Content uploaded by Michele Sanvico
Author content
All content in this area was uploaded by Michele Sanvico on Mar 22, 2024
Content may be subject to copyright.
MICHELE SANVICO
SIBILLA APPENNINICA
IL MISTERO E LA LEGGENDA
LA RISCOPERTA OTTOCENTESCA DEI MONTI SIBILLINI
NEI DOCUMENTI DEL CLUB ALPINO ITALIANO
VERSIONE PDF WEB FREE
Per acquistare il volume cartaceo edito da Edizioni Il Lupo:
https://www.edizioniillupo.it/product/non-eravamo-dominati-che-dal-cielo/
1
1. «Il Club Alpino ha per iscopo di far conoscere le montagne, più
precisamente le Italiane»: i Monti Sibillini perduti e ritrovati
Secoli di leggendari racconti. Poi un lungo intervallo, fatto di dimenticanza
e oblìo. Infine, la riscoperta di luoghi straordinari, carichi di miti misteriosi
e affascinanti. È stata questa la vicenda che ha segnato i Monti Sibillini, le
cui cime si levano al centro dell'Italia, per centinaia di anni al centro
dell'attenzione dell'intera Europa a motivo della presenza di un antro, la
Grotta della Sibilla, e di un lago, collegato al nome di Ponzio Pilato: luoghi
di meraviglia e negromanzia, descritti in molteplici testimonianze letterarie,
a partire da quelle quattrocentesche di Andrea da Barberino, con il suo
Guerrin Meschino e di Antoine de la Sale, che vergò Il Paradiso della
Regina Sibilla.
Già dal '600, però, la fama di quelle montagne si era andata appannando; e
con l'ingresso nell'Età dei Lumi le antiche leggende parevano avere perduto
ogni attrattiva e interesse, ricadendo in una sostanziale oscurità e
rimanendo vive solamente nel folclore delle popolazioni locali.
Il nome stesso di quelle montagne, intitolate alla Sibilla, la loro più illustre
abitatrice, risultava essere sconosciuto ai più. Tra il 1700 e il 1800, nessuno
conosceva quel remoto massiccio appenninico situato ai confini tra
l'Umbria e le Marche, abitato da genti di montagna e da incolti pastori,
seppure alquanto pittoreschi. Il tempo delle visite da parte di personaggi
quali il gentiluomo Antoine de la Sale, il cavaliere Arnold von Harff o il
bieco negromante Domenico Mirabelli, da noi descritti in precedenti
articoli facenti parte della serie Sibilla Appenninica - Il Mistero e la
Leggenda, era terminato da un pezzo. I ricchi e nobili stranieri che
giungevano in Italia per condurre il proprio straordinario Grand Tour,
percorrendo la Via Flaminia verso sud in direzione di Roma e del suo
principale punto di accesso, Piazza del Popolo, non piegavano di certo, a
Spoleto, in direzione della Valnerina, non avendo motivo alcuno per recarsi
a visitare terre tanto selvagge e inospitali, prive di qualsivoglia attrattiva
sufficientemente conosciuta che fosse legata ai grandi resti monumentali
della classicità romana o alla presenza di illustri capolavori del
Rinascimento. Gli stessi italiani, ancora non unificati sotto il vessillo di un
singolo Regno, nulla sapevano dei Monti Sibillini, né della loro precisa
localizzazione e conformazione, non esistendo a quell'epoca, come
vedremo, alcuna accurata cartografia di quegli aspri e sostanzialmente
ignoti territori.
2
Solo i pastori andavano e venivano da quelle terre, spostandosi con i ritmi
lenti e plurisecolari della transumanza, tra i pascoli d'alta quota
dell'Appennino centrale e le malariche terre dell'Agro Romano; e poi, i
norcini, che dalla città natale di San Benedetto portavano in Roma la loro
arte, quella della lavorazione della carne di maiale e dei gustosissimi
salumi.
Ma i Monti Sibillini continuavano a rimanere, per tutti, sconosciuti e
dimenticati. Solo qualche ardito e appassionato botanico, come Ulisse
Aldrovandi, Paolo Spadoni e Vincenzo Ottaviani, aveva osato avventurarsi,
nel corso dei secoli, in quelle regioni così strane e isolate, per raccogliere e
catalogare erbe e piante rinvenibili solo in quei luoghi, rischiando però di
essere additato dai montanari ignoranti - figli di un medioevo terminato per
tutti gli altri, ma non per loro - come uno stregone in cerca di essenze da
utilizzare nelle proprie pozioni, per essere poi cacciato via da torme di
contadine urlanti, e sfuggendo, in questo modo alquanto precipitoso, al
possibile linciaggio.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, però, qualcosa stava
cominciando a cambiare. Stavano per avere inizio quei mutamenti che
avrebbero infine condotto due rinomati filologi, Gaston Paris e Pio Rajna, a
recarsi nel 1897 a Norcia e al Monte Sibilla, nel tentativo di rinvenire le
tracce di quelle antiche leggende che parevano essersi perdute tra gli oscuri
meandri del tempo, e che invece si trovavano ancora lì, pronte a dispiegare,
nei decenni successivi e fino ai nostri giorni, tutto il proprio fascino sinistro
e appassionante.
Già nel 1871 Alfred von Reumont, diplomatico prussiano in terra italiana,
aveva tenuto in Firenze una conferenza dal titolo Il Monte di Venere in
Italia, nella quale egli segnalava come tra gli Appennini fosse presente un
«cosidetto monte della Sibilla» e anche un lago «di Pilato», del quale il
popolo narrava «non aver fondo, ma di dar adito al mondo sotterraneo».
Ma il protagonista principale di una riscoperta così completa e duratura,
dopo oltre due secoli di oblìo, sarà un illustre sodalizio, di recentissima
istituzione: una moderna, lungimirante associazione tra privati cittadini,
spesso assai benestanti, che si era posta «per iscopo di far conoscere le
montagne, più precisamente le Italiane, e di agevolarvi le escursioni le
salite e le esplorazioni scientifiche».
Stiamo parlando del prestigioso Club Alpino Italiano, l'eminente
associazione alpinistica fondata solamente pochi anni prima, nel 1863, da
3
Quintino Sella, a Torino, ispirandosi al modello dell'Alpine Club, istituito a
Londra nel 1857.
Quel sodalizio - che in quegli anni iniziali della propria vita, come
ricorderà Massimo Mila nel proprio contributo al volume Cento anni di
alpinismo italiano (1964), comprenderà «gentiluomini, studiosi, agiati
professionisti, benestanti, scienziati» - pur essendo nato all'ombra delle
Alpi, non si limiterà a celebrare la bellezza imponente e straordinaria delle
nostre più elevate montagne. L'associazione, invece, si espanderà con
rapidità lungo tutta la penisola italiana, ormai nazione unica e indivisa, con
la nascita di numerose 'Succursali', in seguito denominate 'Sezioni', nelle
più diverse città d'Italia, raccogliendo ovunque l'interesse e l'adesione di
aristocratici, grandi possidenti e membri della più elevata borghesia, uniti
nella comune passione per la montagna e per il nascente escursionismo,
lungo l'intera catena degli Appennini.
E, muovendo lungo la dorsale appenninica, i soci del CAI si sarebbero
presto imbattuti nei Monti Sibillini.
Quei luoghi unici, infatti, celebrati inizialmente - come vedremo - dagli
appassionati soci delle vicine Sezioni di Perugia e di Ascoli Piceno,
saranno a mano a mano riscoperti, conosciuti e visitati anche dagli associati
appartenenti alle altre Sezioni sparse per l'Italia: luoghi come Castelluccio,
il Pian Grande, il Monte Vettore, Montemonaco, il Monte della Sibilla, con
le sue antiche leggende, si sarebbero trasformati in gemme preziose, in
precedenza ignote e ignorate, e ora in procinto di conoscere una nuova
fortuna tra coloro che, innamorati delle montagne, erano pienamente e
profondamente in grado di apprezzarle.
E ciò avrà luogo grazie alla straordinaria, e per l'epoca smisurata, potenza
di fuoco posta in campo, fin dalla sua nascita, dal Club Alpino Italiano.
Una potenza di fuoco informativa basata sulle sue diffusissime, e
apprezzatissime, riviste periodiche specializzate.
Con il Bullettino trimestrale, pubblicato già dal 1865, due anni dopo la
fondazione del Club; e poi dal 1874 con il mensile L'Alpinista, poi divenuto
nel 1882 Rivista Alpina Italiana e in seguito, tre anni dopo, Rivista Mensile
del C.A.I.; e inoltre con le numerose pubblicazioni edite dalle singole
Sezioni, il Club Alpino Italiano si qualificava come uno dei principali
creatori e distributori di contenuti nell'Italia di fine '800, con una elevata
capacità di penetrazione geografica attraverso gran parte del territorio
nazionale, e una proiezione informativa rivolta essenzialmente alle classi
dirigenti, colte e benestanti, del Paese unificato dalla dinastia dei Savoia.
4
Ascensioni, escursioni, visite, esplorazioni, tutte compiute tra le nostre
meravigliose montagne, stavano diventando patrimonio comune di
un'intera nazione, svelando angoli e percorsi in precedenza ignoti o
negletti, o comunque noti solamente ai valligiani e ai montanari che
risiedevano in quei luoghi spesso remoti e isolati.
Sarà proprio grazie all'azione profondamente innovatrice del Club Alpino
Italiano che, nel giro di pochissimi anni, le montagne d'Italia diventeranno
cultura, scienza e patrimonio comune per tutti gli italiani, così come
efficacemente descitto in un articolo pubblicato da una delle più diffuse
riviste settimanali di quei tempi, L'Illustrazione Italiana, nel numero del
1879 (anno VI, n. 41) dedicato al congresso del CAI che si tenne, in
quell'anno, a Perugia:
«L'Alpinismo fa progressi in Italia, si estende lungo tutte le falde delle
Alpi, infila l'Appennino, lo segue sino all'estrema punta dello stivale, passa
lo stretto e si dirama nella Trinacria. Da tutti i centri che si formano
spiccansi arditi gli alpinisti a ricercare le più alte vette; i meno arditi si
contentano delle cime più modeste e poco a poco gli acrocori, i
sollevamenti, i gioghi sono percorsi, studiati, descritti; ad ogni passo si
scoprono meraviglie, l'entusiasmo per le deliziose gite si propaga, e
l'Alpinismo man mano entra nei costumi, stringe affezioni, amicizie,
rapporti, fonda società, le collega e favorisce lo studio della geologia e
della orografia nazionale».
Con un tale viatico, la luce dei Monti Sibillini non poteva che tornare a
brillare di un bagliore sfavillante, dopo secoli di oscuro oblìo, in un'Italia
che aveva dimenticato sia queste montagne, che le leggende che in esse
vivevano.
Stiamo per raccontare la straordinaria storia di un'avvincente riscoperta.
Stiamo per andare a sfogliare le pagine ingiallite delle vecchie, illustri
riviste del Club Alpino Italiano. Stiamo per leggere testi quasi sconosciuti,
o solo raramente e parzialmente citati, che narrano di imprese alpinistiche e
audaci escursioni, compiute da distinti gentiluomini e aristocratiche
signore, queste ultime assai determinate, intenti a esplorare le vette delle
più belle montagne d'Italia.
Tra quelle vette, andremo a visitare, seguendo gli illustri soci del CAI di
quell'epoca, anche il Monte Vettore e il Monte della Sibilla. Riscoprendone,
assieme a loro, le affascinanti leggende.
5
2. «Stretta la via, ai lati l'abisso»: un'audace escursione al Monte Vettore
tra precipizi e leggende
È il 1877 quando nel Supplemento al Bollettino del Club Alpino Italiano n.
32 compare una lunga relazione firmata dal Conte Girolamo Orsi,
presidente della Sezione Marchegiana, dal titolo Escursione alpinistica al
Monte Vettore.
Perché è importante questo articolo, pubblicato all'interno di uno dei
periodici del Club Alpino Italiano, l'associazione fondata solamente
quattordici anni prima e i cui soci appartenevano alle classi più
aristocratiche e abbienti del Regno d'Italia?
Si tratta di un testo assai significativo, perché, per la prima volta, dopo
circa due secoli, in esso si racconta dettagliatamente e in modo specifico
dei Monti Sibillini: una porzione della catena appenninica, abitata
solamente da pastori e genti di montagna, sostanzialmente dimenticata e
ignota ai più. Nessuno, infatti, si era più interessato a quelle vette: dopo le
citazioni contenute nelle opere seicentesche di autori locali come Giovanni
Battista Lalli; dopo i riferimenti inseriti nelle opere coeve di geografi
italiani, come Giovanni Antonio Magini; dopo le sporadiche menzioni
rinvenibili nelle guide destinate ai pellegrini in visita in Italia, come quella
contenuta in un volume pubblicato da David Froelich nel 1643; solamente
un pugno di naturalisti aveva osato spingersi tra le desolate vette dei Monti
Sibillini, per raccoglierne le specie autoctone. Tra quei picchi, dunque, era
prevalso il silenzio.
Ma, ora, quel silenzio era destinato a essere infranto. I Monti Sibillini
avrebbero ricominciato, dopo secoli di oblìo, a far parlare di sé. Tutto
avrebbe avuto inizio con un articolo, vergato da un nobile gentiluomo: il
Conte Orsi, un aristocratico socio marchigiano del Club Alpino Italiano.
E quell'articolo, corredato anche di eleganti disegni eseguiti dal vero a cura
del pittore pesarese Giuseppe Vaccaj, si aprirà con un'appassionata
apostrofe e una risoluta dichiarazione di intenti:
«Al Monte... al Monte! Non siamo noi alpinisti? E là in quel centro delle
convalli [Visso] non dovevamo noi incontrarci Umbri e Marchegiani [...]
per stringere patto di concorde lavoro nello studio dei nostri monti, e per
iniziarlo al 'Vettore'?»
6
Fig. 1 - L'apertura della relazione, firmata dal Conte Girolamo Orsi, che narra di un'escursione al Monte
Vettore compiuta nel 1876 (Supplemento al Bollettino del Club Alpino Italiano, Vol. XI, n. 32, 1877, p.
520)
L'ardito programma, dunque, è «lo studio della natura dei monti», anche di
quelli appenninici, perché i soci alpinisti del centro Italia non intendono
certo sentirsi inferiori rispetto ai colleghi del Nord, abituati «a guardare in
cima i colossi delle Alpi coperti dalle nevi eterne», e a considerare gli
Appennini come meri «pigmei».
La relazione del Conte Orsi descrive dunque l'avventurosa escursione
effettuata dai soci marchigiani del CAI il 15 agosto 1876, in compagnia dei
colleghi umbri, guidati dal Presidente della Sezione di Perugia, Giuseppe
Bellucci, del quale avremo ampiamente modo di parlare in seguito.
Muovendo da Visso, gli appassionati alpinisti si recano a Castelluccio, da
dove essi possono salutare il Pian Grande e il Monte Vettore, «il maggior
colosso dei Sibillini; arrestandoci per poco a considerare dall'alto quel
vasto e meraviglioso altipiano [il quale] ha una corona di alti monti che lo
circondano, e l'enorme massa del Vettore s'erge per un mille metri dal piano
ad est con ripido e uniforme pendìo».
7
Fig. 2 - Il Monte Vettore e il Pian Grande
Ed ecco apparire Castelluccio, il piccolo villaggio formato da un «povero
accozzo di casolari» tagliato da ripide «viuzze [... che] sono altrettanti
rompicolli scavati nel roccioso calcare», descritto dall'Orsi con le parole di
questa poesia riferitagli dagli stessi Castellucciani:
Fig. 3 - Il Pian Perduto con il borgo di Castelluccio sullo sfondo e il Monte Vettore a sinistra
(Supplemento al Bollettino del Club Alpino Italiano, Vol. XI, n. 32, 1877, tavola fuori testo successiva alla
p. 532)
8
«Sotto Vettore è un piccolo castello
Da Zingari formato senza fallo;
A man dritta e a sinistra, un piano bello,
Che a nessuno dà l'animu a stimallo.
Solo ce resta la Musa d'Appollo
Che ce passa lu sole a rompicollo».
Per quegli sceltissimi escursionisti del CAI, tutti di nobile origine o
appartenenti alla più elevata borghesia dell'epoca, quell'immersione in un
mondo agricolo e pastorale fuori dal mondo e quasi senza tempo, nella
totale assenza di qualsivoglia agio o comodità, dormendo in una
«stanzaccia nuda terrena» su semplici strati di paglia invasi «dalle colonie
di dianzi invisibili abitatori», rappresentò «un capitolo di 'tourismo' che non
è si facile a dimenticarsi». Una notte, infatti, indimenticabile,
accompagnata «dalle nenie e dallo strimpellare dei menestrelli, i quali per
tutta la notte improvvisarono poesie e canti d'amore alle belle dei loro
signori in quella notte fatidica e sacra ad un tempo, del 15 agosto!».
Il mistero e la leggenda, però, abitano quei luoghi; ed ecco infatti cosa
scrive il nostro Conte a proposito degli abitanti del piccolo castello posto
alle falde del Monte Vettore:
«Uomo di robusta tempra è il Castellucciano, ma ha lo spirito ingombro
dalle più strane superstizioni, le quali dipartendosi dall'idea ceppo della
Sibilla Appenninica, e dai fatidici libri Norcini, si trasformarono per mezzo
a tutte le tregende e negromanzie e le maliarderie dei tempi susseguenti».
Siamo, ricordiamolo, nel 1876, e la Sibilla fa capolino, dopo circa due
secoli di oblìo, in un testo a stampa pubblicato a cura del Club Alpino
Italiano: segno che una debole rimembranza di quelle antiche leggende,
inclusa quella negromantica relativa alla consacrazione di libri magici,
tipica del Lago di Pilato ma anche della stessa Grotta della Sibilla, permane
ancora tra le genti del luogo, come sarà poi rilevato oltre venti anni più
tardi anche dai filologi Gaston Paris e Pio Rajna.
Il Conte Orsi aggiunge anche un'osservazione che narra di una tradizione
giunta quasi sino ai nostri giorni, anche se purtroppo oggi risulta essere
quasi completamente scomparsa, concernente la recitazione delle vicende
narrate nel quattrocentesco romanzo Guerrin Meschino di Andrea da
Barberino:
9
«Sepolti in fra le nevi un circa nove mesi dell'anno, [... i Castellucciani]
forzati all'ozio, è forse là che ruminano i ricordi di antiche maliarde e
fattucchiere, pensano ai filtri amorosi, sognan fole sulla portentosa virtù
delle piante le più strane; e cantano le gesta del Guerrino detto il Meschino
che seppe liberarsi, nuovo Ulisse, dall'arti seducenti della Sibilla vissuta
nell'antro del monte vicino».
Magie e negromanzie: e l'Orsi ricorda il buffo episodio occorso, decenni
prima, al professore e botanico Vincenzo Ottaviani, recatosi sul Pian
Grande per raccogliere e catalogare piante ed erbe, il quale, «preso
malauguratamente in conto di mago, ebbe a fortuna il salvarsi dalla furia
delle megere Castellucciane».
È il 15 agosto 1876, e la comitiva è pronta ad affrontare il Monte Vettore,
«il gigante che mostrava tutta la distesa de' suoi fianchi e delle sue creste».
Passando da Forca Viola, i nobili escursionisti raggiungono la vetta del
«Sasso Borghese» (riferendosi però probabilmente alla Cima del
Redentore). Da questa posizione, essi possono contemplare la forma
meravigliosa e sinistra della montagna, tagliata da una profonda vallata di
origine glaciale:
«La Valle dell'Aso [...] dapprima lateralmente, poi longitudinalmente
squarcia la montagna e divide il Vettore in due parti: quella su cui stiamo, e
l'altra là di fronte, ov'è Monte di Petrara [oggi la cima del Vettore, n.d.r.], il
quale ogni altro in altitudine sovrasta (metri 2,476). Fra queste, in fondo
agli enormi precipizi, sono i Laghi di Pilato, alimentati da quella estesa
lente di ghiaccio, embrione di un ghiacciaio perenne, che laggiù si
nasconde ai raggi del sole».
E ne rimangono colpiti, quegli escursionisti di centocinquanta anni fa, così
come i turisti di oggi rimangono a bocca aperta di fronte allo spettacolo
naturale offerto da queste spaventose, scenografiche montagne:
«Noi ammiravamo quelle guglie ardite, quelle creste sottili, specie di lame
di coltello irte di denti, di incavi, di svolte, e sospese tra due vallate
scoscesissime. [...] È appunto questa configurazione a valli laterali
profondissime, a creste sottili, a balze verticali, che dà ai Monti Sibillini
un'attrattiva maggiore, che non soglia offrirne il troppo modesto e regolare
Appennino».
10
Fig. 4 - Le creste sommitali del Monte Vettore, osservate dalla Cima del Lago
Allora come oggi, quegli alpinisti percorsero «l'angusta cresta» che
caratterizza la cima arcuata del Vettore, e le impressioni che ne ricavarono
non sono certo dissimili da quelle descritte, ai nostri giorni, dai più audaci
escursionisti:
«Stretta la via; ai lati l'abisso: ci furon passaggi in che fu d'uopo usare di
piedi e di mani, perché il sentiero angustissimo, mobili le pietre, e facile il
precipitare per la china: così raggiungemmo l'altra cima più orientale [...] al
Petrara [da cui] nei dì i più sereni si vedono i confini nei due mari».
È a questo punto che il tempo muta rapidamente, come illustrato nel
disegno di Vaccaj. Come accade ancora oggi, «una nube [...] si addensò in
temporale [...] il turbine ruppe in grossa pioggia, poco stante in grandine»,
e quei nobili escursionisti furono costretti a scendere in velocità dalle balze
del Monte Vettore, gli Umbri dirigendosi verso Castelluccio e i
Marchegiani «prendendo a scender l'erta dirupata che volge alla Valle del
Tronto e pare quasi a picco, irta di roccie, nuda di vegetazione, piena di
seni e d'asprezze, sulla quale più che scendere si rotolava. Fu disastrosa
discesa...».
11
Fig. 5 - Le creste del Monte Vettore immerse tra nubi rapidamente trascorrenti (Supplemento al Bollettino
del Club Alpino Italiano, Vol. XI, n. 32, 1877, tavola fuori testo successiva alla p. 548)
Malgrado la difficoltosa conclusione, quell'escursione stava in effetti
riaprendo le porte dei Monti Sibillini al mondo intero.
Perché la bellezza di quei luoghi e la fascinazione di quelle leggende, in
precedenza quasi dimenticate e ora, invece, descritte con viva sollecitudine
dal Club Alpino Italiano nel proprio Bollettino diffuso in tutta Italia e
spedito anche presso le analoghe associazioni presenti negli altri paesi
europei, avrebbe contribuito a riaccendere l'attenzione dell'Italia e
dell'Europa su quelle montagne quasi sconosciute.
E, in questo peculiare percorso di riscoperta delle montagne della Sibilla tra
i nuovi appassionati di escursionismo appartenenti alle classi più benestanti
del Regno d'Italia, il ruolo fondamentale sarebbe stato interpretato
nuovamente dal CAI e dai suoi associati. Che si riuniranno in congresso,
pochissimi anni dopo, proprio a Perugia: a 75 chilometri in linea d'aria dai
Monti Sibillini.
12
3. «Partirono gli alpinisti per Norcia in quaranta»: il Congresso Nazionale
del CAI a Perugia
La notizia era già corsa per tutta l'Italia: il XII Congresso Nazionale del
Club Alpino Italiano, da tenersi nell'agosto dell'anno 1879, sarebbe stato
organizzato a Perugia.
Fig. 6 - L'annuncio del Congresso Nazionale da tenersi a Perugia (Bollettino del Club Alpino Italiano,
Vol. XIII, n. 37, 1879, p. 99)
Per la nuova Sezione perugina dell'associazione alpinistica, si trattò di un
colpo da maestro, e di un successo personale del suo presidente, Giuseppe
Bellucci: professore universitario, chimico ed etnografo, nonché amico di
Quintino Sella, l'illustre fondatore del CAI, egli era riuscito, a soli quattro
anni dalla nascita di quella Sezione umbra, a portare i congressisti del
prestigioso Club, provenienti da tutta Italia, proprio nella sua città natale, a
Perugia, creando così l'occasione per proporre allo sguardo dei
connazionali e dei colleghi associati una vetrina sull'arte e sulle bellezze
13
dell'Umbria. Bellezze tra le quali non potevano mancare, naturalmente, i
Monti Sibillini.
Il programma del Congresso, preannunciato nel Bollettino del CAI n. 37
pubblicato nel corso di quello stesso anno, sarebbe stato particolarmente
nutrito e interessante: «l'apertura del Congresso avrà luogo nel Teatro del
Pavone» - scrivevano - uno dei più nobili teatri di Perugia, ancora oggi
esistente, e successivamente i congressisti avrebbero preso parte a una
«pubblica seduta» dedicata ad argomenti quali «le condizioni oro-
idrografiche dell'Umbria» e «sul modo di rendere utile alla scienza le
escursioni alpine». Ma il culmine dell'evento avrebbe avuto luogo nei
giorni successivi, con alcune escursioni che si preannunciavano come di
grande attrattiva e interesse.
I congressisti sarebbero stati condotti prima sul Lago Trasimeno, «con
fermata e bivacco nella valle Romana dove succedette la battaglia di
Annibale»; successivamente, si sarebbero recati ad Assisi, «con visita delle
insigni opere di arte di quella città ed ascensione del Monte Lubasio», un
evidente errore introdotto dal tipografo torinese - città dove si provvedeva
alla stampa del Bollettino - il quale manifestamente nulla sapeva di Assisi,
del Santo Francesco e del monte (Subasio), notoriamente legato alle
vicende del Poverello.
Ma questi erano solo gli antipasti. Perché l'avventura più vera quei
congressisti l'avrebbero vissuta in occasione della terza giornata.
Una giornata interamente dedicata a una visita condotta nel cuore dei Monti
Sibillini:
«La terza escursione sarà diretta ai Monti Sibillini, coll'ascensione del
Monte Vettore (metri 2,700) e discesa a Visso, percorrendo poi la valle del
Nera, pittoresca per il suo orrido, d'onde si potrà far capo a Spoleto ed a
Terni; ed in questo secondo caso sarà visitata la famosa cascata delle
Marmore. Partendo da Perugia fino a Spoleto in ferrovia e poi con mezzi di
trasporto fino a Norcia: ascensione per la valle dell'Inferno del monte La
Ventosola, si percorrerà in due ore di cammino l'altipiano del Castelluccio
(metri 1,800) con sosta a Castelluccio stesso prima di salire sul monte
Vettore».
I congressisti, in maggioranza piemontesi, lombardi e veneti abituati a
scalare vette dai 3.000 metri in su, si saranno certo guardati tra di loro di
sottecchi con aria di sufficienza e una certa dose di commiserazione.
Eppure, ciò che li attendeva avrebbe certamente superato, e di molto, ogni
14
loro aspettativa, malgrado l'altitudine paresse non promettere altro che
un'agevole passeggiata tra i dolci pendii tipicamente umbri.
Il Congresso si aprirà il giorno 25 agosto 1879 e l'atmosfera sarà subito di
grande festa, come riferito in un breve telegramma pubblicato sulla
Gazzetta piemontese il giorno successivo:
«La città [Perugia] è tutta imbandierata e festante. L'accoglienza fatta agli
alpinisti fu cordialissima. Gli alpinisti convenuti sono 120. [...] In questo
momento la sala è affollatissima; le signore sonvi in gran numero».
Fig. 7 - L'apertura del XII Congresso Nazionale del CAI a Perugia (Gazzetta piemontese, Anno XIII, n.
235, 26 agosto 1879, p. 3)
Si tratterà, in effetti, di un brillante evento mondano, in occasione del quale
la migliore società del tempo poté darsi convegno in una cittadina che era sì
di provincia, ma in grado comunque di offrire lo sfarzo e lo splendore
necessari ad accogliere degnamente i ricchi e aristocratici soci del CAI di
quell'epoca, come ci racconta un'ulteriore corrispondenza pubblicata dal
medesimo giornale tre giorni dopo:
«Questa sera [subito dopo la gita al Lago Trasimeno n.d.r.] ebbe luogo un
trattenimento musicale ad onore degli alpinisti. A questo fine vennero
aperte le sale dell'Accademia, elegantissimi locali illuminati sfarzosamente,
ov'era raccolto il fiore della cittadinanza perugina e le più belle signore
vestite delle migliori toelette. [...] Cantarono la signora Emma Romeldi,
prima donna al teatro Morlacchi [...] e tanti altri artisti impegnati
nell'attuale spettacolo d'opera».
15
E poi «le note allegre del valzer», sulle quali i congressisti, «sebbene un po'
stanchi dalla passeggiata del giorno», danzarono «fino a giorno».
Fig. 8 - Elegante intrattenimento al XII Congresso Nazionale del CAI a Perugia (Gazzetta piemontese,
Anno XIII, n. 238, 29 agosto 1879, p. 1)
Ma il momento più emozionante dell'intero congresso fu, come
accennavamo in precedenza, l'escursione all'imponente, unico, regale
Monte Vettore.
L'Illustrazione italiana del 12 ottobre 1879 (anno VI, n. 41), settimanale
illustrato di successo, a quell'epoca nei suoi primi anni di vita, racconta, in
un entusiastico articolo, proprio la fantastica ascensione compiuta su quella
montagna dai congressisti radunatisi in Perugia, dalla quale mossero verso
la Valnerina, secondo il periodico, il 23 agosto 1879 (un errore, in quanto il
Congresso inizierà solo il 25, e la testimonianza che riporteremo nel
successivo paragrafo riporterà, più correttamente, la data del 28 agosto):
16
«Partirono gli alpinisti per Norcia in quaranta, comprese le guide, in certe
carrozze e vetture come non se ne vedono né in Parigi né in Londra, e per
un buon tratto trovarono che facea una troppo bella giornata d'estate. [...]
Festeggiati a Norcia dal sindaco e dalla popolazione, ristorati di cibo e di
bottiglie, proseguirono a piedi sino all'altipiano di Castelluccio, paese
famoso nelle tregende, e dal quale pare sorga la massa meravigliosa del
Monte Vettore».
Fig. 9 - L'escursione dei congressisti al Monte Vettore nel 1879 (L'Illustrazione italiana, Anno VI, n. 41,
12 ottobre 1879, p. 231)
Così riferisce il periodico, parlando di Castelluccio di Norcia: un luogo da
«tregenda», cupo, isolato, magico, tempestoso e terribile, segnato
evidentemente sia dal suo essere esposto agli uragani più violenti che dalle
leggende che erano state narrate, per secoli, a proposito di quel villaggio
perduto tra i monti.
Ed ecco che gli arditi congressisti, dopo una notte alquanto scomoda, si
avviano ad affrontare la grande montagna:
«L'indomani mattina dopo una dormitella sulla paglia, s'avviarono per la
Forchetta, o Forca Viola, e dopo tre ore di salita poterono dalla cima del
gigante dei monti Sibillini (m. 2448) ammirare lo spettacolo meraviglioso
17
della bella catena, brulla alle vette, verdeggiante nelle valli per splendidi
boschi di carpini, di aceri, di quercie [sic n.d.r.]».
Ed eccola, la cima del Monte Vettore, rappresentata con tinte assai
drammatiche in questa immagine fino a oggi inedita, proposta all'epoca da
L'Illustrazione italiana ai propri lettori. In essa, è possibile osservare il
Lago di Pilato in una versione ampia e profonda, simile a quella
rappresentata nel manoscritto quattrocentesco di Antoine de la Sale, e del
tutto sconosciuta ai nostri giorni: oggi, infatti, il lago risulta essere
suddiviso in due specchi d'acqua più piccoli e di limitata profondità. Si
tratta, forse, di una testimonianza unica a proposito dell'aspetto di quel
magico lago poco prima che si verificasse l'evento critico riferito, nel 1897,
dal filologo Pio Rajna, secondo il quale il lago, alcune decine di anni
addietro, «ruppe le dighe naturali della sua fronte, le quali non si sono più
riformate», presentandosi così d'allora in poi come «diviso in due specchi
elittici», a guisa di «un par d'occhiali», come racconterà lo stesso filologo.
Fig. 10 - La cime del Monte Vettore e il Lago di Pilato nel 1879 (L'Illustrazione italiana, Anno VI, n. 41,
12 ottobre 1879, p. 233)
Questo, dunque, è ciò che si trovarono di fronte quei congressisti del CAI,
nell'anno 1879: una montagna e un lago, che parevano esercitare, da molti
secoli, un fascino inquietante e fascinoso. Si trattò certamente di
un'esperienza assai interessante, anche per quegli escursionisti così
particolarmente esigenti, abituati a godere della vista delle ben più elevate
Alpi; senza contare, inoltre, l'affascinante esperienza del successivo
trasferimento per Visso, «chi a piedi chi a cavallo, al chiaro di luna,
18
seguendo la Valle del Nera, sempre pittoresca e meravigliosa ne' suoi
aspetti». E senza contare l'ancor più pittoresca esperienza subìta, loro
malgrado, da un piccolo gruppo di congressisti che avevano deciso di
proseguire per il Gran Sasso e poi per il Velino, dove «a Campo di Pezza i
pastori li presero per malviventi, li assalirono armati di scure e mazze,
aizzando loro contro i cani, e rotolando lor dietro una grandine di sassi».
«Ebbero di grazia», racconta il settimanale, «potersi salvare colla fuga»,
anche se uno degli sfortunati alpinisti ebbe a riportare «una contusione nel
petto per una sassata di quei pastori».
Ma quei soci del Club Alpino Italiano, provenienti in massima parte
dall'Italia settentrionale, si sarebbero certamente ricordati della ben più
dilettevole e generosa accoglienza offerta loro da Norcia e Castelluccio. E
avrebbero raccontato, nelle città e nei paesi del Piemonte, della Lombardia
e del Veneto, di quelle strane e meravigliose montagne che sorgevano nel
mezzo dell'Italia, dagli scenari naturalistici mozzafiato e ricche di oscure
leggende.
Fig. 11 - Magia dei Monti Sibillini: il Pian Grande e il Monte Vettore
Luoghi misteriosi e affascinanti. Presso i quali molti alpinisti avrebbero
certamente desiderato tornare ancora, in futuro; e che altri, ammaliati dai
racconti di amici e compagni di escursioni, avrebbero voluto conoscere e
visitare, avendo ora udito notizia della loro esistenza, tra le Marche e
l'Umbria.
19
Una nuova meta si aggiungeva, dunque, alle possibili ascensioni che i soci
del Club Alpino Italiano andavano compiendo in quella seconda metà del
diciannovesimo secolo. E si trattava di una meta posta nell'Italia centrale,
tra gli Appennini.
Si trattava dei magici, fantastici, fino ad allora sconosciuti Monti Sibillini.
20
4. «Non eravamo dominati che dal cielo»: l'ascesa di Lucia Rossi Scotti al
Monte Vettore
Il resoconto più affascinante di quella antica escursione, compiuta sul
Monte Vettore dai congressisti del CAI radunatisi in Perugia, è contenuto in
una lettera vergata, con elegante calligrafia ottocentesca, da una sensibile
nobildonna perugina: una signora di classe, appartenente al locale 'beau
monde', la quale, in un'epoca in cui si tendeva a rifuggire l'esposizione agli
ardenti raggi del sole in quanto segno di bassa condizione connessa al
lavoro servile e contadino, aveva arditamente deciso di seguire, il 29 agosto
dell'anno 1879, quegli aristocratici gentiluomini nella loro ascensione delle
erte pendici del Vettore:
«Le invio i pochi ricordi che scrissi sulla mia gita al Monte Vettore. Sono
per me d'interesse puramente individuale e non meritano d'esser conservati
da altri; ma comunque glieli mando per appagare il suo desiderio e farle
cosa grata. [...] Sullo spuntare del giorno 28 Agosto 1879 azzardai di
unirmi ad una compagnia di Alpinisti che partivano da Perugia per
un'escursione al Monte Vettore (questo monte a metri 2448 sul livello del
mare, è il più alto dei Monti Sibillini, diramazione degli Appennini)...».
Così scriveva da Monte Petriolo, piccolo borgo medievale posto su di un
colle in prossimità di Perugia, la trentaduenne contessa Lucia Rossi Scotti,
nata Donini, il 13 novembre 1879. E, nel suo racconto, possiamo
apprezzare la scelta eleganza della comitiva di soci del Club Alpino Italiano
che muoveva dalla città umbra per ascendere le ripide balze della montagna
più elevata dei Sibillini:
«La compagnia era composta dei Signori, Professore Giuseppe Bellucci
Presidente, Giuseppe Servadio provveditore, Conte Luigi Manzoni di Lugo,
Lodovico Fantacchiotti di Castiglion del Lago, Giacomo Del Bianco,
Ingegner Giuseppe Santini, Prof, Nicola Orsini di Perugia, Prof. Torquato
Taramelli di Pavia, Dr Nicola Parisio di Napoli, Riccardo Avanzi di Verona,
Leveroni Giuseppe di Susa, Conte Antonio Gaddi di Forlì...».
21
Fig. 12 - La prima pagina della lettera di Lucia Rossi Scotti del 13 novembre 1879 relativa all'escursione
sul Monte Vettore (Biblioteca Comunale Augusta, Perugia)
A quell'epoca, raggiungere il territorio di Norcia non rappresentava
certamente un'impresa di poco conto: il gruppo di escursionisti si sposta in
ferrovia fino a Spoleto, per poi partire «con dei legni alla volta di Norcia».
E pare veramente di abbandonare il civile consorzio degli uomini,
considerato che, lungo la Valnerina, «lo stradale s'insinua fra grandiosi
monti rocciosi d'un orrido pittoresco quanto mai». Non mancano, inoltre, i
momenti di femminile disagio, così come narrato dalla moglie e madre
proiettata all'improvviso, sola, in una compagnia, seppure assai scelta,
composta esclusivamente da uomini:
22
Fig. 13 - La famiglia perugina Rossi-Scotti nell'Annuario della nobiltà italiana dell'anno 1882 (p. 541)
«Provai in quel momento un'impressione imbarazzante; era la prima volta
in vita mia che mi trovavo in un' osteria, e senza nessuno della mia
famiglia; ma in breve la squisita educazione e le molte gentilezze che mi
usavano i Signori componenti la comitiva, cangiarono in soddisfazione il
sentimento d'imbarazzo che da prima provavo».
A Norcia, gli escursionisti del CAI vengono accolti assai festosamente: «il
concerto cittadino, il Sindaco e Rappresentanze municipali solennizzarono
il nostro passaggio, e nei pochi momenti della nostra fermata ci ospitarono
nel palazzo Municipale, facendoci ammirare un magnifico reliquario in
metallo del quattrocento ricco di sculture e smalti pregievolissimi»,
certamente il famoso Reliquiario di San Benedetto, ancora oggi conservato
nella città natale del fondatore del monachesimo occidentale.
Ma la montagna incombe poco al di sopra dell'antica città di Norcia. Gli
escursionisti si portano a piedi fino a Castelluccio, dove giungono in serata
«dopo di aver percorsi un 16 kilometri illuminati dalla Luna»: certamente
un'esperienza non proprio agevole per una nobildonna non usa all'azione e
all'esercizio fisico.
23
Fig. 14 - Il Reliquiario di San Benedetto riprodotto in una tavola del volume La Patria - Geografia
dell'Italia, Provincia di Perugia, a cura di Gustavo Strafforello (Torino, 1895, p. 285) e il brano tratto
dalla lettera di Lucia Rossi Scotti che menziona il medesimo reliquiario (p. 5)
Come già riferito dal Conte Orsi nel 1876, e come racconteranno anche i
visitatori che si troveranno a frequentare Castelluccio negli anni successivi,
il piccolo borgo montano non riscuoterà particolare simpatia tra gli
aristocratici escursionisti:
«Arrivammo al Castelluccio che conta un cinquecento abitanti d'indole
neghittosa, torpida e supertiziosa. [...] Il paese non offriva letti bastanti per
la comitiva, la paglia supplì a questa mancanza. I miei ospiti furono certi
coniugi Pasqua, che nella semplicità dei montanari mi trattarono con ogni
premura».
La mattina del 29 agosto, alle 4, i soci del Club Alpino Italiano si mettono
in marcia in direzione del Monte Vettore: «era una giornata incantevole»,
racconta Lucia Rossi Scotti, «quei monti avevano scongiurato la nebbia per
farsi da noi ammirare in tutta la loro maestosa magnificenza. Il desiderio di
acquistare grate memorie, l'energia che sentivo in me, l'ottima compagnia
mi dettero la forza di compiere questa faticosa ascensione».
24
Passando per Forca Viola, il gruppo giunge infine sulla vetta della
montagna. E l'esperienza è semplicemente magnifica:
«Non eravamo dominati che dal cielo e si scorgeva quanto orizzonte può
comprendere l'occhio umano. La grandiosità dello spettacolo che si
presentava al mio sguardo m'inalzava a Dio, la profondità degli abissi che
mi circondavano m'attirava a se, e manteneva l'equilibrio fra il cielo e la
terra; fu un momento per me di estasi che mi sarà caro ricordo finchè avrò
vita».
Fig. 15 - L'arrivo sulla cima del Monte Vettore nella lettera di Lucia Rossi Scotti del 13 novembre 1879
relativa all'escursione sul Monte Vettore (Biblioteca Comunale Augusta, Perugia, p. 7)
«Avevamo di fronte il Gran Sasso d'Italia, che sembrava invitarci ad una
futura ascensione», prosegue la contessa, «un intreccio di catene montuose
limitate d'ambo i lati dai Mari Mediterraneo ed Adriatico che si sperdevano
coll'orizzonte tale era lo stupendo panorama che ci circondava. L'oscuro
verde Lago di Pilato formatosi fra quelle gole per il disgelamento dei
ghiacci; Aquilotti che spaventati dalla nostra presenza, lasciavano il loro
nido solcando l'aria completavano l'imponente spettacolo».
Fig. 16 - Il Lago di Pilato nella lettera di Lucia Rossi Scotti del 13 novembre 1879 (Biblioteca Comunale
Augusta, Perugia, p. 9)
25
La comitiva ridiscese per la via di Forca di Presta, e di lì di nuovo a
Castelluccio. A notte inoltrata, il gruppo mosse verso Visso, «il viaggio di
notte [...] bello e poetico quanto mai, la grandiosità dei monti e degli abissi
[...] ingigantita dall'opaca luce della Luna».
Fu un'esperienza, per l'epoca, meravigliosa e magica. «Tornai in famiglia
pienamente soddisfatta di questa escursione», scrive, terminando la propria
lettera, la contessa Rossi Scotti. «Ora mi sento più forte di quando partii, e
son felice delle care memorie acquistate e delle bellissime cose vedute, che
avrò sempre presenti al pensiero».
Fig. 17 - L'emozione dei Monti Sibillini nella lettera di Lucia Rossi Scotti (Biblioteca Comunale Augusta,
Perugia, p. 12)
Assieme a lei, anche quegli illustri soci del CAI, provenienti da Pavia,
Napoli, Verona, Susa, Forlì, Ferrara, Roma, Firenze, portarono con sé le
immagini e i ricordi di quelle creste esposte al sole e ai venti, di quelle
vette isolate e scoscese, di quel Lago intitolato a un antico prefetto romano.
Il ricordo, indelebile, della magia dei Monti Sibillini.
E non sarebbe affatto finita qui. Perché la mossa successiva avrebbe avuto
un carattere prettamente scientifico: si sarebbe tentato di misurare l'altezza
delle principali cime dei Monti Sibillini. Tempo permettendo, naturalmente.
26
Fig. 18 - Le scabre pendici del Monte Vettore e le dolci ondulazioni dei colli adiacenti
27
5. «La neve caduta a fin di settembre m'impedì di salire il Monte delle
Sibille»: cartografie, cippi confinari e altimetrie dei Sibillini
Abbiamo visto come nel 1877 il Bollettino del Club Alpino Italiano, la
prestigiosa associazione alpinistica nata solamente pochi anni prima, avesse
cominciato a occuparsi dei Monti Sibillini: una pressoché sconosciuta
porzione degli Appennini che, un tempo, era stata assai famosa a motivo
delle sinistre leggende che ivi dimoravano, ma che risultava essere ignota
ai più in quella seconda metà del diciannovesimo secolo.
Quell'articolo aveva iniziato a riaccendere un faro su quelle montagne,
situate in territori remoti e lontani dalle principali vie di comunicazione,
abitati da gente semplice e rude, pastori e agricoltori d'alta quota, che nulla
parevano avere da esprimere nei confronti di un mondo ormai nel pieno di
una rapida trasformazione industriale e sociale. In seguito, nel 1879, il
Congresso Nazionale del CAI aveva condotto molti soci a visitare il Monte
Vettore, per riscoprirne le peculiari attrattive naturalistiche e le affascinanti
leggende.
Fig. 19 - L'articolo del Prof. Mici concernente la misurazione delle altitudini delle principali vette dei
Monti Sibillini (Bollettino del Club Alpino Italiano, Vol. XIII, n. 39, 1879, pp. 463-465)
28
Ma anche la scienza cominciava a incalzare, e quel massiccio montuoso
così aspro e fuori mano non poteva non divenire oggetto di particolari
studi. Ancora una volta, sarà il Bollettino del CAI (Vol. XIII, n. 39, anno
1879) a richiamare l'attenzione del pubblico sui monti della Sibilla, con un
articolo del Prof. F. Mici, socio della Sezione Marchigiana, dal titolo
“Altimetria dei Monti Sibillini”.
Lo studioso si era proposto di determinare l'altitudine delle principali vette
di quelle montagne, integrando le poche osservazioni disponibili già
effettuate nell'ambito della «triangolazione geodetica eseguita dallo Stato
Maggiore Austriaco dal 1841 al 1843». Ma a cosa stava facendo
riferimento, il Professor Mici?
Più di trenta anni prima, il territorio dei Monti Sibillini erano stato lambito
da una serie di attività scientifiche e cartografiche, connesse alle nuove
esigenze legate alla necessità di conoscere e referenziare in modo più
approfondito quella regione posta al confine tra diverse entità statuali.
Fig. 20 - Carta topografica dello Stato Pontificio e del Granducato di Toscana costrutta sopra misure
astronomico trigonometriche ed incisa sopra pietra a Vienne nell'Imperiale e Regio Istituto Geografico
Militare, 1851, foglio relativo al territorio dei Monti Sibillini (Österreichischen Staatsarchiv, Vienna)
29
In particolare, l'Imperiale e Regio Istituto Geografico Militare austriaco
("Kaiserlich und königliche Militärische Geografische Institut"), nel
contesto di una più vasta campagna di mappatura dei territori soggetti al
dominio austro-ungarico, aveva realizzato, nel corso del secondo quarto del
diciannovesimo secolo, una serie di tavole cartografiche dei territori italiani
legati alla sfera di influenza dell'Austria, tra le quali anche una cartografia
del Granducato di Toscana e dello Stato Pontificio «costrutta sopra misure
astronomico trigonometriche», pubblicata nel 1851.
Ed eccola, resa pubblica per la prima volta in questo articolo, quella
splendida carta geografica del 1851, recante una dettagliata mappatura del
territorio dei Monti Sibillini: Norcia, Castelluccio, il "Monte Vittore" con la
sua cima più elevata, denominata Monte di Petrara, il Monte Sibilla, e poi
Altino, Montemonaco, e tutti i piccoli borghi situati nel versante
marchigiano. Oltre alle numerose frazioni di Montegallo, appare,
minuscolo e quasi nascosto all'interno della carta, tra le creste del Vettore,
anche un azzurro Lago di Pilato.
Fig. 21 - Carta topografica dello Stato Pontificio e del Granducato di Toscana costrutta sopra misure
astronomico trigonometriche ed incisa sopra pietra a Vienne nell'Imperiale e Regio Istituto Geografico
Militare, 1851, dettaglio dell'area del Monte Vettore (Österreichischen Staatsarchiv, Vienna)
Le misurazioni geodetiche che resero possibile la realizzazione di questa
meravigliosa cartografia ottocentesca furono eseguite, proprio tra il 1841 e
il 1843, dall'ingegnere e geografo lombardo Giovanni Marieni, il quale le
30
rese in seguito disponibili alla comunità scientifica pubblicandole, nel
1846, all'interno del volume Trigonometrische Vermessungen im
Kirchenstaate und in Toscana, che contiene però solo limitatissime
informazioni in merito alle vette dei Monti Sibillini, come riferito dal Prof.
Mici nel citato Bollettino del CAI.
Fig. 22 - Il frontespizio del volume Trigonometrische Vermessungen im Kirchenstaate und in Toscana di
Giovanni Marieni (Vienna, 1846)
Ricordiamo anche come negli anni '40 del diciannovesimo secolo
quell'aspro territorio montuoso fosse stato oggetto di ulteriori attenzioni da
parte di scienziati e cartografi. Infatti, in quegli stessi anni, e più
esattamente nel 1840, lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie
avevano sottoscritto una “Convenzione de' Confini” per l'esatta
individuazione dei rispettivi limiti territoriali: un accordo che aveva
condotto alla realizzazione di ulteriori cartografie e alla posa di 686
termini, o cippi confinari, lungo una linea che serpeggia attraverso i Monti
Sibillini e i Monti della Laga, i rilievi che oggi separano Lazio, Abruzzo e
Marche: cippi scolpiti direttamente sul posto, nella pietra viva del luogo, e
che recavano da un lato il giglio dei Borbone e dall'altro le chiavi decussate
simbolo del potere pontificio. Cippi che sono ancora oggi rinvenibili sui
picchi erbosi di quelle montagne, come ad esempio quello presente sulla
cima del Monte dei Signori, tra Norcia e i Pantani di Accumoli, con vista
sul Monte Vettore.
31
Fig. 23 - Cippo confinario n. 577 posto al confine tra Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie a sud di
Norcia
Fig. 24 - Il medesimo cippo confinario ritratto da una differente angolazione; sullo sfondo, il Monte
Vettore e, a destra, i Pantani di Accumoli
Nel solco di questo rinnovato interesse scientifico e topografico, quasi
quaranta anni più tardi, utilizzando «un ottimo barometro aneroide, del tipo
32
Weilenmann», il Mici si era dunque recato prima a Visso, sulla cima del
Monte Bove e del Pizzo Berro, misurandone le altitudini malgrado il tempo
«freddo, ventoso e nebbioso». In seguito, egli aveva tentato di ottenere
effettuare analoghe misurazioni nella zona di Castelluccio di Norcia, ma
«la neve caduta a fin di settembre, e i freddi sensibili de' primi di ottobre,
m'impedirono di salire il Monte delle Sibille e qualche altro punto, come ad
esempio la Forca Viola, ad alcuno di noi ben noto, tra il Monte Sibilla e il
Monte Vettore».
Fig. 25 - Le misurazioni eseguite dal Prof. Mici, pubblicate nel Bollettino del Club Alpino Italiano, Vol.
XIII, n. 39, 1879, p. 465)
Come sempre, la Sibilla e il Vettore continuavano a negarsi a curiosi ed
esploratori: e miglior trattamento non era certo stato riservato a uno dei
primi ricercatori scientifici che avessero osato ascendere quelle impervie
cime per tentare di svelarne i segreti, seppure limitandosi a volerne scoprire
le mere elevazioni.
Ma la riscoperta dei Monti Sibillini non si trovava che nelle sue fasi
iniziali. E a compiere il passo successivo sarebbe stato un altro importante
socio del Club Alpino Italiano: Giovanni Battista Miliani, storico
imprenditore delle cartiere di Fabriano e futuro Senatore del Regno d'Italia.
33
6. «Un plenilunio sereno irradiava della sua calma luce l'ampio bacino»:
Giovanni Battista Miliani a Castelluccio di Norcia
Giovanni Battista Miliani era nato a Fabriano, nell'Appennino marchigiano,
e apparteneva a un'illustre famiglia di imprenditori che aveva trasformato
l'eccellenza fabrianese della produzione artigianale della carta in una
attività industriale di grande successo, creando un marchio che sarebbe
giunti sino ai giorni nostri.
Nel 1886 Miliani, agronomo, naturalista e appassionato cultore di materie
umanistiche e letterarie, aveva solamente trenta anni, e da due anni era già
a capo della grande cartiera fondata un secolo prima dall'avo Pietro.
Giovanni Battista, che aveva condotto i propri studi a Roma, era socio della
Sezione del Club Alpino Italiano di quella città, e l'anno successivo, nel
1887, il Bollettino del CAI (Vol. XX, n. 53) pubblicò un articolo firmato
dal giovane fabrianese, dal titolo Sui Monti Sibillini.
Fig. 26 - L'articolo di Giovanni Battista Miliani sui Monti Sibillini apparso nel Bollettino del Club Alpino
Italiano, Vol. XX, n. 53, 1887, pp. 272-284)
Inizialmente, l'occhio di Miliani pare essere quello dell'imprenditore
cartario, il quale non può omettere di notare come quelle montagne paiano
volersi presentare come «donne anzi tempo sfatte, dalle chiome recise e dai
fianchi sconciati», a motivo dell'«opera inconsulta dell'uomo», la cui
34
azione di progressivo disboscamento ha causato «lo sterminio dei boschi»,
contribuendo «a fare più triste e melanconico lo spettacolo di quelle
desolate solitudini». Un'azione, nota Miliani, motivata non da un avveduto
e redditizio sfruttamento industriale, che avrebbe almeno giovato alle stesse
popolazioni ivi residenti, ma dal mero sfruttamento dello spazio ai fini
agricoli e pastorali, con la completa e folle distruzione della risorsa-legno a
mezzo del ferro e del fuoco: argomenti che, oggi, non possono non
richiamare alla nostra mente la moderna e insensata distruzione della
foresta amazzonica.
Fig. 27 - Il Monte Vettore visto da Forca di Presta, un ambiente naturale completamente disboscato
Miliani passa poi a descrivere la vita durissima e grama dei pastori dei
Monti Sibillini: «sei o sette mesi», ci racconta, sono passati a svernare con
le greggi «nelle poco salubri pianure dell'Agro Romano», dove «per unico
ricovero hanno una primitiva capanna, dove dormono in molti, senza mai
spogliarsi, su d'una specie di duri giacigli che chiamano 'rapazzole'». Dopo
un viaggio di «almeno di 12 o 15 giorni», essi ritornano con il tempo buono
ai pascoli d'altura: ma «il cibo, d'estate o d'inverno, in montagna od a
maremma è sempre lo stesso; pane, olio, sale, che loro vengono dati dai
35
padroni». E impressiona osservare, aggiunge il Miliani, come «vengano
negati a questi infelici tutti i conforti della famiglia, i benefizi del vivere
sociale, e tante altre cose».
Fig. 28 - Il brano di Giovanni Battista Miliani sui pastori dei Monti Sibillini (Bollettino del Club Alpino
Italiano, Vol. XX, n. 53, 1887, pp. 277)
Anche l'agricoltura risulterebbe essere sostanzialmente marginale, se non vi
fosse però «l'ampio e fertile bacino del Castelluccio, dove la produzione
sale ad otto e nove ettolitri per ettaro, sebbene a circa 1400 metri sul livello
del mare e con lavori assai primitivi». Ma, aggiunge l'imprenditore, «i
prodotti dell'agricoltura locale non sarebbero certo sufficienti a sfamare
anche miseramente i montanari, se non emigrassero per sei o sette mesi
dell'anno, a procacciarsi da vivere, per lo più nell'Agro Romano».
Un'osservazione che conferma quanto aveva già riferito il Conte Girolamo
Orsi nella sua relazione relativa all'escursione al Monte Vettore effettuata
nel 1876: «[a Castelluccio] le risorse non bastano alla vita, onde gli uomini
emigrano nell'inverno alla campagna romana; le donne e gli inabili restano
ai focolari sepolti in fra le nevi un circa nove mesi l'anno, felici essi se i
foraggi sono tanti da isvernarvi il loro bestiame».
Ma giunge il momento di smettere i panni dell'imprenditore e rivestire
quelli dell'alpinista e socio CAI. Perché Giovanni Battista Miliani non è un
socio qualunque: egli ha conosciuto, direttamente e personalmente,
Quintino Sella, l'illustre fondatore del Club Alpino Italiano, nonché
Ministro delle Finanze del Regno d'Italia, che Miliani aveva avuto
l'occasione e l'onore di accompagnare nel corso di una visita tra le «valli
dell'Appennino Fabrianese». E, nel suo articolo sui Monti Sibillini, è lo
stesso Miliani a riferirci le belle parole rivoltegli, in quell'occorrenza, da
Sella:
36
«Si ricordi, lei che è giovane ed alpinista, di andare spesso ad attingere la
calma dell'animo e l'energia al lavoro sulle montagne, ma si ricordi pure
che così facendo, contrae degli obblighi con i suoi monti, che le danno tanti
conforti, e le mantengono tanta salute».
Fig. 29 - Le parole del fondatore del CAI, Quintino Sella, rivolte a Giovanni Battista Miliani (Bollettino
del Club Alpino Italiano, Vol. XX, n. 53, 1887, pp. 278)
E Miliani, che quelle parole non le ha «più dimenticate» e
«profondamente» le conserva «scolpite nell'animo», dopo avere illustrato
un possibile progetto di rimboschimento nel territorio di Visso al quale
potrebbe fornire sostegno anche il Club Alpino Italiano, lascia finalmente
libero il proprio spirito di contemplare la meravigliosa bellezza di quei
luoghi:
«[Salendo da Castelsantangelo sul Nera] allo sguardo fino a quel punto
rimasto racchiuso in angustissime valli, si offre con grata sorpresa, l'ampia
ed inaspettata veduta del Piano di Castelluccio. Veramente è magnifico lo
spettacolo di tale pianura, posta a più di 1400 metri sul livello del mare,
con in mezzo un colle, sulla cui cima sorgono case da formare un villaggio,
ed all'intorno alti monti, lassù diventati colline, quasi a rendere omaggio al
grande colosso del Vettore, che domina all'est tutto il vasto bacino».
«Era un bel mattino di settembre», scrive, «ed era da poco levato il sole».
Da lì, Giovanni Battista Miliani affronta l'ascesa al Monte Vettore, sulle cui
creste occidentali arriva dopo varie ore di cammino:
«Di lassù, potei godere la veduta magnifica che sottostà all'intorno di
questo gigante dei Sibillini. Tutta illuminata dal sole, si spiegava ad est, la
bellissima provincia d'Ascoli, mentre perduti fra la caligine, in apparenza
assai lontani, si scorgevano i monti di Fabriano, ed il gruppo del Catria;
dall'altra parte, fra le nubi, ma sul fondo turchino del cielo, risaltavano a
distanza le aspre giogaie del Terminillo e del Gran Sasso».
37
Fig. 30 - Una visione di Castelluccio e del Pian Grande
Miliani percorre poi «il gran semicerchio avvallato che separa la cima del
Vettore da quella di Petrara, che è il punto più elevato»: il gran circo
glaciale, unico tra gli Appennini, scavato nella roccia da un ghiacciaio
scomparso, al cui fondo «si scorge il Lago di Pilato, che in estate, come
quando lo vidi io, ha forma di occhiali».
Grande camminatore, l'imprenditore fabrianese ripercorre all'inverso le
medesime creste, e vorrebbe recarsi immediatamente al Monte della Sibilla,
ma si rende conto di «essere senza sufficienti provvisioni da bocca e senza
un mantello per dormire all'aperto a più di 2000 metri sul livello del mare»:
decide quindi di ridiscendere a Castelluccio e di passare la notte nel piccolo
villaggio, per poi riprendere la strada verso la Sibilla all'indomani.
Castelluccio, di Norcia, a quell'epoca, non era certo il piacevole borgo dei
nostri giorni, oggi purtroppo distrutto dal terribile terremoto del 2016. Già
l'aristocratico Conte Orsi, nel Bollettino CAI del 1877, lo aveva descritto
con parole assai poco lusinghiere, dipingendone l'apparire come un
«povero accozzo di casolari», i cui ripidi stradelli «scavati nel roccioso
calcare» erano «infiorati da quanta immondezza può essere data da uomini
e bestie che ci vivono accomunati». Ma nemmeno il Miliani, moderno e
pragmatico imprenditore, seppe apprezzare l'ingegno e la resilienza che
caratterizzava quella comunità di uomini e donne, la quale aveva attrezzato
38
il piccolo villaggio con molteplici passaggi e vicoli al coperto, proprio per
difendersi dalle furibonde tempeste invernali:
Fig. 31 - I Laghi di Pilato osservati dalle creste sommitali del Monte Vettore
«Il paesello di Castelluccio che, riguardandolo dall'ampio bacino su cui
domina, dal Vettore o da qualcuno dei monti all'intorno, offre sempre un
aspetto pittoresco e, veduto da vicino e massime nell'interno, è brutto,
lurido e antipatico così da non potersi ridire. I vicoli angustissimi, e per
lunghi tratti coperti, le comunicazioni interne fra le case vicine, sono
caratteristiche di questo villaggio, esposto per la sua altitudine, e per la sua
posizione in mezzo a un gruppo di monti, alla lunghezza ed ai rigori di un
inverno, che non è quello normale delle nostre regioni».
Ma la magia di Castelluccio, troppo intensa per non riuscire a penetrare nel
cuore di ognuno, non poté non colpire l'immaginazione del moderno
imprenditore, osservando la «veduta incantevole» che si presentava di
fronte ai suoi occhi dalla «stamberga» in cui si trovò ad alloggiare:
39
«Era una delle più belle notti di settembre; un plenilunio sereno irradiava
della sua calma luce l'ampio bacino, su cui domina minacciosa la grande e
nera mole del Vettore. Intanto un sottile ed ondulato strato di nebbia posava
sul piano sottoposto, e con l'effetto di luna, e la circostante corona di valli,
ridava al vero l'aspetto di un lago, in mezzo a cui, come un'isoletta perduta,
sorgeva il povero villaggio di Castelluccio. Ed io volentieri riandavo,
guardando alle epoche remotissime, in cui veramente le acque dovettero
coprire quel piano, perché quel lago pareva incantato, come le cose lontane
che ci dipinge la fantasia».
Questo brano, così evocativo della fascinazione che promana da
Castelluccio e dal Pian Grande, non può non ricordare al vostro scrittore
l'incipit del romanzo “L'Undicesima Sibilla”, vergato senza affatto
conoscere il brano di Giovanni Battista Miliani, ma marcato dalla
medesima emozione:
«Notte di luna, notte di luce. Un vento leggero percorre la vasta distesa
dormiente, lievemente sfiorando le soffici erbe, madide di fresca,
scintillante rugiada. Nell’aria serena, inondata dal chiaro splendore
dell’astro fulgente, riluce l’altipiano deserto, sospeso tra gli oscuri profili
dei monti, dai quieti declivi silenti... Solo la mole imponente, superba del
Monte Vettore, cinta di divina radianza, osa sfidare quel cielo notturno,
quel cosmico vuoto punteggiato di soli distanti...».
Fig. 32 - Il Pian Grande illuminato dalla luna, con le luci di Castelluccio a sinistra e il Monte Vettore
all'orizzonte
40
Il Miliani, dunque, criticamente razionale nella propria esposizione, non
riesce a non dipingere alcuni commoventi tratti della vita a Castelluccio, al
di là di uno sguardo superficiale capace di cogliere solo durezza di vita e
miseria:
«Qua e là tremule macchie d'una luce roggia facevano strano contrasto col
cinereo colore dei placidi flutti. Erano i fuochi che ardevano nell'aie
improvvisate, e attorno ai quali ciarlando e cantando, sedevano uomini e
donne che, dimentichi delle fatiche del giorno, s'allegravano per quelle liete
feste campestri, a cui dà sempre occasione la mietitura».
Ma il tempo è ormai giunto per addormentarsi, sfinito da tante fatiche e da
meravigliose visioni così magicamente intense. Giovanni Battista Miliani
cede al sonno. E avrà bisogno di riposo, perché il giorno seguente egli si
troverà ad affrontare il mito nella sua forma più pura e tangibile.
Egli si recherà, infatti, alla Grotta della Sibilla.
41
7. «Una leggenda assai in voga fra i pastori di quei monti»: la visita di
Giovanni Battista Miliani alla Grotta della Sibilla
«... Proseguii [...] camminando per tutta la cresta sino all'estrema punta
nord dello stesso monte [Sibilla]. Senza essere molto pericolosa, in alcuni
punti, la cresta si restringe d'assai, lasciandosi al disotto, per parecchie
centinaia di metri, pendii quasi a picco, che fanno provare, guardandoli di
lassù, una certa emozione di soddisfacimento, a chi, senza soffrire di
vertigini, ha la passione delle montagne».
Fig. 33 - La lunga linea di cresta che dal Monte Porche conduce al picco della Sibilla, sullo sfondo
A parlare è sempre Giovanni Battista Miliani, il giovane imprenditore
proprietario delle rinomate cartiere di Fabriano, il quale nel 1886 ci
conduce per mano nelle terre dei Monti Sibillini: prima il Monte Vettore,
poi Castelluccio di Norcia, e ora nel cuore stesso del mito, verso la vetta di
quel Monte Sibilla che, per secoli, aveva attirato a sé viaggiatori
provenienti da ogni parte d'Europa.
42
Miliani sta muovendo da Castelluccio: dopo essere salito verso Forca
Viola, sta ora percorrendo le creste che vanno dal Monte Porche alla cima
del Monte Sibilla, in direzione nordest, seguendo un percorso opposto a
quello compiuto nel 1420 da Antoine de la Sale, che partì da Montemonaco
seguendo la linea di cresta verso sudovest.
Ma, come già sappiamo, ciò che egli incontrerà non sarà che la pallida
ombra del mito di un tempo:
«Chi si avanza ancora per la cresta, che dopo quel punto discende
rapidamente, percorsi appena duecento metri sul versante est, trova la
famosa grotta delle Fate, altrettanto meschina per quanto celebre. Corrono
su questa grotta (oltre la nota leggenda della Sibilla che l'abitò in
antichissimi tempi, e da cui prese il nome questo gruppo, di monti) le solite
tradizioni di tesori nascosti, di spiriti infernali che li custodiscono, e quella
particolare di conservare incisi sulla pietra, in caratteri che nessuno ha mai
potuto decifrare, i responsi della Sibilla».
Le iscrizioni incise nella pietra della Grotta della Sibilla costituiscono un
elemento già evidenziato nella prima metà del quindicesimo secolo da
Antoine de la Sale, il quali riferì della presenza di nomi di gentiluomini
francesi e tedeschi intagliati nel vestibolo della caverna. Come de la Sale,
anche Miliani provvede a copiare quelle scritte «nella loro forma genuina»,
ma, egli scrive, «il mio tempo fu male impiegato, perché evidentemente le
lettere leggibili mostrano di non essere anteriori al secolo decimoquinto, e,
se alcuni sgorbi non sono, come io penso, di pastori o di gente che sapeva
malamente scrivere, è impossibile attribuire ad essi un significato più
misterioso di quello che può darsi ad una lettera, o ad una sillaba di parola,
di cui le precedenti e seguenti lettere o sillabe, siano state cancellate o
soppresse».
E anche la leggendaria Grotta pare avere perduto, in quegli anni di fine
'800, quasi del tutto la propria magia:
«Del resto la grotta è di nessuna importanza; in tutto e per tutto si riduce ad
una caverna di forma pressoché circolare di pochi metri di diametro. Le
iscrizioni di cui ho fatto parola, e delle quali si legge chiaramente qualche
sillaba di nomi di persone, e qualche data, come quella del 1547, sono
incise sul calcare all'intorno e sopra la bassissima entrata della grotta».
Come vedremo, Miliani pubblicherà in seguito, in una successiva relazione
che sarà presentata pochi anni più tardi nell'Annuario della Sezione di
Roma del Club Alpino Italiano, il disegno, da lui medesimo tracciato, di
43
una di quelle iscrizioni. La mostreremo in un successivo capitolo; per il
momento, per avere un'idea di quanto Miliani abbia potuto osservare nel
corso della sua visita alla Grotta della Sibilla, limitiamoci a confrontare le
sue parole con quelle vergate da Antoine de la Sale più di
quattrocentocinquanta anni prima nel Paradis de la Reine Sibylle:
«All'entrata della grotta e dentro la prima camera dove si trova l'apertura da
cui penetra la luce del giorno, vi sono scritti i nomi di molte persone, che si
possono leggere a gran fatica».
[Nel testo originale francese: «A l'entree de la cave et dedens la premiere
chambre ou est le pertuis qui donne le jour, ilz y sont plusieurs gens en
escript, qui a tresmale peine se pevent lire»].
Ed ecco i diagrammi tracciati, nel 1420, da Antoine de la Sale, così come
riportati nel prezioso manoscritto del Paradis conservato a Chantilly, in
Francia.
Fig. 34 - I graffiti presenti presso la Grotta della Sibilla riprodotti nel 1420 da Antoine de la Sale nel suo
Le Paradis de la Reine Sibylle (manoscritto n. 0653 (0924), Bibliothèque du Château (Musée Condé),
Chantilly, Francia, folium 21r)
44
Fig. 35 - Il motto e l'insegna di Antoine de la Sale incisi dal medesimo presso la Grotta della Sibilla, così
come riprodotti nel suo Le Paradis de la Reine Sibylle (manoscritto n. 0653 (0924), Bibliothèque du
Château (Musée Condé), Chantilly, Francia, folium 21r)
Naturalmente, è assai probabile che Giovanni Battista Miliani, nel 1886,
non abbia potuto osservare queste medesime incisioni, forse da lungo
tempo andate perdute nelle successive occlusioni e distruzioni dell'ingresso
della grotta; ci piace però pensare che l'imprenditore fabrianese abbia
potuto, come in una sorta di ardito salto nel tempo, porre le proprie dita sui
graffiti scolpiti presso la grotta dallo stesso de la Sale, il quale ci racconta
che «similmente io incisi il mio motto e la mia insegna, ma a grande fatica,
tanto la roccia è dura» («semblablement je escrips mon mot et ma devise,
mais a tresgrant peine, tant est le rocher dur»).
Miliani segnala anche la presenza di una data incisa nella pietra, «1547».
Ricordiamo allora che una scritta analoga sarà segnalata sia da Pio Rajna,
nel 1897, il quale rileverà la presenza sulla roccia di «un '1631'», sia nel
1953 da Fernand Desonay e Domenico Falzetti (“Il Paradiso della Regina
Sibilla”, 1963), i quali rinvenirono «su una grossa pietra» alcune lettere
seguite dal «numero 1378 scritto in cifre arabe ma alla maniera del tempo».
Quest'ultima scritta è forse la medesima incisione ancora oggi visibile nei
pressi delle rovine crollate dell'ingresso della cavità sibillina.
Quasi nulla, dunque, rimane di secoli e secoli di visite a quel luogo così
leggendario. E Miliani non può far altro che ricordare le storie che, sin dal
romanzo cavalleresco “Guerrin Meschino” di Andrea da Barberino, si
narravano a proposito di quei monti:
45
Fig. 36 - L'incisione “1378” così come appare oggi sulla cima del Monte Sibilla
«Un'altra leggenda, assai in voga fra i pastori di quei monti, è quella della
dimora che vi fece Guerrino detto il Meschino, per scontarvi i suoi peccati,
secondo alcuni, o, secondo altri, alla ricerca della maga Alcina, che aveva
l'ingresso del suo mondo incantato in una spelonca del Monte Sibilla, e, a
detta dei pastori, precisamente nella grotta delle Fate. Comunque sia,
prendono il nome del Meschino una fontana delle cui acque dicono che egli
si dissetasse, e un lungo tratto di monte dove dimorò o si aggirò, uccidendo
serpenti, mostri, e belve feroci che d'allora cessarono d'infestare la
contrada».
Finisce così, con i labili ricordi di un tempo ormai trascorso, l'escursione
effettuata da Giovanni Battista Miliani sul Monte Vettore e sul Monte
Sibilla nell'anno 1886: un'escursione raccontata nel Bollettino del Club
Alpino Italiano in quello stesso anno.
Tutto sembra essere finito, sulla cima di quel monte. Niente più storie.
Niente più leggende, se non deboli tracce di racconti ormai quasi del tutto
dimenticati.
46
Fig. 37 - La leggenda della Sibilla così come riferita da Giovanni Battista Miliani (Bollettino del Club
Alpino Italiano, Vol. XX, n. 53, 1887, pp. 284)
Tutto terminato? No. Il mito, che permane ancora vivo tra quelle rocce, sta
per riemergere nuovamente, e con maggior potenza.
E, dopo il Conte Girolamo Orsi, dopo il Professor Mici, dopo Giovanni
Battista Miliani, tutti eminenti soci del CAI, sarà ancora il Club Alpino
Italiano a richiamare l'attenzione del mondo su quelle montagne
sconosciute ai più, i Monti Sibillini.
E lo farà nel modo più eclatante: portando gli entusiasti congressisti del
XXI Congresso Nazionale del Club Alpino, solamente tre anni dopo, fin
sulla cima stessa del Monte Sibilla.
47
8. «Quanta bellezza di natura su quello scoglio del Vettore»: Giuseppe
Bellucci sui Monti Sibillini tra panorami meravigliosi e stelle cadenti
Quell'anno, il 1886, è un anno importante per i Monti Sibillini. Dopo
l'escursione compiuta da Giovanni Battista Miliani al Vettore e alla Sibilla
nel mese di settembre, in quello stesso anno, a Perugia, viene pubblicato un
volumetto di trenta pagine, dal titolo Al monte Vettore1.
Fig. 38 - Giuseppe Bellucci, Al monte Vettore (Perugia, 1886)
L'autore di quelle pagine è Giuseppe Bellucci, il presidente e fondatore
della Sezione perugina del Club Alpino Italiano, l'amico personale di
Quintino Sella, nonché il promotore e l'organizzatore del XII Congresso
Nazionale del Club tenutosi a Perugia sette anni prima.
Quel piccolo volume, oggi quasi del tutto introvabile, racconta di una
speciale ascensione al Monte Vettore; ma, in realtà, costituisce una vera e
propria dichiarazione d'amore nei confronti dei Monti Sibillini.
1 Copia conservata presso la Biblioteca Comunale di Terni e cortesemente resa disponibile all'Autore
del presente articolo
48
Il Bellucci, professore di chimica, paleoetnografo e appassionato alpinista,
prende le mosse da un evento che descriveremo in maggiore dettaglio in un
prossimo paragrafo: l'intenzione, infatti, è quella di «assistere», assieme ad
altri soci del Club perugino, «all'iniziamento de' lavori per l'impianto
dell'Osservatorio apennino, che l'Officio centrale di Meteorologia del
Regno, di accordo con la Direzione dell'Osservatorio di Perugia, ha
stabilito di costrurre sul monte Vettore», un progetto fortemente voluto
dallo stesso Bellucci, che, come vedremo, non potrà mai essere portato a
compimento.
Il piccolo gruppo di escursionisti muove dunque verso Norcia - è l'8 agosto
1886 - giungendo al «piano del Castelluccio [...] uno de' più belli ed estesi
altipiani non solo dello Apennino, ma della nostra Italia».
Fig. 39 - Castelluccio di Norcia in una storica cartolina postale databile all'inizio del 1900
Come era Castelluccio nel 1886? Abbiamo già potuto leggere, nei paragrafi
precedenti, le parole non certo lusinghiere vergate dal Conte Girolamo Orsi
e dall'imprenditore Giovanni Battista Miliani, colpiti dall'immagine di
profonda miseria che promanava da quelle casupole. Anche Giuseppe
Bellucci si trova a descrivere il medesimo scenario; ma il tono della sua
rappresentazione, quasi pittorica, è carico di espressioni così vibranti e
cariche di emozione da rendere manifesta la sua profonda passione per
quelle terre isolate e per quel piccolo paese, in perenne lotta con un clima
feroce e ostile:
49
«Il paese di Castelluccio è un insieme di case, annerite nella maggior parte
dal fumo, che invece di sperdersi per i camini sui tetti, trova naturale uscita
per le finestre, ovvero per apposite aperture, che danno sulle vie. Le
copiosissime nevi che cadono colassù nell'inverno, renderebbero i camini
sui tetti di nessuna utilità, e sarebber cagione, più di danno che di
vantaggio. Tra le casupole nere del Castelluccio, con fenestre angustissime,
bastanti appena a contenere la testa, corrono viuzze strette, scoscese
oltremodo, selciate, non dall'uomo ma dalla natura, o con lastroni di calcare
levigatissimo, su cui spesso le persone misurano la loro lunghezza, o con
testate di strati verticali, in mezzo a cui bisogna collocare con molto studio
un piede, prima di muovere l'altro».
Il Conte Orsi e il Miliani si sarebbero certamente fermati qui. Ma Giuseppe
Bellucci riesce ad andare oltre, e a vedere, con l'intelligenza del cuore,
anche gli uomini e le donne che vivevano in un luogo così difficile,
dipingendo con pochi, semplici tratti l'immagine di una Castelluccio viva e
allegramente animata:
«Eppure codeste vie hanno tutte il loro nome, segnato in apposite targhe;
nome talora esattamente appropriato, talora ironico. Nessuno senza vedere
potrebbe farsi una giusta idea del vicolo 'rompicollo', della via della
'bufera', della via 'superba'. Vedere di giorno quelle viuzze o chiassoli è
cosa singolare; le donne lavorano sul limitare delle loro case conversando
tra loro; generalmente si stabilisce una conversazione per ogni via, a cui
prendon parte tutte le abitatrici giovani e vecchie senza distogliersi dalle
loro occupazioni; le strade sono poi animate dal popolo minuto; in mezzo
ad un luridume indescrivibile, vedesi un bizzarro miscuglio di bambini e
bambine, di maiali, di polli; odesi un concerto poco armonico di grugniti, di
grida, di pianti, di risa; avvertesi un odore che nessuna profumeria saprebbe
comporre. Eppure in mezzo a tanto sudiciume, in mezzo a tanta strettezza
di vie, trovate lassù una salute ottima, una robustezza in tutti gli abitanti
grandi e piccini, da meravigliarvi, trovate affetto intensissimo al luogo
nativo».
E poi, una considerazione che ritroveremo anche in altri autori, relativa
all'eccellente salute di cui potevano godere coloro che avevano la ventura
di vivere nel rigido clima del Pian Grande:
«Pochi paesi possono vantare come il Castelluccio aria purissima ed acqua
senza eccezione; pochi paesi possono come il Castelluccio scrivere sopra la
loro porta 'qui non abita la tisi'».
50
Fig. 40 - Castelluccio descritta da Giuseppe Bellucci nel suo volume Al monte Vettore (Perugia, 1886), p.
10
Bellucci prosegue la propria descrizione raccontandoci, in modo assai
evocativo e pittoresco, la vita degli abitanti del piccolo borgo:
«La popolazione adulta maschile, emigra nella campagna romana allo
approssimarsi di ogni inverno. Rimangono al Castelluccio le donne, i
bambini, i vecchi ed il Curato. Negl'inverni rigorosi, capita più volte agli
abitanti rimasti di uscire dalle fenestre, anziché dalle porte, oppure si
aprono gallerie al di sotto della neve tra una porta e le porte vicine, per
comunicare tra loro».
«Quante privazioni nel lunghissimo inverno!», esclama Bellucci, «quanta
miseria senza il più piccolo conforto di un soccorso fraterno!». Difatti,
nella cattiva stagione il piccolo paese rimane «segregato dal mondo civile».
Ed è «il dottor Clavari», delegato dal «Comune di Norcia, di cui il
Castelluccio è una frazione», a tenere il registro delle nascite e delle morti;
egli, inoltre «conduce la prima osteria del paese».
51
Fig. 41 - Castelluccio di Norcia (sul colle a destra) come appare nella stagione invernale, immersa nelle
nevi
Nel descrivere il piccolo insediamento perduto tra le montagne, occorre
sempre ricordare come la Grotta della Sibilla e i Laghi di Pilato si trovino
proprio lì, a breve distanza; è per questo motivo che Castelluccio non può
che trovarsi immerso in una sognante atmosfera di magia e negromanzia,
viva e tangibile nel racconto dei suoi abitanti:
«Moltissime sono le superstizioni e le leggende che furono raccolte tra gli
abitanti del Castelluccio. La leggenda della Sibilla, che abitava la grotta
delle Fate, poco discosta dal Castelluccio; i suoi responsi fatidici; le gesta
di Guerrino il Meschino, che seppe liberarsi dalle arti seducenti della bella
Sibilla, sono i racconti principali che vi sentite fare, con mille versioni, da
tutti e da tutte. La fantasia popolare è piena di ricordi di antiche streghe e
fattucchiere; se trovate la maniera d'ispirare fiducia e di entrare a parte dei
tenebrosi raggiri di qualche megera, sentite raccontarvi la storia di mille
fatture, sentite descrivervi la virtù portentosa delle piante più strane».
Ma è giunto il momento di salire sul Monte Vettore: «la bellezza di quei
luoghi alpestri», scrive Bellucci, «il cielo profondamente sereno, la
freschezza dell'aria, cagionavano in noi un'animazione fortissima, che si
prova da tutti coloro che si accingono alle ascensioni, ma che difficilmente
si descrive».
52
Da Forca Viola, «per un sentiero ripidissimo segnato appena sul fianco
occidentale del monte, ci recammo sulla cresta del Vettore, percorrendola
fino alla sommità più elevata». Da lassù, il piccolo gruppo di escursionisti
può ammirare la vertigine del circo glaciale che si annida tra le creste
occidentali e il Monte Petrara a oriente (oggi denominato “Cima del
Vettore”), «un bacino a forma d'imbuto profondo, che sfiancato a nord per
opera dell'erosione, ha determinato il pittoresco burrone che si ammira dal
Vettore, in fondo al quale, alimentato da una lente di ghiaccio, distende le
sue acque verdi il piccolo lago di Pilato».
Fig. 42 - Il Monte Vettore con la valle glaciale racchiusa all'interno delle creste e, sul fondo, i Laghi di
Pilato
Lassù, sul picco più elevato del Monte Vettore, di fronte a un panorama che
si estende dall'Amiata alla Majella, dal Subasio all'Adriatico, Giuseppe
Bellucci, escursionista innamorato della montagna e fondatore di una delle
più antiche Sezioni del Club Alpino Italiano, non può non lasciarsi
prendere la mano dal più espressivo lirismo tipico dell'alpinista:
«Quanta bellezza di natura su quello scoglio del Vettore; quante
impressioni piacevoli, sorprendenti, ma per la loro vastità indescrivibili.
Dinanzi a tanta grandezza, sempre dominati [...] dal sentimento glorioso
dell'umana potenza, della forza della volontà, dell'aere e corroborante
voluttà del pericolo, con un certo orgoglio calpestavamo quella vetta libera,
solitaria, silenziosa, solenne, che come un'isola incantata, sta ardita
sentinella del cielo, sprezzando i fulmini che questi talora gl'invia,
dominando sempre il basso mondo in cui viviamo».
53
Fig. 43 - La cima del Monte Vettore celebrata da Giuseppe Bellucci nel suo volume Al monte Vettore
(Perugia, 1886), p. 19
Non è dato, però, all'uomo il rimanere a lungo sulle vette dei monti, al
cospetto delle divinità e dell'eterno. È sera, occorre ridiscendere. Ma ciò
che questa discesa può riservare, può essere ancora più magnifico di quanto
si è già vissuto nelle più elevate altitudini. Soprattutto, se, come Giuseppe
Bellucci, ci si trova immersi nella bellezza più pura dei Monti Sibillini:
«Era una serata stupenda; il piano del Castelluccio con la sua corona di
monti, il Vettore colle sue creste ed aguglie, illuminate dalla luna
presentavano scene bellissime; una profonda quiete esisteva nella natura,
interrotta solo, di quando in quando, dallo abbaiare de' cani, lasciati dai
pastori a guardia degli armenti».
Fig. 44 - Il Monte Vettore sovrastato dalla Via Lattea nella notte dei Monti Sibillini
54
Ma nemmeno questo poteva bastare. Quella sera, la Natura aveva scelto di
salutare quegli escursionisti del Club Alpino con la visione più mirabile che
possa essere contemplata nel cielo che circonda il mondo:
«Avemmo il gradito spettacolo di vedere illuminati i nostri passi da una
pioggia continua di stelle cadenti, le quali ora in rosso, ora in azzurro, e
molte volte in bianco candidissimo, percorrevano rapide e silenziose lunghi
tratti di cielo, spandendo vivissima luce».
Si conclude così l'ascensione effettuata da Giuseppe Bellucci sul Monte
Vettore, in quell'estate del 1886. E non ci sono ulteriori parole da
aggiungere alla visione, divina e purificatrice, che i Monti Sibillini, oggi
come allora, sono sempre in grado di regalare.
55
9. «Misteriosa Sibilla, invisibile abitatrice della grotta scavata nel monte»:
i congressisti del CAI sul luogo della leggenda
Tutto era cominciato nel 1888, al XX Congresso Nazionale del Club Alpino
Italiano a Bologna:
«Si viene infine a stabilire la sede del Congresso per l'anno venturo. Si
odono molte voci: "A Roma, a Roma!". [Ma] Zoppi e De Sanctis, della
Sezione Romana, non la credono ancora pronta ad ospitare il Congresso...».
Fig. 45 - L'assegnazione del XXI Congresso Nazionale alla Sezione di Ascoli Piceno (Rivista Mensile del
Club Alpino Italiano, Vol. VII, n. 9, settembre 1888, p. 296)
Il momento, dunque, è quello giusto: Arturo Galletti di Cadilhac, delegato
della sezione ascolana, dichiara che «Ascoli potrebbe essere una tappa sulla
via di Roma, e [...] che la Sezione Picena sarebbe orgogliosa di ospitare
l'anno venturo gli alpinisti delle Sezioni sorelle. [...] Abbiamo il cuore per
ricevervi festosamente». Perché, soggiunge, «abbiamo i Monti Sibillini da
farvi salire».
È fatta, il colpo grosso è riuscito: la piccola sezione ascolana del CAI si è
aggiudicata il XXI Congresso Nazionale. E sarà un grandissimo successo.
Grazie anche, questo è certo, ai Monti Sibillini, e alla straordinaria magia
del Monte della Sibilla.
56
Il XXI Congresso si svolgerà dunque ad Ascoli Piceno, tra il 30 agosto e il
1 settembre 1889. La piccola sezione di provincia accoglierà un centinaio
di aristocratici delegati provenienti da molte regioni d'Italia, in
un'atmosfera di grande festa, tra danze, spettacoli, ricevimenti e banchetti,
segnalandosi nelle cronache che «sfolgoranti [...] agli alpinisti apparvero
gli occhi delle signore Ascolane, splendide di bellezza e di grazia, di
eleganza e di gemme».
Ma, esattamente come a Perugia dieci anni prima, l'evento fondamentale
del Congresso sarà un'escursione. Un'escursione molto particolare.
Si tratterà di un viaggio fino alla cima del Monte della Sibilla.
Fig. 46 - La cima coronata del Monte Sibilla
Nell'organizzare un Congresso del Club Alpino Italiano ad Ascoli, sarebbe
stato impossibile non permettere ai partecipanti, molti dei quali mai
avevano visitato le Marche, né vi sarebbero probabilmente mai più ritornati
in futuro, di andare a osservare con i propri occhi la montagna più illustre e
misteriosa di quelle contrade: il leggendario monte che per secoli aveva
attirato a sé viaggiatori provenienti da ogni luogo d'Europa, dimora -
scrivono, con divertita aspettazione - della «misteriosa Sibilla, invisibile
abitatrice della grotta scavata nel monte, [...] custode d'introvabili tesori,
[...] fonte inesauribile di leggende».
57
Fig. 47 - Il brano di Scipione Cainer che narra della visita alla Sibilla effettuata nell'ambito del XXI
Congresso Nazionale ad Ascoli Piceno (Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. VIII, n. 9,
settembre 1889, p. 296)
Il lungo racconto di quell'escursione è conservato nel Bollettino del CAI n.
9 del 1889, in un articolo a firma di Scipione Cainer, direttore della rivista.
Il giorno 2 settembre 1889, quarantacinque alpinisti, «metà Piceni e metà
soci d'altre Sezioni», lasciano Ascoli in vettura per recarsi a Montemonaco.
Passando per la valle del Fluvione, essi giungono a Croce di Casale, dove
tramite una mulattiera arrivano nella valle dell'Aso, e infine a
Montemonaco. Nell'antico borgo, in assenza di «un buon albergo», i
congressisti si accomodano «in diverse famiglie, ché gli abitanti si
distinguono per gentilezza di modi e schietta e cordiale ospitalità»,
partecipando al «cortese e signorile ricevimento» loro offerto dall'Avvocato
Corbelli.
È ancora notte fonda, il 3 settembre 1889, quando gli escursionisti
cominciano la loro ascensione al Monte della Sibilla. Il percorso da essi
seguito, partendo da Montemonaco, è esattamente il medesimo effettuato
dal gentiluomo provenzale Antoine de la Sale il 18 maggio 1420, oltre
quattro secoli prima:
«Dall'altura di Montemonaco conviene abbassarsi alquanto per una discreta
mulattiera affine di appressarsi alla base del contrafforte della Sibilla. La
58
salita che abbiamo da fare è assai semplice: non c'è che da montare per
lunghe serpentine, a poco a poco, su per il pendio del contrafforte, fino a
che se ne raggiunge il dorso, seguendo il quale si perviene alla cima».
Ma quando gli alpinisti giungono sulla vetta, appare chiaro come la
misteriosa Sibilla non abiti più lì ormai da gran tempo:
«Quanto alla famosa Grotta delle Fate, basterà il dire che si riduce a una
semplicissima caverna di pochi metri di diametro, scavata nel fianco sud-
est del monte. La sua celebrità è dovuta alle leggende costruite sulle
iscrizioni che si vedono in qualche punto delle pareti, iscrizioni di poche
lettere che pare possano rimontare al XV secolo e a cui non è possibile
attribuire alcun significato importante, sebbene l'ignoranza le abbia ritenute
come segni dei responsi della Sibilla, se pure non vi ha scorto come su un
registro d'albergo le cifre del visitatore Guerin Meschino».
È in questa occasione che la sezione picena del CAI «ha fatto ripulire la
grotta, ne ha reso praticabile l'ingresso e vi ha collocato con gentile e
opportuno pensiero una lapide con questa iscrizione», sovrapponendola
purtroppo, e in modo assai goffo, ad alcune di quelle enigmatiche ma
comunque rimarchevoli incisioni:
«Questa grotta che la leggenda disse fatidica stanza della Sibilla
Appenninica fu oggi visitata dagli Alpinisti Italiani reduci dalla cima del
monte dopo il XXI Congresso Nazionale in Ascoli - La Sezione Picena
pose a ricordo - 3 settembre 1889».
Di questa visita così particolare esiste una bella immagine fotografica,
scattata dal socio fiorentino Ranieri Agostini, che rappresenta i congressisti,
felici e per nulla intimoriti dalla possibile presenza di una maga tanto
misteriosa e potente, seduti sul ripido declivio della vetta del Monte Sibilla,
con i cappelli calcati sulla testa per difendersi dagli intensi raggi del sole.
Una fotografia storica, che racconta di una visita oggi quasi del tutto
dimenticata, e che vogliamo in questo articolo ricordare.
59
Fig. 48 - I congressisti del XXI Congresso Nazionale del CAI sulla vetta del Monte Sibilla il 3 settembre
1889 (foto Ranieri Agostini, CAI Firenze, Archivio Sezione CAI Ascoli Piceno)
Dopo una breve permanenza sulla cima, quegli escursionisti
ridiscenderanno le balze della montagna per tornare a Montemonaco,
riprenderanno il proprio viaggio transitando per Montefortino, Amandola,
Fermo e altri piccoli borghi del territorio, in ciascuno di essi accolti con
grande festa da sindaci e popolazioni, per raggiungere infine Ascoli Piceno
e concludere così la propria avventura marchigiana.
La Sibilla e il suo monte, perduti tra le cime remote dei Monti Sibillini, una
porzione quasi sconosciuta della catena appenninica, si stanno ormai
risollevando dal proprio secolare oblìo. Grazie all'azione del Club Alpino
Italiano, numerosi appassionati, sia italiani che stranieri, che possono
accedere ai Bollettini dell'associazione, vengono a conoscenza di luoghi e
leggende antiche, che parevano essere state totalmente dimenticati.
60
Fig. 49 - Il picco della Sibilla come appare seguendo il sentiero che proviene da Montemonaco
L'interesse per i Monti Sibillini, dunque, pare accrescersi di anno in anno. E
sarà ancora una volta Giovanni Battista Miliani, il grande imprenditore
marchigiano, a riportare nuovamente sulle pagine delle riviste del CAI
quelle montagne così affascinanti, con una nuova e completa monografia.
Che tratterà, nuovamente e in modo ancora più approfondito, del mistero
della Grotta della Sibilla.
61
10. «Enorme e diroccata muraglia, d'un fantastico impero»: il ritorno di
Giovanni Battista Miliani al Monte della Sibilla
«Parecchi, non escluso chi scrive, hanno già pubblicato articoli e
monografie sui monti Sibillini, ma nessuno ancora li ha interamente
descritti, e perciò mancano le indicazioni necessarie a chi voglia farsene
una idea chiara e completa, sotto i diversi aspetti nei quali l'alpinista
intelligente prende interesse alla montagna».
Con queste parole, Giovanni Battista Miliani torna nuovamente sui Monti
Sibillini, dopo avere già pubblicato, nel 1886, un primo, informatissimo
resoconto a proposito di una sua esaustiva escursione compiuta tra le
leggendarie montagne dell'Appennino. Questa suo secondo itinerario viene
effettuato, in diversi momenti, intorno alla fine degli anni '80 del
diciannovesimo secolo, e l'articolo che ne consegue, dal titolo I Monti della
Sibilla, firmato dall'imprenditore delle cartiere di Fabriano, viene
successivamente pubblicato nell'Annuario della Sezione di Roma del Club
Alpino Italiano (Vol. III, 1888-1891) nel 18922.
Fig. 50 - La monografia di Giovanni Battista Miliani sui Monti Sibillini pubblicata nell'Annuario della
Sezione di Roma del Club Alpino Italiano, Vol. III (1888-1891), 1892, pp. 229-261
2 Copia conservata presso la Biblioteca Nazionale del Club Alpino Italiano in Torino e cortesemente
resa disponibile all'Autore del presente articolo
62
Miliani scrive per «richiamare l'attenzione su di un gruppo che, pur essendo
nel bel mezzo dell'Italia, e non privo di naturali bellezze, di leggende e
d'istoria, è ancora assai poco visitato dagli amatori della montagna». Con
un approccio razionale e quasi scientifico, il socio della Sezione romana del
CAI introduce il lettore ai Monti Sibillini, ai cui piedi «giacciono città e
villaggi sin qui poco noti agli eruditi, ma che potrebbero offrire materia di
ricerche e di studi a chi si ponesse ad indagarne le passate vicende». È
chiaro, però, come il Miliani, pur descrivendo in modo logico e assai
razionale la principale via d'accesso a quel territorio, lungo la Valnerina e
verso Norcia, non possa reputarsi affatto immune dal fascino inquieto che
queste montagne paiono sprigionare, notando come «le rovine di antichi
castelli, di fortilizi, di torri che si vedono nelle gole o sulle cime dei colli
che fiancheggiano la strada danno interesse al paesaggio che, all'incanto
delle naturali bellezze, aggiunge quello dei ricordi delle vicende in mezzo a
cui si svolse una età tanto diversa da questa che è nostra».
Fig. 51 - La Rocca di Matterella a Ferentillo, a picco sulla strada che coduce verso Norcia seguendo il
corso del fiume Nera
Nel giungere a Norcia, Miliani ricorda come questa «antica città» meriti
«di essere ricordata per la storia e le leggende che si collegano al suo
nome», in quanto «attualmente è rinomata per i maiali e i tartufi
63
saporitissimi», avendo però goduto di «una triste celebrità pei terremoti che
l'hanno più volte devastata».
L'articolo fornisce, inoltre, indicazioni complete per raggiungere i Monti
Sibillini dal lato marchigiano, accedendo da differenti località, anche con
l'obiettivo di «supplire alla meglio la deplorevole mancanza di una guida
della regione in cui sorge questo importante gruppo dell'Appennino
centrale»: Visso, Bolognola, il Lago di Fiastra, Ascoli, Arquata,
Montemonaco. Presso «questo forte castello [...] ai piedi del monte Sibilla
[...] non è difficile trovare qualche discreto alloggio, e vi sono due o tre
osterie, dove non manca il necessario per togliere la fame».
Fig. 52 - Montemonaco in una storica cartolina postale risalente all'inizio del ventesimo secolo
Come già nel precedente articolo, risalente al 1886, Miliani non può non
notare le devastazioni provocata, sulle pendici delle montagne, dal taglio
indiscriminato dei boschi, che non può che condurre all'ulteriore
impoverimento e a un triste fenomeno migratorio delle popolazioni locali:
«Non di rado avviene d'incontrare desolate famiglie che, vendute le proprie
masserizie, con pochi cenci, pochissimi soldi, s'avviano al mare per salire
su di un piroscafo, affidandosi in mano di qualche speculatore crudele, che
le condurrà a morire di febbre gialla e di fame in fondo all'America».
64
Ma, poi, la magia di queste montagne, così peculiari, cattura la mano del
nostro appassionato alpinista, che così inizia a descrivere il massiccio dei
Monti Sibillini e l'unitarietà della sua struttura, in gran parte foggiata, come
noi oggi sappiamo, dall'azione di un antico ghiacciaio, da lungo tempo
scomparso:
«A chi sono familiari le Alpi, certo non fanno impressione le forme di
questi monti, a balze verticali, a creste sottili, divisi da angusti e profondi
burroni, ma chi non conosce che l'Appennino, difficilmente potrà ricordarsi
d'aver veduto altrettanto. Ed invero la cresta che va dall'estrema punta del
Monte Sibilla a Palazzo Borghese, lunga parecchi chilometri, quella che
gira ad anfiteatro e congiunge le cime di Vettore e Pretara [...] fanno
accogliere di buon grado la ipotesi già emessa da valenti geologi che questi
monti - Priora, Sibilla, Vettore e Pretara - non fossero in origine che uno, di
cui le cime, le creste, le balze vertiginose che restano in piedi rappresentino
le ruine consunte dall'azione di tutte le forze, con cui la natura trasforma e
rinnova le opere sue».
Fig. 53 - Le creste che dal Monte Sibilla conducono verso la dorsale arcuata del Monte Vettore (a sinistra
nella foto); al centro, la glaciale Valle dell'Aso
Giovanni Battista Miliani si lascia quasi rapire dall'immagine che egli
stesso dipinge con poetica potenza, di quelle «forze immani» che avrebbero
sollevato in alto quelle montagne «un tempo premute da enormi strati
d'acqua nelle profondità dell'Oceano», osservando come «gli strati si
presentino talvolta orizzontali, tal altra quasi verticali, ora fortemente ed or
leggermente inclinati, e qua si mostrino dolcemente ripiegati, là
65
stranamente contorti», mentre «le forze attuali (alcune anzi assai più
energicamente) che concorrono a disgregare le roccce, a scavare le valli, a
minare le vette superbe, erano in azione e andavano già per così dire
delineando a grandi tratti la fisionomia delle forme che ci stanno ora
d'innanzi agli occhi». Visioni di tempi che furono, una scena che pare
prendere vita con gli occhi della fantasia, e che «fa rimanere estatici a
contemplarla fino a che il vento gelato, che morde la faccia o intirizzisce
piedi e mani, non interrompe questa contemplazione retrospettiva, e fa
pensare al presente in cui c'è bisogno di moversi per riscaldarsi».
Giovanni Battista Miliani, dunque, non è solo un grande imprenditore, ma
anche un sognatore, il cui spirito, viaggiando tra le visioni dell'oggi e quelle
evocate da epoche remotissime, è in grado di cogliere la bellezza più
profonda dei Monti Sibillini.
E, quando la Sibilla chiama, Miliani dunque non può che rispondere alla
fascinazione che promana dalla vetta intitolata al nome della profetessa:
«A sud-sud-ovest corre la lunga cresta della Sibilla, che sovrasta le
strapiombanti pendici del profondo ed orrido burrone di S. Leonardo, in
fondo al quale scorre rumorosamente fra gli scogli il Tenna. [...] È una
veduta tetra e paurosa, che giustifica le strane leggende, che il medio-evo
ha fissato attorno a queste montagne».
Accedere alla Sibilla è come compiere una sorta di viaggio iniziatico.
Innanzitutto, occorre organizzarsi, partendo da Montemonaco e dalla
piccola frazione di Isola S. Biagio, dove «però conviene avvertire che qui
non è facile procurarsi il vitto e l'alloggio». Ma ogni viaggio comincia con
un incontro, e pare che sia la Sibilla stessa a dirigere i passi del Miliani
verso chi sarebbe stato in grado di introdurlo al meglio ai suoi segreti:
«Quando io vi giunsi, a due ore di notte, in una buia serata d'ottobre,
dovetti alla cortese ospitalità del più che ottuagenario parroco D. Nicola
Ottaviani e de' suoi nepoti, se insieme al mio compagno potei fare una
buona cena e trovare un buon letto; diversamente avremmo dovuto far
senza dell'uno e dell'altra».
Accanto al fuoco, il vecchio parroco racconta e racconta al Miliani magiche
storie senza tempo, e di come «Montemonaco e qualche altro dei paesi
intorno ai monti della Sibilla» fossero «secondo le leggende locali, tra i più
antichi d'Italia, anzi tra le più antiche città del mondo», fondate addirittura
dai «pronipoti di Noè».
66
È questo il viatico più acconcio all'escursione nel sogno e nell'illusione che
Miliani effettuerà di lì a poco: «era una magnifica notte d'autunno e la luna
quasi piena rischiarava gli incerti contorni del lontano orizzonte, quando io
ed il mio compagno salivamo su per la pendice orientale della Sibilla».
Fig. 54 - L'ascesa notturna di Giovanni Battista Miliani al Monte Sibilla (Annuario della Sezione di Roma
del Club Alpino Italiano, Vol. III (1888-1891), 1892, p. 245
Miliani sale immerso nella luce lunare, e la nebbia circonda come «un lago
di piombo» le cime dei monti circostanti, che «si sollevavano come una
enorme e diroccata muraglia, d'un fantastico impero». Ed è, lo confessa egli
stesso, un po' come «d'essere nel mondo dei sogni».
Proprio come accade nei sogni, un altro incontro essi fanno lungo la silente
ascensione notturna, e si tratta questa volta di «un nuovo compagno di via,
che insieme alla moglie e ad un asino s'era unito a noi, dovendo percorrere
lungo tratto dello stesso cammino». Qui, Miliani esperimenta, nella propria
vita reale, quelle inquiete e sinistre sensazioni che, per secoli, tutti i
viandanti, nobili, cavalieri ed esploratori diretti alla Sibilla avevano potuto
avvertire nel proprio animo, ascoltando gli oscuri racconti che narravano
della maga e profetessa che, si diceva, abitasse in una grotta posta sulla
vetta della montagna:
«Egli, presso a poco, ci andava ripetendo, con qualche variante e in modo
più confuso, le leggende che avevamo udito la sera; ma a quell'ora, in quei
luoghi, da quel narratore, prendevano uno strano senso di realtà da far
sentire con pena che gl'istanti di quella illusione dovessero forzatamente
essere brevi».
67
Per secoli, nel mito della Sibilla Appenninica si sono confusi realtà e
illusione, mondo reale e terra di sogno. E Miliani, calcando le pendici di
quella fatidica montagna, in quella notte di luna, non riesce a sottrarsi alla
magica fascinazione che promanava, e promana ancora, da quei luoghi,
soprattutto dopo essere «arrivati al punto detto della Corona, che è il limite
estremo e più basso della cresta orientale della Sibilla». Ed è, ancora una
volta, immersione nel sogno:
«Senza farsi pregare, con la solita semplicità, il buon uomo cominciò a dire
che la punta della Corona, dove noi eravamo, fu sempre conosciuta come
un ritrovo di streghe, le quali vi si radunavano a ballare o a far conciliabolo
per scendere nei paesi circostanti».
Miliani riporta, a questo punto, la tipica leggenda diffusa a livello popolare
tra le genti dei Monti Sibillini, concernente le fate danzanti dai luciferini
piedi caprini:
«Una volta, anzi, per certi passaggi sotterranei, avevano preso l'abitudine di
recarsi a Foce [il piccolo villaggio montano sovrastato dalla vetta della
Sibilla n.d.r.] tutte le sere che vi era festa da ballo, mettendosi poi a danzare
disperatamente coi giovanotti che facevano loro la migliore accoglienza. E,
finché questa durò, le streghe, con gran dispetto delle dame del luogo, li
corrisposero in cortesie. Ma le streghe sono puntigliose; una sera un
zerbinotto, altrettanto povero di spirito quanto zoppicante poeta, ebbe
l'infelice idea di farsi sentire che diceva a un suo compagno: 'ballerebbero
bene queste fate se coi piedi non facessero rumore come le capre', e da
quella sera le streghe non si videro più».
A questo punto, il sole spunta all'orizzonte, e gran parte delle illusioni viene
rapidamente spazzata via. Miliani e il suo compagno superano facilmente il
dislivello roccioso costituito dalla corona, e giungono così «alla famosa
grotta della Sibilla ed alla cima omonima che è appena duecento metri più
innanzi». Ed ecco la preziosa testimonianza dell'imprenditore e socio del
Club Alpino Italiano, il quale ci descrive, con dettagliata precisione, lo
stato della leggendaria cavità in quegli anni di fine '800:
«È stato sempre facile di ritrovare questa grotta che è subito sotto la cresta,
a sinistra di chi sale; attualmente poi, anche senza cercarla, è indicata da un
cumulo di pietre smosse, cavate per una nuova apertura che v'è stata
praticata da poco. Dico subito che la grotta, come si presenta, giustifica
assai poco la fama che ebbe e il gran parlare che se ne fa tuttavia. La prima
volta che vi andai, alcuni anni fa, solo e senza guida, su indicazioni datemi,
restai tanto deluso che credetti perfino d'aver preso un abbaglio e di non
68
avere ritrovato la grotta che cercavo e di cui avevo sentito narrare tante
leggende. Per darne un'idea in poche parole, dirò che consiste in un piccolo
antro, lungo appena tre metri, e solo nel mezzo elevato abbastanza da
potervi stare diritti. L'ingresso è così basso ed angusto che conviene
d'entrarvi a ritroso carponi. Sopra questa poco nobile entrata, sul calcare del
monte, vi sono incise o graffite alcune parole, poco intelliggibili e strane,
alle quali la leggenda attribuisce arcani significati. Il fatto è che non ne
hanno alcuno, o se lo hanno è d'una portata assai più meschina di quello
che si sarebbe disposti a voler loro attribuire».
Nel proprio articolo, il Miliani riproduce l'aspetto di «quella più leggibile
che si trova sulla roccia, perché il lettore possa farsi un'idea delle altre»,
che noi riportiamo qui in figura.
A titolo puramente informativo, riportiamo anche come alcuni autori, come
Giovanni Rocchi, abbiano voluto fascinosamente leggere tale iscrizione
come «Erebo Nursiae», o Averno di Norcia: un'interpretazione certamente
arbitraria, ma che ben si collocherebbe all'interno della congettura elaborata
dall'autore del presente articolo in relazione all'origine delle leggende dei
Monti Sibillini, in connessione alla peculiare sismicità del territorio, così
come ipotizzato in articoli quali “Monti Sibillini: la leggenda prima delle
leggende” (2019) e “Monti Sibillini, un Lago e una Grotta come accesso
oltremondano” (2020) sulla base di una completa analisi delle
testimonianze letterarie disponibili.
Fig. 55 - L'ascesa notturna di Giovanni Battista Miliani al Monte Sibilla (Annuario della Sezione di Roma
del Club Alpino Italiano, Vol. III (1888-1891), 1892, pp. 246-247
69
«Sopra questi scritti, più o meno sibillini», prosegue Miliani, «la sezione
Picena [del CAI] ha creduto di dover porre una lapide che ricorda la visita a
quella grotta degli alpinisti italiani in occasione del XXI congresso tenuto
in Ascoli nel settembre 1989».
E poi, la leggenda. La leggenda della Sibilla Appenninica, che
evidentemente affascina quell'altrimenti razionale, pragmatico
imprenditore. Dopo avere citato il quattrocentesco “Guerrin Meschino”,
Miliani tenta di affrontare l'antico enigma analizzando le effettive
possibilità che il mito possa essere fondato sulla reale presenza di una
cavità sotterranea, oggi occlusa:
«L'idea [...] di chiudere quest'antro come luogo infame, o sede di tesori
diabolici, è sempre rimasta nella leggenda, tanto che nei paesi circonvicini
è convinzione dei più che realmente l'antro attuale sia l'ingresso di quello di
cui parlano le antiche leggende. Io, senza voler dar corpo ad una
fantasticheria che non è certo un fatto isolato nella storia delle caverne,
osservo che non sarebbe impossibile di ritenere che nel fondo del piccolo
antro attuale sia stato realmente un cunicolo, che abbia dato accesso ad un
sistema di grotte, più o meno ampio. Il terreno che ora ne forma il piano è
di riporto, o mostra almeno d'essere stato profondamente rimosso. Vero è
che ciò per ora altro non prova che i molti e successivi tentativi fatti per
scavare i tesori o le tombe delle regine di cui parlano parecchie leggende,
ma potrebbe essere avvenuto che la terra smossa di questi scavi e l'azione
del tempo e dell'acqua siano riusciti ad ottenere quello che gli animi
timorati desideravano, cioè la chiusura della grotta».
Una grotta frequentata sin dall'antichità, osserva Miliani, riportando però
un'errata convinzione già riferita in precedenza da alcuni autori locali
(Feliciano Patrizi-Forti e Padre Fortunato Ciucci): «Anteriormente al
supposto viaggio del cavaliere Meschino, la grotta della Sibilla o delle fate
era già nota e famosa. Tolomeo ne parla dicendo che nell'Appennino trovasi
un immane ed orribile antro che volgarmente è detto la 'Caverna della
Sibilla', di cui essendo venuto a cognizione degli abitanti di Norcia che di
frequente vi si adunava gran numero di maghi, fu tentato di chiuderlo. Ma
pare che il tentativo non riuscisse, poiché tanti anni dopo il Meschino poté
entrarvi e trovarvi tutte quelle cose che sono descritte nel suo libro
meraviglioso». Oggi sappiamo però (e si veda al riguardo il mio articolo
“Sibilla Appenninica: un viaggio nella storia alla ricerca dell'oracolo” -
2018) che il brano asseritamente ascritto a Claudio Tolomeo, il grande
geografo greco-romano vissuto nel secondo secolo, è invece rinvenibile,
70
per la prima volta, in un'edizione commentata pubblicata da Antonio
Giovanni Magini, uno studioso e geografo italiano, nel 1617, e dunque
risalente a un'epoca assai più tarda e posteriore allo stesso “Guerrin
Meschino”.
Enigmi, magia, antichi scritti, investigazioni. Tutto questo, Giovanni
Battista Miliani, socio della Sezione di Roma, non lo scrive per se stesso:
egli lo sta proponendo all'affascinata attenzione di un pubblico sceltissimo
e in costante crescita, composto dagli appassionati alpinisti di tutta Italia.
Egli sta scrivendo per il Club Alpino Italiano, facendo così conoscere, a un
grande numero di colti e aristocratici escursionisti, quei Monti Sibillini dei
quali quasi nessuno, solamente fino a pochi anni prima, aveva mai udito
neppure il nome.
Ora, invece, quelle stesse montagne, descritte e anche ritratte nell'articolo
del Miliani, nelle pagine di un Annuario del CAI che circolerà ampiamente
tra le Sezioni italiane dell'associazione, stanno assumendo nuovamente
quell'aura di misteriosa fascinazione che, per secoli, aveva attirato sulle sue
cime nobili, cavalieri e cercatori di tesori da ogni parte d'Europa.
Fig. 56 - Veduta panoramica dei Monti Sibillini contenuta nella monografia pubblicata da Giovanni
Battista Miliani nell'Annuario della Sezione di Roma del Club Alpino Italiano, Vol. III (1888-1891), 1892,
p. 248
71
E a nulla serve che l'imprenditore fabrianese aggiunga, nel proprio scritto,
che «la questione, del resto, è di troppo meschina importanza per doversene
più oltre occupare»: perché, ormai, un'intensa luce di attrazione e magia
risulta essersi di nuovo accesa su quel remoto picco dell'Appennino
centrale, ed è lo stesso Miliani ad aggiungere che «se volesse seriamente
risolversi [questa questione n.d.r.], basterebbe un paio di giorni di un buon
lavoro di piccone per persuadersi se possa o no esservi stato sul fondo
attuale della grotta un cunicolo discendente».
Sarà proprio questa frase a dare il via, già pochi anni dopo, a una reiterata
serie di tentativi di scavo e di «lavori di piccone», tesi a conseguire lo
sgombero e la rimozione del pietrame che ostruiva l'accesso alla porzione
più interna della grotta. Per riuscire a entrare, finalmente, in quella cavità.
Per potere accedere al mistero nascosto al di sotto della cima del monte.
Per verificare l'esistenza reale del sogno.
Ma non basteranno quel «paio di giorni» prefigurati dal Miliani. Scavi,
saggi, prospezioni e mappature si succederanno nel tempo per oltre un
secolo. Senza riuscire, però, a dare una risposta a quello straordinario
enigma.
72
11. «Il paesello perduto come un'isola in mezzo alla pianura»: Miliani e il
fascino senza tempo dei Monti Sibillini
Nell'Annuario della Sezione di Roma del Club Alpino Italiano (Vol. III,
1888-1891), Giovanni Battista Miliani, imprenditore poco più che
trentenne originario di Fabriano, nelle Marche, prosegue il proprio racconto
intitolato I Monti della Sibilla, presentando ai soci del CAI di tutta Italia la
bellezza e il fascino unico dei Monti Sibillini, all'epoca pressoché ignoti ai
più.
Dopo essere asceso al leggendario Monte della Sibilla e avere visitato la
magica grotta, Miliani ripercorre verso sud le creste che conducono al
Monte Vettore: come ben sanno oggi gli appassionati di quei luoghi, «la
detta cresta è lunghissima, ed occorrono almeno due ore ad un buon
alpinista per traversarla tutta. [...] Per chi soffre di vertigini è consigliabile
di tenersi sulla destra, ossia dalla parte del versante occidentale».
Giunto al Palazzo Borghese, una delle vette situate tra la Sibilla e il Vettore,
Miliani si imbatte in una serie di «lunghe fosse» scavate nel terreno, in
realtà le numerose doline carsiche, del tutto naturali, che costellano
quell'area d'alta quota. «Per quale ragione questi fossi furono scavati», ci
riferisce il Miliani, «io non saprei sicuramente ridire»; nondimeno ci
informa di avere «inteso raccontare parecchie leggende», tra le quali quella,
assai fantasiosa, «d'aver servito di trincee nelle lotte fra i comuni di
Montemonaco e di Norcia». Ed ecco la piccola e cruenta leggenda
raccontata dai montemonacesi all'imprenditore e alpinista:
«In una di queste lotte, che fu poi l'ultima, si narra che essendo oramai
dall'una e dall'altra parte stremati di forze, fu stabilito, di comune accordo,
che, cessato il combattimento, il confine sarebbe stato posto nel punto piu
avanzato verso il nemico in cui fosse caduto uno dei combattenti del
comune di Montemonaco. È da notare che quei di Norcia si trovavano in
alto e nelle trincee, dove aspettavano di essere attaccati. I soldati di
Montemonaco, dubitando di riuscire a porre il confine dove avrebbero
voluto, ricorsero all'astuzia; nottetempo ucciso un pastore e vestitolo degli
abiti guerreschi lo portarono fin presso all'accampamento nemico. II
mattino seguente diedero l'attacco prima di giorno, e, appena fu chiaro,
cessarono dal combattere. Cercato se e dove si trovasse un guerriero morto,
quei di Norcia con grande sorpresa ne rinvennero uno col petto squarciato
presso le loro trincee. Però non si discusse, e il confine fu posto, con pieno
accordo delle due parti, in quel punto. Tale racconto, s'intende, lo ebbi da
quelli del comune di Montemonaco».
73
Fig. 57 - Un gregge pascola in alta quota sotto la cima di Palazzo Borghese; numerose doline carsiche
sono visibili in basso nella foto
Nell'Annuario, Miliani riporta anche una piccola veduta del grande pilastro
di roccia di Sasso Borghese (a sinistra nell'immagine) con il Monte Vettore
sullo sfondo: e osservate come l'imprenditore di Fabriano vada a riprodurre
esattamente lo scorcio realmente esistente, così come esso si presenta
ancora oggi, come è possibile constatare confrontando il disegno con la
fotografia dello stesso panorama, scattata alcuni anni fa dall'autore del
presente articolo.
Oltre Palazzo Borghese e le sue doline, comincia la vera e propria ascesa
verso il Monte Vettore. E la vista che si gode sul Pian Grande, allora come
oggi, è veramente magnifica:
«A poco a poco si presenta allo sguardo tutto l'altipiano o bacino di
Castelluccio che indubbiamente per ampiezza ed altitudine è il più notevole
di tutto l'Appennino. Il paese da cui prende il nome sorge quasi nel mezzo,
su di una cima isolata ed elevata poco più di un centinaio di metri sul
livello del piano. La veduta di questa pianura così vasta, così verde, tutta
circondata da monti, con il paesello perduto come un'isola in mezzo ad
74
essa, è veramente incantevole, e colpisce chi si ferma ad osservarla per la
prima volta».
Fig. 58 - L'immagine del pilastro di roccia di Palazzo Borghese pubblicata da Giovanni Battista Miliani a
p. 248 dell'Annuario della Sezione di Roma del Club Alpino Italiano, Vol. III (1888-1891), 1892, posta a
confronto con una fotografia del medesimo panorama scattata dall'Autore del presente articolo
75
Fig. 59 - Il Pian Grande e Castelluccio di Norcia osservati dalla cima di Palazzo Borghese
Come tutti gli alpinisti che visiteranno questa montagna nel tempo, anche
Giovanni Battista Miliani seguirà il vertiginoso percorso arcuato che
conduce dalla cima del Vettore, oggi denominata Cima del Redentore e
posta nel versante occidentale, alla più elevata vetta indicata all'epoca come
“Petrara” o “Pretara” (la quale, ai nostri giorni, viene invece considerata
come vera e propria cima del Monte Vettore):
«Per recarsi alla vetta più elevata del gruppo che è quella detta Pretara,
occorre seguire la cresta facilmente praticabile. Fatti circa
duecentocinquanta metri cominciano a vedersi in fondo al burrone i due
laghetti di Pilato, dai quali ha origine il fiume Aso e sopra cui raramente la
neve scioglie del tutto. Lungo il giro della cresta sono sempre sotto lo
sguardo e pare che mandino un raggio di poesia da quel fondo d'antico
ghiacciaio desolato e deserto».
Per Miliani, ormai abbandonatosi all'intensa bellezza dei luoghi, è il
momento più emozionante e poetico dell'intera escursione. La sua mente
vaga, notando come quelle forme rocciose siano state forgiate da forze
antiche «che proseguono ancora, insensibilmente ai nostri sguardi
superficiali, ad alterarne le forme»; e, osservando con gli occhi della mente
il ciclo infinito dello stagionale rifiorire delle erbe spontanee, egli si
sofferma a considerare che «è bello pensare come gli avanzi di quei piccoli
animali che popolarono il fondo dei mari, che per milioni di anni rimasero
76
incastrati nelle loro tombe di roccia, disgregati e ridotti finalmente in
polvere dall'opera complessa dei fenomeni dell'atmosfera, vengano a
rivivere la effimera vita di una estate, d'un mese, d'un giorno nella corolla e
nei petali d'un pallido fiore».
Fig. 60 - Il brano relativo alle creste del Vettore e ai Laghi di Pilato nel testo di Giovanni Battista Miliani
(Annuario della Sezione di Roma del Club Alpino Italiano, Vol. III (1888-1891), 1892, p. 252
Questo è l'alpinismo, questo è l'amore per la montagna, ci dice Miliani
dalla vetta più elevata dei Monti Sibillini: «così dalla cima dei monti
l'occhio vaga nelle immensità dello spazio, la mente s'arretra nella notte dei
tempi forzando il pensiero ad una contemplazione che, quando sta per
trascendere i limiti della sua potenza, è vigorosamente richiamata
all'oggettiva ed artistica ammirazione di cose reali, che compenetrano
quanto v'ha di più bello, di più puro, di più sanamente ideale».
Solamente un sogno irreale ed evanescente? Mere romanticherie prive di
qualsivoglia aggancio con la realtà? È lo stesso Miliani a rifiutare con
decisione l'etichetta di ingenuo sognatore, rivendicando per se stesso e per
tutti gli appassionati di alpinismo il diritto e, quasi, il dovere di sognare:
«Io non divago; chi non prova tali sensazioni, o non sa elevarsi a tali
pensieri, non può amare i monti né salirli con piacere; sarà per lui una posa
il parlarne, ed il leggerne un fastidio a cui non saprà mai adattarsi nel
silenzio del suo studio».
È una struggente dichiarazione d'amore, quella del Miliani, per la montagna
e per la sua immensa bellezza, al cospetto della quale l'uomo non può che
restare affascinato e attonito, aprendo il proprio spirito alla contemplazione
dell'infinito.
Ma ora basta: è giunto per l'imprenditore il momento di ridiscendere i ripidi
pendii del Monte Vettore, abbandonando ogni sognante fantasticheria, per
giungere al ben più prosaico, seppur pittoresco, villaggio di Castelluccio:
77
«Castelluccio è uno dei più caratteristici paesi di montagna che io abbia
visto; le case basse e addossate le une sulle altre dànno su viuzze scoscese,
tortuose, sudice ed anguste oltre ogni dire. Siccome durante l'inverno la
neve quasi seppellisce queste case e riempie, fin sopra le porte, le strade,
gran numero di esse comunicano internamente con le vicine».
Fig. 61 - Dettaglio del borgo di Castelluccio tratto da una storica cartolina postale databile all'inizio del
1900
Sono le contadine di Castelluccio a narrare al Miliani le antiche leggende
che vivono nel piccolo borgo: «le donne specialmente prendono gusto a
raccontarle con garbo e filate, come non occorre troppo facilmente di
sentire da gente rozza e ignorante». E, in queste storie, «le idee
superstiziose vi si mantengono vive e forti come in pieno medio-evo»:
«Si parla di streghe e di maghi come di personaggi reali, e che si
immischiano della maggior parte dei fatti nostri. Tanto è ciò vero che guai
se arrivano a scoprirne qualcuno. Qualche anno fa un distinto botanico,
l'ebbe buona a salvarsi dalla furia di alcune donne che, vistolo erborizzare,
l'avevano preso per mago [un riferimento alla disavventura occorsa al
professore e botanico Vincenzo Ottaviani, raccontata dal Conte Girolamo
Orsi nel 1877 n.d.r.]. E nell'ottobre scorso quando io passai per questi
monti, a Bolognola volevano assolutamente farmi credere, che una
settimana avanti era passata per di lì una strega, veramente orribile.
Parlavano con tanta convinzione che sarebbe stato impossibile mettersi a
contrastare con loro. Dalla descrizione che ne facevano doveva trattarsi di
una povera vecchia che andava attorno per mendicare. Del resto, data
l'ignoranza in cui versano, e l'influenza che possono tuttavia esercitare su
animi semplici e rozzi le vecchie istorie della Sibilla e di Guerrin
Meschino, sono più scusabili che a prima vista non sembri». In ogni caso,
78
osserva il Miliani, «se gli abitanti di Castelluccio hanno l'animo ingombro
da superstizioni», queste di certo «non turbano i loro riposi né i loro pasti
frugali».
Alla fine degli anni 1880, a Castelluccio non era stata ancora aperta
l'accogliente locanda di Cleopatra Sala, gestita dal simpatico tuttofare e
«amico degli alpinisti» Giovanni delle Grotte, la quale inizierà a essere
menzionata, come vedremo, solamente nel 1897. È per questo che le
considerazioni vergate da Giovanni Battista Miliani in merito alla qualità
degli alloggi che i visitatori potevano riuscire a ottenere in quel di
Castelluccio sono simili a quelle, assai ironiche, già a noi riferite dal Conte
Girolamo Orsi nel 1876, a proposito degli strati paglia utilizzati come
giacigli e brulicanti di «colonie di dianzi invisibili abitatori»:
«Se vi fossero abitazioni possibili per noi, esigenti figli della civiltà
moderna, Castelluccio sarebbe una eccellente stazione climatica. Intanto
chi vi arriva, se è molto stanco, può trovare da mangiare e dormire
passabilmente. E dico se è molto stanco, poiché l'aria fine e l'acqua
purissima, refrattarie a tutti i microbi, pare che non lo siano altrettando per
altri organismi che non hanno bisogno del microscopio per essere
scoperti».
Eppure, come già Giuseppe Bellucci nel 1886, anche il Miliani non può che
notare come i Castellucciani godano, forse inaspettatamente, vista
l'asprezza dei luoghi e la durezza del clima, di un'ottima salute:
«Gli abitanti di Castelluccio [..] hanno in compenso il corpo libero da molti
malanni; la tisi v'è affatto sconosciuta, il tifo e altri morbi infettivi sono noti
appena di nome».
Si è concluso, dunque, il lungo momento di poetica emozione
esperimentato dal Miliani al cospetto delle tenebrose leggende della Sibilla
e alla viste delle creste precipiti del Monte Vettore. L'imprenditore di
Fabriano, il capace industriale delle famose cartiere, volge ormai la propria
attenzione al territorio e alle sue caratteristiche; alla ricchezza della
pastorizia, largamente praticata e in grado di generare ingenti ricchezze
(«da stirpi di pastori provengono le famiglie più agiate ed anche quelle
ricche addirittura»); alla piaga del disboscamento, dannoso e insensato, che
già egli aveva stigmatizzato nel suo precedente articolo, pubblicato nel
Bollettino del Club Alpino Italiano solamente pochi anni prima (1886).
Eppure, la sua scrittura continua a essere pervasa da un senso di vibrante
poesia e di nostalgia di un tempo che, in quella fine dell'Ottocento, andava
79
già scomparendo. E possiamo vedere tutto ciò nella bella descrizione
lasciataci dal Miliani a proposito della vita, arcaica e quasi senza tempo,
dei pastori dei Sibillini, legati alla transumanza e ai suoi ritmi secolari:
«I pastori, che guardano le gregge dell'agro romano, sono per la maggior
parte nativi di questi monti. Da ciò la caratteristica mite e tranquilla di tali
popolazioni. La vita dei pastori dei Sibillini è un anacronismo, che dà luogo
a riflettere; nati nel bel mezzo d'Italia, passando gran parte dell'anno vicino
a Roma, vivono con esigenze e costumi poco diversi da quelli che potevano
avere i guardiani dei greggi d'Abramo e di Giacobbe. Coperti di pellicce
che si preparano da loro stessi, filano e torcono la lana che serve pei loro
vestiti, e parecchi lavorano anche le maglie e le calze grossolane per la
stagione d'inverno. Quando sono in montagna dormono per lo più a ciel
sereno, ravvolti nelle loro pellicce; la sera, in un luogo che chiamano
'stazzo', si adunano attorno ad un gran fuoco riparato dal vento da una siepe
circolare, e lì fanno il formaggio e preparano 'l'acqua cotta'. L'acqua cotta è
la vivanda normale del pastore; come i tagliatori dei boschi mangiano per
lo più polenta e formaggio, così i pecorari si nutrono di questa specie di
minestra, che consiste in un piatto di pane, con un po' d'olio e d'erbe
aromatiche su cui versano acqua bollente e salata. Si può giurare che tutto
l'anno, tranne un po' di ricotta e pane asciutto, non mangerebbero mai altro
cibo, se per loro fortuna, in un modo o nell'altro non venisse a morir
qualche pecora, della di cui carne sono avidissimi. Allora è una festa, tutti
corrono a prenderne la loro parte, e beati quelli che arrivano primi».
E poi, il lato fantastico e sognante della vita del pastore:
«Quantunque tanto primitivi nelle loro abitudini, non è raro il caso
d'incontrare fra i pastori chi non sia affatto ignorante e sappia leggere e
scrivere correttamente. In questo caso ha letto sempre il Tasso e non di rado
l'Ariosto, e dell'uno e dell'altro recita a memoria lunghe filze d'ottave.
Alcuni fanno dei versi propri, non privi talvolta d'originalità e di grazia».
Termina così il lungo contributo, redatto da Giovanni Battista Miliani, che
narra dei Monti della Sibilla. Pagine e pagine che raccontano di monti,
vallate, leggende, panorami meravigliosi, usi e costumi di un popolo che
pareva vivere, ancora, in un tempo che per il resto del mondo era ormai
scomparso. Un luogo magico, e mitico. A pochi chilometri da Roma, la
capitale del nuovo Regno d'Italia.
80
Fig. 62 - Pastori e transumanza nella prima metà del ventesimo secolo
Forse non è possibile comprendere appieno, oggi, la potenza dirompente di
queste parole, di queste descrizioni, diffuse in tutta Italia e anche in altri
luoghi d'Europa dal sistema di circolazione delle informazioni posto in
essere dal Club Alpino Italiano, con le proprie Riviste Mensili, i propri
Bollettini, i propri Annuari.
Tutti poterono leggere le frasi sognanti scritte da Miliani mentre ascendeva,
immerso nella magica luce lunare, i fianchi del Monte della Sibilla. Tutti
poterono lasciarsi affascinare dalla sua appassionata descrizione del Monte
Vettore e delle sue arcuate scogliere, che precipitavano fino ai piccoli laghi
di Pilato. Tutti poterono desiderare di poter vedere, con i propri occhi e nel
corso di una vera escursione, il piccolo e solitario borgo di Castelluccio,
assiso sulla sua collina di fronte all'immenso, verdeggiante oceano d'erba
del Pian Grande.
81
Fig. 63 - Fascino e magia dei Monti Sibillini
I Monti Sibillini stavano cominciando nuovamente a parlare. Quelle
montagne stavano iniziando a riprendere, ancora una volta, il posto che loro
spettava; a interpretare, di nuovo dopo secoli, il ruolo di ricettacolo di
sconosciuta bellezza e di fucina di misteriose leggende.
I Monti Sibillini stavano tornando al centro della scena. E, di lì a pochi
anni, lo avrebbero fatto nel modo più illustre. Con l'arrivo, in quei luoghi,
di due famosi eruditi: due insigni professori, di fama internazionale, che
avrebbero definitivamente tratto quelle montagne da loro plurisecolare
oblio.
82
12. «La Sibylle s'est énveloppée de brume»: due illustri filologi sui Monti
Sibillini
Per i Monti Sibillini e le leggende che dimorano tra queste vette, l'anno
della svolta sarà il 1897.
A più di venti anni dalla prima escursione compiuta nel 1876 dal Conte
Girolamo Orsi e dai membri delle Sezioni umbre e marchigiane del Club
Alpino Italiano, è giunto il momento, per le montagne della Sibilla, di
ricevere una visita particolarmente qualificata. Una visita che finalmente
riaprirà, nell'era della contemporaneità, lo scrigno prezioso di quelle
leggende dimenticate, conferendo loro quel valore e quel prestigio che solo
l'interesse scientifico è in grado di attribuire.
Perché è in quel 1897 che giungono a Norcia due curiosi personaggi,
dall’aspetto fine e distinto: il primo è Bruno Paulin Gaston Paris,
professore di filologia tedesca e romanza, affermato studioso di letteratura
medievale, nonché membro illustre dell'Académie Française; il suo
accompagnatore, uomo cortese e ricercato, è Pio Rajna, valtellinese, esimio
studioso di filologia e letteratura romanza, professore presso le Università
di Milano e Firenze, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei e futuro
senatore del Regno d'Italia.
Ma cosa ci fanno questi due esimi professori, insieme, a Norcia?
Da molti anni Gaston Paris albergava nel proprio cuore il desiderio di
recarsi in Italia per visitare i magici luoghi descritti da Antoine de la Sale
nel suo quattrocentesco Le Paradis de la Reine Sibylle, un testo del quale il
filologo francese si occuperà nel proprio volume Légendes du Moyen Age,
poi pubblicato nel 1903:
«Mi ero ripromesso sin da allora di andare a visitare la grotta misteriosa
[...] e, chissà! di penetrare nel sotterraneo e arrivare così fino al 'paradiso'
[...] Ho potuto realizzare questo progetto nel giugno del 1897».
[Nel testo originale francese: «Je m'etais promis dès lors d'aller visiter la
grotte mysterieuse [...] et, qui sait? de pénétrer dans le souterrain et
d'arriver jusqu'au 'paradis' [...] J'ai réalisé ce project en juin 1897»].
83
Fig. 64 - Ritratti di Gaston Paris (a sinistra) e Pio Rajna (a destra)
Un filologo francese, già avanti negli anni, che sognava di vedere con i
propri occhi il Monte della Sibilla. Ma come realizzare quel sogno? Come
portarsi in Italia, fino a quelle remote montagne, ignote ai più e quasi
inaccessibili, ai confini appenninici tra le terre delle Marche e quelle
dell'Umbria, in una zona che gli stessi viaggiatori del Grand Tour non erano
soliti frequentare né punto né poco?
Gli aristocratici viaggiatori del Grand Tour non conoscevano i Monti
Sibillini. Ma i membri del Club Alpino Italiano, invece, sì.
Dopo venti anni di escursioni e due congressi, tenutisi a Perugia e ad
Ascoli, gli alpinisti dell'esclusivo club fondato da Quintino Sella
cominciavano a conoscere bene quelle montagne, in precedenza quasi
dimenticate. Ed erano dunque in grado di fornire tutte le indicazioni utili
alla realizzazione del peculiare desiderio sognato dall'anziano filologo
francese.
Quel sogno sarà realizzato da Pio Rajna, storico membro del Club Alpino
Italiano presso la Sezione di Milano, città nella quale egli era professore, e
in seguito presso la Sezione di Sondrio: il filologo italiano che il collega
Gaston Paris indicherà come «il mio eccellente amico» («mon excellent
ami»).
84
Fig. 65 - Il brano di Gaston Paris sul Monte Sibilla tratto dal suo volume Légendes du Moyen Age (Parigi,
1903), p. 96-97
Pio Rajna, valtellinese, aveva già partecipato, a soli ventisette anni, al VII
Congresso Nazionale del CAI, tenutosi a Torino nel 1874. Appassionato
escusionista, esploratore di vette e vallate delle sue Alpi, nei propri scritti
dedicati ai Monti Sibillini descriverà se stesso, con grande semplicità e
ritegno, come «discretamente pratico di montagne», avendo messo a
disposizione dell'amico filologo «il mio modesto alpinismo»: in realtà, le
montagne della Sibilla furono per lui una passeggiata, e salire sulla cima
del Vettore fu, per un grande camminatore come egli era, semplicemente
«un giuoco».
Il professore italiano, all'epoca cinquantenne, provvederà a organizzare il
viaggio in Italia del più anziano filologo francese e di sua moglie. Il
racconto incrociato di questo viaggio è contenuto nel volume pubblicato da
Gaston Paris, già in precedenza citato, e nel resoconto redatto nel 1912 da
Pio Rajna, dal titolo Nei paraggi della Sibilla di Norcia, incluso nel volume
Studii dedicati a Francesco Torraca nel XXXVI anniversario della sua
laurea. Il valtellinese, «nuovo affatto ai Sibillini», seguendo il consiglio di
eminenti nursini che abitavano in Roma, si lasciò convincere a tentare la
spedizione partendo dal lato di Norcia e Castelluccio, anziché da
85
Montemonaco come fece Antoine de la Sale: e questo «fu un grave
sbaglio», perché la ben maggiore difficoltà dell'ascensione al Monte Sibilla
dal lato umbro rese impossibile all'anziano compagno francese, come
vedremo, il raggiungimento del proprio obiettivo. A propria discolpa, Rajna
scriverà che «il versante adriatico mi era stato rappresentato come meno
agevole del mediterraneo», «invece è vero l'opposto».
Fig. 66 - Pio Rajna fu socio della Sezione di Milano del Club Alpino Italiano, così come riportato nel
Bollettino dell'anno 1875 (Vol. IX, n. 24), p. 398
E dunque, Gaston Paris, accompagnato dalla moglie, lascia Parigi in treno
il 13 giugno 1897. Giunge in Italia, a Firenze e poi a Perugia; da lì, i due
coniugi si recheranno, in vettura e poi ancora in treno, assieme al Rajna, ad
Assisi e Spoleto; poi, attraverso la Valnerina, i viaggiatori giungeranno a
Norcia, l'antica città natale di San Benedetto, che il filologo francese
ricorda «godere un tempo di una fama assai cattiva a causa della vicinanza
del lago negromantico [di Pilato], tanto che Norcino era divenuto sinonimo
di stregone» («Norcia était autrefois si diffamée par le voisinage du lac aux
sortilèges que Norcino était devenu synonyme de sorcier»). Da Norcia, a
86
dorso di mulo, i tre compagni raggiungono, in circa quattro ore, il Pian
Grande e Castelluccio.
Fig. 67 - Il racconto dell'escursione compiuta al Monte Sibilla narrato da Pio Rajna nell'articolo contenuto
nel volume Studii dedicati a Francesco Torraca nel XXXVI anniversario della sua laurea (Napoli, 1912),
p. 234
Per il professore francese, non si tratta però di un'escursione agevole: «il
freddo aumenta a misura che noi procediamo in altitudine, e le nuvole sono
così basse che non riusciamo nemmeno a scorgere, anche avvicinandoci ad
esse, le cime del Vettore e della Sibilla» («le froid augmente à mesure que
nous nous élevons, et les nuages sont si bas que nous n'apercevons pas,
méme près du but, les cimes du Vettore et de la Sibilla»).
L'incontro con il Pian Grande non ha certamente luogo nelle condizioni
migliori: essi vengono infatti accolti da un vento intenso e glaciale, e
benché «l'immensa prateria [...] ricoperta di uno spesso tappeto di velluto
verde» («C'est une immense prairie [...] couverte d'un épais tapis de velours
vert») si presenti come un paesaggio peculiare e straordinario, essi
giungono a Castelluccio, «completamente intirizziti» («tout transis»).
87
Fig. 68 - Una giornata fredda e nuvolosa sui Colli Alti e Bassi e sul sentiero che conduce a Forca Viola e
al Monte Sibilla, osservati da Castelluccio di Norcia
A Castelluccio, «un povero villaggio» («un pauvre village»), li attende però
la calda ospitalità, provvidenzialmente predisposta dal Rajna, offerta loro
nella «comoda casina di caccia dei ricchi proprietari sig.ri Calabresi», i
grandi possidenti del paese («le grand propriétaire du pays»). Qui Paris e
Rajna faranno conoscenza del «sig. Chovanni delle Chrotte», come ne
scrive il valtellinese: un personaggio più volte citato, come vedremo, da
successivi viaggiatori nella sua qualità di gestore dell'unico albergo
presente a quell'epoca a Castelluccio di Norcia.
Rifocillati e rinfrancati, i due filologi possono cominciare a organizzare
l'ascensione al Monte Sibilla, prevista per l'indomani. Purtroppo, però, i
piani ipotizzati dal Rajna risulteranno essere del tutto irrealizzabili. I
Castellucciani spiegheranno loro che da lì alla vetta della Sibilla ci
sarebbero volute almeno sette ore di faticoso cammino, e altrettante per il
ritorno: sarebbe stato necessario partire alle quattro del mattino per essere
certi di un ritorno in serata; quella notte, malgrado la stagione estiva, «il
termometro dovette discendere sotto lo zero», e già la giornata seguente si
preannunciava come gelida e nebbiosa.
Impensabile, per Gaston Paris, tentare una scalata in quelle condizioni, e
senza alcuna esperienza di montagna. «Soltanto per me», racconta Pio
Rajna, «la gita appariva eseguibile». E così il valtellinese, «alpiniste
88
aguerri» secondo la descrizione del filologo francese, convince una delle
recalcitranti guide castellucciane ad accompagnarlo, e, alle sei del mattino
del 23 giugno 1897, dà finalmente inizio a quella difficile escursione.
I toponimi, oggi come allora, sono sempre gli stessi: da Castelluccio, i due
uomini salgono «lungo i 'Colli Alti e Bassi', col Vettore invisibile sopra di
noi, al valico dell'Appennino curiosamente chiamato di Palazzo Borghese».
Ma lì la nebbia li avviluppa, li inghiotte: «eravamo [...] nelle condizioni di
una nave che procede senza bussola e senza visione di sole e di stelle. Si
camminava come a dire a tentoni». Con enorme difficoltà, perdendosi quasi
a ogni passo, Rajna e il suo accompagnatore percorrono il lungo crinale
che, in altitudine, conduce, in direzione nord e poi nord-est, fino alla vetta
del Monte Sibilla. Vi giungono a mezzogiorno e, finalmente, il filologo
valtellinese può osservare con i propri occhi la leggendaria grotta.
Fig. 69 - Il picco del Monte Sibilla osservato dal sentiero che proviene da Castelluccio di Norcia
Ma non vi era quasi nulla da vedere: né le scritte di cui riferisce Antoine de
la Sale nel manoscritto del Paradis de la Reine Sibylle, né i sedili intagliati
nella pietra descritti dall'autore quattrocentesco, né il varco, per quanto
angusto, che consentisse di penetrare nei recessi più interni della grotta.
Anzi, al Rajna, pare che «quest'ultimo fosse ostruito da un macigno che
giaceva sul suolo».
89
I due uomini si fermano sulla cima per non più di un'ora. Poi, comincia il
calvario del ritorno, tra le nuvole e la nebbia, che «prese addirittura a farsi
beffe di noi». La guida locale perde l'orientamento; lo stesso Rajna, esperto
alpinista, inizia a seguirlo a «malincuore, con quella spossatezza che un
forte dubbio di essere fuor di strada in regioni inospitali, aggiungendosi alla
fatica, produce pressoché inevitabilmente». Seguendo un ripidissimo
declivio, i due compagni rischiano di sbagliare percorso, dirigendosi
erroneamente verso la profonda valle del fiume Tenna. Poi, dopo varie
giravolte, riescono finalmente a scendere al Pian Perduto, alle spalle del
Pian Grande, e ad arrivare infine a Castelluccio.
Il giorno dopo, i due filologi, constatando come le condizioni
metorologiche non sarebbero certo migliorate a breve, lasceranno il piccolo
villaggio montano e, ridiscesi a Norcia, abbandoneranno la Valnerina.
Gaston Paris, che non poté nemmeno tentare quell'ascesa, e che mai più
tornerà a quei luoghi, venendo a mancare solamente sei anni più tardi,
scriverà in seguito queste parole: «peccato! [...] sono stato [...] 'respinto dal
vento'. La Sibilla, temendo senza dubbio una mia investigazione troppo
indiscreta, si è avviluppata tra le brume e si è difesa per mezzo di un gelido
alito» («hélas! [...] j'ai été [...] 'repoussé par le vent'. La Sibylle, craignant
sans doute une investigation indiscrète, s'est énveloppée de brume et s'est
défendue par un souffle glacé»).
Fig. 70 - Il mancato incontro di Gaston Paris con il Monte Sibilla descritto nel volume Légendes du
Moyen Age (Parigi, 1903), p. 97
Ma non sarà questo, invece, il destino di Pio Rajna. Il filologo italiano non
si lascerà certo scoraggiare da quelle montagne dell'Appennino, e non
demorderà affatto.
«Questa prima visita alla Sibilla era stata suscitatrice ben più che
appagatrice di desideri e di curiosità; troppo poco avevo visto, troppo poco
avevo potuto dire al Paris. Feci dunque il disegno di ritornarci presto con
maggior comodo dal versante adriatico».
90
E questo è esattamente ciò che l'intraprendente alpinista e socio CAI farà.
Meno di due mesi più tardi.
91
13. Un «alpiniste aguerri»: l'immersione di Pio Rajna tra i Monti Sibillini
Il 12 agosto 1897, Pio Rajna, definito dal collega filologo Gaston Paris un
«alpiniste aguerri», si trova a Montemonaco: e agguerrito ed esperto, quel
socio del Club Alpino Italiano, lo è veramente.
Sono passati meno di due mesi dalla sua prima, deludente escursione al
Monte Sibilla. Ma Pio Rajna non ha alcuna intenzione di demordere. Egli
organizza immediatamente una seconda spedizione, facendosi aiutare
dall'amico Flaminio Anau, ricco avvocato, giurista e imprenditore
anconetano, che ben conosceva i luoghi. E, di ogni passo compiuto, il
Rajna riferisce minutamente, per lettera, all'amico Gaston Paris, della cui
mancata visita alla Sibilla egli si sente responsabile.
Fig. 71 - Montemonaco agli inizi del ventesimo secolo, con il Monte Sibilla sullo sfondo
A Montemonaco, Pio Rajna e l'amico avvocato sono giunti partendo da
Arquata e passando per Trisungo, Pretara e i pendii orientali del Monte
Vettore. Lì, a Montemonaco, il Rajna può toccare con mano l'errore
compiuto nel corso della spedizione precedente: mentre da Castelluccio la
vetta del Monte Sibilla dista oltre sette ore di difficile cammino, dal piccolo
borgo marchigiano il percorso è molto più breve e quella cima può essere
raggiunta in sole tre ore e mezzo, con «il tratto da percorrere
inevitabilmente a piedi [che] si lascia ridurre a poca cosa».
92
È dunque possibile, rimanendo alcuni giorni in zona, ascendere alla
leggendaria grotta più e più volte, senza problemi. Ed è esattamente ciò che
Rajna, in effetti, si accingerà a fare.
Per cominciare, l'alpinista valtellinese decide di confrontarsi direttamente
con la leggenda quattrocentesca, stabilendo che «il partito migliore sia di
prendere i ragguagli di Antoine de la Sale e di venirli confrontando [...]
colle condizioni quali a me si presentano»: perché «Antonio è un relatore di
esattezza mirabile quanto alla sostanza ed ogni sua attestazione deve avere
fondamento nel vero», in quanto le sue indicazioni geografiche sembrano
essere del tutto conformi alla realtà dei luoghi.
Fig. 72 - Il crinale che da Monte Zampa (sullo sfondo) sale verso il picco della Sibilla
Ed è così, dunque, che il 13 agosto 1897, Pio Rajna si trova a salire da
Montemonaco verso la cima del Monte Zampa, percorrendo poi la lunga
cresta che conduce alla Sibilla e che, con le sue «rocce a picco», sovrasta
«quella parte della valle del Tenna [che] si chiama, con nome assai
espressivo, 'l'Infernaccio'». Quel crinale, ci racconta Rajna, «è nondimeno
così ampio e il pendio tanto dolce, che anche un alpinista modestissimo
cammina lassù senza ombra di paura. Ma al tempo di Antonio l'alpinismo
non era stato ancora inventato».
Ed ecco che il socio CAI si trova, di nuovo, di fronte all'ingresso della
grotta leggendaria. «Io e la guida», scrive, «togliemmo molte pietre
93
dattorno al macigno, contro il quale ben sapevamo che i nostri sforzi, senza
aiuto di martelli e scalpelli, non potevano servire a nulla; ma se si trovaron
dei vani, non si potè neppure per ombra aprire un passaggio. Il materiale da
sbarazzare dev'esser molto; e anche il suolo deve ritenersi tutto quanto
alzato di parecchio».
È chiaro come «ci troviamo a fronte di successivi otturamenti e
riaprimenti». Il Rajna menziona anche il Congresso CAI del 1889,
ricordando che «venne poi la Sezione di Ascoli del Club Alpino Italiano, e
fece sgombrare e regolare l'accesso ed eseguire altre opere; ma il suo mal
poteva essere un ristabilimento 'in pristinum'; e fu pur troppo in misura non
scarsa anche manomissione». Il valtellinese si chiede, inoltre, «se è genuino
un '1631' che tra altra roba misteriosa e in parte sospetta, ho rilevato sulla
roccia presso la lapide posta sopra l'ingresso per ricordare la visita degli
Alpinisti Ascolani».
Fig. 73 - L'iscrizione '1378' incisa nella roccia in prossimità dell'ingresso ostruito della Grotta della Sibilla
Nel corso di una succcessiva visita, egli rileverà la presenza di ulteriori
scritte: «e un AN... mi par leggersi realmente al principio; ma ciò che sta
presso fu mascherato, se non erro, nel murare la lapide che ricorda la visita
della Sezione d'Ascoli del Club Alpino. Bisognerebbe scrostare: e scrostare
con grande precauzione; né la cosa era oggi possibile». Scritte che,
notiamo, potrebbero essere le medesime osservabili ancora oggi, incise
sulla roccia situata accanto all'ingresso crollato della Grotta della Sibilla.
94
Ma chi può sapere quali e quanti scavi e manomissioni abbiano potuto
avere luogo nel tempo? Perché Pio Rajna riferisce anche che «vanno messi
in conto quelli dei cercatori di tesori, che anche solo pochi anni addietro
furon lassù a scavare, accompagnati da un prete munito di stola ed
asperges», nel timore, evidentemente, di una eventuale reazione da parte
dei mitici e demoniaci abitatori della leggendaria caverna.
Grotta della Sibilla, ma anche Lago di Pilato. Seguendo le esaustive
indicazioni di Antoine de la Sale, il 15 agosto 1897 Rajna sale «solo
soletto» al circo glaciale del Monte Vettore: la giornata è festiva, la sua
guida non lo accompagna, e l'avvocato Anau se ne è già andato da un paio
di giorni: «la solitudine, trattandosi di andare per luoghi ignoti e selvaggi,
mi metteva un pochino in pensiero»; ma l'esperto alpinista non intende
perdersi d'animo e, raggiungendo il piccolo villaggio di Foce, eccolo al
cospetto delle meravigliose ed elevatissime scogliere che caratterizzano la
montagna più elevata dei Monti sibillini:
«Degno istradamento al lago maledetto sono le lunghe strette che
precedono Foce, le quali, negli anni di neve abbondante, la separano per
mesi e mesi dal mondo abitato. E degno accesso sono poi 'le Svolte' [...],
che fanno superare dopo Foce un salto di centinaia di metri. E per ben
trecentosessanta metri s'inalza la parete assolutamente verticale, che
sovrasta al lago dalla parte di ponente, presentando l'aspetto della facciata
policuspidale d'una chiesa gigantesca».
In quegli anni, il Lago di Pilato si mostrava esattamente come è anche oggi:
«Il lago mi si è presentato diviso in due specchi elittici, uno dei quali si
protende appuntandosi, non nel mezzo, ma da un lato, verso l'altro. Il
paragone con un par d'occhiali, che avevo udito dalla mia guida del
Castelluccio, è realmente grafico».
Ma il Rajna ci fornisce anche un'indicazione assai preziosa, che ci segnala
come quella configurazione duplice, rilevabile anche attualmente, sia stata
soggetta nel tempo a significativi mutamenti, come è possibile
comprendere anche dalla descrizione fornitaci nel 1420 da Antoine de la
Sale, il quale osservò un singolo specchio d'acqua:
95
Fig. 74 - I Laghi di Pilato così come si presentano ai nostri giorni
«Con tutto ciò il lago non è più ora ciò che fu un tempo. Circa quarant'anni
addietro esso ruppe le dighe naturali della sua fronte, le quali non si sono
più riformate. Antoine de la Sale lo vide dunque notevolmente diverso
d'aspetto e più profondo».
Di questa interessantissima osservazione, parleremo in un articolo
specifico. Per ora, continuiamo a seguire l'alpinista valtellinese, che, dopo
avere visitato i laghi, sale «sulla cima più eccelsa del Vettore, ossia su
quella sovrastante a Pretara, che raggiunge l'altezza di 2479 metri», per poi
ridiscendere lungo le creste orientali del Monte Torrone, «un crinale
comodo in parte; ma che in parte, pur non essendo nulla di arduo, avrebbe
messo in corpo la tremerella ad Antonio».
Nei giorni successivi, Pio Rajna proseguirà con la sua tenace e determinata
esplorazione di quel magico angolo di mondo, del tutto ignoto ai più. Il 17
agosto scenderà nella Valle del Tenna, o dell'Infernaccio, così tortuosa e
pittoresca «che farebbe la fortuna di qualsiasi località della Svizzera, e
della quale invece nessuno mi aveva qui detto verbo. Non l'apprezzano i
nativi, non ci vanno i villeggianti». Il 18 agosto è di nuovo sul Monte della
Sibilla, stavolta accompagnato da un colorito personaggio locale di nome
Zeffirino, il quale «asserisce di essere penetrato per un dugento trecento
metri nella Grotta circa vent'anni fa in compagnia di un signore di Verona,
prete e professore, venuto al monte con un sig. Filoni di Fermo e due
studenti romani. Questi tre sarebbero rimasti fuori. Il prete-professore
avrebbe invece voluto inoltrarsi di più, se Zeffirino non si fosse lasciato
prendere dalla paura».
96
Fig. 75 - Le creste orientali del Monte Vettore digradanti verso il Monte Torrone
Ma i racconti si intrecciano, si susseguono. Ogni pastore locale vuole dire
la sua su quella magica grotta; e non è chiaro quanto vi sia di reale e quanto
di inventato per far piacere a quel gentile visitatore venuto dal nord Italia.
Pio Rajna, profondamente affascinato da quei luoghi, tornerà ancora una
volta a visitare i Monti Sibillini: si tratterà di «un nuovo soggiorno di
un'altra settimana a Montemonaco, che ebbe principio il 26 di agosto
dell'anno seguente e terminò il 1 settembre». Ma il segreto della Sibilla
continuerà a mantenersi elusivo e sfuggente, malgrado «i lavori di scavo
nell'interno della grotta, iniziati in questa mia ultima andata, collo scopo
principale di trovare l'entrata agli affermati recessi», essendosi egli
procurato le opportune licenze e avendo potuto «metter meglio a profitto
l'opera dei lavoratori - due uomini il primo giorno, gli stessi due uomini ed
una donna il secondo - che avevo condotto lassù. Ma a nulla si riuscì; e ben
si vide che l'impresa era maggiore assai che non avessi creduto».
97
Fig. 76 - Scavi presso la Grotta della Sibilla e progetti futuri del Rajna nell'articolo contenuto nel volume
Studii dedicati a Francesco Torraca nel XXXVI anniversario della sua laurea (Napoli, 1912), p. 251-252
E così l'appassionato alpinista rimanderà ogni ulteriore approfondimento a
«un problematico libro sulla Sibilla e la sua leggenda, a cui ho posto mano
da un pezzo, ma che richiede che io ritorni almeno una quarta volta sui
posti». Ma questo libro non vedrà mai la luce, anche se ne esistono le carte
preparatorie, conservate in parte presso la Biblioteca Marucelliana di
Firenze, e in parte nella Biblioteca Municipale di Sondrio.
Pio Rajna e il Monte della Sibilla: una passione assoluta, quasi
un'ossessione, per quel valtellinese innamorato dei Monti Sibillini. Come
scriverà Sonia Barillari in un proprio articolo dedicato al Rajna (2010), è
assai significativa «l'attenzione riservata da Pio Rajna per oltre trent'anni
all'antro sibillino, [...] l'ostinata pervicacia con cui continuò a chiedere al
soprintendente alle antichità delle Marche, G. Moretti, di procedere a scavi
più accurati nell'area adiacente alla grotta».
Un'ossessione, dunque, ma anche una storia di grande, profonda amicizia.
Perché di quelle affascinanti escursioni sibilline Pio Rajna scriverà tutto,
con appassionata e minuziosa dedizione, in una serie di lettere destinate
all'amico e collega francese Gaston Paris, il quale, pur essendo animato
anch'egli dallo stesso entusiasmo del valtellinese, non fu però in grado di
vivere di persona la medesima straordinaria avventura.
98
Ma Pio Rajna fu un amico vero e sincero. «Quanto mi fa piacere», scrive,
«che siate rimasto sodisfatto e che agli occhi della fantasia vi si
rappresentino abbastanza chiari i luoghi che non hanno potuto essere
contemplati dagli occhi del corpo!».
Ed è proprio grazie a questa amicizia che anche noi, oggi, leggendo quelle
lettere, possiamo ripercorrere, con la stessa emozione di allora, gli
avventurosi passi percorsi da Pio Rajna tra le creste della Sibilla e del
Vettore nell'anno 1897. Sognando, come gli uomini di quel tempo, gli stessi
sogni di fascinazione, bellezza e magia.
99
14. «Si accede alla vetta della Sibilla come ad un tempio»: la crescente
fama dei Monti Sibillini tra i soci del Club Alpino
Ormai, dopo due congressi del Club Alpino Italiano (Perugia 1879, Ascoli
1889), dopo le molteplici escursioni effettuate con occhio critico ed esperto
da un imprenditore come Giovanni Battista Miliani, dopo la riscoperta delle
locali leggende da parte del mondo accademico europeo con le illustri
visite dei rinomati filologi Gaston Paris e Pio Rajna, i Monti Sibillini sono
tornati nuovamente al centro della scena.
Quel grigio periodo di oblio, durato circa duecento anni, che aveva visto i
Sibillini sprofondare in una dimenticanza negligente e un poco sussiegosa,
nella loro condizione di montagne collocate in territori secondari e fuori
mano, ospitanti inoltre leggende popolaresche e contadine che parevano
scaturire dall'ignoranza delle genti semplici che dimoravano in quei luoghi
aspri e desolati, quell'opaco periodo era terminato.
Non solo i racconti quattrocenteschi di Guerrin Meschino e di Antoine de la
Sale iniziavano a essere nuovamente menzionati nelle pubblicazioni
scientifiche dell'epoca, come da me ricostruito in dettaglio nell'articolo
Monti Sibillini, la leggenda ctonia (2020): ma quelle stesse cime, quelle
vertiginose dorsali, il cui nome era dedicato alla Sibilla, cominciavano a
essere conosciute, frequentate e apprezzate, grazie alla reiterata opera di
divulgazione posta in essere dalle riviste e dai bollettini del Club Alpino
Italiano, la prestigiosa associazione alpinistica che, pur collocando al centro
della propria attività le titaniche Alpi, non disdegnava affatto di diffondere
notizie a proposito di escursioni ed esplorazioni che raccontassero
l'alpinismo effettuato presso altri massicci montuosi italiani, situati nel
centro e nel sud della penisola, con l'obiettivo di espandere la propria
presenza e di formare nuove Sezioni anche nelle regioni d'Italia più
meridionali e più lontane dai luoghi presso i quali Quintino Sella aveva
originariamente dato vita al Club.
Già nel 1895, due anni prima dell'arrivo di Gaston Paris e Pio Rajna a
Norcia, la Rivista Mensile del CAI (n. 10, volume XIV) aveva pubblicato il
racconto di una bella escursione effettuata da D. Scacchi, socio della
Sezione romana del Club, proprio tra i Monti Sibillini, considerati come
uno scenario naturalistico poco noto e ancora da scoprire:
«Questo gruppo è singolarmente trascurato dagli alpinisti italiani. I monti
Vettore e Sibilla, che ne formano le sommità principali, sono poco
conosciuti, mentre non meritano l'oblio in cui furono finora lasciati».
100
Ancora una volta, è il Club Alpino Italiano a condurre un'opera meritoria di
divulgazione e conoscenza, portando tra le mani dei soci la narrazione della
bellezza unica di quei luoghi:
«Castelluccio è uno dei paesi più belli ch'io abbia visto. Posto sul monte
come sopra una trottola capovolta, a 1500 metri sul mare, domina il Piano
di Castelluccio, che gira tutto attorno al monte figurando come una
scacchiera per i diversi quadrati in cui è divisa la ricca coltivazione».
Fig. 77 - L'articolo di D. Scacchi relativo a un'escursione sui Monti Sibillini (Rivista Mensile del Club
Alpino Italiano, Vol. XIV, n. 10, ottobre 1895, p. 379-380)
E non mancano gli elementi pittoreschi e caratteristici. Iniziamo infatti a
incontrare un personaggio locale, originario di Norcia, che avevamo già
avuto occasione di menzionare in relazione all'escursione compiuta da Pio
Rajna. E si tratta ancora del simpatico oste del piccolo borgo montano:
«È da raccomandarsi ai viaggiatori la 'locanda' di Sala Cleopatra tenuta da
Giovannino Delle Grotte di Norcia; essi vi troveranno un'eccellente cucina,
prezzi moderati, rara pulizia e dei padroni cordialissimi».
101
È chiaro come il crescente afflusso di turisti ed escursionisti abbia
contribuito a promuovere la creazione, nel piccolo villaggio descritto nel
1876 dal Conte Girolamo Orsi come un «povero accozzo di casolari», di
una struttura specificamente dedicata all'accoglienza dei visitatori, in
precedenza del tutto impensabile, ed effettivamente mai realizzata prima, in
quel poverissimo borgo pastorale e contadino sommerso dalla neve per più
di sei mesi ogni anno. Ora, invece, un buon numero di forestieri pare
frequentare Castelluccio, in maggioranza alpinisti ed escursionisti attirati
verso i Monti Sibillini dai favorevoli articoli pubblicati nelle riviste del
Club Alpino Italiano.
Fig. 78 - Una nuova locanda a Castelluccio di Norcia (Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. XIV,
n. 10, ottobre 1895, p. 379)
I Monti Sibillini cominciano dunque a essere pubblicizzati e conosciuti,
anche al di fuori dei territori delle Marche e dell'Umbria. In questa
escursione, ad esempio, il Sacchi viene raggiunto da «due soci della
Sezione di Bologna, i professori Zanetti e Sensini», e, tutti insieme,
accompagnati dalla guida locale Pietro Eleuteri, si recano fin sulla cima del
Monte Vettore. Poi, ridiscendendo lungo le creste occidentali, gli alpinisti
rivolgono i propri passi direttamente verso il Monte della Sibilla, passando
per «l'erta di Sasso Borghese». Camminando «in mezzo ad una nebbia
foltissima», e percorrendo «il crinale del gruppo propriamente detto della
Sibilla», salendo e scendendo «di cima in cima», essi raggiungono
finalmente la vetta della montagna più magica dei Monti Sibillini.
E la descrizione che ne viene proposta dallo Scacchi è degna della fama
leggendaria della sua mitica abitatrice:
«Si accede alla vetta della Sibilla come ad un tempio. Una scalinata
naturale di marmo rossiccio, che da lontano par che mandi fiamme e
ravvivi le leggende che avvolgono quella montagna, porta su alla maestosa
vetta. E maggior tempio per adorare la divinità io non credo sia dato
trovare più in basso. Lassù si ha una mistica visione dell'infinito».
È proprio grazie a questo genere di descrizioni, pubblicate sulle prestigiose
riviste del Club Alpino Italiano e lette da migliaia di appassionati sia in
102
Italia che in altri Paesi d'Europa, che i Monti Sibillini e la leggenda della
Sibilla ricominciano a percorrere i sentieri di una fama che pareva essersi
perduta tra le pieghe della Storia da almeno due secoli. Ed è ancora lo
Scacchi a dipingere ai lettori, con pochi efficaci tratti, l'immagine di quella
grotta così carica di antica magia:
«A 20 metri dalla sommità, nella parte orientale, trovasi la Caverna della
Sibilla. Vi si entra a malapena essendo sul limitare ingombra da grosse
pietre, che si dicono colà portate dagli abitanti dei paesi vicini per impedire
l'uscita dei maghi. Dei versi sibillini, indecifrabili, sono incisi sul frontone
della grotta e sopra la lapide della ex-Sezione di Ascoli del nostro Club, che
dice: 'Questa grotta, che la leggenda disse fatidica stanza della Sibilla
Appennina, fu oggi visitata ecc. ecc.'».
Fig. 79 - L'imponente corona che circonda la vetta del Monte Sibilla
Ed è su queste pagine che i lettori possono avvicinarsi nuovamente alle
vicende narrate nel Guerrin Meschino, il quasi dimenticato romanzo
quattrocentesco di Andrea da Barberino che, nei secoli precedenti, era stato
letto e apprezzato in tutta Europa:
«I buoni pecorari narrano al viaggiatore le varie leggende che si aggirano
attorno alla Caverna. E la leggenda narra pure che Guerrino detto il
Meschino mosse da lontani siti per visitare la Sibilla. Colla spada in una
mano e nell'altra la fiaccola, entrava in questa grotta per sapere dalla fata
Alcina chi mai egli fosse. Tre damigelle gli corsero incontro. Una gli tolse
la spada, l'altra la fiaccola, la terza lo prese per la mano e con loro se ne
andò : passarono una loggia tutta istoriata, dov'erano cinquanta damigelle,
l'una più bella dell'altra, ed in mezzo ad esse una matrona la più vaga che i
suoi occhi avessero mai veduto: questa era la incantatrice Alcina. Ei la
salutò e mentre parlavano, essa mostrò tanto oro, argento, perle, gioielli e
103
molte altre ricchezze. Il Meschino passò giardini, laghi, ville, castelli,
finché, giunto al palazzo della fata, fu condotto in una ricca camera e
quando fu nel letto la fata si coricò a lato. Il povero Meschino fu subito
preso da ardente amore, ma col segno della santa croce si liberava dalle
tentazioni della fata e saputo in fretta il suo destino uscì dalla grotta e fra le
oscure tenebre discese l'alpe».
Fig. 80 - Guerino detto il Meschino, a cura di Giuseppe Berta (Milano, 1841), tav. 32 collocata dopo p.
240
Questo racconto, narrato allo Scacchi dai «buoni pecorari» di Castelluccio,
veniva recitato a memoria, secondo un'antica tradizione, da quegli stessi
pastori, che usavano tramandarsi oralmente il testo del Meschino di padre
in figlio. Ed è bello notare come molti degli elementi riferiti in questo
brano dal nostro socio della Sezione romana del CAI, come ad esempio la
«loggia tutta istoriata», non solo siano presenti nelle versioni abbreviate
ottocentesche del romanzo, ma siano tratti esattamente dal testo
quattrocentesco, dove si parla in effetti di «uno grande zardino soto una
belissima logia tuta storiata», presso i quali Guerrino viene condotto
all'interno del palazzo della Sibilla, nascosto al di sotto della vetta della
104
montagna. Una lunga e ininterrotta tradizione culturale connette, dunque, le
edizioni più antiche del Guerrin Meschino con la narrazione orale recitata
dai pastori di Castelluccio di Norcia alla fine del diciannovesimo secolo.
Fig. 81 - Il brano relativo alla loggia istoriata tratto da una delle più antiche edizioni del romanzo Guerrin
Meschino di Andrea da Barberino (manoscritto MA297, Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo, f. 138r)
Dopo avere visitato la cima del Monte della Sibilla, i nostri escursionisti
ridiscendono a valle, passando «pel Passo di S. Lorenzo, toccando i ruderi
del romitorio, dove il Meschino, in viaggio per la Grotta, dicesi venisse
ammaestrato da tre romiti circa il modo e la maniera di liberarsi dagli
incantesimi della Sibilla», e «giungevamo a Castelluccio».
Ancora due anni, e nel 1897 giungeranno, in quella stessa Castelluccio, i
due famosi filologi che già conosciamo: e quella visita sancirà in modo
definitivo il grande rientro dei Monti Sibillini in uno scenario europeo e
internazionale, dopo due secoli di sostanziale oblìo.
È importante, però, rimarcare come alla fine del diciannovesimo secolo
Castelluccio di Norcia, descritto da Giovanni Battista Miliani nel 1886
come un borgo «brutto, lurido e antipatico così da non potersi ridire» e nel
1879 da Lucia Rossi Scotti come popolato da «cinquecento abitanti
d'indole neghittosa, torpida e supertiziosa», stava rapidamente mutando
immagine e carattere: pur rimanendo un piccolo villaggio di montagna,
stava ora cominciando ad aprirsi al mondo, anticipando i caratteristici tratti
connessi all'abilità commerciale dei suoi abitanti e alla capacità di
accoglienza turistica da essi posta in campo: tratti che, nel secolo
successivo e fino ai nostri giorni, segneranno il successo di quel magico
insediamento annidato alle falde del Monte Vettore, con decine di migliaia
di persone che, ogni anno, si recano a visitare il Pian Grande.
105
Fig. 82 - Castelluccio e il Pian Grande durante l'affascinante, coloratissima fioritura estiva
E l'inizio di tutto ciò può essere fatto risalire a un solo nome: quel Giovanni
Delle Grotte, più volte citato nelle cronache dell'epoca, che accoglieva con
il sorriso e con la qualità del servizio di alloggio e ristoro gli esigenti,
aristocratici escursionisti dell'epoca, spesso esimi professori o nobili
possidenti appartenenti alle più varie Sezioni del Club Alpino Italiano.
Ma vediamo come Castelluccio, già alla fine dell'800, provvedesse a
fornire il proprio benvenuto a quei raffinati visitatori. Creando una piccola
industria che avrebbe raggiunto, oltre un secolo più tardi, le vette
d'eccellenza che oggi conosciamo.
106
15. «Da poco tempo Castelluccio possiede un piccolo albergo»: la nuova
accoglienza turistica di fine '800
«Quanti visitarono i Sibillini, uno dei gruppi meno conosciuti e più
importanti dell'Italia Centrale, ricorderanno quel grande e bellissimo
altipiano del Castelluccio che si distende a 1400 m. sul livello del mare, ai
piedi di M. Vettore (2478 m.)».
Comincia così un articolo apparso nella Rivista Mensile del Club Alpino
Italiano (n. 11, volume XIV) nel novembre del 1895, a firma dell'architetto
e storico Carlo Ignazio Gavini, socio della Sezione romana del CAI. E il
titolo del brano risulta essere assai significativo, trattandosi di "Nuovi
Alberghi nell'Appennino Centrale".
Fig. 83 - L'articolo di Carlo Ignazio Gavini sulle nuove strutture ricettive aperte nell'Appennino Centrale,
tra le quali il nuovo albergo a Castelluccio di Norcia (Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. XIV,
n. 11, novembre 1895, p. 30-31)
Perché occuparsi dell'«altipiano del Castelluccio» quando ci si accinge a
descrivere le nuove strutture ricettive dedicate al crescente escursionismo
appenninico di fine '800? Perché andare a prendere in considerazione quel
piccolo borgo, perduto tra le vette degli Appennini e quasi del tutto ignoto
al mondo?
107
Fig. 84 - I soci del Club Alpino di Perugia in gita a Castelluccio, dipinto di Matteo Tassi (1889),
particolare dell'abitato di Castelluccio (Collezione Mario Bellucci, Perugia)
«Il paesello di Castelluccio», scrive infatti Gavini, «adagiato a ridosso del
monte, in fondo all'altipiano, e separato com'è dagli altri centri abitati, da
cui dista molte ore di cammino su strade mulattiere, esiste, si può dire,
solamente per gli alpinisti».
Ed è proprio questo il punto: Castelluccio inizia a godere di una propria,
significativa fama proprio nel mondo degli «alpinisti». Il fatto è che anche
quel minuscolo borgo, nascosto tra gli sconosciuti Monti Sibillini, sta
ormai acquistando una specifica notorietà tra gli appassionati soci del CAI,
i quali iniziano a recarsi, con frequenza crescente, tra quelle montagne in
cerca di scenari meravigliosi, affascinanti leggende e avventure in luoghi
che paiono collocarsi ai confini del mondo, pur trovandosi a due passi da
Roma:
«È la tappa comune di chi si reca a M. Vettore da Norcia e nell'inverno
accade spesso di rimanervi sequestrati per giorni e giorni, quando negli alti
valichi d'intorno infuria la bufera, e la neve ricopre di qualche metro le vie
di comunicazione. Ricordo io stesso di esservi giunto nel mese di marzo
con alcuni miei compagni, attraversando il Passo Ventosola (1700 m.
circa), quando da quindici giorni quei poveri esiliati non vedevano più
giungere neanche la posta e non osavano uscire dalle casuccie sepolte nella
neve».
108
Fig. 85 - Il Monte Vettore e il Pian Grande sommersi dalla neve nel periodo invernale
La descrizione di Gavini, preceduta, come abbiamo avuto modo di vedere,
da molti altri resoconti e testimonianze relative proprio ai Monti Sibillini,
hanno reso quelle cime, in passato completamente neglette, una meta
ambìta e ricercata; tanto da rendere possibile la nascita, a Castelluccio di
Norcia, di una struttura ricettiva dedicata, un fatto impensabile sino a pochi
anni prima (ricordiamo che in precedenza, a Castelluccio, era presente una
semplice «osteria» condotta dal medico e tuttofare locale «dottor Clavari»,
come aveva raccontato Giuseppe Bellucci nel 1886):
«Castelluccio ha progredito. Da poco tempo possiede un piccolo albergo
dove il viaggiatore potrà, d'ora innanzi, sostare tra l'una e l'altra delle
escursioni nel gruppo».
Sappiamo già chi, con grande maestria commerciale, ebbe l'ardire di
concepire l'idea un poco folle, ma certamente azzeccatissima, di aprire una
locanda in grado di rifocillare e alloggiare gli inizialmente rari escursionisti
in visita: ne abbiamo infatti già letto il nome in un altro articolo sui Sibillini
pubblicato da D. Scacchi nel precedente numero della Rivista Mensile del
CAI di quello stesso anno 1895; e si tratterà dello stesso nome che sarà
citato anche da Pio Rajna in relazione alla sua visita effettuata due anni più
tardi, nel 1897. Ed è ora Carlo Ignazio Gavini a fornirci, nel proprio
109
articolo, ulteriori dettagli, pronosticando quello che sarà il futuro di
successo di quella lodevole iniziativa:
«La locanda appartiene a Cleopatra Sala ed è tenuta da Giovanni delle
Grotte: ad essi principalmente è dovuta l'iniziativa e l'attuazione di un
sogno di molti anni. La mitezza dei prezzi e la bontà del trattamento non
tarderanno a chiamare nella estate buon numero di forestieri».
Fig. 86 - Il passaggio tratto dall'articolo di Carlo Ignazio Gavini che menziona il nuovo albergo attivato a
Castelluccio a fine 1800 (Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. XIV, n. 11, novembre 1895, p.
31)
E, in un ulteriore resoconto, pubblicato nella Rivista Mensile del CAI del
settembre 1901, Carlo Savio della Sezione di Roma non esita a pubblicare
le seguenti elogiative parole:
«Ci dirigiamo dal ben conosciuto Giovannino delle Grotte, che non esito a
chiamare il vero amico degli alpinisti, il quale si moltiplica per contentarci
in ogni nostro desiderio. Egli dispone per la cena e per la guida».
Castelluccio, il Pian Grande, la mole imponente del Monte Vettore, la
magià dei Laghi di Pilato e della Grotta della Sibilla. Tutto questo, già a
partire dalla fine del diciannovesimo secolo, costituirà lo spettacolare
scenario naturalistico nel quale si realizzerà, oltre un secolo più tardi, la
straordinaria esplosione turistica di questi stessi luoghi, che vedranno
l'afflusso di decine e decine di migliaia di persone, sia nel corso della
stagione estiva, che in occasione di eventi di particolare richiamo come la
coloratissima fioritura del grande altipiano.
110
Fig. 87 - Il riferimento a Giovanni delle Grotte contenuto in un articolo relativo a un'escursione tra i
Monti Sibillini firmato da Carlo Savio (Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. XX, n. 9, settembre
1901, p. 352)
Perché Carlo Ignazio Gavini aveva vergato, in quegli anni lontani, parole
profetiche: quei «forestieri», come per una magnetica magia, sarebbero
stati «attratti dalla bellezza di M. Vettore e della Sibilla», e sarebbero
rimasti all'ombra di quelle vette «per molti giorni a godersi quei boschi e
quegli altipiani, che sono una caratteristica dei monti Sibillini».
Questo prevedeva Gavini nel 1895. E questo è esattamente ciò che accade
ancora oggi, tra i meravigliosi Monti della Sibilla. Con Giovannino delle
Grotte, il mitico «amico degli alpinisti», ad aprire la strada più di
centoventi anni fa.
111
16. «Essendosi stabilito di erigere un osservatorio sul Monte Vettore
all'altezza di oltre 2000 metri»: una stazione meteorologica sulla vetta dei
Sibillini
Quarto San Lorenzo, Cima del Redentore, Pizzo del Diavolo, Cima del
Lago, Punta di Prato Pulito, Cima della Petrara (oggi Cima di Pretare):
sono gli evocativi nomi dei numerosi picchi che si susseguono, con
precipite continuità, lungo la cresta ad arco del Monte Vettore, percorsa
arditamente da occidente a oriente.
Tra queste cime, ve ne è una la cui denominazione colpisce subito la nostra
attenzione: il suo nome è Cima dell'Osservatorio. Ma perché si chiama
così?
Fig. 88 - Le denominazioni dei picchi che costituiscono la sommità arcuata del Monte Vettore
Compiamo una piccola digressione, tralasciando per un momento il nostro
racconto di escursioni e itinerari compiuti dagli appassionati alpinisti del
Club Alpino Italiano sui Monti Sibillini, e andiamo a raccontare la piccola
storia di questa cima. E dell'Osservatorio che sarebbe dovuto sorgere su di
essa.
112
Già negli anni 1860, in Italia si era andata costituendo una rete di stazioni
osservative meteorologiche, che facevano capo all'Osservatorio del Real
Collegio “Carlo Alberto” di Moncalieri, diretto dal padre barnabita
Francesco Denza, a valle di una prima, pionieristica esperienza organizzata
da padre Angelo Secchi all'interno dei confini dello Stato Pontificio.
L'intento, che si inseriva in un più vasto disegno internazionalmente
condiviso, era quello di poter disporre di dati territorialmente e
temporalmente distribuiti che fossero in grado di fornire un contributo alla
sicurezza della navigazione marittima e allo sviluppo della nuova scienza
meteorologica. Dal 1876, tutti i dati furono fatti confluire presso l'Istituto
Centrale di Meteorologia, che inizierà negli anni successivi a pubblicare un
bollettino meteorologico ufficiale.
Fig. 89 - Il primo bollettino meteorologico emesso dall'Istituto Centrale di Meteorologia in Roma,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia del 2 dicembre 1979 (n. 282, p. 5465-5466)
Lo stesso Club Alpino Italiano, sin dal momento stesso della propria
fondazione, aveva inteso proporsi non solo come associazione di alpinisti e
amanti della montagna, ma anche, nella visione programmatica espressa da
113
Quintino Sella in una famosa lettera indirizzata il 15 agosto 1863 a
Bartolomeo Gastaldi, come un sodalizio animato dall'«amore per lo studio
delle scienze naturali», che potesse contribuire «all'osservare quei fatti di
cui la scienza ancora difetti», utilizzando «strumenti tra di loro paragonati
con cui si possono fare sulle nostre cime osservazioni comparabili».
La montagna, dunque, vista come luogo di avanzamento della conoscenza
scientifica; e l'escursionismo considerato non come una mera serie di
dilettevoli ascensioni, per quanto impegnative, ma anche come momenti di
studio e di progresso per i vari settori delle scienze naturali, dalla
«botanica» alla «geologia» e alla «zoologia».
Fig. 90 - La lettera di Quintino Sella indirizzata a Bartolomeo Gastaldi il 15 agosto 1863, originariamente
pubblicata sul quotidiano L'Opinione in Torino nel settembre 1863 (testo tratto da Una salita al Monviso,
Torino, 1863, p. 60)
In tale stimolante contesto culturale, il primo osservatorio meteorologico
del Club Alpino Italiano fu istituito a Torino nel 1864, solamente un anno
dopo la nascita dell'associazione, presso il Castello del Valentino.
Successivamente, a fornire un contributo fondamentale alla crescita del
ruolo e del peso scientifico del Club Alpino sarà proprio lo stesso
Francesco Denza, direttore dell'Osservatorio di Moncalieri e socio della
114
Sezione CAI di Torino: dal 1871 in poi, il padre barnabita promuoverà
l'istituzione di osservatori gestiti dal CAI in Varallo, Domodossola,
Saluzzo, Susa, Stelvio, Varese, Lucca e molti altri ancora, in una lunga
progressione di siti che proseguirà negli anni sino a contare, nel 1880, ben
116 osservatori, diffusi in tutte le regioni d'Italia, incluse Sicilia e Sardegna.
Non vi è dunque da meravigliarsi se anche la Sezione del CAI di Perugia,
in quel 1886, non volesse essere da meno, e avesse deciso di tentare
anch'essa l'impresa, assai ardita, di stabilire un osservatorio in cima alla
montagna più elevata dei Monti Sibillini, così come riferito nella Rivista
Mensile dell'agosto di quell'anno (volume V, n. 8):
«Essendosi stabilito, in seguito a trattative fra l'Osservatorio di Perugia e
l'Ufficio Centrale di Meteorologia di erigere un osservatorio sul M. Vettore
all'altezza di oltre 2000 metri, la Sezione Perugina del C. A. I. ha ottenuto
che del locale del nuovo osservatorio faccia parte un ambiente destinato a
rifugio degli alpinisti che facessero ascensioni nel gruppo dei Monti
Sibillini di cui il Vettore fa parte».
Fig. 91 - L'annuncio relativo alla futura costruzione di un osservatorio sul Monte Vettore (Rivista Mensile
del Club Alpino Italiano, Vol. V, n. 8, agosto 1886, p. 265-266)
La lodevole iniziativa era promossa dal presidente della Sezione perugina,
quel Giuseppe Bellucci, professore e amico personale di Quintino Sella,
115
che nel 1879 era riuscito a portare il Congresso nazionale del Club Alpino
nella città umbra, e che era anche direttore dell'Osservatorio di Perugia.
Ma passare dalle parole ai fatti non sarebbe stato certo facile. Occorre
infatti considerare come, per porre in attività un osservatorio meteorologico
in quota sul Monte Vettore, sarebbe stato necessario risolvere problemi
alquanto spinosi, quali il trasporto in quota del materiale da costruzione
necessario e la realizzazione stessa del sito in alta montagna; senza contare,
inoltre, la questione assai critica relativa a chi si sarebbe assunto l'onere di
recarsi presso quelle zone così isolate e inospitali, in altitudine, su base
periodica e al limite addirittura una volta al giorno, in orari prefissati, per
acquisire le misurazioni strumentali, così come si era soliti fare presso gli
altri osservatori, in assenza, a quell'epoca, delle opportune tecnologie di
trasmissione a distanza e controllo da remoto; oppure, volendo tentare
l'utilizzo delle nuovissime apparecchiature per la comunicazione telefonica,
si sarebbe comunque posta la questione di mantenere una presenza umana
continuativa nel sito, che potesse ritrasmettere manualmente a valle le
misure acquisite dagli strumenti.
Ma come costruire quell'osservatorio? E dove, esattamente? È nella Rivista
Mensile del Club Alpino Italiano del febbraio 1888 (volume VII, n. 2) che
Giuseppe Bellucci pubblica un esteso articolo per raccontare il progetto del
nuovo Osservatorio-rifugio sui Monti Sibillini:
«Nel gruppo de' Monti Sibillini, posto nell'Italia Centrale, trovasi una vetta
stupenda, alta sul livello del mare dai 2200 ai 2450 metri, designata col
nome di Monte Vettore. [...] Dal lato di ponente la superficie del monte si
presenta con uniforme sebbene fortissima inclinazione, dal lato di levante
la cresta del Monte Vettore sta assolutamente a picco sopra un dirupo di
200 a 300 metri di altezza , concorrendo a formare col prossimo monte di
Petrara il bacino di una piccola cólta di acqua, detta comunemente 'Lago di
Pilato'. Il passaggio è quanto si può immaginare grandioso e pittoresco;
l'orizzonte estesissimo, limitato ad oriente e ad occidente dalla due striscie
azzurre dei mari Adriatico e Tirreno».
Bellucci ci descrive il luogo esatto dove sarà posizionata la struttura
dell'Osservatorio, in prossimità delle creste del Vettore, sulla cima che da
quel momento in poi sarà denominata con quello stesso nome:
116
Fig. 92 - L'articolo di Giuseppe Bellucci che illustra il futuro Osservatorio-rifugio sul Monte Vettore
(Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. VII, n. 2, febbraio 1888, p. 36-38)
«Nel versante occidentale, ad un'altezza di metri 2300 sul mare, esiste un
altopiano di una sufficiente estensione, su cui va ad erigersi un edificio a
scopo di studio , per osservazioni meteorologiche e sismiche, a scopo di
rifugio per gli alpinisti, che, entusiasmati dalle bellezze di quel luogo
alpestre, volessero rimanere qualche tempo su quelle alture, ovvero sorpresi
da un temporale furioso o da quelle tormente di vento, che i montanari
chiamano 'buffe', cercassero asilo in luogo sicuro».
Ma è chiaro che l'impresa non sarà affatto facile, vista l'estrema asprezza di
luoghi così isolati. Spiega infatti il Bellucci che «attualmente nessuna
abitazione o capanna esiste nel Monte Vettore e nei monti vicini. L'abitato
più vicino è il paesello montano e pittoresco del Castelluccio, distante dalla
cresta del Vettore 6 chilometri, con un dislivello in altitudine di metri
1100».
Quell'Osservatorio, che «dovrà esser compiuto nel 1889», sarebbe stato «il
terzo [...] che per cura dell'Ufficio Centrale di Metereologia residente in
Roma [...] va a stabilirsi sulle vette dei più alti Appennini», dopo quello sul
117
Monte Cimone, in Emilia-Romagna, e un altro all'epoca in costruzione sul
Monte Tiriolo, in Calabria; e avrebbe contribuito, assieme agli altri, «a far
meglio conoscere quale influenza esercitano nella formazione delle
meteore le masse di aria considerate ad una sensibile altezza, su quelle
esistenti nelle basse regioni presso al livello del mare». Il progetto di
costruzione sarebbe stato finanziato «a spese dell'Ufficio centrale di
meteorologia [...] per tre quarti della somma necessaria», con ulteriori
contributi già deliberati, come «quelli dell'Amministrazione provinciale
dell'Umbria (L. 1500), della Sede Centrale del C. A. I. (L. 400), della
Sezione di Perugia del C. A. I. (L. 150)».
Ma come si sarebbe presentato quell'Osservatorio? Ecco la descrizione che
ce ne fornisce il Bellucci:
«L'Osservatorio-rifugio del Monte Vettore [...] consisterà in un edificio
incassato in parte nella roccia e protetto dai venti di nord e di est dalla
cresta del Monte Vettore, che, nel punto ove l'edificio sarà incassato,
presenta una curvatura favorevolissima a codesta protezione. Per
raggiungere poi meglio lo scopo, oltre ad essere con la sua parte posteriore
incassato nella roccia, l'edificio si troverà 30 metri più in basso della cresta.
Una via sotterranea, coperta, metterà in comunicazione l'edificio suddetto
con una torretta, che sarà costrutta proprio sulla cresta del monte a 2350
metri di altezza, cento metri più bassa del culmine del monte».
La torretta avrebbe ospitato «gli apparecchi per lo studio della direzione,
della velocità e della forza del vento, collegati mercè trasmissioni
meccaniche od elettriche con gli apparecchi registratori, che saranno
custoditi nell'edificio sottostante». Inoltre, nella costruzione avrebbe
trovato posto «un ambiente destinato esclusivamente per gli alpinisti, due
camere per la dimora dell'osservatorio e custode ed altri ambienti ad uso di
magazzeno, di legnaia, di fienile, di stalla». Il piccolo insediamento in
quota sarebbe stato «collegato telefonicamente con il paese di Castelluccio,
ove risiederà il Direttore, e con la prossima città di Norcia, situata a 1700
metri circa di dislivello e ad una distanza stradale di 15 chilometri».
118
Fig. 93 - La descrizione del futuro Osservatorio-rifugio sul Monte Vettore presentata da Giuseppe
Bellucci (Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. VII, n. 2, febbraio 1888, p. 37)
All'epoca della pubblicazione di quell'articolo, i lavori di costruzione erano
già cominciati:
«Nel decorso anno 1887 furono iniziati i lavori sotto la direzione del sig.
ing. Lauro Laurenti di Norcia, autore del progetto dell'edificio, e si
cominciò dalla parte più necessaria e più urgente, costruendo una strada
mulattiera larga m. 1.50 e lunga 2300 metri, la quale, dipartendosi da Forca
Viola, giunge all'altopiano, ove s'innalzerà l'edificio. Prima di siffatta
costruzione non esisteva strada per accedere sul monte; a Forca Viola si
lasciavano di solito le cavalcature, poichè, per causa della fortissima
pendenza del versante montano, era impossibile condurle in alto. Ora la
strada compiuta permette comodamente l'accesso alle bestie e sarà
utilissima in quest'anno per il trasporto dei materiali sul luogo della
fabbrica. Si procedette pure nell'anno scorso allo scavo occorrente per
incassare l'edificio, costruendo inoltre due capanne provvisorie pel ricovero
degli operai».
«Nel prossimo mese di maggio», prosegue Giuseppe Bellucci, «si ha
speranza di riprendere i lavori, spingendoli poi innanzi con alacrità fino al
mese di settembre, epoca in cui le prime nevicate impediscono colassù di
potere attendere ulteriormente con vantaggio ai lavori di costruzione».
Un progetto, dunque, assai difficile e impegnativo. Intanto, la notizia
continua a circolare ulteriormente. Nel Bollettino del Club Alpino Italiano
del 1888 (volume XXII, n. 55) viene ricordato brevemente che «Perugia
deliberò di aprire un rifugio nell'osservatorio da costruirsi sulla cima del M.
Vettore». E in quello stesso anno, al XX Congresso Nazionale del Club
119
Alpino Italiano in Bologna, Arturo Galletti di Cadilhac, delegato della
sezione ascolana, si spende per convincere i congressisti a tenere
l'assemblea dell'anno successivo ad Ascoli, annunciando che «sulla cima
più alta [dei Monti Sibillini], il M. Vettore, si sta erigendo un osservatorio-
rifugio col concorso di una Sezione del Club, quella di Perugia». L'anno
successivo, sulla Rivista Mensile del CAI (n. 9, volume VIII), nel riferire a
proposito del Congresso Nazionale tenutosi in Ascoli, si riferisce
nuovamente che il «prof. Bellucci, presidente di quella Sezione del CAI
[Perugia] [è il] promotore di un Osservatorio-Rifugio che, per cura del
Regio Ufficio Centrale di Meteorologia e col concorso della detta nostra
Sezione, si sta costruendo poco sotto la cima più alta dei Sibillini».
Fig. 94 - La posizione della Cima dell'Osservatorio sulle creste sommitali del Monte Vettore, il Pian
Grande e Castelluccio di Norcia
Cosa succederà negli anni succcessivi? Sarà effettivamente costruito,
quell'ardito Osservatorio-rifugio, posto quasi al bordo precipite delle creste
del Monte Vettore, a 2300 metri di quota, tra venti fortissimi e terrificanti
tempeste? E chi avrà cuore - e coraggio - sufficiente per soggiornare in quel
luogo pauroso, solitario e inospitale in qualità di «custode», come prefigura
il Bellucci, per comunicare i dati meteorologici osservati tramite il cavo
telefonico che solca l'abisso giù, in basso, per oltre mille metri, lungo i
fianchi dello spaventoso Vettore, fino allo sperduto villaggio di
Castelluccio?
Per capire cosa stia accadendo, ci soccorre, come al solito, la precisione
dell'imprenditore fabrianese Giovanni Battista Miliani, il quale, nel
particolareggiato resoconto intitolato “I Monti della Sibilla”, pubblicato nel
1892 nell'Annuario della Sezione di Roma del Club Alpino Italiano (Vol.
III, 1888-1891), cosi ci riferisce:
120
«Giunti a Forca Viola (m. 1989), volendo far subito la salita del Vettore, si
trova dinnanzi una comoda strada di montagna tagliata a mezza costa, e che
sale con regolare pendenza fin sotto l'estrema vetta del monte. L'ufficio
centrale di meteorologia, insieme alla sezione umbra del Club Alpino,
tagliarono questa strada per facilitare il trasporto dei materiali per un
osservatorio meteorologico che si ha in animo di costruire sul Vettore, i
lavori però sono momentaneamente sospesi».
Fig. 95 - La testimonianza di Giovanni Battista Miliani concernente l'Osservatorio in costruzione sul
Monte Vettore (Annuario della Sezione di Roma del Club Alpino Italiano, Vol. III (1888-1891), 1892, p.
249-250)
Dunque, all'inizio degli anni '90 del diciannovesimo secolo, la costruzione
dell'erigendo osservatorio, a quattro anni dalla decisione di procedere alla
sua istituzione, stava tardando alquanto, essendosi sì predisposto il tracciato
del sentiero, ancora oggi esistente, che avrebbe permesso di trasportare
uomini e materiali fino alla quota delle creste del Monte Vettore; ma dei
lavori per la costruzione vera e propria dell'osservatorio e rifugio, però, non
vi era quasi traccia.
Dieci anni dopo, la testimonianza di Natale Lucca, socio della Sezione di
Monza, che pubblica nella Rivista Mensile del Club Alpino Italiano del
Maggio 1900 (volume XIX, n. 5) il resoconto di una propria articolata
escursione attraverso i Monti Sibillini, risulta essere particolarmente
impietosa:
«Partii per compiere la salita del Vettore. Giunto in ore 3 e 3/4 alla cima
detta dell'Osservatorio, mi meravigliai di non trovare della Capanna-
osservatorio, segnata nell'elenco dei Rifugi del CAI, che poco materiale ivi
radunato per la sua costruzione; [...] non esiste affatto una capanna-
osservatorio sul Monte Vettore».
121
Fig. 96 - La sella di Forca Viola (in basso nella foto) con la strada di montagna che ascende zigzagando le
pendici settentrionali del Monte Vettore, per poi proseguire in quota lungo il versante occidentale
Quell'osservatorio, così fortemente voluto dai soci della Sezione di Perugia
quattordici anni prima, in realtà non fu mai costruito. Troppe le difficoltà,
troppo ingenti i costi, e assolutamente inattuabile la velleitaria ipotesi di
spedire periodicamente o far soggiornare del personale specializzato a
quote così elevate e così esposte, lungo la linea di cresta, ai repentini,
pericolosissimi mutamenti del tempo meteorologico, lungo sentieri
percorribili in altitudine solamente a piedi o con una terrorizzata bestia da
soma.
Fig. 97 - Lo stato di avanzamento della costruzione dell'osservatorio secondo la testimonianza di Natale
Lucca (Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. XIX, n. 5, maggio 1900, p. 169)
122
E sarà Carlo Savio, della Sezione di Roma, in un articolo pubblicato nella
Rivista Mensile del C.A.I. nel 1901, ad apporre il sigillo conclusivo su tutta
quell'irrealizzabile impresa:
«Alle 3,55 siamo al valico di Forca Viola (1800 m. ) bersagliati da un
impetuoso e gelido vento: la salita si accentua e si fa più ripida, e alle 5
sostiamo sulla cresta che precede la cima del Vettore, chiamata
'Osservatorio' perchè ivi doveva sorgere una casetta-rifugio; infatti vi
furono portati sassi, calce e sabbia e financo si allestì il piano, ma poi fu
tutto abbandonato, non so per quale ragione».
Fig. 98 - L'osservatorio abbandonato nell'articolo di Carlo Savio (Rivista Mensile del Club Alpino
Italiano, Vol. XX, n. 9, settembre 1901, p. 352)
Abbandono, vento, precipizi. E silenzio.
Cosa rimane, oggi, di quell'osservatorio?
Rimangono, sulla vertiginosa linea di cresta occidentale del Monte Vettore,
le tracce mute di un'idea mai portata a compimento. Rimane il tracciato di
quella via, che parte da Forca Viola e, correndo al di sotto della dorsale
occidentale del Monte Vettore, risale poi fino a giungere in cresta, in
prossimità di quel sito ormai abbandonato. Rimane quel 'piano' allestito
dagli operai di fine '800: una sorta di doppia piattaforma livellata nella
roccia, destinata probabilmente a ospitare i due piccoli edifici da adibirsi a
rifugio e osservatorio. Rimangono, lì accanto, i resti del grande
sbancamento utilizzato per cavare le pietre necessarie a realizzare le due
piattaforme. Della torretta, nessuna traccia.
123
Fig. 99 - Cima dell'Osservatorio così come appare ai nostri giorni
E rimane il nome di quella cima: Cima dell'Osservatorio, a 2.350 metri di
altitudine, lungo il bordo arcuato del circo glaciale che segna, come una
gigantesca vallata conclusa, il Monte Vettore. Una denominazione
moderna, che ha poco più di cento anni. Ma della quale già nessuno ricorda
più l'origine, perduta in un passato tardo-ottocentesco che ai nostri occhi
pare allontanarsi, con rapidità sempre maggiore, verso le nebbie più antiche
e insondabili del tempo.
Fig. 100 - Cima dell'Osservatorio oggi, sorvolata con il deltaplano
124
«Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus», scriveva Umberto Eco,
citando Bernardo di Cluny, nel proprio straordinario romanzo. L'essenza
delle cose non più che nel nome resiste; fragili, i nomi soltanto a noi
restano.
Ed è stato questo, davvero, il destino, oggi del tutto dimenticato, della
Cima dell'Osservatorio.
125
17. «Sei tu, che viaggi colle carte, che devi sapere dove sono le
montagne!»: un socio della Sezione CAI di Monza alla scoperta dei Monti
Sibillini
E siamo così giunti all'anno 1900, al principio del ventesimo secolo. Ormai,
i Monti Sibillini sono entrati a pieno titolo nel patrimonio di itinerari e
destinazioni tra i quali i soci del Club Alpino Italiano avevano la possibilità
di scegliere nell'organizzare escursioni e ascensioni, anche partendo da
Sezioni aventi sedi assai distanti dall'Appennino umbro-marchigiano.
È questo il caso, ad esempio, di Natale Lucca, socio della Sezione di
Monza, il quale nell'agosto del 1900, così inizia a raccontarci la sua
avventurosa escursione nel centro dell'Italia: «Colla mia signora, presi le
mosse per una lunga peregrinazione alpestre nella catena dei Sibillini e
nell'Appennino Abruzzese».
Un racconto contenuto nella Rivista Mensile del Club Alpino Italiano del
Maggio 1900 (volume XIX, n. 5). Una peregrinazione particolarmente
esaustiva che, notiamo, fu compiuta nella quasi totale assenza di
indicazioni cartografiche dettagliate, in quanto, ricorda il Lucca, il
«pregevolissimo Dizionario Alpino Bignami-Sormani-Scolari [...] non fa
cenno, di tutto il gruppo dei Sibillini, che del solo Vettore», affermando
inoltre che «le notizie che potei avere furono da me attinte ad una
monografia che il sig. Giuseppe Orsi della Sezione Picena pubblicò sul
Monte Vettore nel N. 32 del Bollettino del C.A.I.», che apparve, come già
sappiamo, nel 1877.
L'itinerario compiuto dal Lucca in questo mondo ignoto è complesso e
affascinante: partendo da San Ginesio, egli si reca in luoghi all'epoca quasi
del tutto sconosciuti, salendo «al Colle detto delle Lame Rosse, a cagione
di un vasto e ripidissimo scoscendimento di detriti rossastri, che presenta
un passaggio malagevole nella buona stagione, e certo impraticabile al
tempo delle nevi»; successivamente, l'alpinista monzese raggiunge il
«Santuario di Macereto, in diocesi di Norcia, fastoso tempio del 1530,
dichiarato monumento nazionale, isolato, quasi perduto pur esso nella
solitudine di un vasto ondulato altipiano a m. 970 sul mare, giallastro allora
per le stoppie del frumento appesa reciso».
126
Fig. 101 - Il contributo di Natale Lucca che racconta la sua articolata escursione presso i Monti Sibillini
(Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. XIX, n. 5, maggio 1900, p. 168-172)
Quell'escursionista lombardo non può non trarre godimento dall'osservare i
tratti pittoreschi, e quasi arcaici, che caratterizzavano con forza
quell'angolo di mondo appartato, sospeso in un tempo che pareva
richiamare usi e costumi, come la transumanza, appartenenti a epoche
ormai trascorse, in uno storico legame con il territorio di Roma:
«Il sole ardente, il colore del terreno, le numerose vaccine dalle lunghe
corna guidate da mandriani a cavallo, i pecorai in sopra-calzoni di pelle di
capra ed altre piccole circostanze, mi richiamarono al vivo nella memoria
l'aspetto della Campagna Romana, da cui si potrebbe illudersi di trovarsi a
due passi. Tanto di essa come di Roma, che è il gran centro d'attrazione di
molta parte della Marca, dell'Umbria e dell'Abruzzo, si sente parlare lassù
dagli agricoltori, mandriani e pecorai che vi scendono col loro bestiame a
passare l'inverno».
E poi Visso, Ussita e il Monte Bove. Da qui, passando per «Castel
Sant'Angelo», egli giunge nel cuore più meraviglioso dei Monti Sibillini:
«allo splendido, vastissimo Piano di Castelluccio a m. 1350, in comune di
Norcia, circondario di Spoleto, il quale, indipendentemente dall'obbiettivo
di una salita al Vettore, merita per se stesso una visita dall'amatore di
paesaggi alpestri. Lungo 6 chilometri, largo 2, perfettamente livellato e
diviso in due parti (Pian Perduto e Piano Grande) da una serra rocciosa su
127
cui torreggia il diruto paesello di Castelluccio, esso forma uno dei punti più
belli, più singolari e interessanti di tutta la catena appenninica».
Ancora una volta, la bellezza di questi luoghi viene descritta con parole
affascinate da un escursionista che ben conosce la magnificenza
impareggiabile delle Alpi, ma che non riesce a sottrarsi alla magia di queste
regioni appenniniche, così peculiarmente caratterizzate e così ricche di
scenari introvabili in altri luoghi del nostro Paese.
Fig. 102 - Il Pian Grande e il Monte Vettore
Come abbiamo avuto modo di vedere in precedenti resoconti, il piccolo
villaggio di Castelluccio di Norcia, malgrado la sua pittoresca collocazione
su di un colle al di sopra del Pian Grande, ha sempre colpito i visitatori
ottocenteschi per la sua estrema povertà, una generale sporcizia, e la vita
assai grama condotta dai suoi abitanti, soprattutto nel corso dei lunghi e
ostili inverni, quando la neve seppelliva l'intero borgo. E, in questa vivida
descrizione vergata da Natale Lucca nell'anno 1900, ritroviamo esattamente
questa sorta di considerazioni:
«Mi trattenni a passare piacevolmente il resto del giorno a Castelluccio,
villaggio singolarissimo e sommamente interessante nella sua incredibile
bruttezza e sporcizia. Quivi, mi raccontavano, durante i crudi inverni (non
più verificatisi da qualche anno) le nevicate erano cosi abbondanti che la
128
gente del paese si muniva di provvigioni come per sostenere un lungo
assedio, e spesso le comunicazioni tra casa e casa non si praticavano che
per mezzo di gallerie scavate nella neve. Talora, quando la situazione era
minacciosa, si suonava una campana per chiamare al soccorso, ed allora
salivano carovane di volonterosi dai paesi vicini per liberare i bloccati. Mi
venne pur detto che un tempo, al principiare della cattiva stagione, gli
abitanti uscivano in massa dal villaggio, il quale veniva chiuso da tre porte
di cui rimangono tuttodì visibilissime vestigia, e recavansi a svernare col
loro bestiame a Roma o ne' suoi dintorni».
Fig. 103 - La descrizione di Castelluccio proposta da Natale Lucca (Rivista Mensile del Club Alpino
Italiano, Vol. XIX, n. 5, maggio 1900, p. 170)
Il Monte Vettore, con la sua incombente massa, è lì a due passi. E Natale
Lucca decide, naturalmente, di salire:
«Alle 8», prosegue il nostro vivace narratore, «accompagnato, non da una
guida, chè ivi non se ne trovano e bisognerebbe condurla da Visso, ma da
un giovanotto cacciatore, che mi assicurarono praticissimo di quei monti,
partii per compiere la salita del Vettore».
A quell'epoca, sussisteva ancora un peculiare equivoco causato dalla
particolare forma arcuta del Monte Vettore. Molti, infatti, soprattutto dal
lato nursino, si dichiaravano convinti che la Cima dell'Osservatorio o
quella del Redentore, con le quali culmina il versante occidentale di
quell'arco, costituissero la vetta vera e propria di quella montagna; ciò,
però, non corrisponde a verità, in quanto la vera cima del Monte Vettore è
collocata nel versante orientale di quell'arco gigantesco, non visibile da
Castelluccio, ed era all'epoca conosciuta con il nome di “Petrara” (da cui il
nome del sottostante villaggio di Pretare):
129
«Mi meravigliai vedendo sorgere al di là del Vettore, separato da esso per
un profondo avvallamento, una cinta più alta e ben altrimenti arcigna: la
Cima di Petrara o delle Petrare. Salii anche quella, impiegandovi 1 ora e 10
minuti; [...] la vera cima del Vettore non è quella dell'Osservatorio, come
afferma la gente del luogo, ma la rocciosa punta di Petrara, dominante il
villaggio di Petrara nell'alta valle del Tronto».
Fig. 104 - Le creste meridionali e occidentali del Monte Vettore osservate da Petrara
Ma è ormai giunto il momento di affrontare l'altra illustre gloria di quei
luoghi, il Monte della Sibilla. E non si tratta più di una facile ascesa da
completarsi in poche ore, una sorta di facile passeggiata per gambe allenate
alle ripide asperità delle Alpi.
Perché quando si parla di Sibilla, soprattutto se raggiunta dal versante di
Castelluccio, si parla di un'escursione estremamente impegnativa, anche
per Natale Lucca:
«L'indomani, 31 agosto, con una marcia di oltre 10 ore, e con un vento sì
impetuoso che obbligava spesso me e il mio compagno ad aggrapparci
fortemente alle rocce per non venire sollevati in aria, compii, un po'
coll'aiuto della carta corredata da qualche indicazione avuta ad uno 'stazzo'
di pecorai, un po' a lume di naso (chè la mia guida era perfettamente al buio
130
d'ogni cosa e mi aveva già detto: “Sei tu, che viaggi colle carte, che devi
sapere dove sono le montagne!”, compii, dissi, la salita più interessante del
gruppo, quella della Sibilla, la cui più alta cima trovasi all'estremità di un
lungo, ripido ed aspro contrafforte protendentesi da sud a nord tra le
sorgenti dell'Aso e quelle del Tenna».
Fig. 105 - Natale Lucca al Monte Sibilla (Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. XIX, n. 5,
maggio 1900, p. 170)
Il cammino, dunque, è lungo e difficile, anche per un esperto alpinista
come il Lucca, «pel vento furioso e l'incertezza della via». Ma, alla fine,
eccolo giungere sulla vetta della Sibilla:
«La coscienziosa esplorazione turistica venne completata dalla visita alla
famosa Grotta della Sibilla, a cinque minuti sotto la vetta, nel fianco sud-
ovest del monte, alla quale si collegano tante leggende di fate,
d'incantesimi, di tesori nascosti, e sopratutto le avventure del Guerrin
Meschino, incredibilmente vive e vere nella fantasia di quei pastori e
valligiani. Così una fonte prossima alla grotta serba ancora il nome del
“Meschino”. Vidi all'entrata dello speco, ove null'altro attrarrebbe
l'attenzione del visitatore, scalfitte certe antichissime lettere indecifrabili, al
disotto delle quali è murata la bella lapide ivi fatta collocare dalla Sezione
Picena del C.A.I. nel settembre dell'89».
E così ha termine il lungo e affascinante viaggio compiuto da Natale Lucca
nel «bellissimo quanto poco frequentato gruppo dei Sibillini».
131
Fig. 106 - Il picco del Monte Sibilla come appare provenendo da Castelluccio di Norcia
Ed è proprio da questo genere di resoconti che è possibile comprendere
come le narrazioni offerte dai soci C.A.I. nelle riviste periodiche del Club,
a partire dal racconto proposto dal Conte Girolamo Orsi nel 1877 fino ad
arrivare, all'inizio del nuovo secolo, all'efficace cronaca elaborata da Natale
Lucca, abbiano potuto contribuire a far conoscere i Monti Sibillini in Italia
e in Europa, nella sostanziale assenza di documentazione, anche
cartografica, che avrebbe invece condannato queste montagne a permanere
nel loro secolare oblio.
Ma il Club Alpino Italiano è anche questo. È storia e testimonianza, è
pittura e descrizione. Come vedremo anche nel prossimo affascinante
articolo, pubblicato dallo stesso C.A.I. solamente un anno dopo.
132
18. «L'intera e bizzarra catena dei Sibillini colla ripida Sibilla»: un socio
romano del CAI rapito dagli Appennini
Con l'inizio del nuovo secolo, le esplorazioni e le escursioni effettuate
presso i Monti Sibillini, il quasi sconosciuto massiccio montuoso nascosto
tra l'Umbria e le Marche, cominciano a susseguirsi.
Nel settembre 1901, la Rivista Mensile del Club Alpino Italiano (volume
XX, n. 9), riporta il racconto di Carlo Savio, della Sezione di Roma, e della
sua meravigliosa esperienza sulle «più alte vette dei Sibillini», descritta con
parole particolarmente appassionate:
Fig. 107 - Carlo Savio e la sua narrazione di un'escursione al Monte Vettore (Rivista Mensile del Club
Alpino Italiano, Vol. XX, n. 9, settembre 1901, p. 351-353)
«Alle 2 precise del 2 settembre ci mettiamo in marcia. La luna piena
supplisce alle lanterne; si esce ad est del paese, ed iniziamo l'ascensione
[...] Alle 3,55 siamo al valico di Forca Viola [...] bersagliati da un
impetuoso e gelido vento: la salita si accentua e si fa più ripida, e alle 5
sostiamo sulla cresta che precede la cima del Vettore, chiamata
“Osservatorio” [...] Per cresta, sempre flagellati dal vento, calchiamo alle
5,30 la cima del Vettore. [...] Non è possibile fermarsi. Ecco sorgere il sole
accompagnato dal continuo rombo del vento che sembra tuono.
133
Discendiamo qualche metro e poi per la lunga e difficile cresta, che da
ambo i lati scende ripidissima...».
È palese, in questo brano, il senso di epica impresa che, ormai, può essere
affrontata e compiuta non solo sulle vette più nobili ed elevate delle Alpi,
ma anche sull'Appennino, in precedenza reputato una sorta di brutta copia
del ben più illustre arco alpino; ma ora in grado, grazie alle descrizioni
prodotte a più riprese dai soci del C.A.I., di donare all'alpinista intense
emozioni, non inferiori rispetto a quelle che è possibile esperimentare sulle
più elevate cime dell'Italia settentrionale.
Fig. 108 - Le creste occidentali del Monte Vettore in direzione di Cima dell'Osservatorio
E le parole di Savio raggiungono, nei brani che seguono, ulteriori vertici di
estasiata emozione:
«Il panorama è assolutamente splendido [...] Davanti al Gran Sasso i monti
della Laga e il Pizzo di Sevo, l'intera e bizzarra catena dei Sibillini colla
ripida Sibilla, e poi innumerevoli paesi e villaggi sparsi per le ubertose valli
o appollaiati sui monti. Ai nostri piedi il grandioso Piano di Castelluccio, la
cui circonferenza raggiunge i 28 km.: mi pare un'immensa scacchiera per i
quadrati in cui si divide la ricca coltivazione; è perfettamente livellato e
tagliato in due parti (Piano Perduto e Piano Grande) dalla Serra rocciosa su
134
cui si adagia il paesello omonimo. Il fianco della vetta occidentale del
Vettore, qua e là chiazzato di neve, scende precipitoso sui laghetti di Pilato,
simile a gigantesca muraglia d'opera quadrata con arcuazioni murate. È
semplicemente grandioso!».
Fig. 109 - Il panorama dalla Cima di Pretara descritto da Carlo Savio (Rivista Mensile del Club Alpino
Italiano, Vol. XX, n. 9, settembre 1901, p. 352)
Inoltre, quel socio della Sezione di Roma non può omettere di segnalare
l'ottima accoglienza che, nel piccolo borgo di Castelluccio, viene riservata
agli escursionisti. E noi sappiamo già chi sia l'artefice delle tante premure
rese nei confronti di quegli esimi turisti:
«Ci dirigiamo dal ben conosciuto Giovannino delle Grotte, che non esito a
chiamare il vero amico degli alpinisti, il quale si moltiplica per contentarci
in ogni nostro desiderio. Egli dispone per la cena e per la guida che trova in
certo Vivenzio Eleuteri, e ci assedia di domande riguardo ai colleghi che
lassù ci precedettero, e di cui gelosamente tiene custodite lettere, cartoline e
biglietti di date anche remote: è un brav'uomo la cui premura e buon cuore
mi impressionano. [... Ripartiamo dopo avere] soddisfatte le giustificate
esigenze dello stomaco, grazie alle premure di Giovannino Delle Grotte,
che qui voglio di cuore ringraziare per la sua squisita gentilezza».
Sempre più famosi, sempre più apprezzati, i Monti Sibillini sembrano
dunque riuscire a sprigionare nuovamente la loro plurisecolare magia, con
nuove generazioni di esploratori che si recano, in questi primi anni del
135
1900, fin sulle vette del Monte Vettore e del Monte della Sibilla, sulle orme
di nobili cavalieri, come Guerrin Meschino, e di illustri gentiluomini e
cortigiani come Antoine de la Sale.
Ed è proprio su quelle orme che i discendenti di antiche nobiltà
muoveranno i propri passi per seguire, come avveniva sin dal quindicesimo
secolo, la leggenda di quelle montagne. Dopo la contessa Lucia Rossi
Scotti, che già aveva asceso il Monte Vettore nel 1879, sarebbe stata
un'altra illustre gentildonna, nel 1905, a visitare i luoghi del mito.
Si tratterà della contessa Grace di Campello della Spina. E, nel prossimo
capitolo, andremo a raccontarne la meravigliosa escursione.
136
19. «Castelluccio, che sta a guardia dei due colossi, il Vettore e la Sibilla»:
un'audace Contessa tra mongolfiere e precipizi
«Seguendo la bella strada carrozzabile che risale il corso del Corno giunsi a
Leonessa alle ore 5,30 del mattino. Mi era stato detto che ivi avrei trovata
la chiave del Rifugio Umberto I presso una guida autorizzata dal C.A.I., ma
con sgradita sorpresa non rinvenni nè guida nè chiave, la quale almeno
poteva essere depositata per ogni evenienza presso il Municipio, e così finii
per accettare la scorta di un mulattiere, che mi assicurò di essere ben
pratico dei sentieri che guidano alla vetta del Terminillo. Il mulattiere, che
vantavasi di conoscere benissimo i numerosi ed intricati sentieri, mi si
rivelò ben presto ignaro della via che dovevamo seguire. e fu solo per
l'aiuto di un pastore che potemmo giungere verso il tramonto sulla vetta [...]
Si fece alla meglio un po' di fuoco e ci beammo dello spettacolo della luna
piena, che illuminava il paesaggio sottostante. Verso le ore 22, quando l'aria
cominciava ad assiderarci le membra, giunse la guida Monalli ad aprirci il
rifugio. dove passammo il resto della notte...».
Fig. 110 - Le ascensioni nell'Appennino centrale compiute dalla Contessa Grace di Campello della Spina
e dal marito Solone nel 1905 (Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. XXV, n. 8, agosto 1906, p.
291-293)
Si potrebbe pensare che questo brano, pubblicato nel 1906, possa essere
stato scritto da un qualche valente e audace escursionista del Club Alpino
Italiano, rotto a ogni fatica e difficoltà, abituato a superare, con virile
137
decisione e signorile noncuranza, gli incomodi e le avversità che, nei primi
anni del 1900, caratterizzavano la pratica dell'alpinismo in aree dell'Italia
certamente poco sviluppate e male organizzate, come ad esempio il
territorio appenninico del Monte Terminillo, che si leva in prossimità di
Rieti.
Ma quel valente escursionista non è affatto un aristocratico socio del Club
Alpino Italiano: si tratta, invece, di una socia, e, come abbiamo potuto
notare, assai sbrigativa, decisa e determinata.
Si tratta, infatti, di un resoconto vergato dalla contessa Grace di Campello
della Spina, nata Filder.
Non stiamo parlando di un'escursionista qualunque. Stiamo parlando,
invece, di un personaggio straordinario, fuori dalle righe, o, come direbbero
gli anglosassoni, “larger than life”.
Vissuta a cavallo tra due secoli, l'inglese Grace Filder aveva sposato un
ricco e aristocratico possidente umbro, il Conte Solone di Campello della
Spina, discendente da un'antica famiglia che apparteneva alla più illustre
nobiltà di Spoleto.
Ma Grace non era certamente il tipo di figura femminile disponibile a farsi
inquadrare e costringere in un mero ruolo di rappresentanza, in qualità di
moglie e madre modello. Perché Grace Filder amava l'avventura. E si
trattava di avventura, per l'epoca, ai massimi livelli di ardimento:
«Sport degli dèi! Chi altro può volare al di sopra di un mondo
addormentato, attraverso lo spazio, e conoscere la gioia del movimento
senza moto, senza rumore, senza sforzo alcuno?».
[Nel testo originale inglese: «Sport for the gods! Who else flies over a
sleeping world, through space, and knows the joy of motion without
movement, without sound, without effort?»].
138
Fig. 111 - La trasvolata notturna in pallone aerostatico sugli Appennini raccontata da Grace Filder in The
Century Magazine (Vol. LXXIV, n. 1, maggio 1907), p. 3-9
È questo lo straordinario inizio di un articolo redatto dalla Contessa Grace
nel maggio 1907 per The Century Magazine, un illustre periodico
americano, nel quale l'ardimentosa nobildonna descrive l'emozione delle
sue audaci escursioni in pallone aerostatico. Tra le fondatrici della Società
Aeronautica Italiana, promossa nel 1903 in Roma da Sua Maestà la Regina
Margherita di Savoia, la Contessa aveva infatti effettuato uno straordinario
volo in notturna sugli Appennini, decollando da Roma sul pallone “Fides
1” e, sorvolando la Via Flaminia, il Monte Soratte, Terni e la Cascata delle
Marmore («il ruggito delle acque precipitanti e il rumore della grande
macchina che ascendeva nella quieta aria notturna formavano un effetto
terrificante»), giungendo infine a Spoleto e a Campello sul Clitunno, i
luoghi aviti della famiglia del marito, per poi lasciare l'Umbria nella zona
di Colfiorito attraversando «the central chain of the Apennines near Monte
Pennino, in the Marches», e atterrando, con vari sobbalzi e un ribaltone
finale, in un campo di granturco a San Severino Marche, come
documentato nelle fotografie da lei stessa scattate.
139
Fig. 112 - Grace Filder e il pallone aerostatico "Fides 1" ritratti dalla stessa Contessa in The Century
Magazine (Vol. LXXIV, n. 1, maggio 1907), p. 8-9
Una donna così poteva forse farsi spaventare da una scalata in montagna?
No di certo, nemmeno se quella montagna coincideva con alcune delle
cime più elevate delle Alpi: Grace Filder, «della Sezione di Roma» è citata
come «valente alpinista» nel Bollettino del Club Alpino Italiano del 1901
(volume XXXIV, n. 67), nel quale la si dipinge mentre è impegnata a
scalare le Crode di Formin a Cortina d'Ampezzo; e poi in ulteriori periodici
del CAI di quegli anni e dei successivi («valentissima alpinista»), fino alla
formidabile, pericolosissima scalata condotta il 5 settembre 1903 dalla
stessa Filder e da due guide locali fino alla vetta del Lyskamm Orientale
(m. 4527), una cima appartenente al gruppo del Monte Rosa, aprendo
addirittura una nuova via, ancora oggi intitolata al suo nome, e fornendo un
completo e appassionante rendiconto dell'ardimentosa impresa nella Rivista
Mensile CAI del dicembre 1903 (Vol XXII, n. 12), firmando lei stessa
l'articolo e corredandolo con le foto scattate con la sua avveniristica
macchina “Kodak”.
E dunque, quando Grace Filder, Contessa di Campello della Spina, decide
di visitare il Terminillo e i Monti Sibillini, non può che vivere
quell'avventura con una disinvoltura e una signorile efficienza che le
derivavano da una grande esperienza di montagna, di volo e di spigliata
dimestichezza con la nuova modernità, sia che si trattasse di stupefacenti
macchinari fotografici oppure di fluttuanti palloni aerostatici.
140
Fig. 113 - Grace Filder apre una nuova via sul Lyskamm Orientale (Rivista Mensile del Club Alpino
Italiano, Vol. XXII, n. 12, dicembre 1903, p. 469-476)
E, quindi, è nella Rivista Mensile del Club Alpino Italiano dell'agosto 1906
(volume XXV, n. 8) che appare il vivace resoconto delle ascensioni
compiute dalla Contessa l'anno precedente «nell'Appennino Centrale»,
assieme al nobile coniuge spoletino. Dopo il Terminillo, il 21 agosto 1905
Grace si reca a Norcia, e da lì sale a Castelluccio, giungendo «al Piano
Grande scendendovi dalla parte dove sono i così detti 'Mergoni' [sic,
anziché 'Mèrgani' n.d.r.], crepacci naturali nei quali s'inabissa per vie
sconosciute, nelle viscere della montagna, l'acqua del grande bacino del
Castelluccio».
Fig. 114 - Il Monte Vettore, il Pian Grande e, in primo piano, l'inghiottitoio carsico dei Mèrgani
141
La vista di questi luoghi così peculiari e magnifici non può non suscitare
l'emozione della Contessa, benché frequentatrice di straordinari scenari di
alta montagna come il Monte Rosa:
«Il Piano Grande, in fondo al quale sopra un colle sorge il Castelluccio, che
sta a guardia dei due colossi, il Vettore e la Sibilla, è un prato bellissimo,
specialmente nel mese di giugno, produce un fieno eccellente ed è qui che
vengono a passare l'estate la maggior parte delle greggi che durante
l'inverno si vedono nella campagna romana».
Fig. 115 - La descrizione del Pian Grande vergata dalla Contessa Grace di Campello della Spina (Rivista
Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. XXV, n. 8, agosto 1906, p. 292)
Giunti a un cascinale presso Forca di Presta, la coppia riesce «con qualche
difficoltà [...] ad ottenere un po' di ospitalità da un bùttero, che con
numerosa famiglia occupa le poche camere del casale», riferendosi forse al
“Casale Rendina”, le cui rovine sono ancora oggi visibili in quella zona.
Ma alle una del mattino, i due sono già in marcia lungo i ripidi pendii del
Monte Vettore, e in poche ore «ne raggiungemmo la vetta più alta, chiamata
'Le Pretara', sulla quale nel 1901 fu innalzata una colossale croce di ferro
che doveva vedersi da grande distanza, ma fu subito abbattuta dal vento ed
ora se ne possono vedere gli avanzi».
Da lassù, lo scenario che si presenta agli occhi dei due aristocratici
escursionisti è assolutamente magnifico:
«Ci si offri alla nostra vista uno spettacolo bellissimo: il sole sorgeva
sull'Adriatico, assumendo delle forme gradatamente varie per tinta e
142
grandezza, intanto incominciavamo a distinguere meglio il grandioso
panorama. Si possono vedere tutti i paesi e le città della Marca che si
estende da Ancona ad Ascoli, e si può benissimo seguire con l'occhio il
corso dei vari fiumi fino al mare».
Dalla cima del Vettore, è possibile dirigersi verso la Sibilla; prima, però,
occorre percorrere verso occidente le creste vertiginosamente strette che
costituiscono l'arcuato culmine del circo glaciale del Monte Vettore, con i
precipizi che scendono quasi verticalmente sino ai laghi negromantici
annidati proprio nel fondo:
«Facendo esercizi di equilibrio, potemmo, senza grande difficoltà,
camminare sulla cresta del Vettore, godendo allo stesso tempo la vista dei
due versanti: sulla nostra destra la roccia andava in gran parte giù a picco e
nel fondo si vedeva il piccolo lago così detto di Pilato, del quale le vecchie
carte narrano storie di spiriti e di diavoli da far rizzare i capelli».
Fig. 116 - Grace Filder e i Laghi di Pilato (Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, Vol. XXV, n. 8,
agosto 1906, p. 293)
Ed ecco che la Contessa Grace, percorrendo il sentiero che conduce a Forca
Viola e risale poi lungo la dorsale dell'Argentella e di Palazzo Borghese,
giunge infine al picco del Monte della Sibilla:
«Questa montagna, da pochi ascesa, non è meno interessante del Vettore;
[...] con molta difficoltà riuscimmo a trovare la famosa Grotta della Sibilla,
delle quali parla tanto il contado delle Marche e dell'Umbria (nel popolare
libro 'Guerrino il Meschino' si fa una particolareggiata descrizione molto
simile al vero di questi luoghi ed una meravigliosa descrizione della grotta
e dei suoi diabolici abitatori). Nell'interno della grotta si legge su di una
lastra di marmo questa iscrizione: 'Questa grotta, che la leggenda disse
fatidica stanza della Sibilla Appennina, fu oggi visitata dagli Alpinisti
Italiani reduci dalla cima del monte, dopo il XXI Congresso Nazionale in
Ascoli. La Sezione Picena pose a ricordo il 3 settembre
MDCCCLXXXVIIII'».
143
I due Conti di Campello della Spina ridiscendono infine verso Castelluccio,
passando accanto alle «rovine dell'antico romitorio del quale si fa menzione
nella storia del Guerrino, dove si crede fossero due eremiti i quali
sconsigliavano chiunque avesse voluto avventurarsi per l'infida grotta».
A Castelluccio, «rustico e primitivo villaggio», la coppia di escursionisti è
accolta dal «sig. Pietro Calabresi, che ci fu largo della sua nota ospitalità»,
così come anche riferito, alcuni anni prima dai due grandi filologi Gaston
Paris e Pio Rajna.
Fig. 117 - Il percorso compiuto nel 1905 da Grace Filder, fotografato all'alba: la cima più elevata del
Monte Vettore (a sinistra), le creste arcuate della montagna (al centro) e la dorsale che in altitudine
conduce al Monte Sbilla (a destra)
Fu questo, dunque, il viaggio nelle leggendarie terre della Sibilla compiuto
dall'inglese Grace Filder, ardito e avventuroso personaggio del quale oggi
si è quasi perduta la memoria, ma che in quegli anni aveva già potuto
legare il proprio nome a celebri impresi alpinistiche e di volo in
mongolfiera.
In seguito, dopo la morte del marito avvenuta nel 1916, la Contessa Grace
continuò a essere una delle protagoniste del bel mondo romano (come
ricorda Mrs. Roma Lister nel proprio volume “Reminiscences”, 1926),
144
ricevendo la più colta aristocrazia internazionale presso la propria raffinata
dimora al numero 20 di Piazza di Spagna, e intrattenendo gli ospiti con la
migliore musica della capitale.
Oggi, la Contessa Grace di Campello della Spina, nata Filder, riposa presso
il Cimitero Acattolico di Roma, assieme al marito Solone.
Fig. 118 - La tomba di Grace Filder e del Conte Solone di Campello nel Cimitero Acattolico di Roma
(zona III, 2104)
Ma il ricordo della loro escursione tra le leggende dei Monti Sibillini, sulle
tracce di nobili, cavalieri e gentiluomini d'altri tempi e di altri secoli,
rimane ancora vivo. E noi abbiamo voluto rievocarlo su queste pagine.
Fig. 119 - La firma di Grace Filder ("Grace di Campello") tratta da una lettera autografa datata 21 agosto
1912 conservata presso la New York Public Library (MssCol 504, catalog ID b11652262)
145
20. «Il piano del Castelluccio con la sua corona di monti, il Vettore colle
sue creste ed aguglie...»: un dipinto di fine '800 per ricordare quegli
escursionisti del Club Alpino Italiano
Siamo giunti così alla conclusione del nostro lungo viaggio tra scritti e
testimonianze che narrano di visite ed escursioni compiute presso i Monti
Sibillini nell'ultimo quarto del diciannovesimo secolo, descritte con vivida
passione nelle storiche riviste periodiche pubblicate, in quegli anni, dal
Club Alpino Italiano, che viveva a quell'epoca il periodo iniziale della sua
gloriosa storia.
Fig. 120 - Il simbolo del Club Alpino Italiano nelle pubblicazioni ottocentesche
Dall'ascesa al Monte Vettore del Conte Girolamo Orsi nel 1877, alla
successiva visita effettuata dagli entusiasti congressisti del CAI adunati in
Perugia nel 1879, ai quali si era unita la contessa Lucia Rossi Scotti; alle
misurazioni dell'altitudine dei picchi dei Sibillini effettuata dal Prof. Mici, e
poi le prime esplorazioni di un appassionatissimo Giovanni Battista Miliani
a Castelluccio, al Vettore e al Monte della Sibilla nel 1886; e ancora un
congresso nazionale del Club Alpino, ad Ascoli Piceno, nel 1889, con un
nutrito gruppo di soci che si reca a conquistare la Sibilla; e poi, negli anni
successivi, il ritorno di Miliani in quegli stessi luoghi; la visita di un socio
della Sezione di Roma, D. Scacchi, alla grotta sibillina nel 1895; l'arrivo,
nel 1897, dei due grandi filologi, Gaston Paris e Pio Rajna, in cerca di una
misteriosa leggenda, con il Rajna che si trattiene sul Monte della Sibilla per
146
strapparne i segreti a colpi di piccone; la vicenda mal riuscita
dell'Osservatorio-rifugio che sarebbe dovuto sorgere presso le creste
sommitali del Monte Vettore; ma anche la storia di successo della locanda
di Castelluccio e di quel Giovanni delle Grotte «amico degli alpinisti», con
la visita di Carlo Ignazio Gavini, nel 1895; e ancora, l'estesa esplorazione
dei Monti Sibillini compiuta da Natale Lucca, della Sezione di Monza, al
volgere del secolo; e poi, nel 1901, Carlo Savio; e infine, la conclusione più
curiosa e affascinante, con la visita della contessa Grace di Campello della
Spina, ardita alpinista e aeronauta di origine inglese, che nel 1905 ascende
con determinata decisione le due vette più importanti dei Monti Sibillini, il
Vettore e la Sibilla.
Fu questo il periodo d'oro della riscoperta dei Monti Sibillini e delle loro
leggende. Un periodo iniziato con la conferenza tenuta nel 1871, a Firenze,
da un diplomatico prussiano, Alfred von Reumont, il quale per primo aveva
inteso segnalare la presenza, tra queste montagne, di narrazioni leggendarie
dall'origine assai incerta. Ma questo non sarebbe certo bastato a risvegliare
l'attenzione del mondo su questa porzione dimenticata dell'Appennino
centrale. Perché, negli anni successivi, sarebbe stato il Club Alpino
Italiano, con i propri congressi nazionali tenutisi a Perugia e Ascoli,
rispettivamente nel 1879 e poi nel 1889, a far conoscere queste montagne
appenniniche, quasi completamente sconosciute sia alle genti d'Italia che
agli appassionati soci dell'associazione fondata, solamente pochi anni
prima, da Quintino Sella: un'associazione che comprendeva inizialmente
associati provenienti dal settentrione d'Italia e dalle Alpi, ma che, con
energia dirompente, seppe espandersi rapidamente verso il centro e il sud
della penisola, con la nascita, ad esempio, di sezioni a Napoli (1871) e
Catania (1875).
E sarebbe stato ancora il CAI, con i propri Bollettini, le proprie Riviste
Mensili e gli Annuari delle Sezioni regionali, a promuovere, con il volgere
del secolo, i Monti Sibillini tra gli aristocratici escursionisti che
costituivano il nucleo di un nuovo turismo dedicata alla montagna,
inizialmente elitario e, successivamente, dal grande seguito popolare.
Da quegli anni in poi, i Monti Sibillini, con le loro meravigliose ed
enigmatiche leggende, sarebbero tornati al centro dell'attenzione di
scienziati, eruditi e appassionati di ogni genere, come raccontiamo in
dettaglio nel nostro precedente articolo Monti Sibillini, la leggenda ctonia
(2020): partendo da Arturo Graf nel 1893 e dalle roventi dispute filologiche
sulla connessione tra il Monte Sibilla e la leggenda germanica di
Tannhäuser dei primi due decenni del '900 (Werner Söderhjelm, Gaston
Paris, Heinrich Dübi, Friedrich Klüge, Arthur F. J. Remy, Philip Stephan
147
Barto), dopo la Prima Guerra Mondiale arriveremo alla nascita del primo
gruppo organizzato deciso a penetrare fisicamente, dopo secoli, nella
Grotta della Sibilla, con la nascita a Montemonaco, nel 1920, del "Comitato
per gli scavi nella grotta del Monte Sibilla". E poi, l'inizio di una lunga
vicenda di esplorazioni, con gli scavi condotti da Domenico Falzetti e
Fernand Desonay, Giuseppe Moretti, Tullio Pascucci, Cesare Lippi-
Boncambi, Giovanni Annibaldi, il Centro Culturale “Elissa” con
l'Università di Camerino nel 2000, e poi nel 2018 gli ultimi carotaggi
compiuti ancora dalla medesima Università marchigiana.
Oggi, i Monti Sibillini sono meta di visite da parte di decine di migliaia di
turisti ogni anno, decisi ad affrontare le vertiginose creste che conducono di
vetta in vetta, o desiderosi di immergersi nei fantastici colori della fioritura
del Pian Grande a Castelluccio. E le leggende di queste montagne sono
oggetto di affascinata attenzione da parte di un numero sempre crescente di
appassionati, sia grazie alla realizzazione di docufiction professionali come
La Sibilla - Tra realtà e leggenda (2018), sia a seguito delle approfondite
ed esaustive ricerche condotte dall'autore del presente articolo con la serie
di studi Sibilla Appenninica - Il Mistero e la Leggenda (2017-2020), che
hanno posto in luce il probabile legame dei miti della Grotta della Sibilla e
del Lago di Pilato con la peculiare sismicità di questi territori.
Il Club Alpino Italiano, dunque, ha potuto e voluto svolgere un ruolo
importantissimo nei confronti di queste montagne: è proprio grazie alla
prestigiosa associazione fondata nel 1863 da Quintino Sella che i Monti
Sibillini hanno potuto riemergere, alla fine dell'800, dall'oblio oscuro nel
quale essi erano caduti, tornando a brillare di una luce sfavillante, tra tutte
le altre regioni appenniniche, grazie agli incomparabili scenari naturalistici
e alla ricchezza delle leggende che abitano questi luoghi.
E noi vogliamo concludere questo nostro viaggio all'interno del rapporto
che ha legato strettamente il CAI e i Monti Sibillini con le parole, e le
immagini, scritte e volute da un grande protagonista di questo nostro
racconto: quel Giuseppe Bellucci, professore, naturalista, chimico ed
etnologo, nonché fondatore e primo presidente della Sezione perugina del
Club Alpino Italiano, che riuscì a portare il XII Congresso Nazionale
proprio a Perugia, e che fu il principale promotore dell'Osservatorio-rifugio
sul Monte Vettore.
148
Fig. 121 - Il Pian Grande e il Monte Vettore ritratti all'alba
Come avevamo raccontato in un precedente paragrafo, Giuseppe Bellucci,
animato da un amore profondo per la bellezza meravigliosa dei Monti
Sibillini, nel 1886 aveva pubblicato un volumetto, dal titolo Al monte
Vettore, nel quale aveva scritto parole quali «era una serata stupenda; il
piano del Castelluccio con la sua corona di monti, il Vettore colle sue creste
ed aguglie, illuminate dalla luna presentavano scene bellissime; una
profonda quiete esisteva nella natura...».
Bellucci ricordava ancora molto bene sia l'appassionante, anticipatrice
ascensione al Vettore effettuata il 15 agosto 1876 assieme al Conte
Girolamo Orsi e ai soci delle Sezioni umbra e marchigiana; sia la
successiva escursione condotta, il 9 agosto 1886, con i soli soci perugini,
per visitare la cresta del Vettore che avrebbe dovuto ospitare il nuovo
Osservatorio-rifugio: eventi che avevano aperto la strada sia al Congresso
Nazionale di Perugia, tenutosi nel 1879, che a una rilevante serie di visite
ed escursioni effettuate dai membri del Club Alpino Italiano presso quei
meravigliosi Monti Sibillini, appena rivelati al mondo.
Egli aveva deciso, dunque, nel 1889, di commissionare un dipinto che
ricordasse e celebrasse quelle mirabili, e nel ricordo commoventi, ascese al
re dei Sibillini. E aveva affidato l'incarico al pittore umbro Matteo Tassi,
che non aveva probabilmente preso parte a quelle spedizioni, ma che ben
conosceva l'amico e collega pesarese Giuseppe Vaccaj, pittore anch'egli, il
quale aveva invece partecipato alla prima visita del 1876, nel corso della
quale egli «tradusse alla matita i punti i più pittoreschi e notevoli della
escursione», disegni che sono in parte riprodotti nell'articolo pubblicato nel
Bollettino CAI che racconta quell'impresa.
149
Matteo Tassi dipinge un quadro. Ed è un quadro bellissimo, oggi
conservato presso la Collezione Mario Bellucci in Perugia.
Fig. 122 - I soci del Club Alpino di Perugia in gita a Castelluccio, dipinto di Matteo Tassi (1889)
conservato presso la Collezione Mario Bellucci, Perugia
Il titolo del dipinto è Il monte Vettore visto da Castelluccio, ma è noto
anche con il titolo, maggiormente appropriato, I soci del Club Alpino di
Perugia in gita a Castelluccio. In esso, alcune piccole figure, gli
aristocratici escursionisti del CAI, si inerpicano a piedi e con i muli lungo
l'erta che conduce al piccolo borgo di Castelluccio, raffigurato come esso si
presentava nella seconda metà dell'Ottocento: le povere case addossate,
come a proteggersi reciprocamente dalla furia di quei formidabili inverni,
al campanile della piccola chiesa di S. Maria Assunta.
Sullo sfondo, il Pian Grande. E la massa titanica, possente, invincibile del
Monte Vettore.
Ed è con questo quadro che concludiamo il nostro racconto.
Questa è la storia della riscoperta dei Monti Sibillini. Questa è la storia,
trascorsa ma non perduta, che abbiamo voluto narrare. Per serbarne
150
memoria. E per potere vivere e apprezzare ancora di più queste magnifiche
montagne.
Come ebbero il piacere e l'emozione di fare quei primi fortunati,
appassionati, ormai dimenticati visitatori del Club Alpino Italiano.
Michele Sanvico
151