ChapterPDF Available

Vedere l’invisibile. Per una definizione del falso nei media digitali

Authors:

Abstract

Il contributo pone in discussione la necessità di riconfigurare i concetti di vero e falso nel contesto dei media digitali, anche alla luce di caratteristiche come l'immersività e l'interattività che non trovavano posto nei media precedenti. Analizzando alcune polarità fondamentali, quali ad esempio quella fra analogico e digitale, o quella fra testo superficiale e testo profondo, emerge il fatto che l'immagine digitale (e più in generale tutta la testualità digitale) è sempre e comunque "falsata" rispetto al suo compito primario di rappresentare la realtà, in quanto i processi di numerizzazione dell'informazione sono per loro natura arbitrari, oltre ad essere costantemente manipolabili. Ma al di là degli aspetti tecnici (che tuttavia rappresentano un imprescindibile punto di partenza per un discorso sul digitale), estremamente rilevanti sono le implicazioni sociali e culturali di questo cambio di paradigma: si tratta di una sorta di "sospensione dell'incredulità" generalizzata, non applicata solamente alle esperienze di fiction, ma diventata ormai condizione ineludibile di qualsiasi esperienza mediale, soprattutto per quanto attiene alle esperienze di Realtà Virtuale, Realtà Aumentata, video 360°. Il contributo prende in esame alcuni strumenti di produzione ed elaborazione software atti a far emergere le problematiche citate sopra, oltre a presentare prodotti mediatici ed artistici che giocano sul filo della verosimiglianza.
La cultura del falso
Inganni, illusioni e fake news
a cura di Andrea Rabbito
con opere pittoriche di Benedetto Poma
Biblioteca / Estetica e culture visuali
26
Direzione
Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera, Milano
e Istituto nazionale “Ferruccio Parri”)
Comitato editoriale
Andrea Staid (Naba, Milano), Massimiliano Guareschi (Naba, Milano),
Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera, Milano e Istituto nazionale
“Ferruccio Parri”)
Comitato scientifico
Mauro Carbone (Université Jean Moulin Lyon 3), Rugg ero Eugeni (Università
Cattolica del Sacro Cuore, Milano), Federico Ferrari (Accademia di Belle
Arti di Brera, Milano), Barbara Grespi (Università degli Studi di Bergamo),
Pietro Montani (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Andrea Pinotti
(Università degli Studi di Milano), Elena Pirazzoli, Francesca Romana
Recchia Luciani (Università degli Studi di Bari), Anna Ruchat (Civica Scuola
interpreti e traduttori “Altiero Spinelli”, Milano), Antonio Somaini (Université Sorbonne Nouvelle
Paris 3)
Meltemi editore
www.meltemieditore.it
redazione@meltemieditore.it
Collana: Biblioteca / Estetica e culture visuali, n. 26
Isbn: 9788855191128
© 2020 meltemi press srl
Sede legale: via Ruggero Boscovich, 31 20124 Milano
Sede operativa: via Monfalcone, 17/19 20099 Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 22471892 / 22472232
Indice
13 Introduzione
di Andrea Rabbito
25 Il ciarlatano e l’immagine. Forme e ambiguità
d’una prototipica cultura del falso
di Roberto Tessari
45 Anche il falso è “obsoleto”. L’esperienza
di canecapovolto
di Stefania Parigi
59 Vero, finto, falso. La scena contemporanea
fra presenza e rappresentazione
di Marco De Marinis
81 Fake views. Watching bullshits
di Ruggero Eugeni
105 Verità logica, verità linguistica, verità ecologica.
La doppia lezione della filosofia del linguaggio
di Antonino Pennisi, Gessica Fruciano
123 Vedere l’invisibile. Per una definizione del falso
nei media digitali
di Giulio Lughi
143 La rete e lo schermo. Televisione e contenuti
nell’era dei social network
di Anna Bisogno
159 Gli inganni dell’empatia. Giornalismo immersivo
e disinformazione
di Adriano DAloia
177 “Don’t believe the hype, just perform!”
La Post-Truth e il Pantani delle Albe
di Dario Tomasello
197 Fake performance. Politica e parodia in Italia
ai tempi dei social
di Katia Trifiro
217 Splendore del falso. Su Kubrick, il fake trailer
e la profanazione ludica
di Enrico Carocci
239 Scena multipla e scatola del reale,
tra metafisica e metateatro
di Filippa Ilardo
261 Andy Warhol o della tv come arte dell’illusione
di Alfonso Amendola
283 Nostalgia dei dispositivi in Black Mirror
di Giulia Raciti
303 “Non avrai altro Dio fuori che me”. Le immagini
del pregiudizio in Andorra di Max Frisch
di Fabio La Mantia
323 Falsificare e deformare la storia. La rappresentazione
del nemico nei giornali di trincea francesi della Prima
guerra mondiale
di Loredana Trovato
343 L’illusione della morte. Effigi e simulacri
nella ritualità funebre
di Mattia Cinquegrani
357 Cronache e documenti apocrifi nel Quattrocento.
Pau Rossell e i falsi privilegi messinesi
di Pietro Colletta
379 B for Belluscone. Le immagini e la morte della verità
secondo Franco Maresco
di Tommaso Di Giulio
395 La potenza del falso
di Damiano Cantone
415 “Nel mondo reale”. Verità, falsità e finzione nei
giochi della realtà aumentata
di Anna Montebugnoli
437 Liveness. Presenza, immagine digitale
e falsificazione
di Vincenzo Del Gaudio
457 La guerra simbolica della comunicazione mediatica
di Gianpiero Vincenzo
481 La violenza sulle donne è un “vero problema”!
Un’analisi dei frame di rappresentazione audiovisiva
del fenomeno nelle campagne governative
di comunicazione sociale
di Gabriella Polizzi
503 “Sei tu? O sono solo io?” Eikon, eidolon e mimesis
in Personal Shopper
di Pietro Masciullo, Vincenzo Tauriello
519 Bassa risoluzione, rappresentazioni della realtà
e guerre mediali. Il caso Redacted di Brian De Palma
di Mario Tirino
537 L’immagine (falsa) del mondo. L’invenzione del passato
come attrazione turistica
di Pierre Dalla Vigna
553 P for Picture and Post-Truth. L’inganno delle
immagini nuove e la post-verità
di Andrea Rabbito
Vedere l’invisibile. Per una definizione del falso nei media
digitali
Giulio Lughi
L’apparente contraddizione del titolo (Vedere l’invisibile) ci conduce
immediatamente nel cuore della questione: nei media digitali tutto ciò che
vediamo su uno schermo di computer, o di smartphone, o su qualsiasi altro
terminale di fruizione non rappresenta qualcosa che esiste nella forma in cui lo
vediamo, bensì è frutto dell’elaborazione logica e formale in tempo reale di una
serie di dati e istruzioni annidati nel testo profondo, “invisibili” al
lettore/spettatore.
Ne deriva l’ipotesi, o la suggestione, che il concetto stesso di falso nel testo
digitale diventi evanescente, in quanto a rigore nel digitale tutto è falso, o almeno
falsificabile, nel senso di costruito ad hoc da una serie di regole e trasformazioni
che rielaborano totalmente ciò che è depositato sul supporto fisico di
memorizzazione, le sequenze infinite di 1 e 0 che all’occhio (e all’intelletto)
umano non hanno alcun significato.
Mentre nei media industriali il legame analogico (quasi di calco) tra il supporto di
memorizzazione e il testo rappresentato garantisce (almeno apparentemente) la
“verità” di ciò che vediamo, i media digitali aprono uno scenario di intrinseca
“falsità” del testo: è stato principalmente Lev Manovich (2000) ad indagare
questo spazio arbitrario che si apre fra “testo superficiale” e “testo profondo”
1
,
identificando il digitale come “interfaccia culturale” caratterizzata (rispetto al
libro, e al cinema) proprio dalla sua modificabilità e programmabilità, dallo
sganciamento logico e semantico del testo visibile dal suo supporto materiale, e
quindi dal suo acquistare un carattere di continua elaborazione e aleatorietà.
Successivamente Manovich (2013, p. 110) ha sviluppato ulteriormente questa
prospettiva, identificando nel software l’elemento che gestisce la distanza fra testo
profondo e testo superficiale, il software come sistema nervoso sottostante a tutte
le epifanie digitali con cui abbiamo a che fare nella società contemporanea:
se vogliamo comprendere le tecniche contemporanee di controllo,
comunicazione, rappresentazione, simulazione, analisi, processo decisionale,
memoria, visione, scrittura e interazione, la nostra analisi non può essere
1
Da segnalare l’omologia fra questa distinzione e quella chomskyana fra “struttura superficiale” e
“struttura profonda”, egualmente messe in relazione da una serie di regole trasformazionali che
fanno affiorare l’invisibile a livello visibile.
completa finché non consideriamo questo strato del software
2
.
In questa direzione Manovich propone anche il concetto di deep remixability, un
concetto che supera quello obsoleto di multimedia in quanto lega e unifica a
livello profondo i contenuti culturali, obbigando a ripensare
le loro tecniche fondamentali, i metodi di lavoro e le loro modalità di
rappresentazione ed espressione. Uniti in un ambiente software comune, i
linguaggi di cinematografia, animazione, computer animation, effetti speciali,
graphic design, e stampa sono venuti a formare un nuovo metalinguaggio
3
.
Questo contributo intende quindi esplorare le articolazioni di questa distanza fra
testo profondo e testo superficiale, nonché lo statuto di aleatorietà che questa
distanza conferisce alla consistenza testuale, considerandone alcune anticipazioni
già presenti nella storia della cultura pre-digitale, e offrendo successivamente
alcuni esempi di come lo statuto difficilmente definibile del falso si manifesti nei
media digitali.
La consistenza del testo
Nella prospettiva sopra delineata il problema del falso va visto quindi come
strettamente connesso con quella che potremmo chiamare la “consistenza” del
testo, e cioè il suo ancoraggio ad un supporto fisico, che nel passato si è
manifestata con tutta la sua forza già con la nascita della scrittura a mano, nel
momento in cui le forme della comunicazione orale, aeree, provvisorie ed
evanescenti sono costrette a fissarsi entro il guscio solido di un supporto fisico; un
processo poi diventato irreversibile e cogente con la nascita della stampa a
caratteri mobili, quando alla fisicità si aggiungono i caratteri della stabilità, della
regolarità, della replicabilità, ben evidenziati da Walter Ong (1982).
Ma se Ong osserva soprattutto i fenomeni legati al testo scritto, lo stesso processo
di consolidamento e stabilizzazione si verifica anche nel campo delle immagini. Si
tratta di un processo parallelo messo in luce, ad esempio, da Renato Barilli (2002,
p.74) il quale a proposito della pittura, e in particolare del rapporto fra scrittura e
pittura, si sofferma seguendo le anticipazioni di McLuhan sugli aspetti
materiali e meccanici che accomunano queste due "macchine da guerra" della
cultura rinascimentale e occidentale:
... la modernità si reggerebbe su due pilastri: l’invenzione di Gutenberg, la stampa
a caratteri mobili, la tipografia, avvenuta nel 1450, e la rispondenza omologica
riscontrabile tra questa procedura tecnica e la prospettiva, teorizzata per le arti
visive (pittura, scultura, architettura) da Leon Battista Alberti nel trattato De
pictura (1435).
La prima rudimentale meccanizzazione, tecnologizzazione, e mediatizzazione dei
processi di produzione culturale ai fini del controllo della stabilità e quindi della
2
TdA
3
TdA
“verità” testuale viene portata avanti dunque su entrambi i piani: mediante la
stampa a caratteri mobili da una parte; e mediante i telai geometrici per la
riproduzione prospettica dall'altra, di cui abbiamo un celebre esempio in
un’incisione di Dürer. Sono i primi passi di quel processo di consolidamento e
chiusura del testo, sviluppato con alterne vicende nel corso dei secoli successivi,
che si concluderà in piena età industriale e positivista: da una parte con
l’affermarsi di una mentalità filologica (il metodo critico ricostruttivo di
Lachmann), dall’altra con una serie di vincoli internazionali condivisi sul diritto
d’autore, sanciti definitivamente nella Convenzione di Berna del 1886.
A fronte di questa blindatura del testo, garanzia della verità della
rappresentazione, il digitale post-industriale sembra riaprire una stagione per molti
aspetti assimilabile a quella dell’oralità, in cui l’affidabilità del testo lascia il posto
ad una dimensione incerta, negoziabile, aperta, in cui il concetto stesso di falso
perde la sua consistenza.
Copie senza originale
A livello di pura suggestione, c’è un piccolo caso letterario che anticipa
sorprendentemente questa idea dello sganciamento del testo da ciò che
rappresenta, due racconti che parlano appunto di “copie senza originale”.
In un racconto di Balzac (Il capolavoro sconosciuto, 1831), alcuni personaggi
ruotano intorno ad un quadro a cui un anziano pittore sta lavorando da anni, senza
mostrarlo a nessuno, nel tentativo di rappresentare la vera bellezza. Dopo alterne
vicende, il quadro viene finalmente mostrato, rivelandosi però solo un ammasso
informe e indistinto di colori (forse un’anticipazione della pittura astratta) da cui
spunta un piede femminile di straordinaria vivezza, metafora dell’illusione
perduta della rappresentazione classica, e contemporaneamente affermazione
dell’autonomia dell’opera (la copia) rispetto ad un originale irragiungibile. Il
racconto di Balzac è stato poi ripreso da Henry James (La madonna del futuro,
1873), portando all’estremo il senso ultimo della metafora: anche qui il
protagonista è un pittore che insegue un ideale classico di bellezza ma, quando il
quadro viene svelato alla fine della storia, ciò che appare è solamente una tela
bianca, intatta, ma ormai screpolata e ingiallita dal passare del tempo.
Questa idea di copia senza originale, o di copia che tradisce l’originale, entrerà
poi con tutta la sua complessità nel dibattito sullo statuto dell’immagine
fotografica, come pure nella pratica del fare fotografico: ne è un esempio la frase
attribuita al fotografo americano Ansel Adams “You don’t take a photograph, you
make it”, dove emerge il carattere produttivo (autoriale? falsificatorio?) della
fotografia; ne sono esempio molte opere di Cindy Sherman
4
, poliedrica artista
statunitense che ritrae se stessa in immagini che sono apparenti fotogrammi
cinematografici tratti da film che non sono mai stati girati, gli Untitled Film Stills;
o ancora la teoria dell’”inconscio tecnologico” di Franco Vaccari (1979) che
4
http://www.cindysherman.com/
esplora lo spazio praticabile, dinamico, della rappresentazione fotografica, dove il
visibile emerge alla superficie solo dopo una serie di operazioni di post-
produzione.
Aspetti che escono dalle finalità di questo contributo, e che affondano le loro
radici nella riproducibilità benjaminiana, ma che in qualche modo ci fanno vedere
inquietudini e dubbi sulla consistenza del testo e sul processo di rappresentazione
presenti già nei media industriali: inquietudini che i media digitali possono oggi
riprendere e incamerare in modo sistemico nel loro paradigma. Come spesso
accade nei processi culturali, infatti, il consolidamente di un paradigma
(tecnologico, cognitivo, estetico, emozionale) è preceduto da anticipazioni quasi
sempre artistiche che a posteriori appaiono come illuminanti.
Il testo digitale
Riflettere sullo statuto paradigmatico del testo digitale significa riprendere ancora
una volta Manovich (2000), ed in particolare la sua distinzione fra
rappresentazione e simulazione.
Come esempio della rappresentazione Manovich cita il quadro dotato di cornice,
tipico dispositivo visuale rinascimentale albertiano, dove si realizza il
meccanismo della prospettiva come separazione dell'immagine dal reale; mentre
come esempio della simulazione cita l'ambiente affrescato o a mosaico, spazio
illusorio che ingloba in l'immagine e soprattutto è strettamente legato al
contesto architettonico. Mentre la pittura di cornice è essenzialmente mobile (tolta
dal muro può essere spostata ovunque) ma obbliga lo spettatore/osservatore
all'immobilità, l'ambiente affrescato o a mosaico è inscindibile dalla struttura
architettonica ma consente la mobilità da parte dello spettatore, in quanto la stretta
connessione fra affresco ed architettura crea una continuità tra spazio reale e
virtuale: in altri termini la rappresentazione separa spazio fisico e spazio visuale,
mentre la simulazione tende a mescolarli.
Secondo questa linea interpretativa le immagini digitali, e in particolar modo la
grafica tridimensionale (3D), in quanto frutto di sintesi computazionale si
collocano nel campo della simulazione, e non della rappresentazione. Secondo
Manovich, quindi, il regno delle immagini digitali, frutto esclusivo della cultura
del software e dei media digitali, con le loro caratteristiche di immersività e di
aleatorietà, ripropongono in maniera tecnologicamente aggiornata il carattere pre-
rinascimentale, mutevole e percorribile degli spazi artistici e architettonici, fruiti
secondo una visione mobile e aperta: il videogioco, prodotto tipico che nasce con
l’avvento dei media digitali, come pure l’esplorazione immersiva di un ambiente
artistico, o geografico, propongono oggi attraverso la tecnologia la possibilità
effettiva di fruire di testi visuali simulativi e non rappresentativi, non soggetti al
dominio della prospettiva.
In questa dinamica assume un'importanza particolare l'embodiment (Dourish,
2001), la presenza del corpo dello spettatore nei processi di comunicazione,
soprattutto per quanto attiene alle esperienze di realtà espansa. Rispetto alla
dimensione top-down della testualità industriale, basata sull’autorialità a garanzia
della verità, i media digitali propongono uno scenario in cui il soggetto fruitore
introduce una visione soggettiva e dinamica, bottom-up, scardinando i principi
stessi della rappresentazione.
Un esempio molto pertinente di questo ingresso dello spettatore sulla scena
testuale, e quindi della moltiplicazione dei piani testuali su cui avviene la
fruizione, è Ingress
5
, gioco-racconto di fantascienza multiplayer prodotto da
Google, che si basa sull’intreccio fra tecnologia GPS, posizionamento fisico dei
giocatori, database di dati informativi, mappe geografiche e Augmented Reality:
grazie a questo complesso apparato tecnologico, le scene di fiction che appaiono
sullo schermo dello smartphone sono infatti ambientate esattamente nel luogo
fisico dove il corpo del giocatore si trova in quel momento. In Ingress il processo
narrativo si svolge per la maggior parte sulla strada, perché grazie al dispositivo
mobile il giocatore riceve istruzioni o suggerimenti che si riferiscono all’ambiente
reale in cui si trova in quel momento: egli deve raggiungere i luoghi intorno a lui
per affrontare le prove o svolgere gli altri compiti che la storia in quel momento
richiede, vivendo costantemente in una situazione mista fra realtà fisica
circostante e immagini sullo schermo dello smartphone, fra rappresentazione e
simulazione.
Il “falso” nel digitale
La costruzione del falso nell’immagine digitale è antica quanto i programmi che
consentono il ritocco e l’elaborazione delle immagini stesse (le immagini
“photoshoppate”). Ciò che caratterizza però l’attuale fase avanzata
dell’elaborazione digitale è la connessione con le problematiche dei big data e con
l’intelligenza artificiale: il grande aumento delle capacità di processing degli
elaboratori, nonché della memoria dei dispositivi di gestione, sposta infatti il
discorso dal ritocco manuale, operato dal singolo agente umano, ad una
modificazione strutturale automatica. Il principio su cui queste procedure si
basano è infatti sempre la scomposizione del testo iconico negli elementi minimi
riconducibili al testo profondo, la loro elaborazione e la loro successiva
ricomposizione.
I prodotti di queste elaborazioni pertengono a diverse tipologie. Le più semplici (e
più banali) sono riconducibili a prodotti di tecno-kitsch (Lughi 2018), come il
caso di Miquela Sousa
6
, una fashion blogger inesistente, il cui volto è un prodotto
di grafica di sintesi costruito analizzando enormi quantità di dati sulle
caratteristiche ottimali che deve avere il volto di una fashion blogger di successo:
Miquela Sousa tuttavia indossa capi veri, e naturalmente ha più di un milione di
follower. Simile il software online
7
che consente di inserire dinamicamente la foto
di un viso a propria scelta, quindi anche di qualcuno che si conosce, sul corpo di
5
https://www.ingress.com/
6
https://www.instagram.com/lilmiquela/?hl=en
7
https://pornstarbyface.com/
attori pornostar ritratti in video (in azione, naturalmente…). Più interessanti, in
quanto toccano il campo della produzione artistica, i software di “rivestimento
stilistico”: usando una tecnologia simile a quella dei filtri usata da Instagram e in
genere dai social fotografici, programmi di intelligenza artificiale come Prisma
8
sono in grado di modificare qualsiasi foto o video applicando stilemi figurali,
coloristici e di pennellata tali da “trasformarli” in apparenti falsi Lichtenstein,
Kandinskij, Munch, Hokusai, Van Gogh, Chagall e altri; una soluzione adottata
anche da Facebook e Google, che d’altra parte è supportata da studi accademici di
computer science (Gatys et. al., 2015 ).
Più impressionante invece, in quanto tocca il campo della credibilità politica, il
video
9
pubblicato da BuzzFeedVideo in cui Barack Obama si esprime in maniera
non propriamente lusinghiera nel confronti del suo successore alla presidenza
degli Stati Uniti: a metà del video scopriamo che i movimenti della bocca e del
viso, e le parole, di Obama sono la riproduzione dinamica della mappatura dei
movimenti del viso di un altro speaker, e che il suo “discorso” è in realtà un tipico
esempio di deepfake, la frontiera più avanzata del falso virale, che utilizza le reti
neurali per far apprendere (deep learning) a sistemi di intelligenza artificiale i
micromovimenti del volto di una persona e replicarne la performance sul volto di
un’altra.
Si tratta di un settore in cui la sperimentazione è molto attiva: il gruppo di ricerca
Image Translation della Nvidia Corporation pubblica esempi di come un video
girato di giorno venga “tradotto” nello stesso video in versione notturna
10
, oppure
come un paesaggio invernale venga trasformato facendogli assumere una veste
estiva
11
, mantenendo inalterato il traffico automobilistico ma facendo scomparire
la neve, comparire le foglie sugli alberi, modificando colore e luminosità del
cielo.
Difficilmente collocabile sul crinale tra vero o falso, o catalogabile come falso
consapevole, ma estremamente interessante per le potenzialità progettuali del
digitale, è The Next Rembrandt
12
, ambizioso progetto nato dalla collaborazione fra
la finanziaria ING, Microsoft, la Technische Universiteit Delft, e due importanti
istituzioni museali olandesi, la Mauritshuis e la Rembrandthuis. Sulla base di
sistematiche rilevazioni sulla struttura figurale degli autoritratti di Rembrandt
(distanza fra gli occhi, forma del naso e del mento, caratteristiche degli abiti, ecc.)
grazie ad algoritmi di intelligenza artificiale sono stati elaborati dei modelli
proiettivi per ricostruire quale potrebbe essere stato l’autoritratto che il pittore non
ha mai dipinto, the next Rembrandt appunto, realizzandolo poi fisicamente con
una stampante 3D che ha riprodotto sempre in base ai rilevamenti
sull’evoluzione delle sue tecniche pittoriche il rilievo tridimensionale della
8
https://prisma-ai.com/
9
https://www.youtube.com/watch?v=cQ54GDm1eL0&feature=youtu.be
10
https://youtu.be/Z_Rxf0TfBJE
11
https://youtu.be/9VC0c3pndbI
12
https://www.nextrembrandt.com/
pennellata sulla tela. Un progetto ambizioso, probabilmente discutibile, che
tuttavia obbliga a ripensare completamente la categoria del falso nel digitale.
Rilevante per le potenziali ricadute economiche nel mercato dell’arte, il caso del
Ritratto di Edmond Belamy, messo all’asta da Christie’s nell’ottobre 2018, è forse
uno degli esempi più significativi di quanto il concetto di falso sfumi in una
nebbia indistinta di fronte all’applicazione degli algoritmi di intelligenza
artificiale nella produzione di immagini. Si tratta di un ritratto generato
dall’applicazione di specifici algoritmi visuali, ai quali sono stati dati in pasto più
di quindicimila ritratti di epoca rinascimentale e moderna: avendo individuato le
costanti e le variabili presenti nel database di riferimento, il software è ora in
grado di generare tutta una serie di ritratti “di famiglia”, di cui già cinque sono
visibili sul sito web
13
del collettivo di autori che stanno portando avanti questa
iniziativa.
Infine un caso ancora diverso, più attinente all’illusione che al falso, ma in cui
l’elemento comune è sempre il fatto di vedere cose prodotte digitalmente che in
realtà non ci sono, o meglio sono altro da quello che sembrano: si tratta di Box
14
,
una performance teatrale umana che interagisce con un sistema complesso di
videomapping robotizzato e programmato in modo da creare molteplici effetti di
trasformazione, levitazione, intersezione tra forme visuali apparentemente
tridimensionali ma in realtà semplicemente proiettate su due schermi mobili.
Le immagini ci guardano
Ciò che identifica il falso in questa fase avanzata della cultura digitale è quindi
sempre la raccolta di enormi quantità di dati, sui quali la sintassi algoritmica
agisce in modo da distorcere in modo plausibile la rappresentazione: ma a questo
punto è chiaro che concettualmente non c’è nessuna differenza tra
rappresentazione vera e falsa, in quanto il procedimento è assolutamente lo stesso,
l’applicazione di una serie di trasformazioni logiche e semantiche ai
microelementi del testo profondo, in modo che possano apparire al nostro occhio
umano in configurazioni dotate di senso. Secondo Arcagni (2018, p. 180) ne
deriva una sorta di integrazione quasi biologica fra percezione umana e capacità di
elaborazione della macchina:
L’occhio della macchina sembrerebbe tendere a innervare la capacità umana di
intuizione in un sistema in grado di creare modelli a partire dall’elaborazione di
una enorme massa di dati che solo le macchine sono in grado di assorbire. Ma la
questione dei modelli, oltre a indicare un problema puntuale nella concezione
dell’intelligenza visiva, sembra indirizzare verso uno sguardo computazionale
sempre piú ibrido e simbiotico che incrocia il codice genetico umano con il
codice artificiale della macchina.
13
http://obvious-art.com/
14
https://www.youtube.com/watch?v=lX6JcybgDFo&t=6s
La potenza dello sguardo computazionale, la sua capacità di ibridarsi con le
modalità percettive e cognitive dell’intelligenza umana, ci spingono a fare ancora
un passo avanti ed addentrarci in un territorio a prima vista inquietante:
l’apparizione delle immagini all’occhio umano, infatti, è solo uno dei possibili
percorsi e forse ormai neanche il più importante che le immagini compiono
nella loro vita digitale. Il traffico di immagini che si svolge ininterrottamente al di
fuori della nostra percezione, nella “scatola nera” (Malavasi, 2017), è ormai
cresciuto enormemente: dalle videocamere di sorveglianza, ai sistemi di scanning
in grado di riprodurre interi libri girando autonomamente le pagine, ai software di
pattern recognition, la quantità di immagini totalmente autonome è cresciuto
esponenzialmente.
Ma c’è di più. Quando guardiamo un’immagine vediamo in realtà solo una parte
dei dati che contiene: vediamo i colori, le forme, le tonalità e le altre
caratteristiche (il testo superficiale) che il software graziosamente ci fa vedere; ma
in realtà l’immagine digitale comprende una rilevante quantità di dati che per noi
restano “invisibili” (il testo profondo): i dati fotografici (apertura del diaframma,
tempo di esposizione, lunghezza focale); i metadati amministrativi (autore, luogo
e data di produzione); metadati semantici (giorno/notte, esterno/interno,
ritratto/panorama), ecc. Sulla base di questi dati le immagini automaticamente
viaggiano, vengono immagazzinate, classificate, confrontate, associate per
tipologie, vendute. Stando davanti all’occhio della webcam, caricando su
Facebook le foto delle vacanze, mettendo “mi piace” sulle immagini di una
mostra o scaricandole, siamo noi a fornire continuamente nuovi elementi
informativi ad un universo iconico che si auto-organizza riconfigurando e
reindirizzando la sensibilità e il gusto estetico globale.
Il progetto Identifying art through machine learning
15
sviluppato dal MoMA e dal
Google Art & Culture Lab ha esplorato decine di migliaia di immagini dei
repertori del museo, e sulla base dei dati analizzati propone ora autonomamente
nuovi percorsi di lettura al di fuori delle logiche curatoriali o interpretative
storico-artistiche. Contemporaneamente la Tate Gallery lancia Recognition
16
, un
programma di intelligenza artificiale che associa in base a pattern formali le
immagini delle opere d’arte custodite dal museo con le immagini giornalistiche
che vengono lanciate dall’agenzia Reuters, trovando similitudini, analogie,
lontane parentele, attivando cortocircuiti nell’immaginario visuale. Esperimenti in
cui il mondo autonomo delle immagini sembra in grado di auto-organizzarsi, di
trovare delle connessioni, di proporre modelli di fruizione: paradossalmente
sembra in grado di elaborare una sua, autonoma, cultura della visione.
In questo senso l’idea delle “immagini che ci guardano” sembra poter essere
emblematica di questo momento culturale: già teorizzata da un punto di vista
storico-filosofico extra-digitale (Bredekamp, 2010), che considera le immagini
non come spenti artefatti, oggetto di fruizione pratica o di contemplazione
15
https://www.moma.org/calendar/exhibitions/history/identifying-art
16
http://recognition.tate.org.uk/#intro
estetica, ma come soggetti paritari a pieno titolo dell’”atto iconico” che impone la
sua presenza materiale nel circuito della trasmissione culturale; ripresa da un
punto di vista più tecnologico (Paglen, 2016), nell’ottica di affrontare anche da un
punto di vista politico e di controllo il proliferare di una “cultura visuale
invisibile” che sta modificando i rapporti uomo-macchina; l’idea delle “immagini
che ci guardano appare forse come un approccio percorribile per depotenziare il
problema del falso nelle immagini digitali, e vederlo semplicemente come un
residuo della stagione pre-digitale.
Conclusioni: verso una “sospensione generalizzata dell’incredulità”
Il tema della falsificazione ha accompagnato il percorso intellettuale di Umberto
Eco nella produzione narrativa, da Il pendolo di Faucault a Il cimitero di Praga, e
ne ha ovviamente accompagnato la riflessione filosofica:
…per dire che qualcosa è falso bisogna assumere che qualcosa d’altro non lo sia.
Forse in questa mia continua fenomenologia del falso c’è la ricerca continua dei
criteri per riconoscere qualcosa come vero che è poi il problema filosofico per
eccellenza
17
.
Ma ciò che qui ci interessa di più è quel “patto finzionale” che secondo Eco è
fondante nella costruzione dei mondi possibili narrativi, quello che Samuel Taylor
Coleridge chiamava la sospensione dell'incredulità. Se Eco si riferiva agli universi
della fiction, oggi assistiamo a molteplici segnali che ci parlano su una linea che
va da Debord a Baudrillard di un “tramonto della realtà” (Codeluppi, 2018)
sepolta sotto sempre più densi strati di mediatizzazione; o di una “età della
finzione” (Melotti 2018) in cui realtà e finzione non sono più una coppia di
opposti ma convergono su un piano indistinto che trasforma nel profondo gli
assetti percettivi, le pratiche quotidiane, lo statuto stesso dell’informazione: una
stagione in cui si afferma il bisogno di una “sospensione generalizzata
dell’incredulità” estesa ben al di là del piano finzionale.
Sullo sfondo di queste trasformazioni, l’immagine si libera definitivamente
dell’equivoco residuo di rappresentare la verità: attraverso il carattere
articolatorio, frammentato e ricomponibile (Lughi, 2010) che le viene garantito
dal digitale raggiunge finalmente lo status di linguaggio ambiguo, negoziabile,
interpretabile, rendendo inutile il tentativo di dare una definizione del falso. In un
certo senso, paradossalmente, si affianca al linguaggio verbale che proprio per
essere articolato, arbitrario, per sua natura discreto e non continuo, basato sul
rapporto fra repertorio e regole sintattiche, non ha mai nascosto la sua capacità
potenziale di mentire, il suo essere costruzione culturale e non rappresentazione
“naturale”; proprio così come la letteratura ha sempre esibito il suo legame con la
menzogna (Weinrich, 1966; Manganelli, 1967). Citando ancora Eco (1975, p.17),
nei processi di comunicazione è pertinente
17
“L’Avvenire”, 21 dic 2012
…tutto ciò che può essere usato per mentire. Se qualcosa non può essere usato
per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto non
può essere usato per dire nulla.
Come il linguaggio verbale umano è costituito da microentità foniche che
acquistano senso solamente quando entrano in una catena morfosintattica, così la
capacità digitale di gestire i singoli pixel, e la capacità dell’intelligenza artificiale
di elaborare enormi quantità di questi dati, rendono il linguaggio iconico un
linguaggio discreto e non continuo, articolato e arbitrario, dandogli alla fine
licenza di mentire.
Bibliografia
Arcagni S.
2018 L’occhio della macchina, Einaudi, Torino.
Barilli R.
2002 Marshall McLuhan e il materialismo storico culturale di fronte all’arte
moderna e contemporanea, in "Studi di estetica", III Serie, XXX, n. 26.
Bredekamp H.
2010 Theorie des Bildackts, Suhrkamp, Berlin; tr. it Immagini che ci guardano.
Teoria dell'atto iconico, Raffaello Cortina, Milano 2015.
Codeluppi V.
2018 Il tramonto della realtà. Come i media stanno trasformando le nostre vite,
Carocci, Roma.
Dourish P.
2001 Where The Action Is: The Foundations of Embodied Interaction, MIT
Press, Cambridge (MA).
Eco U.
2012 Intervista: 'Adoro il falso, ma cerco il vero', “L’Avvenire”, 21 dicembre.
1975 Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano.
Gatys L. A. et al.
2015 A Neural Algorithm of Artistic Style, Cornell University Library, Ithaca
(NY).
Lughi, G.
2010 Non solo breve. Frammentazione e ricomposizione nella testualità dei
Media Digitali, in Testi brevi 2. Teoria e pratica della testualità nell'era
multimediale, Peter Lang, Bern.
Lughi, G.
2018 Tecno-kitsch: la spettacolarizzazione digitale dell'arte, "piano B. Arti e
culture visive", vol. 3 n. 2.
Malavasi L.
2017 Nella terra degli algoritmi e dei big data: incursioni artistiche
nell’invisibile, in “Piano B”, vol. 2 n. 2.
Manganelli G.
1967 La letteratura come menzogna, Adelphi, Milano.
Manovich L.
2000 The Language of new media, MIT Press, Cambridge (MA).
Manovich L.
2013 Software Takes Command, Bloomsbury, New York (NY).
Melotti M.
2018 L’età della finzione. Arte e società fra realtà ed estasi, prefazione di M.
Augè, Bollati Boringhieri, Torino.
Paglen T.
2016 Invisible Images (Your Pictures Are Looking at You), in “The New
Inquiry”, 8, december.
Weinrich H.
1966 Linguistik der Lüge, Beck, München; tr. it. Linguistica della menzogna, in
Id., Metafora e menzogna. La serenità dell’arte, Il Mulino, Bologna 1976.
Vaccari F.
1979 Fotografia e inconscio tecnologico, Agorà, Torino.
ResearchGate has not been able to resolve any citations for this publication.
Adoro il falso, ma cerco il vero', "L'Avvenire
  • Intervista
Intervista: 'Adoro il falso, ma cerco il vero', "L'Avvenire", 21 dicembre.
Arte e società fra realtà ed estasi, prefazione di M. Augè, Bollati Boringhieri
  • L'età Della Finzione
L'età della finzione. Arte e società fra realtà ed estasi, prefazione di M. Augè, Bollati Boringhieri, Torino.
Metafora e menzogna. La serenità dell'arte
  • Lüge Linguistik Der
Linguistik der Lüge, Beck, München; tr. it. Linguistica della menzogna, in Id., Metafora e menzogna. La serenità dell'arte, Il Mulino, Bologna 1976. Vaccari F.
Frammentazione e ricomposizione nella testualità dei Media Digitali
  • Breve Non Solo
Non solo breve. Frammentazione e ricomposizione nella testualità dei Media Digitali, in Testi brevi 2. Teoria e pratica della testualità nell'era multimediale, Peter Lang, Bern.