nella nozione di «nichilismo europeo». Assumendo l’importanza
innovatrice degli scrittori siciliani sulla letteratura italiana, l’articolo ne evidenzia quindi le sue dimensioni
allo stesso tempo periferica e continentale.
The aim of this article is to draft the problematic influences concerning Federico De Roberto’s nihilism, as
represented by the ‘cosmic vision’ of the world as evil in the novel L’Imperio. I stress thus Giacomo
Leopardi’s influence, which was direct or mediated by other authors, such as Pirandello. I also stress De
Roberto’s connection with European pessimist philosophers, with the French psychologists, as well as the
consonance between some of his characters and those of Dostoevskij. The study provides thus a
configuration with many points of contact with the diagnosis of the mal du siècle furnished by other
contemporary authors and resumed as a «European nihilism» by Nietzsche. If we assume that Sicilian writers
had an innovator effect on Italian literature, we can highlight finally its dimensions both peripheral and
continental.
Copernico e il Vesuvio: un effetto Leopardi
È al pensiero di Giacomo Leopardi che dobbiamo guardare innanzitutto per
comprendere come, attraverso vie che attraversano periferie e centri di tutto il
secondo Ottocento europeo, la visione che Federico De Roberto mette in bocca a
Ranaldi nelle ultime pagine del suo romanzo postumo, L'Imperio, colleghi il
nichilismo di questo autore e quello dei grandi autori del «nichilismo europeo».1
Questo articolo è stato scritto grazie al sostegno della Fundação para a Ciência e a Tecnologia (FCT, Portugal).
1 Faccio riferimento qui e più avanti alla nozione di «nichilismo europeo» sviluppata da Nietzsche in un frammento
postumo del 1887, anche conosciuto come «frammento di Lenzer Heide», e che può essere considerato come uno dei
documenti più compiuti, per quanto sintetici, sul nichilismo come fondamentale attitudine della civiltà europea a cavallo
tra i due secoli. Attraverso la sua inclusione, insieme a vari altri frammenti, nella compilazione postuma, e del tutto
arbitraria, La Volontà di potenza, la sua influenza su pensatori successivi è stata determinante per la diagnosi del
fenomeno. Cfr. F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, 5 [71], in Frammenti postumi 1885-1887, Opere di Friedrich
Nietzsche vol. VIII t. I, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1975, pp. 199-206. Cfr. F. Volpi, Il nichilismo,
Roma-Bari, Laterza, 2009. Non è da escludere che De Roberto, come altri autori italiani, abbia avuto accesso ai suoi
contenuti sia attraverso la prima edizione francese, del 1903, che attraverso la prima traduzione italiana avvenuta nel 1922
(per le edizioni Isis di Milano). In generale, non è da escludere una frequentazione diretta di Nietzsche da parte di un
lettore onnivoro come De Roberto, e alcune spie sembrerebbero motivarla: tenderei tuttavia a riportare temi, concezioni
ed espressioni comuni ai due autori a fonti certe cui entrambi si richiamavano indipendentemente. La nozione di
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Come il pastore errante dell'Asia del Canto notturno,2 anche Ranaldi, co-protagonista
del romanzo dello scrittore siciliano, può infatti dire del mondo della vita solo una
cosa: che è male. Davanti alla vista dei golfi di Napoli e Salerno, e al panorama
vulcanico del Vesuvio e delle isole partenopee,3 Ranaldi ha una visione del mondo
come di un immenso morbo:
Allora, che cos’era tutto questo mondo, tutto questo tutto, che pareva un inganno, ma che stava e
durava, e premeva ed opprimeva, inesorabilmente? Era il Male. Tutte le forme dell’esistenza, dalle
più semplici alle più complicate, erano forme maligne. Ogni atomo della inerte materia era il
prodotto di una irritazione, d’una infezione, d’un processo morboso. La terra, con i suoi piani ed i
suoi monti, gli appariva come un enorme neoplasma, una mostruosa ipertrofia, una terribile sclerosi;
le acque, i rivi, il mare, come un flusso, un catarro, un’iperemia; il fuoco come una febbre.
L’alterazione si aggravava con la vita organica. In mezzo agli atomi indolenti, nascevano e
crescevano le cellule: da questa superfetazione cominciava la sensibilità, cioè i pungoli, le
crispazioni, i brividi, i fremiti, le trafitture, i dolori, gli spasimi. E l’unico fine del processo morboso
non poteva essere altro, logicamente, che la necrosi.
La vita finiva con la morte perché era tutto un morbo dalle sue prime e più semplici fasi; e perché si
manifestava e diffondeva nel corso d’un altro morbo, in mezzo al tumore del mondo. Gli esseri
viventi, parassiti e vibrioni di questo tumore, si nutrivano delle sue morte fibre, o si divoravano tra
loro; i più perniciosi, i più devastatori erano gli uomini.
Dall’alto, la città distesa sotto la costa, lungo la riva, bianchiccia in mezzo al bruno delle terre e al
grigio del golfo, dava immagini d’un cancro piantato in mezzo ai tessuti e ai vasi. Come un cancro,
essa rodeva tutto intorno a sé, il prodotto dei campi e del mare, le altre forme della vita, la materia
inerte. Stendeva i suoi tentacoli, mortificava una seconda volta le cose morte; e un simile processo,
con maggiore o minore intensità, si ripeteva dove erano uomini; dalle epulidi dei villaggi ai terribili
carcinomi delle metropoli, la degenerazione cancerosa si diffondeva da per tutto.4
nichilismo appare ad esempio in De Roberto come una delle espressioni spirituali degli autori su cui Bourget, autore
decisivo anche per Nietzsche, riflette nei suoi Essais: «Fatalismo, nihilismo, pessimismo: chiamate come volete la
disposizione del loro spirito, unica è la loro fede nella inanità della vita, nel nulla eterno ed universale»: F. De Roberto,
Psicologia contemporanea, in Il tempo dello scontento universale. Articoli dispersi di critica culturale e letteraria, a cura
di A. Loria, Torino, Aragno, 2012, p. 9. Cfr. G. Maffei, La passione del metodo. Le teorie, le poetiche e le narrazioni di
Federico De Roberto, Firenze, Franco Cesati Editore, 2017, p. 123 e p. 155. Sulla lettura di Bourget da parte di Nietzsche,
e più in generale sull’influenza che avranno le letture di autori francesi contemporanei per la messa a punto della sua
nozione di “nichilismo”, cfr. G. Campioni, Nietzsche e il nichilismo francese, in «Bollettino Filosofico», 30, 2015, pp.
16-38, e J.-F. Mattei (dir.), Nietzsche et le temps des nihilismes, Paris, PUF, 2005. Proseguendo la riflessione scaturita da
una recensione del romanzo di Max Nordau Malattia del secolo, del 1888, De Roberto traccerà una «storia di questa
epidemia» in tre articoli del 1888 intitolati Intermezzi. Una malattia morale. Cfr. ivi, pp. 83-99. Sulle fonti, anche politiche
e biografiche, dell’Imperio, cfr. M. Ganeri, Le fonti dell’Imperio, in L’Europa in Sicilia. Saggi su Federico De Roberto,
Firenze, Le Monnier, 2005, pp. 86-105.
2 «Questo io conosco e sento, / che degli eterni giri, / che dell'esser mio frale, / qualche bene o contento / avrà fors'altri;
a me la vita è male», G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, in Tutte le poesie e tutte le prose, a cura
di L. Felici e E. Trevi, Roma, Newton e Compton, 2001, p. 163, vv. 100-104.
3 Come risulterà chiaro poche pagine più avanti. Cfr. De Roberto, L’Imperio, in Romanzi, novelle e saggi, a cura di C.
Madrignani, Milano, Mondadori, 1984, p. 1358.
4 Ivi, pp. 1350-1351. Madrignani evidenzia come l’influenza leopardiana sia mediata in questo passo da «suggestioni dei
pessimismi più in voga» tra Otto e Novecento come quelli di Schopenhauer e Hartmann. Cfr. C. A. Madrignani, Illusione
e realtà nell’opera di Federico De Roberto, Bari, Di Donato, 1972, p. 59. Cfr. anche G. Lo Castro, La «bomba»
dell’Imperio, in G. Lo Castro, Costellazioni siciliane. Undici visioni da Verga a Camilleri, Pisa, ETS, 2018, pp. 103-104.
Sulla rappresentazione morbosa del mondo nel primo modernismo, e in particolare su queste pagine di De Roberto cfr. S.
Acocella, Effetto Nordau. Figure della degenerazione nella letteratura italiana tra Ottocento e Novecento, Napoli,
Liguori, 2012, pp. 134-139.
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In un frammento dello Zibaldone del 1826, con cui il passo di De Roberto mostra non
poche affinità, leggiamo:
Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa
esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine
e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che
al male. Non v'è altro bene che il non essere; non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che
non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono;
l'universo non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L'esistenza, per sua natura ed essenza propria
e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. Ma quest'imperfezione è una
piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi
sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza
infinitamente piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto
esistente è infinitamente piccolo a paragone dell'infinità vera, per dir così, del non esistente, del
nulla.5
Nella contemplazione leopardiana dell’universo come male, «neo», cancro sulla pelle
del tutto, agli antipodi quindi dell’immagine del mondo che Voltaire aveva schernito
nel Poema sul disastro di Lisbona, il male non appare tuttavia come la parola
definitiva sulle cose: la realtà della condizione umana ci consiglia di evitare passi
troppo azzardati oltre le soglie dell’esperienza («Chi può conoscere i limiti della
possibilità?»).6 Un metodo filosofico, quello di Leopardi, che si richiama
esplicitamente alle premesse con cui la scienza galileiana e copernicana avevano
aperto, o meglio, riaperto nel '600 il libro della natura.7 L'indifferenza con cui nella
Ginestra «l'arida schiena / del formidabil monte / sterminator Vesevo»8 può, con il
più piccolo smottamento, devastare la casa del contadino rispecchia quella delle
«vaghe stelle dell'Orsa»,9 gli insensati, «eterni giri»10 della luna a cui si rivolge il
Pastore Errante, i «nodi quasi di stelle» a cui non solo l'uomo e la Terra, ma lo stesso
Sole e le stelle vicine appaiono come «un punto / di luce nebulosa».11 La bellezza del
linguaggio matematico del creato, che a Galileo poteva far ancora sospettare
l'esistenza di un Dio grande orologiaio, due secoli dopo sembra capovolta nella
solitudine dell'osservatore che guarda spaurito il cielo notturno.
Nell’Italia di fine ’800 – come in altre periferie culturali dell’Europa del tempo – la
ricezione del pensiero di Leopardi avviene non tanto in contesti filosofici, come per
lo più in ambito letterario: al contrario, la riflessione su un Leopardi filosofo era
invece già comune in Francia alla metà del secolo, ed è proprio attraverso la lettura
dei critici e degli psicologi francesi della décadence che un interesse per il pensiero
5 G. Leopardi, Zibaldone, 4174, a cura di L. Felici, Roma, Newton e Compton, 2001, p. 854.
6 G. Leopardi, Zibaldone, 4174, cit., p. 854. Non a caso, proprio l'Épitre sur le désastre de Lisbonne di Voltaire è citata
nel pensiero immediatamente successivo, 4175, ibidem.
7 Copernico e Galilei compaiono in vari pensieri dello Zibaldone. Cfr. Zibaldone, 84, cit., p. 46, in cui Leopardi afferma
ad esempio come il sistema di Copernico «abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima»; e ivi, 1857 e 1858, p. 402.
8 G. Leopardi, La Ginestra, o il fiore del deserto, in Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 200.
9 G. Leopardi, Le ricordanze, in Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 154.
10 G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, cit., p. 163.
11G. Leopardi, La Ginestra, o il fiore del deserto, cit., p. 205.
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leopardiano, nutrito dall’accostamento col pessimismo di Schopenhauer, Hartmann,
Nordau, e dalla lettura dei grandi romanzieri russi, fa capolino in Italia, appunto in
ambito letterario.12 Decisiva sembra in particolare la sua influenza su quella linea di
autori accomunati da Carlo Alberto Madrignani nel suo Effetto Sicilia precisamente
per la loro comune pratica di stravolgimento dei canoni dell’osservazione e della
stessa «relazione fra opera e lettore», lettore che diventa testimone dai «tratti
divergenti dell'estraneo e del córreo».13 Da Verga a Pirandello a De Roberto,
l’osservazione psicoantropologica viene adoperata per fare i conti con un male
cosmico, di cui la Sicilia, la politica romana, la cronaca, la grande storia, così come
l’apparente felice rigoglio della natura non sarebbero che epifenomeni. Anche in
Leopardi, il lettore è chiamato del resto ad una inquietante correità:
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite
stagione dell'anno. Voi non potete volgere lo sguardo in nessuna parte che voi non troviate del
patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno.
12 La funzione critica esercitata sulla letteratura italiana contemporanea dall’approccio a Leopardi come filosofo,
certamente promossa dal saggio di De Sanctis del 1874 in cui il pensatore di Recanati veniva associato a Schopenhauer,
fu evidenziata anche prima della pubblicazione dello Zibaldone, avvenuta a partire dal 1898 in occasione del centenario
della nascita, dallo scrittore e poeta, anch’egli siciliano, Santi Sottile Tommaselli. Prima del completamento della
pubblicazione dello Zibaldone nel 1900, in sette volumi, presso Le Monnier, da parte di una commissione presieduta da
Carducci, una sua interpretazione come filosofo avviene in ambito psicoantropologico (cfr. M. L. Patrizi, Saggio psico-
antropologico su Giacomo Leopardi e la sua famiglia, Torino, Bocca, 1896). Cfr. F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi,
a cura di C. Muscetta e A. Pesna, Torino, Einaudi, 1969, pp. 418-468; S. Sottile Tommaselli, Giacomo Leopardi e la
letteratura contemporanea, in «Gazzetta letteraria», XXI, nn. 41 e 42, 9 e 16 ottobre 1897, cit. in B. Stasi, Apologie della
letteratura. Leopardi tra De Roberto e Pirandello, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 15, n.1. Sulla «complessa funzione
leopardiana» nel laboratorio letterario e critico della cultura italiana a cavallo tra i due secoli, il saggio di Beatrice Stasi
rimane un punto di riferimento soprattutto nella prospettiva di questo saggio. Cfr. ivi, in particolare pp. 7ss; su De Roberto,
cfr. pp. 15-61. Se per una ricezione più compiuta in ambito filosofico occorrerà attendere in Italia gli anni intorno alla
seconda Guerra Mondiale, con i saggi di Gentile (1937) e Tilgher (1940), e soprattutto il Dopoguerra, con i saggi di Binni,
Luporini e Contini del 1947, non vanno tuttavia dimenticate le prime riflessioni filosofiche su Leopardi nei primi anni del
secolo (cfr. F. Cantella, Giacomo Leopardi filosofo, Palermo, Reber, 1907). Una riflessione su Leopardi filosofo si avvia
invece ben prima in ambito francese: la voce «Leopardi», curata da Louis de Sinner, compare già nel 1842
nell’Encyclopédie des gens du monde (Paris, Treuttel et Würtz, 1842, t. XVI, pp. 419-421). Nel suo Leopardi et la France.
Essai de litterature comparée (Paris, Champion, 1913), Nicolas Serban ricorderà l’importanza che aveva avuto, per la
riflessione sul pensiero di Leopardi in Francia, la traduzione da parte di Louis de Sinner, nel 1833, di tre estratti delle
Operette Morali, con una breve introduzione del traduttore, sulla rivista letteraria Le Siècle; nel suo saggio, Serban riflette
inoltre sulla forma filosofica del pensiero di Leopardi, soffermandosi in particolare sul tentativo di costruzione di un
sistema: Serban ritiene però, in conclusione, che non è possibile parlare davvero di un Leopardi ’filosofo’, quanto di «un
grande poeta accompagnato da un dilettante in filosofia» (ivi, pp: 195-201: 201). Sull’importanza di L. de Sinner per la
fortuna di Leopardi in tutta Europa cfr. anche ivi, pp. 265-293 e pp. 305ss e 536-538 e A. Sutera, Giacomo Leopardi e la
sua amicizia con G. R. De Sinner, in Le città di Giacomo Leopardi, Atti del VII convegno internazionale di studi
leopardiani. Recanati, 16-19 Novembre 1987, Firenze, Olschki, pp. 435-447. Da segnalare, sempre nel contesto francese,
anche lo studio di C.A de Sainte-Beuve, Poètes modernes de l’Italie, III. Leopardi, in «Revue des deux mondes», 8, 1844,
pp. 910-946. Un sostegno all’apporto filosofico dell’opera di Leopardi è inoltre dato, nel 1877, dalla tesi di dottorato dello
storico F. A. Aulard, Essai sur les idées philosophiques et l’inspiration poètique de Giacomo Leopardi suivi d’oeuvres
inédites et de traductions de quelques oeuvres morales (Paris, Thorin), a sua volta traduttore delle Poèsies et Oeuvres
morales de Leopardi (1880), e l’anno seguente, nel 1878, dal filosofo spiritualista Elme-Marie Caro, che in un suo saggio
accosta il pessimismo di Leopardi a quelli di Schopenhauer e Hartmann: cfr. E. M. Caro, Le Pessimisme au XIXème
siècle: Leopardi – Schopenhauer – Hartmann, Paris, Hachette, 1878. Proprio Caro susciterà l’interesse di De Roberto,
cfr. infra, n. 44. Nel 1880, oltre alla traduzione di Aulard, compare in Francia anche quella di Dapples, il quale sottolinea
nella sua introduzione le linee di contiguità con i due filosofi tedeschi: cfr. A. Dapples, Préface, in G. Leopardi, Opuscules
et pensées, Paris, Librairie Germer Baillière et C., 1880, p. XIII.
13 C. A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 7.
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[...] Intanto tu strazi le erbe coi tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le
uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il
giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro (Bologna.
19. Aprile. 1826).14
L’illusione ridente di cui si ricopre la vita ci riporta ancora una volta al capitolo
conclusivo de L’Imperio, che sembra quasi incorporare le immagini leopardiane:
Quelle forme fresche di vita, quei fiori, quei frutti, quei fanciulli, quelle giovinette, erano anch’essi
espressioni del male? Anch’esse. Piaghe, ulcere, tumori hanno forme e colorazioni che si
ammirerebbero se non fosse la nozione dell’infermità che va ad esse associata. Reciprocamente,
fiori, frutti e fanciulli si ammirano perché si dimentica il segreto lavorio di corruzione che li
sfronderà, li farà marcire, invecchiare e incancrenire. La seduzione ne è tutta apparente. Chi ha visto
il fondo delle cose, se ne guarda come dal peggiore inganno.15
Anche in Pirandello, appena più giovane di De Roberto, troviamo la stessa
disposizione che punta a liberarsi, con Leopardi, di ogni aspetto fideistico e illusorio
dell’esistenza, fosse anche di quello che trasforma l’ottimismo in pessimismo
cosmico.16 L’influenza leopardiana su Pirandello è ben visibile ne L’Umorismo, così
come nel saggio Arte e scienza, anche se tutta la psicologia sociale dello scrittore
agrigentino rimanda in realtà a nozioni leopardiane. Per restringere però il nostro
campo all’analisi del portato ontologico ed etico che ha, in De Roberto, la visione
cosmica del male, dobbiamo rivolgerci a quel genere di riflessione ‘ultrafilosofica’
che, in Pirandello come in Leopardi, includerebbe, non a caso, anche uno “sguardo
cosmico” o “galileiano”.17 È questo sguardo che, attraverso la figura leopardiana di
Copernico, viene alla luce nella cosiddetta «Premessa seconda (e filosofica) a mo' di
scusa» de Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel 1904: «In considerazione anche della
letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto
14 G. Leopardi, Zibaldone, cit., 4175-4176, pp. 854-855. Cfr. anche il pensiero successivo: «...se questi esseri sentono, o
vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere» (Bologna. 22. Apr. 1826),
ibidem.
15 F. De Roberto, L’Imperio, cit., p. 1362. Si possono presumere, in questa descrizione, anche echi schopenhaueriani: «E
a questo mondo, a questa arena di esseri tormentati e angustiati, che sopravvivono solo perché l’uno divora l’altro, dove
perciò ogni animale da preda è la tomba vivente di migliaia di altri e la sua conservazione è una catena di martìri, dove
poi con la conoscenza cresce la capacità di sentir dolore, che raggiunge perciò nell’uomo il suo grado più alto, e tanto più
alto quanto più egli è intelligente – a questo mondo si è voluto adattare il sistema dell’ottimismo e si è voluto dimostrarcelo
come il migliore dei mondi possibili. L’assurdità è clamorosa. Tuttavia un ottimista mi dirà di aprire gli occhi e di guardare
il mondo, di vedere come esso è bello, nella luce del sole, con le sue montagne, le sue valli, i suoi fiumi, piante, animali
ecc. Ma è forse il mondo un caleidoscopio? A vederle, certo queste cose sono belle; ma ad esserle è tutt’altra cosa»: A.
Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di S. Giametta. Milano, Mondadori, 2002, vol. II, p.
815. Poche pagine più avanti Schopenhauer farà riferimento proprio a Leopardi come esempio di autore pessimista: cfr.
infra, n. 42.
16 Cfr. C. Ferrucci, Due sguardi dal cosmo: Pirandello e Leopardi, «Cuadernos de Filología Italiana», I, 1994, pp. 93-
101: p. 94. Oltre al già ricordato saggio di Beatrice Stasi, da raccomandare per una disamina più complessa, sull’influenza
di Leopardi su Pirandello vale la pena menzionare anche R. Salsano, Pirandello novelliere e Leopardi, Roma, Lucarini
1980, E. Cervato, Copernico tra umorismo e filosofia: appunti sul leopardismo pirandelliano, «PhiN, Beiheft», 1, 1998,
pp. 1-14 e A. R. Pupino, Pirandello, maschere e fantasmi, Roma, Salerno, 2000.
17 C. Ferrucci, Due sguardi dal cosmo, cit., p. 99. Per il concetto leopardiano di «ultrafilosofia», «che conoscendo l’intiero
e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura», cfr. Zibaldone, 114-115, 7 giugno 1820, cit., p. 56.
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sia Copernico!» dice il protagonista del romanzo mentre si accinge a scrivere la sua
biografia. La rivoluzione copernicana è dunque, per Pirandello, la prima imputata di
quel movimento che esilia l’uomo ai confini dell’universo anche al costo, durissimo,
di inchiodarlo a quel sentimento di non senso e di nulla di cui soffre la civiltà
contemporanea. Al tempo stesso, è proprio lo sguardo di Copernico a costituire
ancora il miglior antidoto illuministico a tutte le illusioni umane:
Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia
impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci
provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per
farci morire – spesso con la coscienza d'aver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo
cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l'umanità,
irrimediabilmente. [...] La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco,
senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle sue
bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che
non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E
tiriamo innanzi. Chi ne parla più?18
Come nel caso della contemplazione del Vesuvio e dell’universo nella Ginestra o
della Luna nell’omonimo canto, questo sguardo ha dunque immediatamente un
effetto di interrogazione e di conversione etica. “Come vivere?” è la domanda a cui
Copernico non ha dato risposta.
Sono questi aspetti che Pirandello riprende dai caratteri che la visione dell’astronomo
polacco assume in Leopardi, quale punto di riferimento per la lotta contro la boria del
«secol superbo e sciocco», dapprima in Storia dell’astronomia,19 quindi in due
Operette morali, il Dialogo di Ercole e di Atlante20 e Il Copernico del 1827.21 Nel
dialogo intitolato all’astronomo, Leopardi immagina che sia lo stesso Sole, stanco di
ruotare intorno alla Terra, «di questo continuo andare attorno per far lume a questi
quattro animaluzzi, che vivono in un pugno di fango, tanto piccino, che io, che ho
buona vista, non lo arrivo a vedere»,22 a pretendere che Copernico, come filosofo,
inverta i rapporti di rotazione con la terra. Ed è significativo, anche per comprendere
la funzione che la filosofia occupa per Leopardi in rapporto alla poesia, per lo meno a
partire da una certa data, come la chance di intervenire sul moto, o più precisamente
sull’immagine del moto dei pianeti, sia data a un filosofo, invece che a un poeta. È
una scelta compiuta in ogni caso solo in ultima ratio, e solo se la Terra, piuttosto che
18 Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, a cura di G. Mazzacurati, Torino, Einaudi, 20142, p. 10 e n.
19 G. Leopardi, Storia dell’astronomia, in Tutte le poesie e tutte le prose, cit., pp. 748-861. «Conveniva convincere di
errore tutti gli uomini, mostrar loro che il credere la terra immobile e mobili gli astri, era un inganno, e persuaderli a negar
fede ai loro sensi», p. 805.
20 G. Leopardi, Dialogo di Ercole e di Atlante, in Tutte le poesie e tutte le prose, cit., pp. 500-502.
21 Cfr. G. Leopardi, Il Copernico, in Tutte le poesie e tutte le prose, cit., pp. 586-591. Se il passaggio del Sole dalla poesia
alla filosofia ricalca lo stesso periodo autobiografico di Leopardi del 1819, e il suo stesso passaggio alla filosofia, il
successivo ritorno alla poesia, intrisa di «ultrafilosofia», sarà giustificata da Leopardi, in seguito, proprio per la capacità
della poesia – irrisa qui dal Sole – di provocare delle immagini in grado di far muovere le cose. Cfr. E. Cervato, Copernico
tra umorismo e filosofia, cit., p. 12.
22 G. Leopardi, Il Copernico, cit., p. 586.
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iniziare essa stessa a girare, non intenda perdersi nello spazio («che io non direi però
che ella avesse il torto», nota ironicamente Leopardi). Nell’incontro con il Sole,
Copernico mette appunto in evidenza le conseguenze che il mutamento di paradigma
astronomico inevitabilmente provocherà, arrivando a sconvolgere «i gradi della
dignità delle cose» e a scambiare «i fini delle creature». Non più al centro del cosmo,
gli uomini, che si ritenevano a loro modo sovrani del tutto, si ritrovano così sminuiti,
ridotti «co’ loro cenci, e colle loro miserie, che non sono poche».23 Una visione
cosmica che ritroviamo con caratteristiche non dissimili, anche senza la figura di
Copernico, nel Dialogo d’Ercole e di Atlante24 e, per ritornare alla dimensione
morbosa già emersa nei passi dello Zibaldone e in De Roberto, nelle parole che la
Natura rivolge infine all’Islandese:25
Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e
distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed
alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe
parimenti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera di
patimento.
L’interrogativo a cui «nessun filosofo» sa rispondere, «a chi piace o a chi giova
cotesta vita infelicissima dell’universo...?», e che rimarrà a mezza bocca
all’Islandese, fatto divorare da due leoni e poi trasformato in mummia dalla Natura, si
ripercuote nell’ironica maledizione di Pirandello e arriva quindi a De Roberto, carico
adesso di quella risposta che il pensiero materialista e pessimista europeo aveva
elaborato nel corso di tutto l’Ottocento: a nulla.
Osservare le anime, osservare il male
A differenza dello sguardo cosmico di Leopardi e Pirandello, quello di De Roberto
appare del tutto amaro. Il nulla non è solo indifferente ai destini umani, ma ha assunto
come la forma di un demone maligno che si nutre della sofferenza degli esseri.
Conoscerlo significa però ancora, come in Leopardi, osservare la psicologia degli
individui e metterla in relazione con il funzionamento del cosmo. È questa
osservazione naturalistica che consente a De Roberto di avvicinare Leopardi e
Flaubert in un profilo del 1886, proprio pochi anni prima dell’elaborazione de
L’Illusione, pubblicato nel 1891, e dei Viceré, pubblicato nel 1894. Un avvicinamento
tra i due autori, scrive De Roberto, «sembra, a prima vista, impossibile»: esso si
giustifica tuttavia per il fatto di essere entrambi «due misantropi animati da una stessa
23 Ivi, p. 590.
24 «e se non fosse che la volontà di Giove mi sforza di stare qui fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io me la
porterei sotto l’ascella o in tasca, o me l’attaccherei ciondolone a un pelo della barba, e me n’andrei per le mie faccende»,
G. Leopardi, Dialogo d’Ercole e di Atlante, cit., p. 500.
25 G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese, in Tutte le poesie e tutte le prose, cit., pp. 533-536.
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ironia contro la vita».26 Il saggio è costruito sullo schema psicoantropologico degli
Essais de psychologie contemporaine che Paul Bourget aveva dedicato appena tre
anni prima a Baudelaire, Flaubert, Renan, Taine e Stendhal.27 Beatrice Stasi chiarisce
come sia proprio il relativo silenzio di Bourget sul filosofo di Recanati, sottolineato
anni dopo dallo stesso De Roberto, a spingere lo scrittore a comporre un profilo di
Leopardi più esteso.28 Pubblicato nel 1898, su incoraggiamento di Giosuè Carducci, il
saggio verrà quindi rieditato nel 1921.29 Sono questi gli anni di elaborazione de
L’Imperio, ma sono anche gli anni in cui si diffonderà lo Zibaldone.30 Se dunque
questo corpo a corpo con Leopardi dev’essere riferito alle Operette morali, ai
Pensieri e ai Canti, De Roberto lascia trasparire di aver accarezzato l’idea – presto
abbandonata – di dedicarsi, proprio in seguito alla divulgazione dello Zibaldone, a
«comporre un altro libro, se non di diverso disegno, certamente di più largo respiro».
Possiamo dedurne che in questi ventitré anni De Roberto abbia avuto modo di
confrontarsi con il complesso del pensiero leopardiano, e quindi anche con quello
sguardo cosmico’ e quella «ultrafilosofia» che già aveva influenzato Pirandello e che
nello Zibaldone veniva ritratta nella forma di una cosmologia esplicitamente
negativa: la stessa che ritroveremo poi ne L’Imperio.31 In altri termini, nelle immagini
dell’Imperio sarebbe possibile ritrovare – quasi come un ‘pensiero per immagini– le
conseguenze più acute della sua riflessione sul filosofo di Recanati. Del resto, nel
saggio su Leopardi De Roberto chiarisce la sua concezione del rapporto tra filosofia e
letteratura, inducendoci dunque a riflettere sullo statuto anche filosofico’ dei testi
letterari che andrà producendo a partire dal 1898:
26 F. De Roberto, Leopardi e Flaubert, in «Fanfulla della Domenica», ora in Romanzi, novelle e saggi, cit., pp. 1589-1595:
1589. L’ironia occupa un intero capitolo del saggio su Leopardi pubblicato nel 1898. cfr. F. De Roberto, Leopardi, Nuova
Edizione, Milano, Treves, 1921, pp. 245-271: «il riso del Leopardi è più disperato della sua stessa disperazione. Egli ha
detto che solo la morte esiste; ma credere alla morte, al nulla, è ancora avere una specie di fede [...] A questa indifferenza
per la morte e per la vita Giacomo Leopardi arriverà con l'ironia»: p. 271.
27 Cfr. P. Bourget, Essais de psychologie contemporaine, Paris, Lemerre, 1883. Il testo sarà recensito da De Roberto nel
1884. Cfr. F. De Roberto, Psicologia contemporanea, cit., pp. 3-11.
28 B. Stasi, Apologie della letteratura, cit., pp. 30-33. Cfr. F. De Roberto, Il bilancio francese di Giacomo Leopardi, in «Il
Giornale d’Italia», 27 maggio 1914, p. 3.
29 F. De Roberto, Leopardi, cit.
30 Come lo stesso De Roberto scrive nell’Avvertimento alla seconda edizione, il saggio era stato composto «mentre
l’immensa miniera dello Zibaldone, per mezzo secolo rimasta ignorata o inaccessibile, si veniva appena schiudendo»: ivi.
L’elaborazione de L’Imperio viene probabilmente avviata già intorno alla data di pubblicazione dei Vice, per essere poi
interrotta per molti anni fino a ricevere un nuovo impulso nel 1909. Il romanzo verrà pubblicato postumo e non finito nel
1929, con forti incongruenze tra capitoli, nomi di personaggi e cronologia, che però non inficiano il tessuto fondamentale
della narrazione e soprattutto le figure e la trama, il cui retroterra filosofico – soprattutto nell’ultimo, isolato capitolo –
appare ben visibile.
31 Madrignani evidenzia questo specifico debito di De Roberto («La tematica nichilistica s'identifica con lo sviluppo di
un pensiero spinto verso la zona estrema del pensabile») sottolineando come lo Zibaldone non sia stato un riferimento di
De Roberto. Occorre però, appunto, tenere in conto che, per quanto assente come riferimento nel saggio su Leopardi, lo
Zibaldone sarà letto negli anni che intercorrono tra le due edizioni, corrispondenti agli stessi anni di elaborazione de
L’Imperio: oltre all’esplicita ammissione dell’autore nel 1921, cfr. anche la lettera di De Roberto a Domenico Oliva del
14 giugno 1913 in cui riferisce di stare lavorando a una nuova edizione («Bisogna tener conto dello Zibaldone»). Cfr. C.
A. Madrignani, Effetto Sicilia, cit. p. 110; cfr. B. Stasi, Apologie della letteratura, cit., p. 17.
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La concezione dell’ipotesi della quale lo scienziato si serve per ispiegare i fatti osservati è simile
alla concezione poetica e romanzesca. La scienza delle scienze, la filosofia, è ancora più vicina alla
poesia che non tutte le altre. L’importanza dell’ipotesi è senza fine maggiore in filosofia che non
nelle scienze esatte: anzi, considerando i problemi massimi ed insolubili – l’origine, la natura, il fine
della vita e del mondo – la filosofia riposa tutta quanta sopra ipotesi. E poiché l’ipotesi è opera di
quella potenza immaginativa alla quale il poeta deve i suoi concepimenti, la parentela tra il poeta ed
il filosofo è manifesta.32
L’influenza di Bourget traspare nell’approccio di De Roberto a Leopardi, non esente
da un certo positivismo, soprattutto quando gli elementi del pensiero vengono
ricondotti alla biografia e alla fisiologia dell’autore.33 D’altra parte, Leopardi assume
qui la connotazione di uno scienziato-psicologo che, attraverso un metodo analogico,
estende la propria introspezione all’osservazione antropologica e cosmologica.34
Diversamente non è possibile conoscere davvero. Combattuto tra un impulso poetico
e un impulso di «freddo speculatore», Leopardi «è molto più infelice che non sarebbe
se fosse soltanto poeta troppo vibrante».35 Il contrasto tra sentimento poetico e
altissimo spirito filosofico provocano quindi in lui «la depressione e la dispersione
della volontà».36 Il pessimismo leopardiano è pertanto ricondotto all’esperienza
biografica dell’uomo e in particolare a quella legata all’amore.37
Nello stesso saggio, vediamo quindi un’analisi appassionata del suicidio e della morte
che ci rimanda alle dure riflessioni de L’Imperio. Come nel romanzo, il suicidio è
anche qui un gesto lucido, calcolato, l’unico davvero razionale38 per «l’anima offesa
[che] si compiace di antivedere la fine del Tutto».39 E la necessità logica del suicidio,
secondo uno schema che ritroveremo, viene quindi associata alla visione del cosmo
vuoto del Cantico del gallo silvestre, nella quale ancora una volta Leopardi ribadisce
come «pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il
morire»:40 «ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio
immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi
di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi».41
A partire dal saggio di De Sanctis del 1874, il pensiero di Leopardi era stato associato
32 F. De Roberto, Leopardi, cit., pp. 11-12. Una concezione simile è esposta anche nel saggio di estetica, pubblicato tre
anni dopo, L’Arte (Torino, Bocca, 1901) e nel quale Stasi rileva come l’influenza leopardiana si contrapponga, ad esempio,
a quella di Guyau, il cui testo Les problèmes de l’ésthétique contemporaine era stato recensito da De Roberto alcuni anni
prima. Cfr. Stasi, Apologie della letteratura, cit., pp. 18-22.
33 «Questo vigore corporale, la salute, il sommo bene, a pochi è negato [...]. Il Leopardi ne è privo», F. De Roberto,
Leopardi, p. 53; «...egli porta dalla nascita, nelle vene, un principio maligno», ivi, p. 54. Cfr. Stasi, Apologie della
letteratura, cit., pp. 16-17.
34 Cfr. F. De Roberto, Leopardi, cit., p. 14.
35 Ivi, p. 17.
36 Ivi, p. 22.
37 Cfr. ivi, p. 65 e p. 194. Nel capitolo dedicato all’amore non è difficile osservare le teorie appena sviluppate da De
Roberto nel suo saggio L’amore. Fisiologia, psicologia, morale (Milano, Galli 1895), ora riedito a cura di A. Di Grado
(Sesto Fiorentino, Apice libri, 2015).
38 F. De Roberto, Leopardi, cit., p. 243.
39 Ibidem.
40 G. Leopardi, Cantico del gallo silvestre, in Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 576.
41 Ivi, pp. 576-577; F. De Roberto, Leopardi, cit., pp. 243-244.
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anche in Italia a quello di Schopenhauer e lo stesso De Roberto, nel 1888,
sottolineava l’influenza del primo sul secondo,42 tanto che i lettori de L’Amore o del
saggio su Leopardi non ebbero difficoltà a vedere nel filosofo tedesco un autore di
riferimento anche per lo scrittore siciliano.43 Tuttavia, De Roberto ebbe modo varie
volte di evidenziare le sue riserve riguardo il pessimismo schopenhaueriano:
Leopardi mantiene sempre, in verità, una posizione privilegiata proprio in quanto «si
contenta di stabilire con l’osservazione la legge universale della sofferenza senza
pretendere di farne la dialettica trascendente; egli sente ciò che è, senza tentar di
dimostrare che dev’essere così».44 L’orrore verso l’essenza dolorosa del mondo, e
dunque anche verso l’individuo quale suo fenomeno, ha come risposta, per
Schopenhauer, la negazione della volontà individuale e il passaggio ad una vita
ascetica. L’universalizzazione di questa pratica porterebbe quindi all’estinzione del
genere umano.45 Anche questo è un esito che De Roberto rigetta, aderendo solo in
parte a un altro pessimismo espressamente associato a Schopenhauer dallo stesso
scrittore, quello di Eduard von Hartmann. Philosophie des Unbewussten, pubblicata
da quest’ultimo nel 1869, circolerà anche in Italia soprattutto nella traduzione
francese di Nolen del 1877, a meno che non si consideri l’esposizione accademica –
in realtà una puntuta contestazione – fatta nel 1876 dal filosofo spiritualista
Francesco Bonatelli, la quale potrebbe oggi passare inosservata se un elemento non ci
riportasse proprio a De Roberto.46 Se il nome di Hartmann veniva infatti legato in
Germania a quello di Schopenhauer, Bonatelli, sulla scia di quanto De Sanctis e gli
altri critici francesi avevano fatto con Schopenhauer, accosta Hartmann a Leopardi.47
42 F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, cit.; cfr. F. De Roberto, Intermezzi. Una malattia morale, (II), in F. De Roberto,
Il tempo dello scontento universale, cit., p. 92. Ne Il mondo come volontà e rappresentazione, lo stesso Schopenhauer dà
conto della sua lettura di Leopardi, considerato come il maggior pensatore del pessimismo: «Nessuno ha trattato questo
argomento tanto a fondo ed esaurientemente come, ai nostri giorni, Leopardi. Egli ne è completamente colmato e
compenetrato: dappertutto il suo tema è lo scherno e lo strazio di questa esistenza, egli lo dichiara in ogni pagina delle
sue opere, e però in una tale molteplicità di forme e di giri, con una tale ricchezza di immagini, da non ingenerare mai
fastidio, riuscendo anzi sempre dilettoso e stimolante»: A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit.,
vol. II, p. 825.
43 È il caso di G. Martinelli, che riconduce la passione d’amore, per come esposta da De Roberto, alla volontà di
conservazione della specie, e di V. Pica che vede nella sua concezione dell’arte un riflesso della nozione consolatrice di
Schopenhauer. Cfr. G. Maffei, La passione del metodo, cit., p. 136.
44 È quanto De Roberto scrive nel 1889, commentando il testo dello spiritualista francese Elme-Marie Caro, Le pessimisme
au XIXème siècle, cit. Cfr. Un filosofo ottimista. E. Caro, in Il tempo dello scontento universale, cit., p. 135. Cfr. G.
Maffei, La passione del metodo, cit., p. 136.
45 Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., vol. I, pp. 663 ss, e vol. II, pp. 846 ss. Cfr. anche
vol. I, pp. 567 e 580.
46 Cfr. E. von Hartmann, Philosophie des Unbewussten, Berlin, 1869; E. de Hartmann, Philosohie de l’Inconscient, tr. par
D. Nolen, Paris, Germer Baillière, 1877; F. Bonatelli, La filosofia dell'Inconscio di Edoardo von Hartmann, esposta ed
esaminata da F. Bonatelli, Roma, Tipografia dell'Opinione, 1876. Manca a tutt’oggi una traduzione italiana del libro di
Hartmann. Ne L’Amore, diversi sono i riferimenti alla corrente dello spiritualismo. Cfr. in particolare, F. De Roberto,
L’Amore, cit., pp. 13-15.
47 Cfr. ivi, pp. 3-4. Sull’associazione tra Schopenhauer e Hartmann, invalsa tra gli accademici tedeschi, ironizza Nietzsche
nel Crepuscolo degli idoli, in Opere di Friedrich Nietzsche, VI, 3, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi,
1970, p. 118. Per motivi opposti a quelli di Bonatelli è violentissima poi la sua condanna di Hartmann nel frammento sul
nichilismo europeo: «Quel pessimismo che si incarica di mettere sui piatti della bilancia piacere e dispiacere dell’esistenza
sarebbe, con il suo volontario rinchiudersi nella prigione e nell'orizzonte precopernicani, qualcosa di arretrato, di rivolto
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È in particolar modo il lungo capitolo XIII a provocare questo accostamento, che
Bonatelli giustifica attraverso un confronto serrato con varie Operette morali e con la
tematica della Ginestra. Mentre ironizza sul mancato riconoscimento, da parte di
Hartmann, del suo debito con il filosofo di Recanati, d’altra parte Bonatelli non
nasconde il proprio brivido di fronte ad una visione abissale dedotta dall’analisi del
sistema del filosofo tedesco, una visione che non può che portare al suicidio come
logica conseguenza:
Dolori sopra dolori, miserie sopra miserie, speranze che sfumano, atroci disinganni, tutta la vita un
rantolo d’agonizzante e unica prospettiva, unico porto di salute, ultimo e lontano rifugio il nulla!
Sono cose da leggersi con le mani nei capelli, battendo i denti, tremando, e non fors’anche alzando
e riabbassando con una forza convulsiva del pollice il cane della pistola, a quel modo che il
Manzoni ci dipinge il suo terribile Innominato nell’agonia della disperazione.48
Questa la visione che aveva provocato il disagio di Bonatelli, a stento attutito
dall’ironia:
Se è vero che il progressivo sviluppo dell’intelligenza nel mondo deve portare insensibilmente la
rovina di tutte le illusioni, e condurre gli uomini a riconoscere l’assoluta vanità delle cose: ne segue
che il mondo sarà tanto più infelice quanto più si avvicinerà al fine della sua evoluzione. Sarebbe
dunque più ragionevole fermare al più presto lo sviluppo del mondo; e la cosa migliore sarebbe
stata quella di annientarlo nello stesso momento della sua apparizione.49
Ora, che De Roberto abbia o meno letto Hartmann attraverso Bonatelli, l’effetto
«terribile»50 che egli immaginava per il suo libro si può spiegare con il terrore
paradigmatico provato dal filosofo italiano di fronte alla visione cosmica che il testo
avrebbe incorporato. Una visione associabile a quella di Leopardi e che distanziava in
parte Hartmann da Schopenhauer.51 Se anche in Hartmann il disincanto individuale
viene assunto come matrice fondamentale del nichilismo, ad interessare De Roberto
sono tuttavia la sua estremizzazione dell’elemento morboso del cosmo e il rigetto
della negazione individuale come modalità di risoluzione del male.52 Attraverso una
indietro, se non fosse solo un cattivo scherzo di un Berlinese (il pessimismo di Eduard von Hartmann)», F. Nietzsche, Il
nichilismo europeo, cit., p. 153. Cfr. La volontà di potenza, cit., p. 224.
48 F. Bonatelli, La filosofia dell'Inconscio di Edoardo von Hartmann, cit., p. 169.
49 E. de Hartmann, Philosophie de l’Inconscient, cit. vol. II, p. 362; E. von Hartmann, Philosophie des Unbewussten, II,
cit., p. 539. La traduzione delle citazioni di Hartmann è da intendersi a mia cura tenendo conto soprattutto della traduzione
francese, che era quella probabilmente letta da De Roberto.
50 «Sarà, se riuscirò a finirlo, un libro terribile» scriveva De Roberto a proposito de L’Imperio in una lettera datata Roma
31 gennaio 1909, in Lettere a donna Marianna degli Asmundo, a cura di S. Zappulla Muscarà, Catania, Tringale, 1978,
p. 158.
51 I due filosofi vengono collegati a Nordau nella recensione che De Roberto fa del romanzo La malattia del secolo (1888).
Cfr. F. De Roberto, Letteratura Contemporanea. Un romanzo tedesco, in Il tempo dello scontento universale, cit. p. 82.
Nella periodizzazione che De Roberto fa del male del secolo, Hartmann, il quale riduce «la volontà umana ad uno zimbello
di forze incoscienti» e «propone il suicidio del pianeta» viene quindi collocato nella terza parte, insieme agli autori
francesi su cui aveva riflettuto Bourget, e ai romanzieri russi. Cfr. F. De Roberto, Intermezzi. Una malattia morale III,
cit., p. 98.
52 Cfr. E. de Hartmann, Philosophie de l’Inconscient, cit. vol. II, p. 496; Philosophie des Unbewussten, II, cit., p. 637.
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critica delle illusioni, Hartmann giunge alla conclusione che il motore del mondo non
può essere una «coscienza». «Non ci sono già troppe sofferenze nella realtà? È
necessario riprodurle ancora una volta nella lanterna magica della coscienza?».53 È
l’Inconsciente cosmico a divenire pertanto il motore delle cose, così come della stessa
terribile consapevolezza provocata dalla filosofia. D’altra parte, volendo accettare le
premesse schopenhaueriane – e cioè che l’unico fine attivo può essere quello di
soffocare la volontà di vivere – Hartmann evidenzia come non sia certo l’ascetismo,
ma neanche il suicidio individuale, lo strumento per realizzarlo. La trasformazione
del volere in non-volere non può essere un atto individuale, bensì un atto universale e
cosmico a cui anche la filosofia prende parte, prima che la terra si trasformi – come
riteneva la scienza del tempo – in una palla di ghiaccio e «l’esistenza di questo cosmo
con tutti i suoi arcipelaghi e le sue nebulose sarà svanita».54 Scopo ultimo della
«filosofia pratica» sarà quindi quello di far sì, attraverso un metodo analogico, «che
l’uomo faccia dei fini dell’Inconscio i fini della coscienza».55 Uno scopo che essa può
raggiungere estendendo cioè alla natura gli esiti della introspezione e
dell’osservazione antropologica. La filosofia pratica può tendere alla comprensione
verosimile, e attraverso questa partecipare alla tensione annichilente dell’Inconscio.56
Aspetti che ritroviamo in De Roberto («Nel cervello, nell’anima umana si
assommava tutto il male dell’universo, e diveniva cosciente»),57 per il quale però
anche questa fuoriuscita dal nichilismo, che attribuisce alla pratica letteraria la
possibilità di prendere una qualche parte attiva alla distruzione cosmica, non può
essere del tutto soddisfacente.58
Demoni politici e utopie negative
È pur sempre nella storia e nella dinamica sociale squassata dalle passioni e dagli
eventi seguiti all’unificazione italiana, che uno scrittore siciliano come De Roberto
osserva gli epifenomeni del carattere morboso del mondo, e il fine ultimo del retablo
che unisce L’Illusione, i Viceré e L’Imperio è per lo scrittore sempre lo stesso: quello
di comunicare come «tutta l’esistenza umana, più che i movimenti dell’attività di
53 E. de Hartmann, Philosophie de l’Inconscient, cit. vol. II, p. 484; Philosophie des Unbewussten, II, cit., p. 630.
54 E. de Hartmann, Philosophie de l’Inconscient, cit. vol. II, p. 496; questo passo compare solo in edizioni tedesche
successive alla prima.
55 E. de Hartmann, Philosophie de l’Inconscient, cit. vol. II, p. 497; Philosophie des Unbewussten, II, cit., p. 638.
56 E. de Hartmann, Philosophie de l’Inconscient, cit. vol. II, p. 506; Philosophie des Unbewussten, II, cit., p. 643.
57 F. De Roberto, L’Imperio, cit., p. 1351.
58 «con più coerenza di Hartmann De Roberto può rivendicare il valore assoluto del Nulla», C. A. Madrignani, Effetto
Sicilia, cit., 109-110. Cfr. anche Maffei, p. 44. Commentando le immagini del suicidio cosmico in La tristesse du Diable
di Leconte de Lisle, De Roberto sottolineava ancora una volta il vantaggio dell’immagine poetica rispetto alla filosofia:
cfr. F. De Roberto, Poeti Francesi Contemporanei. Leconte de Lisle, in Il tempo dello scontento universale, cit., p. 159.
Sul giudizio circa l’inutilità della filosofia, e sull’arte come unica consolazione, mi sembra abbia ancora una volta un peso
la riflessione di Leopardi. Cfr. G. Leopardi, Dialogo di Timandro ed Eleandro, in Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p.
585 e ancora F. De Roberto, Leopardi, cit., pp. 299-300.
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ciascuno, si risolve in un illusione».59 La partecipazione dell’agire umano al moto
negativo del cosmo non può essere liquidata nell’ascesi, nella contemplazione
filosofica dell’Idea e neanche nel suicidio. È qui che De Roberto e Pirandello si
incontrano nuovamente. Come rileva Madrignani, «per quanto riguarda la materia
politica è difficile sottrarsi all'impressione che esistano vari punti di contatto con
l'impianto dei Vecchi e i giovani di Pirandello, al quale era nota la storia di Consalvo
dell'ultima parte dei Viceré». Madrignani ipotizza che, durante la lunga gestazione del
suo romanzo, De Roberto abbia a sua volta potuto leggere I Vecchi e i giovani, che
già nel 1909 aveva cominciato ad essere pubblicato su rivista.60 Entrambi i romanzi
riprendono il sotto-genere dei romanzi di ambiente parlamentare’61 che già dai primi
anni ’60 si era andato diffondendo nell’Italia post-unitaria, denunciando, a volte con
accenti ipermoralistici, i costumi della realtà politico-istituzionale del tempo.
Nell’attenzione rivolta ai piccoli fatti di cronaca politica, questa narrativa tende in
realtà a riportare le grandi trasformazioni in corso all’«eterno ritorno del vizio»,62
sottraendo così «ogni peculiarità storica»63 agli eventi presenti. In questo modo essa
sviluppa una critica radicale nei confronti della cultura egemone propria del processo
post-unitario, come sarà riconosciuto successivamente da Gramsci, e prepara il
terreno a quella riflessione meta-storica che in De Roberto, come anche in Pirandello,
riporta i fatti contemporanei a quel teatro delle illusioni da cui sarebbe costituita
l’esistenza nella sua totalità.64 L’influenza reciproca tra i due scrittori sembra
59 F. De Roberto, lettera a Di Giorgi datata Milano, 18 luglio 1891, citata in N. Zago, Introduzione a L’Imperio, Milano,
BUR, 2009, p. 16. De Roberto contempla anche i «cataclismi politici» di fine ’700 tra le cause della «prima epidemia di
pessimismo», F. De Roberto, Intermezzi. Una malattia morale, I, cit., p. 87.
60 C. A. Madrignani, Effetto Sicilia, cit., pp. 104-105. Diversamente Lo Castro, che pur rilevando la «registrazione del
fallimento radicale dell’idealismo risorgimentale», comune ai due romanzi, ritiene che Pirandello e De Roberto procedano
qui «parallelamente senza influenze reciproche»: G. Lo Castro, Costellazioni siciliane, cit., p. 102.
61 G. Caltagirone, Dietroscena. L'Italia post-unitaria nei romanzi di ambiente parlamentare (1870-1900), Cagliari,
Bulzoni, 1993 p. 9. “Insomma, fatta l’Italia, la maggior parte degli italiani (stando a questi romanzi) non seppe far altro
che piangere sul Risorgimento tradito, falsa e illusoria retro-prospettiva politica, priva di sbocchi tanto pratici quanto
ideali, rifugio nostalgico e negazione stessa della prassi politica che non può alimentarsi di un discorso in negativo”, ivi,
p. 15. Differente sarà la posizione degli scrittori cattolici, cfr. ivi, pp. 32-33.
62 C. A. Madrignani, Il Parlamento nel romanzo italiano, in Id., Verità e narrazioni. Per una storia materiale del romanzo
in Italia, a cura di Giuseppe Lo Castro, Antonio Resta, Alessio Giannanti, Pisa, Ets, 2020, p. 119.
63 Ibidem.
64 Nell’esprimere la delusione di una certa élite colta per un processo politico e istituzionale nato in apparenza per
includere e unificare il Paese e in realtà finito con l’essere sottomesso agli interessi di una sempre più ristretta oligarchia,
il romanzo parlamentare, o anti-parlamentare, sembra riunire in sé, in realtà, vari tópoi del ressentiment (questione peraltro
a lungo affrontata da Nietzsche) proprio laddove testimonia l’impossibilità di una cultura di «dotarsi di un linguaggio
corrispondente ai bisogni sociali» (ivi, p. 120) o l’incapacità di azione di tutto un ceto intellettuale che non trova altro
sbocco alla palude del trasformismo e delle clientele, tranne, appunto, quello dell’invettiva letteraria. In questo quadro, la
capacità di andare fino in fondo nella comprensione della realtà sociale è data secondo Madrignani dalla narrativa di
autori come Verga, che avrebbe voluto concludere il ciclo dei Vinti con L’onorevole Scipioni, De Roberto, o il cattolico
De Marchi, i quali, pur provenendo da posizioni conservatrici, o forse proprio per questo, riescono lucidamente a dare di
tale realtà «una narrazione involontariamente rivoluzionaria» (ibidem). Per De Roberto, cfr. in particolare ivi, pp. 128-
130, per I Vecchi e i Giovani di Pirandello, «opera riassuntiva dell’intera parabola del romanzo parlamentare» e sulla
relazione con lo stesso De Roberto, cfr. ivi, pp. 137-139. Sull’«insoddisfazione del ceto intellettuale» come motore del
romanzo parlamentare cfr. G. Caltagirone, Dietroscena, cit., p. 18, la quale identifica una settantina di titoli da includere
in un elenco, non esaustivo, del genere (cfr. ivi, p. 39). Da menzionare, tra gli altri: Il secolo che muore (1875-1885), di
Domenico Guerrazzi, La conquista di Roma, di Matilde Serao, del 1885, Misteri di Montecitorio (1886-1887) e Assalto
a Montecitorio (1900), di Ettore Socci, L’ultimo borghese, di Enrico Onufrio, La tragedia di Senarica (1887) di Giuseppe
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confermarsi, infatti, esaminando le figure del nichilismo, da una parte, e dall’altra il
movimento psicologico che dal disincanto politico conduce al nichilismo
ontologico.65 Una certa somiglianza collega il movimento psicologico e la stessa
visione dei biofobi che osserviamo alla fine de L’Imperio alle pagine de I Vecchi e i
giovani in cui il disgusto di Antonio Del Re verso la decadenza delle relazioni umane
e la distruzione dell’etica di verità provocate dal mondo romano e dai suoi scandali –
anche qui è il fantasma dello scandalo della Banca Romana del 1892 a fare da
scenario – si trasforma in rabbia:
Infine, dalla sorda rabbia che lo divorava, da quell’agra inerzia fosca, un’idea truce, mostruosa,
aveva cominciato a germinargli nel cervello, la quale subito aveva preso a nutrirsi voracemente di
tutto il rancore contro la vita, fin dall’infanzia accolto e covato. L’idea gli era balenata, sentendo
una sera a tavola discorrere del modello delle bombe recate da Francesco Crispi in Sicilia alla
vigilia della Rivoluzione del 1860 e della preparazione di esse.66
Appena poche pagine prima, la disperazione nichilistica, unita al fantasma dello
scoppio, delle bombe, appartiene invece a Lando Laurentano, il quale,
mentre sorrideva, ascoltando al circolo o in qualche altro ritrovo le baggianate dei suoi conoscenti,
dondolando un piede o carezzandosi la barba, immaginava freddamente qualche scoppio
improvviso che mettesse in iscompiglio ridicolo a un tempo e spaventoso tutto quel mondo fatuo,
fittizio, di cui gli pareva incredibile che gli altri sul serio potessero vivere e appagarsi.67
Tanto ne I Vecchi e i Giovani come in De Roberto e come già nei Demoni (1873) di
Dostoevskij, lo scenario in cui si consuma il disinganno dalle illusioni, premessa per
il nichilismo, è la politica, vista come teatro dell’ambizione e del conflitto tra volontà
individuali dominate dall’amor proprio.68 Consalvo Uzeda di Francalanza incarna il
Mezzanotte, Daniele Cortis (1885), di Antonio Fogazzaro, Le lagrime del prossimo (1888) e La Baraonda (1894), del
milanese Gerolamo Rovetta, L’Onorevole, del torinese Achille Bizzoni, l’inedito Primo Maggio di Edmondo De Amicis,
La disfatta, del reazionario Alfredo Oriani, Le vergini delle rocce, di Gabriele D’Annunzio, Clelia Dell’Arco. La moglie
del Ministro (1902), del siciliano Luigi Marrocco, La patria lontana (1910) di Enrico Corradini e I moribondi di
Montecitorio dell’anarco-sindacalista Paolo Valera. Il romanzo parlamentare attraversa anche le contorsioni della Terza
Repubblica francese, ad esempio con la pièce Le Candidat (1873), di Gustave Flaubert, e il romanzo di Émile Zola Son
Excellence Eugène Rougon (1876). Una prima attenzione critica al corpus è da attribuire a B. Croce, La letteratura della
nuova Italia, Roma-Bari, Laterza, 1914-1915; nel dopoguerra, una riflessione sulla mancanza di quella forma narrativa
nel nuovo contesto storico fu aperta da L. Russo, La vita parlamentare nella narrativa italiana, in «Belfagor», nov. 1952,
pp. 705-707 e poi continuata in modo sistematico da C. A. Madrignani: di quest’ultimo cfr. anche Rosso e Nero a
Montecitorio. Il romanzo parlamentare della nuova Italia (1861-1901), Firenze, Vallecchi, (1980). Per una visione
d’insieme, meno dettagliata, ma allargata al contesto europeo, e con una riflessione sul secondo Novecento, cfr. C.
Bertoni, Il romanzo parlamentare, in Il romanzo in Italia II. L’Ottocento, a cura di G. Alfano e F. De Cristofaro, Roma,
Carocci, 2018, pp. 433-447 (riguardo Pirandello e De Roberto, cfr. in particolare pp. 440-445).
65 Ho parzialmente affrontato questo aspetto in G. Ferraro, Un ‘libro terribile’. L’Imperio di De Roberto tra disincanto
politico e nichilismo, in «Studia Romanica Posnaniensa», XLI/4, 2014, pp. 61-75.
66 L. Pirandello, I Vecchi e i Giovani, Milano, Rizzoli, 2011, p. 312.
67 Ivi, p. 283.
68 A tutt’oggi non conosco uno studio accurato, più che mai opportuno, intorno all’influenza degli autori russi sullo
scrittore siciliano, rilevata anche da Madrignani, Introduzione a F. De Roberto, Romanzi, novelle e saggi, cit., p. LVIII.
De Roberto ne parla nell’articolo Letteratura Contemporanea. La corrente russa, in Il tempo dello scontento universale,
cit. p. 65 (dove Dostoevskij è definito come «il più tetro» dei tre) e in Intermezzi. Una malattia morale III, cit., p. 98
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prototipo dell’uomo senza verità, il demone che come un vero spirito del tempo
traduce già nei Viceré la sepolcrale attitudine al comando degli avi nell’ipocrita
trasformismo politico dell’Italia giolittiana. Capace di dire oggi quello che è già
pronto a smentire domani, di giocare tra opposte ideologie, tenendo fede non tanto
alla propria parola, quanto alla propria brama di potere, Consalvo intende perpetuare,
con i mezzi della democrazia quel potere di vita e di morte che in altre epoche
storiche era stato garantito dal diritto divino e dalle armate spagnole. Essere viceré è
la sua verità:
Ciò che egli esprimeva con la facezia era la verità. «Principe di Francalanza» queste parole erano il
passaporto, il talismano che operava il miracolo di aprirgli tutte le vie. Egli sapeva che le
dichiarazioni di democrazia non gli potevano nuocere presso gli elettori della sua casta poiché
questi non lo credevano sincero ed erano sicuri di averlo, al momento buono, dalla loro; dall’altro
canto sentiva che le accuse di aristocrazia non lo pregiudicavano molto presso la gran maggioranza
di un popolo educato da secoli al rispetto ed all’ammirazione dei signori, quasi orgoglioso del loro
fasto e della loro potenza [...] Nondimeno piegavasi, concedeva tutto, a parole, allo spirito dei nuovi
tempi.69
Il trasformismo parlamentare è quindi solo una sequela di illusioni dietro cui si
nasconde semplicemente una volontà di potenza. Attraverso la narrazione politica è
questa volontà a rivelarsi come elemento ontologico e quindi come verità del nulla
che si cela dietro ogni apparenza, ed è proprio questo ad essere in gioco, mi sembra,
nel titolo stesso de L’Imperio.70 Consalvo non ha verità, non ha morale, e proprio per
questo è capace di tutto:
Il modo migliore di trarre profitto dalla sua nobilità e dalle sue ricchezze non era quello di farle
dimenticare, mettendosi coi democratici, coi repubblicani, con gli stessi socialisti, combattendo i
pregiudizi aristocratici, le diversità sociali, predicando l’eguaglianza ad ogni costo? Tutta la sua
educazione e tutta la sua più intima persuasione protestavano contro questa eguaglianza; egli non
ammetteva che fossero sinceri neppure quelli che la predicavano con fervore di apostoli, perché il
bisogno di emergere, di eccellere, di predominare gli pareva essenziale ad ogni uomo; ma se quello
appunto era il mezzo, dato l’andazzo, per salire nella pubblica stima, se gli sciocchi portavano più
alto chi volendo salire più si sgolava contro le altezze, perché non si sarebbe servito anch’egli di
questo mezzo?71
Come Nietzsche affermava nel suo frammento, il nichilismo europeo sarebbe
caratterizzato proprio dalla perdita di veridicità della morale, da cui proprio la
veridicità era stata promossa.72 Ne L’Imperio osserviamo quindi una progressiva
(dove Dostoevskij appare come «più potente e più fosco»).
69 F. De Roberto, I Viceré, cit., pp. 1064-1065.
70 «Nella vita non c'è niente che abbia valore al di fuori del grado di potenza - dato appunto che la vita altro non è che
volontà di potenza»: F Nietzsche, Il nichilismo europeo, cit., p. 203.
71 F. De Roberto, L’Imperio, cit., pp. 1262-1263. «Siete un terribile aristocratico. L’aristocratico, quando va verso la
democrazia, è affascinante» dice anche a Stavrògin Verchovenskij. Cfr. F. Dostoevskij, I Demoni, tr. di G. Buttafava,
Rizzoli, Milano, 1997, p. 468.
72 Cfr. F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, cit., p. 200.
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ascensione della volontà di potenza di Consalvo verso l’abisso nichilista che, prima
accennato nell’equiparazione degli affari pubblici alla pornografia di una casa
d’appuntamenti, si rappresenta infine nello stupro, verso cioè – utilizzando ancora le
parole di Nietzsche – una «volontà di distruzione come volontà di un istinto ancora
più profondo, dell'istinto dell'autodistruzione, come volontà del nulla»:73 a questa
volontà di nulla dell’Uzeda, su cui s’interrompe il romanzo, sarà speculare la volontà
di nulla di Ranaldi nell’ultimo capitolo.74 Un’ascensione verso il male che ripercorre
da vicino la strada dostoevskijana di Stavrògin, anche lui, come Consalvo,
«Bonaparte di provincia»,75 anche lui colpevole di stupro e anche lui animato da una
volontà di potenza indirizzata verso una pulsione di morte che nel suo caso porterà al
suicidio dell’ultima pagina del romanzo.
In realtà più vicino all’effetto provocato dal nichilismo di Stavrògin, è quello che
viene rappresentato da Ranaldi, la cui rabbia si può dire anch’essa «fredda, tranquilla
e, se così si può dire, ragionata, quindi la più disgustosa e terribile che ci possa
essere»76 tanto da provocare il grande turbamento nella sequenza della riunione
dell’ultimo capitolo. L’elemento di impressionante continuità con Dostoevskij è dato
dalla centralità che acquista a un certo punto il personaggio dell’anarchico, portatore
della successiva utopia negativa dei biofobi e dei geoclasti. Un personaggio, già
tratteggiato in Spasimo, con cui «entra in scena un De Roberto che non ci
aspettavamo, armato di una lucidità politica per cui, se condivide l'idea hobbesiana
della necessità repressiva dello Stato, ha chiaro che si tratta di un sistema difensivo
che non è in grado di reggere all'incalzare di nuove forze politiche».77 Il nichilismo
attivo che vediamo all’opera in queste pagine è tutt’altro che un rifugio decadente. La
volontà di morte riconfigura ora lo sguardo cosmico dentro una visione apocalittica
che, per annullare il Male, si serve dell’anarchico come strumento distopico. È
l’anarchico a coagulare i demoni della società, seguendo un procedimento di catarsi
letteraria che era appunto già stato di Dostoevskij, il quale, in una celebre lettera
scriveva: «I demoni sono usciti dall’uomo russo e sono entrati nel branco dei porci, e
73 Ivi, p. 204.
74 Cfr. F. De Roberto, L’Imperio, cit., p. 1340.
75 C. Carmina, Le trame dell’ambizione nell’opera di Federico De Roberto, «Oblio», III, 11, 2013, p. 14.
76 Cfr. F. Dostoevskij, I Demoni, tr. di G. Buttafava, Rizzoli, Milano, 1997, p. 252. Ha però ragione Carmina quando
scrive che i personaggi derobertiani «non hanno una statura tragica: pur non presentandosi che raramente come eroi
positivi, non raggiungono mai la grandezza demoniaca della malvagità assoluta»: Le trame dell’ambizione nell’opera di
Federico De Roberto, cit., p. 16.
77 C. A. Madrignani, Effetto Sicilia, cit., p. 115. De Roberto ricalca il suo anarchico sulle figure che facevano già parte del
patrimonio culturale dell’epoca, e che erano del resto state utilizzate da altri autori, come lo stesso Dostoevskij, proprio
per caratterizzare le attitudini nichilistiche. È il caso di Bakunin, da lui descritto nel 1896 su La Nuova Antologia come
«apostolo della distruzione universale» e «figura apocalitticamente paurosa» e che ricompare evidentemente nel romanzo
Spasimo, non solo nelle caratteristiche, come anche nel nome del protagonista che riecheggia quello di Bakunin: «Alessio
Zakunine, rivoluzionario russo condannato nel capo al suo paese, espulso indi da quasi tutti gli Stati d'Europa e
ultimamente rifugiatosi nel territorio della Confederazione», F. De Roberto, Spasimo, Milano, Galli, 1897, p. 4, ora riedito,
con introduzione di M. Onofri, Roma, Donzelli, 2010. Madrignani non esclude echi del processo di Necàev o la lettura
del Catechismo del rivoluzionario. Cfr. Madrignani, Effetto Sicilia, p. 118. Sulle orme di Nietzsche, M. Foucault colloca
le attitudini nichilistiche dei rivoluzionari ottocenteschi nel solco della storia del cinismo occidentale, inteso come pratica
di esistenza definita da un certo tipo di rapporto con la verità. Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le Gouvernement
de soi et des autres II (Cours au Collège de France), Paris Gallimard, 2009, p. 175.
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cioè nei Necàev, nei Serno-Solov’ëvic e così via». Come accade ai porci nel miracolo
evangelico, i demoni russi vengono fatti annegare nella loro trasposizione letteraria.
De Roberto, senza avere la fede dello scrittore russo, ha in mente qualcosa di simile.78
Se Dostoevskij ironizzava sulle contraddizioni delle sette rivoluzionarie tratteggiando
le utopie nichiliste degli anarchici russi attraverso i personaggi di Verchovenskij e di
Šigalëv,79 e facendo di Stavrògin il punto di riferimento politico della follia intrinseca
in queste utopie negative,80 De Roberto, riprendendo Hartmann, mette in evidenza la
sostanziale omogeneità tra conservatori e anarchici: se il male è eterno, accelerare la
distruzione o accompagnarla si riduce «a una questione di forma e di tempo».81
Qualunque gesto politico o etico è di per sé meramente illusorio. Non ci sono «né
virtù né vizii, né colpe né meriti: nulla, nulla, nulla», il mondo appare come «una
scena dietro alla quale non c’era nulla».82 Se il male è necessario e vincola a sé ogni
cosa, quale senso può infatti avere l’azione? «Perché non accettare la legge
dell’universo? Perché non riconoscere che la vita e l’esistenza è un contagio?»83 È
proprio per l’ottimismo intrinseco alle posizioni anarchiche che promettevano la fine
dell’iniquità, che «i predicatori di questa dottrina» – i Necàev, i Bakunin – «dovevano
essere più sciocchi degli stessi conservatori»:84 «l’anarchico crede che il suo paradiso
sarà conseguito».85
Se lo spettacolo della politica smette di essere quindi terreno di possibile riscatto
escatologico, è perché il male è riconosciuto come insito nella stessa materia. La sua
rivelazione attraverso la coscienza e nella coscienza renderebbe per lo meno ancora
possibile il riscatto individuale schopenhaueriano, l’eliminazione della stessa
coscienza: «se la vita si rivela per quello che è, tutta una crisi verso la morte,
l’affrettamento del processo, il conseguimento della morte sarà considerato come
l’unica cosa conveniente».86 Il suicidio, un suicidio stoico, privo di passioni, anzi, da
78 F. Dostoevskij, lettera a Màjkov del 9 ottobre 1870, in G. Pacini, F. M. Dostoevskij, Milano, Bruno Mondadori, 2002,
p. 96. «Questi demoni, che escono dal malato ed entrano nei porci, sono tutte le piaghe, tutti i miasmi, tutte le impurità,
tutti i demoni e i demonietti che si annidano nel nostro grande e diletto malato, nella nostra Russia, da secoli e secoli!
Oui, cette Russie, que j’aimais toujours. Ma una grande idea e una grande volontà le pioveranno dall’alto, come piovvero
su quel folle indemoniato, e usciranno tutti questi demoni, tutte le impurità, tutte le turpitudini, che imputridiscono la
superficie... ed essi stessi chiederanno di entrare nei porci. E sono già entrati forse! Siamo noi, noi e loro, e Petrusa... et
les autres avec lui, e io forse sono il primo, in testa a tutti, e noi ci getteremo, folli e indemoniati, da una roccia nel mare
e annegheremo tutti, e questa è la meta del nostro cammino, perché non siamo in grado di far nient’altro»: F. Dostoevskij,
I Demoni, cit., pp. 712.
79 Quest’ultimo dipinto come «un genio, come Fourier; ma più audace di Fourier, più forte di Fourier». F. Dostoevskij, I
Demoni, cit., p. 466.
80 Ivi, pp. 468-1699.
81 F. De Roberto, L’Imperio, cit., 1353.
82 Ivi, p. 1350. Cfr. Madrignani, Effetto Sicilia, cit., pp. 106-107. «È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (la
«mancanza di senso») eterno!»: F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, cit., p. 201. La caduta delle illusioni del non più
giovane giornalista segue lo schema disegnato da Hartmann nel capitolo dedicato al «primo stadio dell’illusione», in cui
viene descritto il disincanto come movimento proprio della vecchiaia: «La vita dell’individuo sfocia nella più completa
disillusione”: E. de Hartmann, Philosophie de l’Inconscient, cit. vol. II, p. 435; Philosophie des Unbewussten, II, cit., p.
559.
83 F. De Roberto, L’Imperio, p. 1352.
84 Ivi, p. 1353.
85 Ivi, p. 1372.
86 Ivi, p. 1354.
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compiere nel momento esatto in cui, giunti al più alto livello di disperazione, si è
privi di passioni, appare in principio a Ranaldi come l’unica possibilità.87
Contraddittoriamente, quanti hanno predicato la «vanità del tutto» poi «non hanno
uniformato i loro atti al loro concetto»88 e, al tempo stesso, tutte le forme di vita
ascetiche non hanno evitato il perpetuarsi della forza maligna dell’istinto vitale. Lo
stesso Ranaldi avverte quindi come lo stesso istinto lo spinga a predicare, a scrivere
più che a «compiere la distruzione».89 Per restare fedele alla sua freddezza,
occorrerebbe che qualcosa lo uccidesse in modo inconsapevole, allo stesso modo con
cui – in un periodo che torna a riecheggiare l’analogia della Ginestra tra la
distruzione del formicaio e la minaccia della lava – lui stesso uccideva gli insetti:
«Perché non si rovesciava su lui un macigno tale da ridurlo in un lampo a
poltiglia?».90 Nel saggio dedicato pochi anni prima all’Amore, De Roberto aveva già
presentato in forma di diagnosi ciò che era probabilmente già abbozzato nella visione
di Ranaldi:
un motivo egoistico, il nostro interesse del momento, ci detta questi giudizii diametralmente
opposti, sui quali sono fondati la fede e la sfiducia, l'ottimismo e il pessimismo. Infatti, quando
ci crediamo la forma più perfetta, crediamo per conseguenza che la perfezione debba crescere,
divenire sempre più grande, quindi la speranza fiduciosa; quando siamo invece persuasi che il
miglioramento è un inganno, disperiamo al punto da pensare, con Hartmann, al suicidio
cosmico.91
Giunta al culmine, la sua disillusione non rende Ranaldi inerte, non ancora. La sua
rabbia dà luogo alla lucida immaginazione di un partito politico in grado di andare
oltre le intenzioni escatologiche dell’anarchia, e che «affronterà tutto il problema
umano».92 I nuovi anarchici saranno uomini in grado cioé di fare della necropolitica
l’ultima politica in grado di fare definitivamente i conti col male degli elementi. Una
necropolitica incarnata in una «religione» tale da capovolgere le premesse della
«social catena» di Leopardi, letta adesso, per così dire, attraverso Hartmann: la
solidarietà umana può consistere solo nel dare e ricevere la morte.93 Il nuovo partito
predisporrà armi chimiche in grado, letteralmente, «di far sparire tutti i corpi come
87 «Ecco… così», sono le fredde parole dette prima di uccidersi dal soldato Morana nella novella di guerra La paura: cfr.
F. De Roberto, La paura, in Romanzi, novelle e saggi, cit., p. 1585. La tematica del suicidio ne L’Imperio non può che
rimandare alla vicenda dell’Ermanno Raeli, romanzo pubblicato nel 1887 e ripubblicato da De Roberto nel 1923. Da
ricordare anche i tre casi «gemelli prossimi» del Raeli: quello di Corrado Silla, in Malombra (1881) di Antonio Fogazzaro,
di Alfonso Nitti, in Una vita (1892) di Italo Svevo e di Giorgio Aurispa in Trionfo della morte, di Gabriele D’Annunzio,
del 1894; non estraneo alle vicissitudini di Raeli, e quindi di Ranaldi, dev’essere considerato il caso di Roberto Greslou
del Disciple di Paul Bourget, del 1888, oltre che ovviamente il prototipo del giovane Werther. Cfr. Cfr. R. Galvagno, La
litania del potere e altre illusioni. Leggere Federico De Roberto, Marsilio, Venezia, 2019, pp. 241-266: p. 243; cfr. anche
G. Barberi Squarotti, I due «Ermanno Raeli», in AA.VV., Letteratura, lingua e società in Sicilia. Studi offerti a Carmelo
Musumarra, Palermo, Palumbo, 1989, pp. 349-366. Cfr. G. Maffei, La passione del metodo, cit., p. 47.
88 Ivi, p. 1355.
89 Ivi, p. 1356.
90 F. De Roberto, L’Imperio p. 1357. Cfr. G. Leopardi, La Ginestra, cit., pp. 205-206.
91 F. De Roberto, L’Amore, [1895] cit., pp. 13-14.
92 F. De Roberto, L’Imperio, p. 1373.
93 Ivi, p. 1374.
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con una pedata si fa sparire un insetto».94 Così De Roberto descrive la nuova setta di
nichilisti in cui sembrano raccogliersi in una ideologia esplosiva gli stessi sintomi
della nausea universale di cui scriveva Bourget in un passo del suo saggio dedicato a
Baudelaire: «la rabbia assassina dei cospiratori di San Pietroburgo, i libri di
Schopenhauer, i furiosi incendi della Comune e la misantropia implacabile dei
romanzieri naturalisti».95 «Siamo lontani, senza dubbio – continua Bourget, pensando
ancora ad Hartmann – dal suicidio del pianeta, desiderio supremo dei teorici
dell’infelicità. Ma lentamente, sicuramente, si elabora la credenza nella bancarotta
della natura, che promette di divenire la sinistra fede del XX secolo». Convogliando
queste attese in un pensiero capace di mutare di segno tutti valori tradizionali,
Nietzsche pretendeva in Ecce homo, nel 1888, di legare il proprio nome al «ricordo di
qualcosa di enorme», «una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda
collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato
creduto preteso, consacrato», ripromettendosi di essere, più che un uomo,
«dinamite».96 Anche De Roberto aveva qualcosa di simile in serbo nel suo «libro
grande»:97
Costoro non abbomineranno la sola vita, ma la stessa esistenza delle cose che sono o sembrano
inerti. [...] Ci furono un tempo distruttori di templi, di immagini, avremo i distruttori delle cose e
della vita. Io già li presento, li vedo derivare dai più freddi e più logici anarchici. Questi uccidono e
muoiono insieme con le loro vittime; non resta da far loro che spogliarsi dell’odio di cui sono ora
animati; manca ad essi soltanto la rinunzia alle assurde speranze riposte in un avvenire chimerico, la
semplice persuasione che con la morte si è già ottenuto, immediatamente. Il passo non è lungo,
qualcuno lo compirà. Un primo esempio sarà tosto seguito da altri; allora il partito sarà formato e
conterà proseliti sempre più numerosi. E già mi par di sentirne ripetere i nomi. Perché odieranno la
vita essi saranno chiamati biofobi; perché faranno saltare a pezzo a pezzo il mondo si chiameranno
geoclasti.98
L’anarchico-biofobo-geoclasta sfiora sì la consapevolezza oltraggiosa dell’oltreuomo
nietzscheano,99 senza perdere però quel lampo di derisione con cui Nietzsche – ma
anche Dostoevskij, e lo stesso de Roberto poche pagine prima – trattava gli anarchici
e, con loro, la stessa dinamite di cui si faceva portatore. La catarsi proposta da questa
anarchia ha qualcosa in comune con quella degli anarchici disegnati nell’Anticristo:
tutto sommato, anche la religione dei biofobi si nasconde un qualche «demone
meschino».100 Ma è tutta l’umanità, tutta la Terra, la vecchia «pallottola» leopardiana,
94 Ivi, p. 1375.
95 P. Bourget, Essais de psychologie contemporaine, cit., pp. 15-16 (trad. mia).
96 F. Nietzsche, Ecce Homo, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., p. 375.
97 F. De Roberto, lettera datata 17 gennaio 1909, in Lettere a donna Marianna degli Asmundo, cit., p. 153.
98 F. De Roberto, L’Imperio, cit., p. 1375. Sulla prossimità della figura del geoclasta in queste pagine di De Roberto e ne
La coscienza di Zeno di Svevo, cfr. M. Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Einaudi, Torino, 1997, pp.
201-207. Lavagetto esclude una influenza di Svevo, rimandando a fonti comuni, quali Leopardi, Schopenhauer, Nietzsche
e Darwin (senza però citare Hartmann) e soprattutto a L’île des pingouins di Anatole France, a sua volta lettore di La joie
de vivre di Zola.
99 Cfr. C. A. Madrignani, Effetto Sicilia, cit., pp. 119.
100 C. Carmina, Le trame dell’ambizione nell’opera di Federico De Roberto, cit., p. 15.
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e non solo cette Russie, adesso, ad incarnarlo, e a meritare, per questo, il suicidio.
Il riscatto non pretende in quell’atto la creazione di una umanità futura, quanto
piuttosto la sua distruzione. Se, come scriveva De Roberto molti anni prima, le opere
letterarie non dovrebbero essere prese alla lettera, essendo effetti e cause della
«malattia morale» del secolo, secondo «un fenomeno di mutuo scambio che in fisica
è conosciuto col nome di endosmosi ed esosmosi»,101 queste pagine de L’Imperio
dovrebbero essere lette anche come un tentativo catartico di fuoriuscire da quella
malattia provocando nel lettore per lo meno una reazione di rifiuto.102 È in questo
senso che lo stesso scrittore sa di dover in parte incarnare lui stesso i suoi demoni, se,
come scriveva alla madre nel 1909, il libro doveva essere una «bomba» letteraria
gettata in mezzo alla morale e alle ipocrisie italiane.103 L’allontanamento del suicidio
e il rientro di Ranaldi nel conformismo matrimoniale si configura allora non come
una negazione della precedente visione cosmica nichilistica, quanto come una
conseguenza logica delle teorie fatte proprie dallo scrittore. Da un lato quella di
Hartmann, secondo cui lo scopo della filosofia consiste nel far assumere al cosciente i
fini dell’inconsciente cosmico attraverso la concezione di immagini verosimili.
Dall’altro la concezione ultrafilosofica’, leopardiana, dell’arte, che diviene quindi
strumento utile per quell’obiettivo. Nel momento in cui la visione nichilistica di
Ranaldi ha offerto una descrizione verosimile del male, anche il lettore è
definitivamente ricondotto nella dinamica tragica e innarrestabile dell’universo. La
scelta conformista di Ranaldi non contraddice quel punto di non ritorno, ma
semplicemente cede al meccanismo vitale che non smette, solo perché l’istinto di
conservazione è più forte, di avere come fine il male. Qualunque scelta conservativa
compiuta dal personaggio, così come da un qualsiasi lettore nella sua vita reale, ha
adesso, dietro di sé, questo memento che, svelandone il destino ultimo, ne impedisce
per sempre la facile lettura illusoria. Se dal negativo non si può uscire neanche con la
negazione fisica individuale, ad esso si può solo contribuire, o accelerarne la
deflagrazione, col manifestarne la verità. Affermarne il processo, senza sottrarsi alla
sua rappresentazione. Che è appunto ciò che fa De Roberto anche quando mette in
bocca a Ranaldi la giustificazione della sua scelta matrimoniale: «invece di
uniformarsi alla disperata concezione del male universale, prender moglie, mettere al
mondo altre creature, contribuire alla perpetuazione del male...».104 Un nichilismo la
101 F. De Roberto, Intermezzi. Una malattia morale I, cit., p. 84.
102 Cfr. su questo aspetto C. A. Madrignani, Effetto sicilia, cit., pp. 107-108 e G. Lo Castro, Costellazioni siciliane, cit.,
p. 116.
103 Cfr. C. A. Madrignani, Effetto Sicilia, cit., p. 103. È quanto De Roberto si proponeva in una lettera del 1909. F. De
Roberto, Lettere a donna Marianna degli Asmundo, cit., p. 158.
104 F. De Roberto, L’Imperio, p. 1388. Non si comprende perché dovrebbe venire meno, proprio in questa occasione,
quell’«etica dello smascheramento», presente anche nel personaggio di Consalvo, e in generale nella conformazione
egoistica dei personaggi dei Viceré e de L’Illusione che De Roberto ha sempre fatta sua. L’amore è, come scriveva De
Roberto nel suo trattato «un caso dell'amor proprio» (pp. 85-86) e se l’ambizione «è sostenuta dall'istinto di
conservazione», «l'amore da quello di riproduzione» (p. 267). La conclusione del romanzo mi sembra dunque tutt’altro
che un «finale ‘rosa’ posticcio», secondo l’interpretazione di Stasi, a cui si può estendere la recente critica mossa da Lo
Castro a Zago. Cfr. B. Stasi, Apologie della letteratura, cit., p. 61; G. Lo Castro, Costellazioni siciliane, cit., p. 113; N.
Zago, Introduzione a L’Imperio, cit., p. 27.
oblio 38|39 X (2020) ISSN 2039-7917
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cui fuoriuscita attiva non viene cercata «al di là del bene del male» ma in maniera
forse ancora più tragica, in quanto non cede neanche all’illusione che per le creature
il mondo possa rappresentarsi in una prospettiva diversa dal male.105 Più che alla
paura nei confronti del suo libro «terribile» è alla sfiducia che, dopo aver consumato
una dopo l’altra tutte le opzioni, finisce con l’implicare anche l’arte, che si deve
probabilmente la mancata pubblicazione de L’Imperio.
Sono dunque i riferimenti interni, l’approccio comune al nichilismo attraverso lo
studio delle dinamiche di potere, e infine il simile sguardo cosmico rivolto ad un male
elementale sul cui scenario si muove la storia, gli elementi che ci consentono di
parlare di un nichilismo endogeno alla koiné di scrittori siciliani. Se Leopardi è
certamente uno dei riferimenti comuni diretti per i ‘demoni di Sicilia’, d’altronde il
filosofo italiano è letto da De Roberto anche attraverso quegli stessi pensatori
pessimisti che influenzano la diagnosi nietzscheana del nichilismo europeo, oltre che
autori coevi di altre periferie europee.106 Scenari socioeconomici e persino forme
simili di rappresentare il nichilismo come catastrofe della verità legano tra loro due
periferie europee quali la Russia dostoevskijana e la Sicilia di De Roberto. Se è vero,
come affermava Madrignani, che la cultura italiana subisce a un certo punto l’effetto
dirompente dei demoni siciliani, la loro maledizione contro la retorica progressista,
«positiva e benpensante»107 del nuovo Stato italiano è la stessa che molte periferie
culturali e geografiche europee rivolgevano contemporaneamente contro i loro centri.
È per questo che occorre guardare a «zone limitrofe» per vedere gli effetti terribili, e
le possibili contromosse, del nichilismo europeo.
105 «Togliamo dal processo la rappresentazione del fine e affermiamo, ciononostante, il processo?» si chiede Nietzsche
nel suo frammento. De Roberto semplicemente ritiene la rappresentazione necessaria all’esaurimento dello stesso
processo. Cfr. F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, cit., p. 202. L’assonanza di alcuni temi de L’Imperio, quale la decadenza
delle forme democratiche come espressione sintomatologica del nichilismo, o persino di alcune espressioni (come quella
di «pianta uomo» applicata a se stesso da De Roberto in una lettera del 7 febbraio 1909, ma che troviamo per la verità,
applicata ad Alfieri, anche nella Storia della letteratura italiana di De Sanctis), con alcune tematiche di Al di là del bene
e del male potrebbero fare pensare a una lettura del libro di Nietzsche, che era stato tradotto in italiano da Edmondo
Weisel nel 1898 per gli editori Bocca di Torino.
106 Solo per fare un esempio, il poeta e saggista portoghese Antero De Quental. Cfr. A. Ragusa, Como exilados de um céu
distante. Antero de Quental e Giacomo Leopardi, Lisboa, Arranha-céus, 2019. Sempre in ambito portoghese, è da
ricordare il componimento di Fernando Pessoa Canto a Leopardi.
107 Cfr. C. A. Madrignani, Effetto Sicilia, cit., p. 108.
... The same influences (mainly Bourget and Dostoevsky) that informed Nietzsche's notion of resentment can be found in the works of many Sicilian authors. See Ferraro (2020). On Verga's geographical poetics, see Moe (2002, pp. ...
Chapter
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The aim of this chapter is to develop the claim that the cultural meaning of the Mafia’s violence is intrinsically nihilistic. I will attempt to show how the violent annihilation practiced by the Mafia can be situated in the field of nihilism, as a cultural phenomenon. I begin with the presentation of a back story, useful for approaching the semantics of violence and nihilism at work throughout the Mafia’s history. Second, I summarize the forms of nihilism to which I will be referring in this chapter, and, thirdly, I sketch a short history of the Sicilian Mafia. Drawing on Foucault’s conception of power and Mbembe’s notion of necropolitics, I then attempt to identify the Mafia’s semantics of power as a paradigm of those forms of violence and power that are hidden by traditional conceptions of western power – in particular, forms of violence that are characteristic of colonial and postcolonial contexts. Finally, through literary, cinematographic and historical examples, I examine the connections between the Mafia’s symbolic semantics of violence and the emergence of nihilistic forms of power. The main hypothesis of the chapter is that studying the Mafia’s paradigm gives us an understanding of the contemporary compromises between illegal and legal powers.
De Roberto contempla anche i «cataclismi politici» di fine '700 tra le cause della «prima epidemia di pessimismo», F. De Roberto, Intermezzi. Una malattia morale, I, cit
  • F. De Roberto
  • Di Giorgi Datata Milano
F. De Roberto, lettera a Di Giorgi datata Milano, 18 luglio 1891, citata in N. Zago, Introduzione a L'Imperio, Milano, BUR, 2009, p. 16. De Roberto contempla anche i «cataclismi politici» di fine '700 tra le cause della «prima epidemia di pessimismo», F. De Roberto, Intermezzi. Una malattia morale, I, cit., p. 87.
Verità e narrazioni. Per una storia materiale del romanzo in Italia, a cura di Giuseppe Lo Castro
  • C A Madrignani
C. A. Madrignani, Il Parlamento nel romanzo italiano, in Id., Verità e narrazioni. Per una storia materiale del romanzo in Italia, a cura di Giuseppe Lo Castro, Antonio Resta, Alessio Giannanti, Pisa, Ets, 2020, p. 119.
La corrente russa, in Il tempo dello scontento universale, cit. p. 65 (dove Dostoevskij è definito come «il più tetro» dei tre) e in Intermezzi. Una malattia morale III, cit
  • Letteratura De Roberto Ne
  • Contemporanea
De Roberto ne parla nell'articolo Letteratura Contemporanea. La corrente russa, in Il tempo dello scontento universale, cit. p. 65 (dove Dostoevskij è definito come «il più tetro» dei tre) e in Intermezzi. Una malattia morale III, cit., p. 98
«Siete un terribile aristocratico. L'aristocratico, quando va verso la democrazia, è affascinante» dice anche a Stavrògin Verchovenskij
  • F. De Roberto
  • L 'imperio
F. De Roberto, L'Imperio, cit., pp. 1262-1263. «Siete un terribile aristocratico. L'aristocratico, quando va verso la democrazia, è affascinante» dice anche a Stavrògin Verchovenskij. Cfr. F. Dostoevskij, I Demoni, tr. di G. Buttafava, Rizzoli, Milano, 1997, p. 468.
Il nichilismo europeo, cit
  • . F Cfr
  • Nietzsche
Cfr. F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, cit., p. 200.
Ha però ragione Carmina quando scrive che i personaggi derobertiani «non hanno una statura tragica: pur non presentandosi che raramente come eroi positivi, non raggiungono mai la grandezza demoniaca della malvagità assoluta
  • . F Cfr
  • Dostoevskij
  • Demoni
  • Buttafava
  • Milano Rizzoli
Cfr. F. Dostoevskij, I Demoni, tr. di G. Buttafava, Rizzoli, Milano, 1997, p. 252. Ha però ragione Carmina quando scrive che i personaggi derobertiani «non hanno una statura tragica: pur non presentandosi che raramente come eroi positivi, non raggiungono mai la grandezza demoniaca della malvagità assoluta»: Le trame dell'ambizione nell'opera di Federico De Roberto, cit., p. 16.
Come accade ai porci nel miracolo evangelico, i demoni russi vengono fatti annegare nella loro trasposizione letteraria
  • Nei Cioè Nei Necàev
  • Serno-Solov
cioè nei Necàev, nei Serno-Solov'ëvic e così via». Come accade ai porci nel miracolo evangelico, i demoni russi vengono fatti annegare nella loro trasposizione letteraria.
mette in evidenza la sostanziale omogeneità tra conservatori e anarchici: se il male è eterno, accelerare la distruzione o accompagnarla si riduce «a una questione di forma e di tempo
  • De Roberto
  • Hartmann
De Roberto, riprendendo Hartmann, mette in evidenza la sostanziale omogeneità tra conservatori e anarchici: se il male è eterno, accelerare la distruzione o accompagnarla si riduce «a una questione di forma e di tempo». 81
Essais de psychologie contemporaine
  • P Bourget
P. Bourget, Essais de psychologie contemporaine, cit., pp. 15-16 (trad. mia).
Una malattia morale I, cit
  • De Roberto
F. De Roberto, Intermezzi. Una malattia morale I, cit., p. 84.