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La programmazione sociale: ovvia ma non per questo scontata

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Abstract

I processi di regionalizzazione dello Stato sociale caratterizzano, seppure in modi differenti, tutti i paesi europei, e hanno avuto un'accelerazione importante negli ultimi dieci anni.1 In Italia, uno dei vettori della regionalizzazione delle politiche sociali (assistenziali, socio-sanitarie e di supporto alle responsabilità familiari) è dato dal rilancio della programmazione sociale a livello locale: le Regioni hanno il mandato e la responsabilità di scrivere dei Piani regionali e di regolare e promuovere i Piani di zona, strumenti dell'integrazione e della territorializzazione delle politiche. Questo processo mette in gioco nuove dinamiche di rapporto fra livelli di governo, nonché differenti modalità di esercitare la potestà regionale in materia di politiche sociali (...).
La programmazione sociale:
ovvia ma non per questo scontata
di Tommaso Vitale
I processi di regionalizzazione dello Stato sociale caratterizzano,
seppure in modi differenti, tutti i paesi europei, e hanno avuto
un’accelerazione importante negli ultimi dieci anni.1In Italia,
uno dei vettori della regionalizzazione delle politiche sociali (assi-
stenziali, socio-sanitarie e di supporto alle responsabilità familia-
ri) è dato dal rilancio della programmazione sociale a livello loca-
le: le Regioni hanno il mandato e la responsabilità di scrivere dei
Piani regionali e di regolare e promuovere i Piani di zona, stru-
menti dell’integrazione e della territorializzazione delle politiche.
Questo processo mette in gioco nuove dinamiche di rapporto fra
livelli di governo, nonché differenti modalità di esercitare la pote-
stà regionale in materia di politiche sociali. Non tutto è nuovo,
tuttavia: già nel 1974 Pototschnig segnalava come le Regioni stes-
sero tentando di avviare una programmazione dei servizi sociali
aperta alla partecipazione dei privati e imperniata sul ruolo degli
enti locali e delle loro aggregazioni sovracomunali.2Questo è av-
venuto in assenza di standard minimi comuni e in presenza di forti
margini di discrezionalità, che hanno portato la programmazione
sociale a consolidare nel tempo veri e propri “sistemi locali di cit-
tadinanza”, in base ai quali «i cittadini fruiscono di pacchetti di
risorse, e di diritti, molto diversi tra loro non tanto a partire dalle
condizioni di bisogno, ma, appunto, dal luogo in cui il bisogno
sorge». 3
Per dare conto degli elementi di continuità e di discontinuità
della programmazione sociale, in questo capitolo cominceremo
ricostruendo il significato che il termine programmazione ha as-
sunto in Italia (1), il suo legame con la cultura del riformismo (2)
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e i molteplici fattori che hanno portato a criticare una concezio-
ne “centralista” della programmazione (3). In seguito, vedremo le
matrici della programmazione sociale prefigurata dalla L. n. 328/
2000 nei cantieri della nuova programmazione locale, sviluppati
in diversi settori delle politiche pubbliche degli anni Novanta (4).
La riforma del welfare locale, introdotta dalla L. n. 328/2000 e
dalla riforma del Titolo vdella Costituzione, richiede di precisa-
re la dimensione politica assunta dai Piani di zona e le principali
tensioni emerse fra valorizzazione delle risorse locali e uniformi-
dei diritti (5). Precisata la dinamica storico-politica che ha por-
tato alla configurazione attuale, potremo perciò comparare con
precisione le diverse modalità con cui le Regioni hanno legiferato
per regolare e coordinare la programmazione sociale, a livello re-
gionale e di ambito territoriale (6).
1. Cosa evoca il termine “programmazione” in Italia?
In Italia si è parlato per tanti anni di “programmazione” con rife-
rimento esclusivo alla politica economica. Fino alla fine degli an-
ni Ottanta, il termine “programmazione” evocava immediatamen-
te i tentativi di regolazione “democratica” dell’economia, dal pia-
no per la gestione dei primi aiuti americani per la ricostruzione,
redatto da Olivetti, Saraceno e Vanoni, al piano del lavoro di Di
Vittorio, fino agli schemi di Saraceno e, soprattutto, di Vanoni
nel 1953-1954. Sullo sfondo pulsava il dibattito, interno al partito
comunista, fra la tesi della programmazione come “socializzazio-
ne economica” (di Pesenti e di Scoccimarro) e la tesi di Togliatti
della programmazione innanzitutto come “socializzazione politi-
ca”, ovvero come partecipazione dei cittadini alla definizione di
determinati obiettivi.4
Dopo una fase di crescita ordinata, con un saggio di crescita
dei salari di molto inferiore al saggio di crescita della produttività
(e un relativo spostamento di ricchezza prodotta dai salari ai pro-
fitti), il dibattito sulla programmazione ripartì dalla Nota aggiun-
tiva di La Malfa (1962) e il dibattito sulle riforme di struttura di
La sussidiarietà frammentata
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Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti, e soprattutto dal piano
Pieraccini del 1967, che tentò di affrontare gli squilibri territoria-
li e le diseguaglianze sociali.5Tentativi, spesso restati lettera mor-
ta o che hanno portato a esiti non di ampia portata.
Il termine programmazione” in Italia evoca questa storia e que-
sti fallimenti. Evoca, quindi, cose molto differenti: storicamente
ha significato il semplice coordinamento della spesa pubblica, ma
anche la politica dei redditi, o la lotta alle posizioni di rendita per
favorire lo sviluppo, nonché la direzione pubblica dei processi di
accumulazione, ovvero i fondamenti di una economia mista, un
terreno di convergenza fra diverse forze politiche democratiche
(socialisti, azionisti, democristiani e anche comunisti), una certa
combinazione di «mercato, democrazia politica e governo consa-
pevole dei processi per la trasformazione della società nella dire-
zione della solidarietà e dell’eguaglianza». 6Come autorevolmen-
te afferma Piero Barucci, «la categoria di programmazione è un
crocicchio interessante, emotivamente importante, fra passioni,
illusioni, speranze, ambiguità». 7
Volendo trovare una definizione che, seppure nelle differenze,
accumuni le molteplici accezioni, possiamo dire che la program-
mazione veniva intesa come una politica strategica di riforma della
società che avesse la sua fase decisionale in un’arena rappresentati-
va democraticamente eletta ma si basasse sulla concertazione e il di-
battito fra le parti sociali.
2. Programmazione e riformismo
L’esperienza storica della programmazione è stata tutta interna al
riformismo. L’idea di poter cambiare la società attraverso grandi
riforme faceva da cornice alla pratica della programmazione così
come si è declinata, di volta in volta in maniera differente. Volen-
do azzardare un’interpretazione storica, si potrebbe forse affer-
mare che, ad esempio, il centrosinistra di Aldo Moro (4dicembre
1963) nacque all’insegna della programmazione dopo un lungo
percorso di “convergenze parallele” e di fecondi confronti politi-
La programmazione sociale
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ci.8Tuttavia, non fu sul terreno della programmazione che rea-
lizzò i suoi risultati principali, ma nel campo delle grandi riforme,
tra cui la statalizzazione del sistema elettrico, l’istituzione della
scuola media unica e l’introduzione dell’ordinamento regionale.9
Negli anni Settanta, la spinta riformista, sotto la pressione del ci-
clo di proteste operaie, si fece ancora più forte: venne realizzato
un sistema sanitario nazionale d’impronta marcatamente univer-
salistica, venne riformato il diritto di famiglia, introdotto lo sta-
tuto del lavoro, riformata la psichiatria. Ciò che maggiormente
interessa sottolineare è che, quantomeno fino alla fine degli anni
Settanta, le grandi energie collettive di denuncia, critica e passio-
ne politica si attivavano soprattutto intorno a dei disegni di rifor-
ma normativa.10 La grande riforma, l’idea di cambiare “per de-
creto”11 il quadro legislativo di riferimenti su una materia, era il
luogo del dibattito pubblico, era l’occasione d’innescare confron-
ti accesi sui fini della politica e sul tipo di società auspicata. Par-
liamo di una fase in cui erano i meccanismi della rappresentanza
politica e del governo ad assumere il peso prevalente nelle dina-
miche di acquisizione del consenso e nel processo decisionale.12
Prima di una riforma si litigava, manifestava, rifletteva, confligge-
va. Una volta trovato il compromesso nell’arena parlamentare e
definita la legge di riforma, il discorso pubblico tendeva rapida-
mente ad esaurirsi e l’attenzione dell’opinione pubblica a diriger-
si verso altri temi.
È uno stampo fortissimo della politica, ovunque in ogni regime
parlamentare, quello di essere particolarmente attenta alla fase di
dibattito che precede una legge; al contempo, vale la pena segna-
lare che nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta questo stampo
era particolarmente marcato. Anche la programmazione era in-
terna a questa logica, tanto è vero che lo stesso piano Pieraccini
assunse la forma di una legge, pensando che il disegno program-
matore fosse politicamente troppo debole e che trasformarlo in
legge ne avrebbe aumentato la forza.
L’attenzione esclusiva alla “grande riforma” nascondeva siste-
maticamente ogni aspetto legato all’implementazione della rifor-
ma stessa.13 Sembrava che, una volta fissati i principi e i disposi-
La sussidiarietà frammentata
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tivi normativi con una legge, questa avrebbe regolato in maniera
omogenea e prevedibile su tutto il territorio la materia in questio-
ne. Pareva che il conflitto fosse una dimensione propria solo al
momento precedente la legge, e che solo nella fase di dibattito
parlamentare si facessero sentire il peso degli interessi e la capa-
cità di pressione dei gruppi organizzati.
Fu proprio in reazione a questo atteggiamento del riformismo
che le scienze politiche e sociali iniziarono anche in Italia a richia-
mare l’attenzione all’ineludibile contraddittorietà e non linearità
dei processi d’implementazione di una legge, di qualsiasi legge.
Jeffrey L. Pressman e Aaron Wildavsky scrissero il loro Imple-
mentation nel 1973,14 ma il lemma “implementazione” non circo-
in Italia fino all’inizio degli anni Ottanta. Furono Carlo Dono-
lo e Franco Fichera (1981) a introdurlo, previa autorizzazione di
Norberto Bobbio. Ma al di di termini e concetti, a non essere
riconosciuta nel dibattito politico era proprio l’idea che l’attua-
zione di una legge fosse un processo sociale, e in quanto tale fos-
se sottoposto a rapporti di forza.
Gli studi sull’implementazione che si susseguirono nel corso de-
gli anni Ottanta mostrarono con grande rigore analitico ed estre-
ma dovizia di particolari che, in definitiva, l’implementazione di
una politica, e più in generale l’azione amministrativa, non sono
affatto lineari tantomeno prevedibili. L’azione pubblica è sem-
pre incerta, non sembra presentare particolari regolarità, e co-
munque è assai ambigua nei suoi esiti e conseguenze.
Tutto ciò non comporta rinunciare alla programmazione, anzi.
Ma la conoscenza scientifica dei processi implementativi ha spo-
stato per la programmazione l’attenzione dalla fissazione di un
disegno razionale di mezzi coerenti rispetto a dei fini raggiungi-
bili a un piano capace di prevedere elementi e dispositivi di veri-
fica, correzione e apprendimento nei processi.15
La programmazione sociale
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3. Come e perché si è passati a una programmazione locale
Certamente le diverse forme di programmazione sperimentate fi-
no agli anni Ottanta si muovevano dal centro per arrivare a det-
tagliare fino al livello delle agenzie periferiche. La programmazio-
ne formulava un “grande” disegno, la cui grandiosità non risiede-
va tanto negli obiettivi formulati quanto nella capillarità dei ter-
minali che voleva raggiungere e indirizzare.
Guardando alla regolazione istituzionale della pianificazione so-
ciale, gli anni Settanta sono caratterizzati da alcune importanti ri-
forme: in primis la Legge Finanziaria n. 281 del 16 maggio 1970,
che attribuì alle Regioni la facoltà di legiferare sulle materie pre-
viste dall’articolo 117 della Costituzione, i cui decreti delegati con
il Decreto del Presidente della Repubblica (d.p.r.) n. 9del15 gen-
naio 1972 trasferivano alle Regioni «tutte le funzioni esercitate
dagli organi centrali e periferici dello Stato in materia di benefi-
cenza pubblic (art.1., c.1). Successivamente, nel 1977, con l’ap-
provazione del d.p.r. 616 del 24 luglio, furono trasferite agli enti
locali le competenze in materia assistenziale. Larticolo 25, in par-
ticolare, attribuì ai Comuni le funzioni relative all’organizzazione
dei servizi di assistenza e beneficenza e alle Regioni la facoltà di
determinare attraverso apposite leggi gli ambiti territoriali “ade-
guati” alla gestione dei servizi sociali e sanitari.
Possiamo ben dire che fino al d.p.r. 616, dal punto di vista della
programmazione sociale, «ci si mosse in un’ottica di gestione ac-
centratrice e nell’assenza di piani e programmi».16 Al contempo,
non si può trascurare il fatto che spesso le Regioni abbiano «cre-
duto nella programmazione come reale predeterminazione del-
l’azione di governo, non solo come mezzo di ripartizione delle ri-
sorse finanziarie, in conformità con lo spirito dell’art.11 del d.p.r.
n. 616 del 1977».17 Negli anni Settanta, la programmazione «ha
ondeggiato fra il polo dell’integrazione perseguito attraverso un
modello gerarchico, più o meno rigido e centralizzato, e quello
del decentramento profondo dei processi decisionali».18 Nel com-
plesso, tuttavia, restarono forti anche nel corso degli anni Ottan-
ta alcuni tratti marcatamente “centralisti” della programmazione,
La sussidiarietà frammentata
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così come le difficoltà della politica di fare i conti con la non li-
nearità dei processi d’implementazione.19
Alcuni limiti del modello accentrato sono stati aggrediti con la
L. n. 142 /1990 di riforma degli enti locali, che riconosce autono-
mia, soprattutto gestionale, ai Comuni. La legge, inoltre, agli artt.
24,25,26 e27, riconosce la possibilità d’istituire convenzioni, con-
sorzi, unioni e accordi di programma per permettere associazioni
epartnership fra Comuni nella gestione di servizi e interventi. So-
prattutto, l’art. 3prevede per le Regioni la possibilità di discipli-
nare la cooperazione dei Comuni e delle Province in ambito so-
ciale: un’opportunità colta da alcune Regioni, soprattutto del cen-
tro Italia, che hanno iniziato a sperimentare forme di program-
mazione regionale che investivano sulla creazione di ambiti terri-
toriali di governo dei servizi.
Anche grazie alla L. 142/1990, il rapporto irriflesso fra pro-
grammazione e direzione centrale delle amministrazioni periferi-
che inizia a cambiare a partire dagli anni Novanta. Fra molti at-
tori del riformismo si sviluppa una forte (auto)critica della pro-
grammazione centrale e si comincia a ragionare sulla programma-
zione come capacità direttiva per lo sviluppo a livello locale.
Nel loro insieme, anche gli studi sull’implementazione hanno
contribuito ad attirare l’attenzione sull’importanza delle questio-
ni di scala, e soprattutto sulla necessità di localizzare la program-
mazione. Se l’implementazione di una riforma è un processo so-
ciale in cui a diversi livelli differenti attori confliggono e si appro-
priano della riforma, cercando di piegarla nella direzione da loro
auspicata, è solo a livello locale che si hanno le conoscenze e le
informazioni sull’insieme di problemi e risorse sociali, nonché
sulla struttura dinamica dei rapporti di forza fra gli attori perti-
nenti.
Ovviamente, non sono stati solo gli studi sull’implementazione
a spingere per il decentramento e la territorializzazione della pro-
grammazione. Già nella seconda metà degli anni Ottanta erano
all’opera almeno tre importanti ordini di fattori in grado di spie-
gare questo passaggio: l’attività regolativa dell’Unione Europea,
la ridefinizione dei rapporti di forza nel conflitto centro-periferia
La programmazione sociale
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e il rinnovato peso dei fattori spaziali e di prossimità nella dina-
mica competitiva globale. Consideriamoli separatamente.
Un primo insieme di fattori è senz’altro legato al ruolo regolati-
vo che l’ue ha esercitato con sempre maggiore efficacia sia via in-
centivi, sia attraverso il metodo aperto di coordinamento, sia at-
traverso una serie di vincoli, costrizioni e divieti. A fronte di una
pluralità di linee di crisi aperte dalla transizione demografica e
dal cambiamento del modo di produzione in direzione postfordi-
sta, l’ue ha investito massicciamente su due parole chiave: inte-
grazione eterritorializzazione, con l’obiettivo di spostare il più pos-
sibile la governance delle politiche pubbliche a livello locale.20
Un secondo ordine di fattori è riconducibile alla crisi politica
ed economica che l’Italia ha attraversato all’inizio degli anni No-
vanta e che è stata tale da ridurre sensibilmente la legittimità d’ini-
ziative con un’impronta solo centrale. Il conflitto centro-periferia
ha sempre attraversato la dinamica politica italiana, strutturando
in modo significativo conflitti e modalità di allocazione delle ri-
sorse pubbliche. 21 Su questa frattura (cleavage) si sono struttura-
te negli anni Settanta e Ottanta le spinte e le tensioni verso la re-
gionalizzazione, che hanno articolato la crisi di sovraccarico del-
lo Stato centrale e la domanda di partecipazione dei territori. La
caduta del blocco sovietico e la successiva crisi di legittimità dei
partiti politici (e in particolare di quelli del Pentapartito) hanno
cambiato i rapporti di forza nei conflitti tra centro e periferia in
Italia. A livello centrale, si è consolidato istituzionalmente un mo-
dello di concertazione con le parti sociali sul contenimento del-
l’inflazione e il risanamento della finanza pubblica, a cui fa da
complemento l’avvio di una programmazione decentrata, negozia-
ta eterritoriale voluta e sostenuta dal ministero del Tesoro guida-
to da Ciampi. Una programmazione “preceduta” e “accompagna-
ta” da molta concertazione.22
Una terza ragione è, infine, legata a processi economici più am-
pi, abitualmente raccolti sotto l’ombrello concettuale del termine
“globalizzazione”. Questo lemma non identifica certamente un
cambiamento nei processi d’internazionalizzazione degli scambi
economici e di dislocazione dei processi produttivi in una plurali-
La sussidiarietà frammentata
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di paesi, processi assai presenti per tutto il corso della moder-
nità e costitutivi della nascita del capitalismo. Ciò che il termine
“globalizzazione” indica, invece, è l’intensificarsi di dinamiche e
processi già presenti da secoli. Ebbene, in concomitanza dell’in-
tensificazione delle transazioni a livello planetario, aumenta la ri-
levanza dei fattori di prossimità. La globalizzazione produce com-
plementariamente una nuova centralità dei territori, dei sistemi
di produzione e innovazione concentrati su base spaziale. Questa
nuova centralità dei territori, e dei fattori che istituiscono e pre-
miano la competizione fra i territori, richiede più conoscenza lo-
cale, più spinte all’azione collettiva coordinata degli attori locali,
di tutti gli attori locali, per la produzione e il mantenimento di
beni collettivi locali per la competizione.23 Inoltre, richiede stru-
menti istituzionali che favoriscano l’azione collettiva e ne garanti-
scano i poteri. Più precisamente, la rinnovata centralità dei terri-
tori richiede forme di programmazione partecipata.
4. I cantieri degli anni Novanta
All’inizio degli anni Novanta sono all’opera in Italia diversi can-
tieri finalizzati ad accrescere le capacità programmatorie delle am-
ministrazioni locali. Obiettivi di coesione dei territori e di mobi-
litazione dei potenziali di sviluppo ivi presenti vengono di conse-
guenza attivati, anche se a macchia di leopardo, per lanciare una
stagione di programmazione strategica locale in tutti i campi del-
le politiche pubbliche.24
Il ministero del Tesoro guidato da Ciampi istituisce, sotto la di-
rezione di Fabrizio Barca, un dipartimento finalizzato a suppor-
tare e accrescere le competenze di progettazione, programmazio-
ne e valutazione delle Regioni, in particolare nell’interfaccia con
l’Unione Europea e i fondi strutturali, ma non solo.25 Un secon-
do cantiere rilevante è quello dei patti territoriali: l’idea di fondo
è quella di ridurre i trasferimenti alle imprese attraverso incentivi
individuali (discrezionali o semiautomatici), per favorire la costru-
zione di azione collettiva su base territoriale, istituendo dei dispo-
La programmazione sociale
57
sitivi di governance finalizzati alla produzione di beni collettivi
per il supporto delle imprese ancorate nel territorio e, ancor più,
per la competitività del territorio in quanto tale.26 Un terzo im-
portante cantiere è rappresentato dallo sviluppo di forme di pia-
nificazione strategica delle città. La pianificazione cessa di essere
inquadrata solo in termini di calcolo razionale delle conseguenze
attese, come nella famosa definizione di Friend e Jessop.27 A par-
tire da una sperimentazione compiuta a Torino, la programma-
zione urbana tende ad assumere un carattere negoziato, con pro-
cedure chiare e trasparenti su chi può partecipare, con quale po-
tere, e quali oneri.28 La pianificazione tende ad assumere anche
una connotazione strategica, nel senso di perseguire obiettivi di
lungo periodo, produrre incrementalmente obiettivi di breve pe-
riodo, definire la vocazione del territorio, tentare di coordinare
un insieme eterogeneo di attori, risorse, strumenti e politiche per
orientarli in una direzione comune.29 In altri termini, la pianifica-
zione strategica è un tentativo di aprire dinamiche pubbliche di
riflessione collettiva per mobilitare la società locale, ivi compresi
gli esecutori potenziali dei progetti che verranno programmati.
Nell’insieme, questi cantieri sono stati molto importanti, ben-
ché il loro impatto sia stato limitato dall’assenza di «un consenso
culturale e politico sul “senso” delle riforme realizzat, laddove
politici e giornalisti non hanno investito in processi ampi di giu-
stificazione dei nuovi strumenti introdotti e di confronto aperto
sugli stessi.30 Nonostante questo limite, hanno costituito dei ter-
reni di apprendimento nella direzione di una governance dei ter-
ritori che si è nutrita di confronti e scontri sulla realizzazione di
«soluzioni pragmatiche nel funzionamento dei mercati, nell’as-
sunzione di decisioni pubbliche, nella realizzazione di proget-
ti». 31 Inoltre, si è trattato di terreni di ridefinizione degli obiettivi
e delle finalità ultime della programmazione: in questa stagione,
gli obiettivi di redistribuzione e perequazione tradizionalmente
associati alla programmazione dello sviluppo economico vengo-
no estesi.
La dimensione locale dello sviluppo, posta al centro dalle nuo-
ve esperienze programmatorie, è proceduta di pari passo con la
La sussidiarietà frammentata
58
definizione di parametri non solo dimensionali della crescita ma
anche relazionali: il problema non è più solo quanto grandi sono
le imprese, i mercati e i fatturati, ma quanto sono connessi; non
se un soggetto è (troppo) piccolo, ma se è (troppo) solo. In que-
sto senso, divengono centrali gli aspetti legati al coordinamento
dell’agire di più soggetti, interni ed esterni al settore considera-
to.32 Inoltre, nuove preoccupazioni relative alla qualità sociale e
ambientale vengono incluse come finalità della programmazione,
qualificate non come obiettivi sociali ma in primis come fattori di
competitività dei territori.
In sintesi, il cambiamento di scala della programmazione ha
permesso l’emersione di alcuni nuovi principi: (1) la mobilitazio-
ne delle forze sociali e delle risorse locali intorno a un progetto;
(2) la definizione di criteri procedurali che favoriscano l’ascolto e
l’inclusione degli attori nella programmazione;33 (3) l’attenzione
alla dimensione processuale e, più precisamente, incrementale;
(4) l’opzione per incentivi collettivi che vincolino alla partecipa-
zione; (5) la necessità di produrre beni collettivi a disposizione di
tutti gli attori di un territorio;34 (6) le strategie d’integrazione
(fra materie, competenze, attori e settori) per riconoscere e valo-
rizzare al meglio i potenziali di un territorio; (7) l’importanza di
tenere sempre conto della dimensione temporale, e quindi la pos-
sibilità di sezionare il processo atteso in fasi distinguibili; (8) la
rilevanza dei processi di valutazione di ciascuna fase del piano,
innanzitutto come opportunità di apprendimento, ma anche co-
me strumenti di comunicazione pubblica e costruzione incre-
mentale di legittimità.35
Questi otto principi sono riconoscibili anche nella L. 28 agosto
1997, n. 285, “Disposizioni per la promozione di diritti e di op-
portunità per l’infanzia e l’adolescenza”. È una legge breve, sinte-
tica, di soli 13 articoli, che viene da subito accompagnata da un
“manuale” corposo, e prevede un’attività d’informazione, moni-
toraggio e confronto sulle pratiche, e di promozione e supporto
alla progettazione: è una legge pensata prevedendo la cura della
sua implementazione.
In seno alla loro programmazione, le Regioni devono definire
La programmazione sociale
59
ogni tre anni gli “ambiti territoriali” d’implementazione della leg-
ge: può trattarsi di grandi Comuni o Comuni associati (ai sensi
degli artt. 24,25 e26 della L. n. 142 /1990), ma anche di Comuni-
montane e Province. Gli enti locali ricompresi negli ambiti ter-
ritoriali devono costruire dei tavoli a cui partecipano i provvedi-
torati agli studi, le aziende sanitarie locali e i centri per la giusti-
zia minorile, nonché «le organizzazioni non lucrative di utilità so-
cial (art. 2, comma 3). I tavoli devono stendere un “piano”, o
più precisamente un piano triennale, che deve essere approvato
dalle Regioni. Per la prima volta in materia sociale, diviene per-
ciò vincolante avere una programmazione territoriale finalizzata
alla stesura di un piano triennale a cui devono partecipare attori
pubblici e privati.
La L. n. 285/1997 vuole aprire spazi di programmazione parte-
cipata e negoziata delle politiche minorili sui territori, per mobi-
litare tutti i potenziali attori, discutere non solo di come distribui-
re il denaro ma anche dei problemi e delle potenzialità del territo-
rio in relazione ai suoi cittadini più giovani, e favorendo nell’in-
sieme processi di confronto finalizzati a stendere un piano terri-
toriale. I meccanismi di finanziamento e i sistemi di premialità so-
no pensati in coerenza con questi obiettivi, per sostenerli e incen-
tivarli.
L’impatto della L. n. 285/1997 è molto forte. Prima del 1998,
ad esempio, nessuna Regione del sud Italia (salvo la Sardegna)
aveva conosciuto una stagione di programmazione sociale di li-
vello regionale.36 Essa nasce intenzionalmente per mettere alla
prova su modalità di programmazione negoziata gli attori territo-
riali delle politiche sociali ed educative, anche se limitatamente al
settore dei minori. È costruita come un primo passo verso una ri-
forma complessiva dei servizi sociali e sociosanitari, per cumula-
re esperienze sui territori e ricavarne apprendimenti per lavorare
al meglio nella direzione di una riforma nazionale.
La sussidiarietà frammentata
60
5. Una questione politica
La L. n. 328/2000 ha spinto alla riorganizzazione istituzionale dei
servizi e delle politiche sociali facendo leva su un principio di sus-
sidiarietà, inteso come criterio guida per responsabilizzare le Re-
gioni e i Comuni nella programmazione e nel coordinamento del-
le politiche sociali integrate a livello locale.37 Forte dell’esperien-
za sperimentata con successo con la L. n. 285/1997, e grazie an-
che alle riforme legislative concernenti il decentramento ammini-
strativo,38 il cardine di questo principio di responsabilizzazione è
costituito dall’aggregazione dei Comuni su ambiti territoriali in
media di 81 000 abitanti.39 In questa direzione, le Regioni hanno
la responsabilità di far che i Comuni si associno, impegnandosi
a promuovere questo processo. Nella loro aggregazione, i Comu-
ni dovrebbero trovare la scala sufficiente al governo dei processi
d’integrazione fra i servizi, innanzitutto dei servizi dei diversi Co-
muni di uno stesso territorio.
All’articolo 19 della L. n. 328/2000, il Piano di zona è definito
come «lo strumento fondamentale attraverso il quale i Comuni,
associati negli ambiti territoriali con il concorso di tutti i soggetti
attivi nella progettazione, possono disegnare il sistema integrato
di interventi e servizi sociali con riferimento agli obiettivi strategi-
ci, agli strumenti realizzativi e alle risorse da attivar. La sua for-
za performativa è data dal perseguire obiettivi d’integrazione (1)
creando condizioni istituzionali di coordinamento fra diversi at-
tori, (2) aprendo arene di negoziazione per la deliberazione e la
costruzione processuale del consenso e (3) investendo su luoghi
di “pilotaggio” e “regia”, che permettano azioni di sistema”, per
dare coerenza e continuità a interventi e servizi.40
Negli otto anni successivi alla promulgazione della legge sono
state realizzate diverse ricerche. Sappiamo, così, che l’implemen-
tazione di questa riforma si è realizzata in maniera disomogenea,
«multiforme e adattiva»,41 con esiti molto differenti in termini di
coinvolgimento e partecipazione e spesso attraverso piani di zona
che non sono andati oltre una gestione associata delle sole risorse
provenienti dal Fondo nazionale per le politiche sociali con risor-
La programmazione sociale
61
se trasferite dallo Stato alle Regioni e da queste a loro volta ripar-
tite ai Comuni associati, e non programmando l’insieme di risor-
se destinate dai Comuni dell’ambito ai servizi e agli interventi so-
ciali.42
Le Regioni che hanno innovato e sviluppato una più ampia co-
pertura negli interventi di welfare (in particolare per la prima in-
fanzia e per gli anziani non autosufficienti) sono le stesse che lo
hanno fatto fino alla metà degli anni Novanta, con «una forte di-
pendenza dal sentiero amministrativo-istituzional, a prescinde-
re da altre considerazioni «sul colore politico, sul livello di cultu-
ra civica, sulla stabilità delle giunte o su altre variabili».43
Il nodo della qualità della programmazione a livello locale, se
certamente non è l’unico il principale aspetto problemati-
co dello stato delle politiche socioassistenziali in Italia, al tempo
stesso non è un punto retorico o accessorio. Con ciò non si vuole
in alcun modo negare altri ordini di problemi delle politiche so-
ciali e assistenziali in Italia: fra loro, l’assenza di forme di prote-
zione del reddito, un forte sbilanciamento verso i trasferimenti a
discapito della realizzazione di servizi,44 il prevalere dei servizi
residenziali sui diurni e sui domiciliari, un perdurante familismo
che riproduce le diseguaglianze sociali e di genere, la frammenta-
zione e il fortissimo divario fra centro-nord e sud Italia. 45 Basti
pensare che la spesa sociale procapite per interventi e servizi so-
ciali dei Comuni singoli e associati nel 2005 variava in Italia dai
320 euro della Valle d’Aosta ai 27 euro della Calabria, con una me-
dia di 146,1 euro nel nord-est e di 40,1euro nel sud (isole esclu-
se).46 Tuttavia, anche ipotizzando che la spesa sociale aumentas-
se, i problemi della sua efficacia non rimanderebbero solo a que-
stioni di design istituzionale a livello centrale (nazionale o regio-
nale che sia, è indifferente), ma continuerebbero a fare riferimen-
to anche alla qualità dei processi di programmazione e messa in
opera a livello locale, e alle capacità degli amministratori di utiliz-
zare tali risorse e interpretare le norme.
Sul piano empirico, questa pista di ragionamento è confermata,
ad esempio, dalla recente ricerca dell’isfol e dell’irpps-cnr su-
gli indicatori di modernizzazione dei sistemi regionali di prote-
La sussidiarietà frammentata
62
zione sociale.47Costruito un indice sintetico aggregando tre indi-
catori (capacità di sviluppo dei servizi sociali; spesa sociale pro-
capite; incidenza percentuale del costo dell’assistenza domiciliare
integrata sul totale della spesa sanitaria regionale) per misurare lo
scarto dalla media nazionale dei valori standardizzati, è possibile
misurare l’estrema variabilità delle Regioni del centro-nord, tutte
sopra la media, salvo Lazio, Liguria, Abruzzo e Lombardia, ma
con valori assai diversi fra loro. E ancora, a mero titolo di esem-
pio, la Sardegna mostra la miglior performance nello sviluppo dei
servizi sociali rispetto alle altre Regioni del Mezzogiorno; e la Ba-
silicata è la sola Regione del sud che presenti un miglioramento
fra il 2001 e il 2005.48
È importante soffermarsi sulla rilevanza e la pertinenza politica
della programmazione sociale, per non cadere nella trappola di
considerarla come un affare tecnico, quasi che la posta in gioco
politica risiedesse esclusivamente nella definizione dell’ammon-
tare della spesa pubblica per il sociale.49 Ciò per due ragioni: sia
perché le modalità di spesa e di riallocazione nel dettaglio del bi-
lancio stanziato sono questioni eminentemente politiche, cioè ri-
levanti rispetto a fini collettivi e sottoposte a dibattito e conflitto;
sia e non è ragione da meno perché l’obiettivo è quello di co-
ordinare l’insieme delle risorse presenti su un territorio e anzi di
“scovarne di nuove”, e non tutte le risorse sono pubbliche o pro-
venienti da un’unica fonte (il fondo aggiuntivo per le politiche so-
ciali).
Possiamo considerare i due punti precedenti anche in altri ter-
mini, per coglierne appieno la portata. Nelle Leggi Regionali da
noi analizzate, la programmazione è una funzione di governo nel-
la quale, secondo il Legislatore, dovrebbero esprimersi massima-
mente la volontà politica e la scelta pubblica, e non la delega ai
tecnici. Il confronto e la riflessione sulla programmazione sociale
non sono questioni di dettaglio, retoriche di stampo liberista,
finalizzate a distrarre l’attenzione dalle scelte allocative di fondo
del Paese e dalla necessità di rilanciare politiche redistributive
che valorizzino i servizi sociali. Parlare di qualità dell’azione am-
ministrativa nei processi programmatori, e dei rapporti fra scelta
La programmazione sociale
63
pubblica, programmazione e messa in atto di politiche integrate
a livello locale, non è come prendere “un poco di zucchero e la
pillola, va giù”. Non è distogliere l’attenzione dai processi hard
per scadere sulle technicalities dei processi soft. I problemi, le
tensioni e le contraddizioni della programmazione sociale sono
di carattere politico, non hanno natura diversa da quella dei con-
flitti sulle scelte allocative e redistributive nazionali: si pongono
solo a un diverso livello di governo. Non hanno un carattere con-
sensuale (“siamo tutti d’accordo che bisogna migliorare la pub-
blica amministrazione”) rispetto a quello conflittuale delle prete-
se per l’aumento della spesa sociale. Come sottolineato da Laura
Centemeri con riferimento al Piano di zona, «la localizzazione
delle politiche e la loro articolazione territoriale apre un evidente
campo di tensione tra la valorizzazione delle risorse locali (neces-
sariamente specifiche e diversificate) e l’orizzonte di uguaglianza
dei diritti che è in gioco in queste stesse politiche».50
A fronte di queste tensioni, la programmazione sociale non può
che essere un processo eminentemente politico. Più precisamen-
te, si tratta di un processo di politicizzazione dell’azione pubblica
nel quale una pluralità di attori entra nel merito delle scelte pub-
bliche su obiettivi e qualità delle politiche sociali.
6. Le leggi regionali e la programmazione sociale
La riforma del Titolo vdella Costituzione (2001) ha conferito pie-
na potestà legislativa alle Regioni in materia di assistenza sociale
e sociosanitaria. Dodici Regioni hanno ad oggi approvato delle
leggi di riordino del comparto sociale. Nei prossimi paragrafi con-
sidereremo le principali differenze nella legislazione regionale, os-
servando in che modo le leggi si distinguano nel normare la pro-
grammazione sociale. La comparazione è stata effettuata conside-
rando cinque elementi: (1) il Piano regionale; (2) il coordinamen-
to multilivello (fra più livelli dell’amministrazione); (3) il coordi-
namento multiagente (fra agenzie pubbliche e organizzazioni del
terzo settore, o private, ma anche fra agenzie pubbliche di pari li-
La sussidiarietà frammentata
64
vello e diverso settore, nonché i criteri d’inclusione e implicazio-
ne nei tavoli della programmazione partecipata e i problemi di
rappresentanza); (4) i meccanismi decisionali (nei tavoli della pro-
grammazione, e nell’accordo fra i Comuni); (5) le risorse poten-
ziali (la presenza o meno d’incentivi al riconoscimento e reperi-
mento di risorse aggiuntive oltre a quelle previste dal fondo indi-
stinto regionale, nonché la scala temporale con cui si pianificano
gli investimenti).
6.1I piani regionali
Secondo la riforma costituzionale, spetta alla Regione, in qualità
di ente di regolazione e coordinamento programmatorio, costrui-
re il sistema dei servizi sociali nel proprio territorio. Il c. 6del-
l’art. 18 della L. n. 328/2000 prevede che le Regioni approvino
propri atti di programmazione degli interventi e dei servizi socia-
li, e prescrive che essi siano adottati previa intesa con gli enti lo-
cali. Lo strumento principale è il Piano dei servizi e degli inter-
venti sociali: nel 2008, la metà delle Regioni e Province autonome
italiane ha varato un Piano regionale sociale, sociosanitario o so-
ciale e sanitario integrato. Come abbiamo visto nel contributo di
Gualdani, in quasi tutte le Leggi Regionali ai Piani regionali vie-
ne attribuito il compito d’identificare livelli essenziali delle pre-
stazioni ulteriori o aggiuntivi rispetto a quelli che dovessero esse-
re definiti a livello nazionale.
Le Leggi Regionali stabiliscono la durata del Piano, di regola
triennale, e nel caso della L.R. Campania, L.R. Friuli Venezia
Giulia e L.R. Toscana dotato di aggiornamenti annuali.
Ci sono Regioni che con un solo atto di programmazione af-
frontano i processi legati al sistema sanitario e alla salute, assieme
a quelli del sistema sociale e sociosanitario: si tratta di Basilicata,
Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Altre, invece, scelgono di
affrontare nel Piano regionale solo i temi sociali e sociosanitari,
riprendendo questi ultimi nel Piano sanitario: è il caso di Marche,
Puglia, Sardegna, Toscana e Umbria.51
La programmazione sociale
65
Altro tema importante nel disciplinare le modalità di costruzio-
ne del Piano regionale è quello dell’integrazione fra servizi e in-
terventi sociali con le politiche sanitarie, dell’istruzione e del la-
voro. Liguria, Emilia Romagna e Toscana sono le Regioni in cui
maggiormente è previsto che il Piano sociale tenga conto in ma-
niera sistematica del raccordo con le politiche del territorio, del
lavoro e dell’istruzione. Nei soli casi delle L.R. Basilicata, Liguria,
Lombardia, Piemonte, Puglia e Sardegna è prevista anche l’inte-
grazione (o quantomeno il coordinamento) con le politiche per la
casa. Nella L.R. Emilia Romagna, all’art. 30, è previsto che nei
programmi di riqualificazione urbana siano individuati interven-
ti sociali che s’integrano nell’ambito dei Piani di zona. Nelle L.R.
Friuli Venezia Giulia, Liguria e Piemonte, si fa riferimento espli-
cito all’importanza dell’integrazione anche con le politiche dello
sport e del tempo libero (la L.R. Basilicata fa un rapido riferimen-
to alle sole politiche del tempo libero). Da rimarcare è la L.R. To-
scana, la quale inscrive la programmazione regionale dei servizi
sociali in un disegno sistematico che ruota intorno al programma
regionale di sviluppo.
Sul piano politico, un altro elemento rilevante è quello relativo
alle modalità con cui le leggi regionali stabiliscono le competenze
e il procedimento per l’approvazione del Piano. Nella maggior
parte dei casi esso è approvato dal Consiglio regionale su propo-
sta della Giunta, come in Emilia Romagna, Calabria, Piemonte,
Toscana e Sardegna. Nel caso della L.R. Friuli Venezia Giulia
(art. 9, c. 4), il potere di adozione del Piano è attribuito alla sola
Giunta, sentita la Commissione consiliare di competenza e pre-
via intesa con un’apposita Conferenza per la programmazione so-
ciosanitaria.52 È competenza della Giunta anche nel caso della
L.R. Puglia.53
Per ciò che attiene al coinvolgimento dei Comuni, le L.R. Friuli
Venezia Giulia (art. 4), Calabria (artt. 20 e29), Toscana (artt.26, c.
3e27, c.2) e Sardegna (art.23) parlano di Conferenze in cui rac-
cogliere il parere degli enti locali. Nel caso della Sardegna, la pro-
posta di Piano è sottoposta al parere del Consiglio delle autono-
mie locali. La L.R. Emilia Romagna prevede che il Consiglio Re-
La sussidiarietà frammentata
66
gionale acquisisca il parere oltre che della Conferenza Regioni-
Autonomie locali anche delle organizzazioni sindacali e della
Conferenza Regionale del Terzo Settore. La L.R. Campania (art.
20, c.1) prevede sia raccolto anche il parere «delle organizzazio-
ni sindacali e delle associazioni maggiormente rappresentative di
tutela degli utenti e delle professioni coinvolte nel sistema dei ser-
vizi integrat. La L.R. Calabria (art.18, c. 2) vincola a realizzare
il Piano regionale degli interventi e dei servizi sociali «in concer-
tazion con le associazioni regionali del terzo settore. La L.R.
Puglia non presenta, dal canto suo, alcun luogo di consultazione
e codecisione degli enti locali.
6.2Il coordinamento multilivello
In che modo gli enti locali partecipano alla programmazione re-
gionale? La costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà
invita a configurare la programmazione dei servizi sociali secon-
do principi di partecipazione, «non fosse altro, per il fatto che tra
le funzioni del Comune rientra quella di interpretare i bisogni di
assistenza della propria collettività e di rappresentarli alla Regio-
ne che li ridurrà a sintesi nell’atto di piano». 54 In altri termini, la
sussidiarietà verticale richiede non solo di cercare il livello più ap-
propriato di competenza e di responsabilità per la prestazione di
un bene pubblico,55 ma presuppone anche un sistema di rappor-
ti fra i diversi enti territoriali, ispirato «non alla rigida separazio-
ne delle competenze ma alla collaborazione e al concerto, dove
siano presenti strumenti e sedi di raccordo tali da permettere che
anche le funzioni non attribuite agli enti più vicini ai cittadini sia-
no esercitate con il concorso di questi ultimi». 56
La L. n. 328/2000 non ha istituito un organo ad hoc per la par-
tecipazione degli enti locali alla programmazione regionale, ma
ha stabilito, come abbiamo visto nel paragrafo § 6.1, che il Piano
degli interventi e dei servizi sociali sia adottato «attraverso forme
di intesa con i Comuni interessat ai sensi dell’attuale art. 5del
Testo unico delle autonomie locali: in altri termini, il coordina-
La programmazione sociale
67
mento multilivello trova regolazione precisa solo nella legislazio-
ne regionale.
In alcune Regioni, gli enti locali esprimono un parere attraverso
lo stesso organo previsto per la partecipazione alla programma-
zione sanitaria il caso della L.R. Friuli Venezia Giulia.; L.R.
Toscana, art. 27; L.R. Liguria, art. 25), o dall’organo di generale
rappresentanza degli enti locali (nel caso della L.R. Emilia Roma-
gna, art. 27, c. 6, è la Conferenza Regione-Autonomie locali; nel
caso della L.R. Sardegna, art.19, c.2, è il Consiglio delle Autono-
mie locali) o, infine, da parte di un organo ad hoc (il caso della
Calabria è il più interessante perché la L.R., all’art. 29, prevede
l’istituzione di una Conferenza permanente per la programma-
zione socioassistenziale regionale, che si articola al suo interno in
due organi, la Consulta delle Autonomie locali e la Consulta del
terzo settore).
La questione cruciale è capire se queste arene siano sufficienti
rispetto alle sfide poste dalla programmazione sociale. Dalla ri-
cerca empirica di Mara Maretti sui dirigenti regionali, sappiamo
che la maggior parte di loro lamenta come principali problemi di
rapporto con gli ambiti territoriali la promozione della valutazio-
ne e l’integrazione fra politiche.57 Il punto, più in generale, è co-
me articolare e coordinare al meglio la programmazione di zona
con quella regionale.
Le Leggi Regionali, nel loro insieme, non offrono altri strumen-
ti di partecipazione e di comunicazione deliberativa fra Enti locali
e Regione. Le L.R. Puglia e Piemonte, addirittura, non prevedo-
no alcuno strumento concreto di concorso degli enti locali alla
programmazione regionale.58 La questione è assai problematica:
certamente la «programmazione come metodo di governo risulta
quindi idonea a garantire che si instaurino tra livelli di governo
indipendenti rapporti capaci di unificare i diversi interventi sal-
vaguardando l’esigenza costituzionale che il concorso di più enti
a un fine unitario sia reso possibile nel rispetto della reciproca in-
dipendenza». 59 Ma l’assenza di una regolazione precisa del coin-
volgimento degli enti locali nella formulazione del Piano regio-
nale inficia il significato della sussidiarietà come coinvolgimento
La sussidiarietà frammentata
68
delle istituzioni più vicine al cittadino. Inoltre, come nota Davide
Paris, tale assenza «rappresenta un’evidente lacuna nei confronti
dell’art.118, c.1Cost., prima e più ancora che rispetto all’art. 6del-
la L. n. 328/2000». 60
6.3Il coinvolgimento del terzo settore
Come ricorda Angelo Mattioni, il «nuovo impianto costituziona-
le certamente raccomanda, se non impone, una programmazione
partecipata». 61 Nella maggior parte delle leggi regionali, la parte-
cipazione si declina in termini di coinvolgimento di organizzazio-
ni di terzo settore e sindacali nella pianificazione di zona e nella
costituzione di Tavoli del terzo settore o Consulte a livello regio-
nale.
In tutte le Regioni, il concorso alla programmazione è previsto
nei termini dell’art. 3della L. n. 328/2000, c. 2, lett. b, vale a dire
solo per i soggetti di terzo settore «che partecipano con risorse
proprie alla realizzazione della ret, le organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative, nonché le aziende unità sanitarie
locali. In altri termini, i singoli cittadini non possono sottoscrive-
re gli accordi di programma, possono partecipare alla funzio-
ne programmatoria nella forma della previa consultazione, nella
logica e secondo gli strumenti della negoziazione di cui all’art. 2,
c.203 della L. n. 662 /1996.62 Ciò vale anche per la Regione Lom-
bardia, che nonostante nel suo statuto attribuisca molta impor-
tanza ai singoli individui e alle famiglie nella L.R. n. 3/2008 non
prevede possibilità di partecipazione alla programmazione se
non per le organizzazioni, proprio come accade nelle altre Regio-
ni. La L.R. Basilicata (art.16, c. 4) si spinge fino a permettere che
ai tavoli per la predisposizione del Piano intercomunale dei ser-
vizi sociali e sociosanitari partecipino le associazioni delle fami-
glie e degli utenti.
La legislazione regionale prevede forme di programmazione
partecipata, con alcune differenze rilevanti. La L.R. Toscana, al-
l’art. 28, istituisce una Commissione per le politiche sociali con
La programmazione sociale
69
funzioni consultive e propositive per la Regione, in cui siedono
rappresentanti «delle organizzazioni sindacali, delle categorie eco-
nomiche, delle associazioni di rappresentanza e tutela degli uten-
ti, delle organizzazione del terzo settore, degli iscritti agli ordini e
alle associazioni professional. Similmente, anche la L.R. Friuli
Venezia Giulia, art. 27, e la L.R. Sardegna, n. 23 del 2005 preve-
dono il coinvolgimento di una pluralità di soggetti sociali, anche
for profit. Diversamente, altre Regioni prevedono un organo di
consultazione a cui possono partecipare soli soggetti del terzo set-
tore: è il caso, fra gli altri, della L.R. Calabria, art. 29, della L.R.
Emilia Romagna, artt. 20 e27, c. 6, e della L.R. Liguria, art.17. A
differenza delle altre, quest’ultima prevede che nella Consulta
Regionale del Terzo Settore siano inclusi anche i rappresentanti
dei Comuni, delle Province e delle Comunità montane; inoltre,
prevede che le rappresentanze dei soggetti privati vengano chia-
mate dalla Regione e dai Distretti Sociosanitari alle consultazioni
in materia di programmazione sociale e sociosanitaria (art. 19). La
L.R. Campania (art. 21, c. 2) prevede che il Piano di zona sia con-
certato anche con i soggetti a scopo di lucro che concorrono alla
gestione e all’offerta di servizi e interventi, con la possibilità per
loro di sottoscrivere anche protocolli di adesione all’accordo di
programma. Calabria, Emilia Romagna, Liguria e Sardegna rego-
lano il coinvolgimento nella programmazione di zona permetten-
do l’accesso solo alle realtà del terzo settore riconosciute dalla L.
n. 328/2000. La L.R. Lombardia dichiara esplicitamente all’art.
18, c. 7, che «gli organismi del terzo settore, che hanno partecipa-
to alla elaborazione del piano di zona, aderiscono, su loro richie-
sta all’accordo di programm. La L.R. Emilia Romagna (art.29,
c.6) e la L.R. Campania (art. 21, c. 2) prevedono, invece, che le or-
ganizzazioni di terzo settore partecipino attraverso protocolli di
adesione.
Le Leggi Regionali dedicano invece poca attenzione al coinvol-
gimento nella programmazione degli operatori e dei dirigenti in-
terni alla pubblica amministrazione. Lo danno per scontato, qua-
si fosse un problema solo organizzativo e non anche di mandato
istituzionale. La L.R. Lombardia è quella che meno fa riferimen-
La sussidiarietà frammentata
70
to a questo aspetto, mentre la L.R. Calabria è quella che maggior-
mente dettaglia l’importanza del coinvolgimento di dirigenti, am-
ministrativi e collaboratori esterni nella programmazione, sia re-
gionale che di ambito.
6.4Gli assetti di governance degli ambiti territoriali
Le leggi Regionali non riprendono con precisione il punto posto
dalla L. n. 328/2000, relativo alla necessità di dotare gli ambiti o
le zone di strumenti di governo forti, in grado di gestire autono-
mamente una parte consistente delle attività assistenziale. Le leg-
gi non entrano particolarmente nel merito dei problemi di gover-
nance dell’accordo di programma. L’esito, come emerge dalle pri-
me ricerche a nostra disposizione, è che la maggior parte degli am-
biti non programma l’insieme della spesa sociale del proprio ter-
ritorio, ma solo la quota proveniente dal Fondo aggiuntivo. Le Re-
gioni non obbligano i Comuni ad associarsi in una forma unica e
predefinita, anche se spesso si cerca d’incentivare le forme asso-
ciative dotate di personalità giuridica, come le Unioni dei Comu-
ni. In maniera frammentata, sui territori stanno emergendo delle
formule d’integrazione fra enti, e fra Comuni e aziende sanitarie:
il caso più noto è quello della Toscana, che sta investendo sulle
Società della Salute, con un forte ruolo dei Comuni nella pro-
grammazione e impostazione degli interventi.63 Un’altra formula
è quella già prevista dalla L. n. 328/2000 delle Aziende pubbliche
di servizio alla persona (asp), che prevede fra i loro organi un’as-
semblea dei soci proprietari, rappresentata dai Comuni dell’am-
bito distrettuale, ed è attualmente in fase di sperimentazione, in
particolare in Emilia Romagna. Inoltre, alcune Regioni (Emilia Ro-
magna, Marche, Puglia, Campania) stanno sperimentando l’intro-
duzione di uno strumento amministrativo di bilancio di ambito
territoriale, denominato “Fondo locale”,64 per finanziare diretta-
mente alcune attività; ma questo strumento non è regolato nelle
leggi.
Nel complesso, le Leggi Regionali dedicano poca attenzione ai
La programmazione sociale
71
problemi di governance degli ambiti territoriali, lasciando spazio
a successivi interventi in itinere di natura amministrativa.
6.5Le risorse potenziali
La L. n. 328/2000 prefigurava un metodo programmatorio simile
a quello della programmazione di bilancio, ben ancorato alle ri-
sorse disponibili, più che in rapporto a grandezze macroecono-
miche, come accadeva nella programmazione centrale degli anni
Sessanta. La programmazione viene valorizzata anzitutto come
strumento di ripartizione delle spese in rapporto ad obiettivi. Più
precisamente, la L. n. 328/2000, all’art. 3, c. 1, parla di program-
mazione delle risorse e degli interventi in relazione all’operatività
per progetti. Nella legislazione italiana, la centralità del progetto
nella programmazione è stata introdotta nel 1982 con l’istituzio-
ne del Fondo Investimenti e Occupazione, che ha aperto un ci-
clo di programmazione economica per progetti, decentrato, fon-
dato sulla valutazione e su tecniche di analisi decisionale microe-
conomica.65 Tuttavia, la L. n. 328/2000, nel riferirsi all’operativi-
per progetti, non rimanda a criteri di selezione fra progetti, ma
semmai ai criteri che hanno caratterizzato l’esperienza comunita-
ria dei Fondi Strutturali, perché qui i progetti (definiti anche pro-
grammi operativi) devono comprendere gli assi prioritari del pro-
gramma, le misure previste per l’attuazione, il piano finanziario,
le modalità di gestione, il sistema di valutazione, sorveglianza e
controllo.66 Non si tratta di selezionare i progetti sulla base di un
calcolo, ma d’indurre le amministrazioni associate a programma-
re in maniera compiuta l’insieme di temi organizzativi che con-
sentono l’implementazione delle decisioni. Come ricorda Paolo
Sabbioni, ciò richiede che la programmazione sia decentrata,
partenariale, immediatamente applicabile senza dover ricorrere a
ulteriori passaggi decisionali e valutabile (ex ante,in itinere ed ex
post).67
Un primo aspetto importante è rappresentato dalle forme d’in-
tegrazione delle politiche e degli strumenti di programmazione dei
La sussidiarietà frammentata
72
servizi alla persona, sociali esanitari. Dispositivi interessanti sono
presenti in Toscana con il Piano Integrato di Salute (pis), in Basi-
licata con il Piano intercomunale dei servizi sociali e sociosanita-
ri 68 e in Sardegna con il Piano Locale Unitario dei Servizi alla per-
sona (plus). In tutti e tre i casi, si tratta di uno strumento di pro-
grammazione unico, introdotto dalle Leggi Regionali, organizza-
to per progetti, negoziato con il terzo settore e coordinato con al-
tri strumenti di programmazione locale (urbanistica, scolastica e
ambientale).
Anche tenuto conto di queste sperimentazioni che provano a
estendere il campo della programmazione e a mettere a sistema
più ambiti d’intervento, il quadro d’insieme delle Leggi Regiona-
li ci fa dire che i processi sono ancora all’inizio. Due sono i pro-
blemi comuni alle Leggi Regionali: in primo luogo, esse non se-
gnalano in maniera precisa l’importanza che il Piano di zona pro-
grammi l’insieme di servizi e interventi presenti sul territorio; in
secondo luogo, non vincolano i Piani di zona a mobilitare, oltre
alle risorse provenienti dal Fondo aggiuntivo per le Politiche so-
ciali o, al più, dai bilanci dei Comuni compresi nell’ambito terri-
toriale, anche le risorse potenziali rintracciabili sul territorio o ad
altro livello.
I due aspetti sono strettamente correlati fra loro, e segnalano la
debolezza dell’insieme delle Leggi Regionali a fare un passo più
deciso nella direzione di una programmazione integrata di siste-
ma a livello territoriale. Non a caso, la recente ricerca dell’isfol
(2007) sui contenuti dei Piani di zona mostra come questi siano
costruiti a partire da dati relativi all’offerta garantita da organi-
smi pubblici, mentre «risulta minoritaria l’attenzione riservata ai
servizi erogati da soggetti privati». 69
Questo limite è frutto non solo di norme contabili che facilita-
no la rendicontazione e la programmazione delle risorse erogate
dall’amministrazione, ma anche di una legislazione regionale che
nell’insieme ha sottovalutato il problema di spingere con convin-
zione verso una programmazione territoriale di sistema. Il risvol-
to più negativo è che in questo modo, salvo pochi casi virtuosi, i
territori programmano risorse scarse e predefinite in base a limiti
La programmazione sociale
73
stabiliti a monte e non da loro. Più precisamente, spendono e non
investono, perché non sono guidate a riconoscere e mobilitare ri-
sorse potenziali, esistenti in latenza ma non messe in valore re-
se produttive, andando spesso sprecate o dissipate.
Le risorse potenziali da riconoscere e mobilitare possono esse-
re “scovate” nei territori stessi, a partire da partnership con asso-
ciazioni di categoria e imprenditoriali, soggetti cooperativi e mu-
tualistici (non solo nel campo della cooperazione sociale), enti fun-
zionali (le Camere di Commercio), donatori ed enti erogatori (le
Fondazioni bancarie), ma anche guardando ad organizzazioni di
volontariato o mutualistiche di risposta a esigenze comuni (si pen-
si all’organizzazione di nidi su base associativa). Oppure, le risor-
se potenziali possono essere mobilitate al di fuori dei territori, a
livello sovralocale: si pensi, ad esempio, ai fondi europei, o ai fon-
di di organizzazioni internazionali, particolarmente importanti per
le innovazioni nel campo del disagio estremo o degli interventi a
bassa soglia, anche verso gruppi immigrati.
Le Leggi Regionali sono molto aleatorie a proposito delle risor-
se potenziali. La maggior parte di loro non considera la questio-
ne, o lo fa in maniera generica, segnalando l’importanza di trova-
re fondi integrativi, a più livelli, ma senza indirizzare i territori in
questa direzione, attraverso vincoli (l’obbligo di trovare una
certa percentuale di spesa sociale attraverso partnership), at-
traverso incentivi e strumenti di premialità (come nel caso in cui
la Regione premiasse con una percentuale aggiuntiva gli ambiti
territoriali che hanno avuto più capacità di mobilitare risorse po-
tenziali), attraverso formazione e consulenza per sostenere gli
ambiti territoriali più svantaggiati sia dal punto di vista delle po-
tenzialità del territorio che dal punto di vista della capacità ammi-
nistrativa.
Un aspetto a latere di questo ragionamento è relativo al modo
in cui le Leggi Regionali tematizzano l’accreditamento. Se la mag-
gior parte di loro lo considera uno strumento “neutro” di con-
trollo nell’affidamento dei servizi, la L.R. Toscana e la L.R. Lom-
bardia si distinguono chiaramente dalle altre e fra loro. La Lom-
bardia adotta un modello forte «comunitario-mercantile», 70 in
La sussidiarietà frammentata
74
cui l’accreditamento è finalizzato a facilitare la competizione fra
soggetti del terzo settore, e alla competizione si affidano capacità
d’innovazione, di miglioramento della qualità e mobilitazione di
risorse, con poche valutazioni pubbliche sugli esiti prodotti.71 Di-
versamente, la Toscana propone un modello forte «social-pro-
grammatori, in cui l’accreditamento è inteso come modalità di
programmazione della rete (integrata) dei servizi sul territorio:
l’accreditamento a privati è concesso solo sulla base dei requisiti
programmatori di ciascuna area e gli esiti sono resi pubblici in
arene pluraliste che vedono il coinvolgimento di attori degli enti
locali e della società civile.72
La modalità con cui le Leggi Regionali regolano la mobilitazio-
ne e allocazione di risorse è strettamente legata anche alla scala
temporale rilevante per la programmazione sociale regionale e so-
prattutto di zona.La centralità della dimensione cronologica nei
processi programmatori può essere declinata su almeno due livel-
li, peraltro assai differenti.
Un primo livello è quello del coordinamento temporale dei di-
versi servizi e interventi programmati nel Piano, e in particolare
nel piano di zona. Nessuna legge fa riferimento al fatto che la pro-
grammazione debba prevedere modalità di armonizzazione tem-
porale dei diversi servizi, a partire dagli orari di apertura, in mo-
do da non lasciare vuoti e favorire le sinergie fra servizi integrati.
Sarebbero questioni rilevanti per la programmazione anche i pro-
blemi relativi al coordinamento dei passaggi dell’utenza da un ser-
vizio all’altro in relazione all’invecchiamento, o al raggiungimen-
to della maggior età, nel caso dei minori. Sono temi su cui in di-
versi paesi europei i Comuni o le Regioni programmano in ma-
niera stringente per non lasciare incertezze che favoriscano “logi-
che di scarico” e forme perpetuate di abbandono istituzionale.
Per coordinamento temporale intendiamo, dunque, il coordi-
namento tra servizi e interventi, sul piano della loro reciproca tem-
pistica, cioè del rapporto temporale tra le diverse azioni che si
stanno programmando. Aggiungiamo inoltre che, se non si con-
sidera il coordinamento temporale, la programmazione rischia di
considerare i differenti servizi in maniera compartimentata. An-
La programmazione sociale
75
che qualora il processo programmatorio fosse “ricco”, negoziato
e articolato grazie alla partecipazione di più attori, finirebbe co-
munque per produrre un Piano che risponde a una logica cumu-
lativa, in cui non è definito il rapporto d’integrazione fra i diversi
elementi. Tenere esplicitamente conto della variabile temporale
aiuta (se non è addirittura necessario) a coordinare in un’ottica di
sistema l’insieme di risposte formali e informali di un territorio e
aiuta, perciò, a riconoscere e mobilitare al meglio le risorse poten-
ziali presenti.
Un secondo livello è quello dell’orizzonte temporale della pro-
grammazione stessa. Abbiamo detto che questo orizzonte è ten-
denzialmente triennale. La cifra di tre anni è una scelta conven-
zionale effettuata da tutte le Regioni, che ha sicuramente molti
aspetti positivi, e permette dei cicli di programmazione e valuta-
zione abbastanza ampi da consentire riflessività e apprendimen-
to, senza forzare le amministrazioni e il terzo settore a rivedere
continuamente le decisioni prese.
Tuttavia, se quest’orizzonte triennale si presta bene ai cicli d’im-
plementazione e valutazione di molti interventi e servizi, non è
certamente l’unico rilevante per l’insieme di attività sociali da
programmare sul territorio. Pensiamo ai servizi residenziali che
richiedono un investimento oneroso in strutture, da ammortizza-
re in venti o trent’anni, così come ai servizi del “Dopo di noi”,
che richiedono di progettare forme di responsabilità pubblica su
patrimoni privati, con un coinvolgimento del terzo settore, per
garantire a persone con disabilità un futuro sereno nel lungo pe-
riodo anche dopo la morte dei genitori.
Entrambi questi esempi mostrano l’importanza che le politiche
locali si dotino anche di un orizzonte temporale di medio-lungo
periodo per mobilitare risorse aggiuntive e rinvenire potenziali
locali. La rigidità di un modello programmatorio che riconosca
un’unica scansione cronologica riduce la varietà e rischia di non
aiutare a moltiplicare le risorse a disposizione dei territori.
La sussidiarietà frammentata
76
7. Programmare sì, ma come?
Abbiamo visto come l’attuale stagione di programmazione socia-
le a livello regionale e locale abbia una storia lunga in Italia, e delle
matrici importanti da conoscere. Il termine “programmazione”
emerge già nel dopoguerra, per identificare nuove modalità del-
l’azione di governo, appropriate a gestire i fondi americani di aiu-
to allo sviluppo. La vicenda del lemma e le sue torsioni semanti-
che attraversano la storia repubblicana, i dibattiti in seno ai gran-
di partiti di massa, di maggioranza e di opposizione. Gli elementi
più rilevanti sono da rintracciare nella dialettica fra programma-
zione e riformismo, fra visioni progressivamente sempre più at-
tente all’implementazione, all’orizzonte temporale dei processi e
alle condizioni organizzative della messa in atto di scelte pubbli-
che e concezioni, tutte concentrate solo sulla statuizione di leggi
ben costruite sul piano dei principi. Non solo: guardare alla pro-
grammazione in Italia permette di riconoscere l’oscillazione, di
cui parla Giacomo Costa nell’introduzione a questo volume, fra
spinte all’egualitarismo universalista e spinte al riconoscimento
delle differenze territoriali e alla localizzazione dei poteri di scel-
ta e indirizzo.
La programmazione sociale introdotta sperimentalmente con
la L. n. 285/1997 nel campo delle politiche e dei servizi sociali, e
poi messa a regime dalla L. n. 328/2000, per essere infine ripresa
e regionalizzata in seguito alla riforma del Titolo vdella Costitu-
zione, eredita tutti questi dibattiti. Non è solo figlia della stagio-
ne di territorializzazione delle politiche sociali della fine degli an-
ni Settanta: risente in maniera significativa degli apprendimenti
emersi nel corso degli anni Novanta, a partire dall’introduzione
di strumenti di programmazione nelle politiche di sviluppo loca-
le e territoriale.
L’enfasi posta sulla dimensione locale per integrare al meglio le
risorse disponibili e riconoscerne e valorizzarne di nuove, presen-
ti solo a livello potenziale, è una soluzione alla crisi di sovraccari-
co dello Stato e alle esigenze di partecipazione degli attori del ter-
ritorio. S’inscrive in una tradizione più ampia, che investe una plu-
La programmazione sociale
77
ralità di politiche pubbliche, e non solo in Italia, ma più in gene-
rale nei Paesi europei.
In questo capitolo abbiamo voluto situare al meglio la stagione
di programmazione sociale locale inaugurata nel nuovo millen-
nio, per mostrare come questa lunga storia l’abbia caricata di
aspettative importanti. La storia politica dell’azione programma-
toria ci permette di cogliere come questa sia diventata uno stru-
mento considerato non solo indispensabile per mobilitare al me-
glio le risorse locali, ma anche risolutivo. Alla programmazione
sociale sono stati così affidati compiti assai importanti, anche di
perequazione e di governo. Per gli attori delle politiche sociali, la
programmazione sociale è diventata ovvia.
Questo non vuol dire che tutti la considerino indispensabile, al
contrario. In ogni caso, è ormai considerata strumento necessa-
rio, quantomeno da evocare retoricamente e con cui fare i conti
anche nelle strategie più strumentali e clientelistiche della politi-
ca locale.
Se tuttavia la programmazione sociale non è più qualcosa da
conquistare, è ovvia e ne viene riconosciuta l’importanza, essa è
tutt’altro che scontata. L’analisi comparativa delle Leggi Regio-
nali ha messo in luce due risultati importanti, che vogliamo qui ri-
prendere e commentare, senza per questo voler essere conclusivi
in uno scenario comunque cangiante.
Innanzitutto, è possibile scorgere delle prime tracce di scelte
assai differenti effettuate dalle Regioni per normare e promuove-
re la programmazione sociale. Non si tratta di differenze fortissi-
me, ma comunque le Regioni cominciano a identificare proprie
strade, a partire dal modello comune indicato dalla L. n. 328/
2000. In secondo luogo, tutte le Leggi Regionali rimangono par-
ticolarmente astratte rispetto ad alcune delle sfide che loro stesse
attribuiscono alle potenzialità della programmazione.
Ci siamo concentrati in particolare sulla questione delle risorse
e sulla scala temporale della programmazione, due temi non a ca-
so fra loro connessi. Ebbene, le legislazioni regionali sembrano
non aver ancora affinato i vincoli che possono inquadrare al me-
glio le opportunità di programmazione, come invece avviene in
La sussidiarietà frammentata
78
altri settori dell’azione pubblica. La programmazione resta così,
appunto, tutt’altro che scontata, e in molti territori risulta assai
deludente, e incapace di mettere a regime e coordinare, con una
visione proiettata sul futuro, l’insieme di risposte formali e infor-
mali: lavoro sociale ovvero progetti, servizi e prestazioni, ma an-
che forme di azione reciproca.
Attività eminentemente politica, la programmazione istituisce
routine, stabilisce procedure e protocolli di azione, con l’obietti-
vo di ridurre i margini d’incertezza di un’azione e di attenuare
l’intenzionalità e la discrezionalità. A questo proposito, Laurent
Thévenot ha parlato di investimento in forme: programmare si-
gnifica cioè dare forma, spendere delle risorse per ottenere for-
me.73 Ragionare sulla pianificazione significa quindi riflettere sul-
la tensione tra programmazione e lavoro sociale, laddove la pro-
grammazione stabilisce routine mentre il lavoro sociale è un’atti-
vità di cura e di sollecitudine che non passa da un mansionario. Il
lavoro sociale passa dalla capacità di creare legami, dalla sogget-
tività e dall’intenzionalità, dalle molteplici connotazioni che può
assumere la relazione tra operatore e utente (cura, sollecitudine,
controllo, ascolto, contenimento, accompagnamento, promozio-
ne, capacitazione ecc.).
Non programmare significa correre il rischio di lasciare il lavo-
ro sociale alla mercé del clientelismo e, potenzialmente, anche del-
la violenza. Programmare in ambito sociale significa correre il ri-
schio di decretarne la fine dell’oggetto stesso che si sta program-
mando, dandogli una forma troppo stringente, dando una forma
troppo vincolante a ciò che si nutre anche d’informalità.
Certo, la legislazione regionale non può essere risolutiva. La
programmazione resta comunque responsabilità degli attori loca-
li. Tuttavia, nella programmazione il rapporto tra scelta del pro-
grammatore e norme è complesso, sia perché le norme vincolano
i margini di scelta (dicono normativamente cosa è giusto e cosa è
sbagliato), ma anche perché hanno importanti effetti cognitivi:
permettono di vedere alcuni aspetti e ne rendono più opachi al-
tri, chiedono di giustificare nella sfera pubblica alcune scelte e ne
banalizzano altre.
La programmazione sociale
79
La legislazione regionale potrebbe aiutare a rivedere incremen-
talmente le tensioni fra formalità e informalità su cui la program-
mazione sociale non può mai abbassare il livello di guardia e con-
siderare raggiunto una volta per tutte un punto di equilibrio.
Programmazione e lavoro sociale possono essere visti come due
poli, entrambi positivi, che generano contraddizioni e tensioni.
La programmazione sociale è giustamente diventata più ovvia,
ma la contraddizione intrinseca alla sua forma d’azione la rende
di per tutt’altro che scontata.
La sussidiarietà frammentata
80
Note
1M. Ferrera, Dal welfare state alle welfare regions: la riconfigurazione spaziale del-
la protezione sociale in Europa, in “La rivista delle politiche sociali”, n. 3,2008,
pp. 17-49; Y. Kazepov, E. Barberis, La dimensione territoriale delle politiche so-
ciali in Europa: alcune riflessioni sui processi di rescaling e governance, in “La ri-
vista delle politiche sociali”, n. 3,2008, pp. 51-75.
2U. Pototschnig, La regione nell’organizzazione dell’assistenza, in “Le Regio-
ni”, 1974, p. 941; ora in Id., Scritti scelti, Giappichelli, Padova 1999, p. 532.
3Cfr. C. Saraceno, I livelli essenziali di assistenza nell’assetto federale italiano,
in “Reforme”, Federalismo 2006. Il federalismo in Italia: elementi di discussione,
2006, p.169, <www.reforme.it/federalismo/rapporto_2006_completo.pdf>.
4L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del pci, vol. i.Con Togliatti e Lon-
go, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005.
5P. Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno: la politica economica
in Italia dal 1943 al 1955, il Mulino, Bologna 1978.
6P. Ciofi, Costituzione e programmazione, in “Associazione degli ex parla-
mentari della Repubblica”, Costituzione, programmazione, concertazione, Came-
ra dei Deputati, Roma 2006.
7P. Barucci, Il piano economico tra passione e delusione, cit., p. 83.
8S. Tosi, T. Vitale, Responsabilité directe. Hybridations croisées entre catho-
liques et laïcs dans les mouvements pour la paix en Italie, in I. Sommier, O. Fil-
lieule, E. Agrikolianky (a c. di), La généalogie des mouvements antiglobalisation
en Europe, Karthala, Paris 2008, pp. 187-206.
9M. Carabba, Un ventennio di programmazione 1954-1974, Laterza, Roma-Ba-
ri 1977.
10 O. de Leonardis, Il terzo escluso. Le istituzioni come vincoli e risorse, Feltri-
nelli, Milano 1990.
11 M. Salvati, Strutture politiche ed esiti economici, in “Stato e mercato”, 1982,
n. 4, pp. 4-43.
12 M. Carabba, Contrattazione, concertazione e programmazione alla prova del-
la società italiana, cit., p. 124.
13 O. de Leonardis, Il terzo escluso, cit.
81
14 J. Pressman, A. Wildavsky, Implementation, University of California Press,
Chicago 1973.
15 Si vedano le riflessioni di Kahn sull’importanza del «controllo costante e
correzione delle previsioni, continua revisione a mezzo del feedbac, A.J.
Kahn, Teoria e pratica della pianificazione sociale, Fondazione Zancan 1969, p.
31; vedi anche P.L. Crosta, Conoscenza e decisione: la domanda di ricerca nel
processo della pianificazione del territorio, in P.L. Crosta, La politica del Piano,
Franco Angeli, Milano 1982.
16 C. Bruni, Sociologia e pianificazione sociale, Franco Angeli, Milano 2007, p.
54.
17 M. Massa, Piano nazionale e piani regionali, in E. Balboni, B. Baroni, A.
Mattioni, G. Pastori (a c. di), Il sistema integrato dei servizi sociali, Giuffré, Mi-
lano 2007, p. 415; A. Marzanati, La programmazione della spesa pubblica, Giuf-
fré, Milano 2001, p. 141.
18 Siza R., La pluralità degli stili di programmazione, in Bertelli B. (a c. di), La
pianificazione sociale, Franco Angeli, Milano 1998, p. 111.
19 M. Burgalassi, Il welfare dei servizi alla persona in Italia, Franco Angeli, Mi-
lano 2007, p. 66.
20 O. de Leonardis, Le nuove politiche sociali, in L. Bifluco (a c. di), Il genius
loci del welfare. Strutture e processi della qualità sociale, Officina Edizioni, Ro-
ma 2003.
21 R. Biorcio, Sociologia politica, il Mulino, Bologna 2003.
22 M. Salvati, Sindacato, concertazione, politica economica, in A. Ninni, F. Sil-
va, S. Vaccà (a c. di), Evoluzione del lavoro, crisi del sindacato e sviluppo del Pae-
se, Franco Angeli, Milano 2001.
23 P. Le Galès, H. Voelzkow, La “governante” delle economie locali, in C.
Crouch, P. Le Galès, C. Trigilia, H. Voelzkow (a c. di), I sistemi di produzione lo-
cale in Europa, il Mulino, Bologna 2004 [2001], pp. 7-44.
24 C. Donolo C., Il distretto sostenibile. Governare i beni comuni per lo svilup-
po, Franco Angeli, Milano 2003.
25 F. Barca, Italia frenata. Paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo, Don-
zelli, Roma 2006.
26 P. Magnatti, F. Ramella, C. Trigilia, G. Viesti, Patti territoriali. Lezioni per lo
sviluppo, il Mulino, Bologna 2004; D. Cersosimo, G. Wolleb, Economie dal bas-
so. Un itinerario nell’Italia locale, Donzelli, Roma 2006.
27 In termini cioè di «processo di decisione razionale, relativo ai futuri obiet-
tivi e ai futuri corsi d’azione, che si fonda sull’esplicazione delle conseguenze e
delle implicazioni di valore associate ai diversi corsi d’azione, ma contempora-
neamente implica anche valutazioni e scelte precise relativamente ai diversi si-
stemi di azione che si propongono di raggiungere gli obiettivi dat: J.K. Friend,
W. N. Jessop, Local Government and Strategic Choice. An Operational Research
Approach to the Process of Public Planning, Tavistock, London 1969.
Note
82
28 A dire il vero, fin dall’inizio degli anni Settanta, la riflessione urbanistica
aveva iniziato a segnalare come il piano urbanistico dovesse essere inteso solo
come «una frazione di una strategia più ampia e assume sempre di più le carat-
teristiche di un piano socio-economic, introducendo elementi di apprendi-
mento e revisione periodica, perché «un piano statico e atemporale non è più
funzional; P. Ceccarelli, L’ utilizzazione dei calcolatori elettronici nel controllo
e nella pianificazione dei processi territoriali, in F. Rositi (a c. di), Razionalità so-
ciale e tecnologie dell’informazione, Edizioni di Comunità, Torino 1973, p. 521.
29 G. Pinson, Il progetto come strumento d’azione pubblica urbana, in P. Las-
coumes, P. Le Galès (a c. di), Gli strumenti per governare, Bruno Mondadori,
Milano 2009 (ed. or. 2004).
30 F. Barca, Una risposta (a Marcello De Cecco, Giorgio De Michelis e Miche-
le Salvati), in “Stato e Mercato”, n. 78,2006,p.431; sull’importanza dei processi
di giustificazione, cfr. L. Boltanski, L. Thévenot, On Justification. The Econo-
mies of Worth, Princeton University Press, Princeton 2006 (ed. or. 1991).
31 F. Barca, Una risposta, cit., p. 433.
32 R. Scaglia, Regole e libertà. Pianificazione sociale, teoria sociologica, ambiti e
tecniche d’intervento, Franco Angeli, Milano 1999, p. 47.
33 Vale la pena di ricordare, tuttavia, che il rapporto con la partecipazione è
stato da alcuni autori considerato come proprio e intrinseco all’idea stessa di
programmazione, già dalla metà degli anni Settanta (cfr. J. Bailey, Pianificazione
e teoria sociologica, Liguori, Napoli 1975), comunque “in ritardo” rispetto alle
modalità precise con cui la questione era stata posta negli anni precedenti dai
movimenti urbani: cfr. T. Vitale, Le tensioni tra partecipazione e rappresentanza
ed i dilemmi dell’azione collettiva nelle mobilitazioni locali, in T. Vitale (a c. di)
In nome di chi? Partecipazione e rappresentanza nelle mobilitazioni locali, Franco
Angeli, Milano 2007,p.28.
34 F. Barbera, Le politiche della fiducia. Incentivi e risorse sociali nei patti terri-
toriali, in “Stato e Mercato”, 3,2001, pp. 413-450; T. Vitale, T. Emmenegger,
Regulation by Incentives. Analytical Tools for a Very Local Approach. An Institu-
tional Framework, Report for the Department of Health Service Provision–osd,
World Health Organization, Ginevra 2004.
35 La rilevanza di quest’ultimo punto merita di essere particolarmente sottoli-
neata. Mi permetto perciò di rimandare ad alcune riflessioni che ho sviluppato
altrove, con particolare riferimento ai servizi a bassa soglia e agli interventi che
incontrano l’ostilità della maggioranza della popolazione: T. Vitale, Abbassare
la soglia: confini ed apprendimento, in L. Bifulco (a c. di), Il genius loci del welfa-
re. Strutture e processi della qualità sociale, cit., pp. 136-149; Id., Contestualizza-
re l’azione pubblica: ricerca del consenso e varietà di strumenti nelle politiche loca-
li per i rom e i sinti, in G. Bezzecchi, M. Pagani, T. Vitale (a c. di), I rom e l’azio-
ne pubblica, Teti editore, Milano 2008, pp. 7-42.
36 M. Burgalassi, Il welfare dei servizi alla persona in Italia, cit., p. 82.
Note
83
37 T. Vitale, A cosa serve la sussidiarietà? Un criterio guida contro il “carsismo
istituzionale”, in “Animazione Sociale”, vol. 36,2006, n. 5, pp. 20-28.
38 La cosiddetta riforma Bassanini: L. n. 59/1997 modificata e integrata dalle
L. n. 127/1997 e n. 191/998, poi attuata con vari decreti legislativi, il più impor-
tante dei quali è il D.lgs. n. 112/1998.
39 Sebbene con una forte variabilità fra Regione e Regione: si va dalle 29.200
persone in media per ambito sociale in Molise alle 113.500 in Campania.
40 L. Centemeri, La contrattualizzazione del governo del territorio: versioni di-
verse dei Piani di Zona e loro implicazioni, in R. Monteleone (a c. di), La contrat-
tualizzazione nelle politiche sociali: forme ed effetti, Officina, Roma 2006; cfr.
anche L. Bifulco, Insieme per forza. Amministrazioni locali, programmazione as-
sociata e institution building, in “Studi organizzativi”, 2006, n. 1.
41 M. L. Mirabile (a c. di), Italie sociali. Il welfare locale fra Europa, riforme e
federalismo, Donzelli, Roma 2005.
42 C. Gori (a c. di), La riforma dei servizi sociali in Italia, Carocci, Roma 2004;
L. Bifulco, L. Centemeri, La partecipazione nei Piani sociali di zona: geometrie
variabili di governance locale, in “Stato e mercato”, 2007, n. 80, pp. 222-244; M.
Paci (a c. di), Welfare locale e democrazia partecipativa, il Mulino, Bologna 2008;
E. Polizzi, Costruire le politiche sociali con la società civile. Programmazione lo-
cale e forme di partecipazione, tesi di dottorato in Sociologia, Università di Mila-
no, Milano 2008;isfol-upi,Il monitoraggio isfol-upi dei piani di zona. Rappor-
to 2007, in “Le Province”, 2008, n. 3; A. Scialdone, Sulla dimensione territoriale
degli interventi di assistenza e di lotta alla povertà, in Caritas italiana Fonda-
zione “E. Zancan” (a c. di), Ripartire dai poveri. Rapporto 2008 su povertà ed
esclusione sociale in Italia, il Mulino, Bologna 2008, pp. 185-209.
43 E. Pavolini, Governance regionali: modelli e stime di performance, in “La Ri-
vista delle Politiche sociali”, 2008, n.3, p.168.
44 Tenuto conto della spesa nazionale e di quella comunale, la spesa per le pre-
stazioni monetarie è del 90,1% della spesa sociale complessiva; cfr. F. Pesaresi,
La spesa pubblica per le prestazioni sociali, in E. Ranci Ortigosa (a c. di), Diritti
sociali e livelli essenziali delle prestazioni, in Quid, supplemento al n. 10,2008 di
“Prospettive sociali e sanitarie”, p.188.
45 Per una lettura d’insieme e di lungo periodo del welfare italiano, e della sua
frammentazione, cfr. E. Mingione, Sociologia della vita economica, Carocci, Ro-
ma 1997.
46 istat,L’indagine censuaria sugli interventi e i servizi sociali dei Comuni. An-
no 2005, Roma 2008. Al di della spesa assoluta procapite, è importante nota-
re anche la differenza di ripartizione della spesa effettuata dai Comuni: così, se
in Friuli il 26,2% della spesa comunale è destinata a interventi e servizi sociali,
questa quota scende al 6,7% in Calabria; cfr. M.L. Mirabile (a c. di), Oltre il
giardino? Fonti, dati e studi a confronto per la ricostruzione della spesa sociale dei
Comuni, Ires, Roma 2006,p.25.
Note
84
47 G. Giuliano, Rischio di disagio e variazioni regionali: un esercizio di misura-
zione a partire dagli indicatori di Laeken, in Caritas italiana Fondazione “E.
Zancan”, Ripartire dai poveri, cit., pp. 159-184.
48 Nonostante nella realizzazione concreta dei Piani di zona sia la Regione ad
avere la posizione meno significativa, in relazione alla presenza di sussidi eco-
nomici e d’interventi volti a contrastare situazioni di emergenza sociale; cfr. A.
Scialdone, Sulla dimensione territoriale degli interventi di assistenza, cit., pp.
203-204.
49 Senza ovviamente negare che la spesa procapite per la protezione sociale in
Italia è tragicamente molto bassa, se paragonata alla media eu a15: nel 2004 era
di 4.902, a fronte di una media di 6.083, collocandosi all’undicesimo posto;
cfr. Eurostat, Social Protection in the European Union, in “Statistics in Focus“
n. 99/07, Lussemburgo 2007. Se la spesa per la protezione sociale rappresenta-
va nel 2004 in Italia il 26,1% del pil (a fronte di una media eu 15 del 27,6%),
occorre comunque ricordare che solo il 3,11% del pil era dedicato a prestazio-
ni di assistenza sociale (2,71% a carico dello Stato, 0,39 a carico dei Comuni e
0,1delle Province).
50 L. Centemeri, La contrattualizzazione del governo del territorio, cit.
51 G. Giorgi, Programmazione regionale e sistemi di governance, in “Prospetti-
ve sociali e sanitarie”, 2008, n. 15, pp. 2-5.
52 Vale la pena di ricordare che nella sua recente ricerca sul rendimento istitu-
zionale delle Regioni, Emmanuele Pavolini (Governance regionali, cit., p. 160)
mostra come il Friuli Venezia Giulia sia la Regione che in assoluto mostra le mi-
gliori performance di tipo gestionale-processuale nel campo delle politiche so-
ciali.
53 Anche se la L.R. non è chiarissima in merito, e occorre procedere per de-
duzioni a partire dall’art. 33, c. 4; cfr. M. Massa, Piano nazionale e piani regiona-
li,op.cit., p. 416.
54 A. Mattioni, La legge quadro 328/2000: legge di attuazione di principi costi-
tuzionali, in E. Balboni, cit., p. 17.
55 T. Vitale, A cosa serve la sussidiarietà, cit.
56 D. Paris, Il ruolo delle Regioni nell’organizzazione dei servizi sanitari e socia-
li a sei anni dalla riforma del Titolo v: ripartizione delle competenze e attuazione
del principio di sussidiarietà, in “Le Regioni”, 2007, n. 6, p. 998; vedi anche A.
Ruggeri, Neoregionalismo e tecniche di regolazione dei diritti sociali, in “Diritto
e Società”, 2001,n.2, p. 231.
57 M. Maretti, Welfare locali. Studio comparativo sulla programmazione dei ser-
vizi sociali nelle Regioni italiane, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 113-114.
58 Anche la L.R. della Lombardia non fa alcun cenno a questo tema, come più
in generale alle modalità di costruzione del Piano socio-sanitario, lasciando in-
tendere che queste avvengano nelle forme già previste dalla legislazione regio-
nale, e senza sentire la necessità di precisarle, di richiamarle.
Note
85
59 A. Mattioni, La legge quadro 328/2000, cit.
60 D. Paris, Il ruolo delle Regioni, cit., p. 20.
61 A. Mattioni, La legge quadro 328/2000, cit.
62 P. Sabbioni, Commento all’art. 3della L. n. 328/2000, in E. Balboni, cit., p.
145.
63 Le Società della Salute sono consorzi pubblici con piena personalità giuri-
dica, senza fini di lucro, istituiti dalla Regione Toscana e cogestiti dai Comuni,
dalle asl e dal Terzo Settore. Devono gestire i servizi sociosanitari, le cure pri-
marie, le attività specialistiche di base prodotte direttamente o acquistate da
produttori esterni, nonché i servizi socioassistenziali dei Comuni. La proprietà
è ripartita tra asl e Comuni, che esercitano anche il ruolo di committenti, nego-
ziando e finanziando. Le Società della Salute hanno un budget proprio e l’obbli-
go di raggiungere il pareggio di bilancio. Sono governate da una giunta e costi-
tuite su proposta della conferenza dei sindaci e dell’asl competente.
64 G. Giorgi, Programmazione regionale e sistemi di governance, cit., p. 4.
65 L. Romani, Evoluzione delle modalità della programmazione economica in
Italia: dalla programmazione globale alla programmazione decentrata per progetti,
in “Rivista amministrativa”, 1990, pp. 772 ss.
66 In questo senso, il metodo della programmazione basato sull’operatività
per progetti è stato ripreso nella L. n. 285/1997; cfr. P. Sabbioni, Commento al-
l’art. 3, cit., p. 148.
67 Ivi, p.149.
68 In cui confluiscono i contenuti del Piano di zona e del Piano delle attività
territoriali (L.R. Basilicata, art. 16 ).
69 A. Scialdone, Sulla dimensione territoriale degli interventi di assistenza, cit.,
p. 199.
70 E. Pavolini, Governance regionali, cit., p. 175.
71 T. Vitale, Contrattualizzazione sociale, in “La Rivista delle Politiche Socia-
li”, 2005, n. 1, pp. 291-323.
72 E. Pavolini, Governance regionali, cit., p. 176.
73 L. Thévenot, Organizzazione e potere. Pluralità critica dei regimi di coinvol-
gimento, in V. Borghi, T. Vitale (a c. di), Le convenzioni del lavoro, il lavoro delle
convenzioni, Franco Angeli, Milano 2007.
Note
86
... Si percepisce un senso del dovere per l'urgenza: l'azione viene condotta con rapidità, senza concedersi i tempi della programmazione di lungo periodo e cercando le informazioni necessarie per poter essere efficaci nel riconoscimento e nella soggettivazione dei beneficiari dell'azione stessa (cfr. Vitale, 2009b). Concentrandosi nel presente su problemi considerati "affrontabili" e, quindi, amplificando il senso di efficacia (p. ...
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Il capitolo, intitolato "La Prospettiva Civica", si concentra sulle complesse dinamiche dell'impegno civico in Italia, proponendo un cambiamento di paradigma nell'analisi delle attività associative. Superando gli approcci funzionalisti, il lavoro pone l'accento sulle esperienze vissute, sulle aspirazioni e sulle lotte degli attori civici inseriti nei contesti locali. Attingendo a un'ampia ricerca empirica, il lavoro mette in luce l'ambivalenza che caratterizza la partecipazione civica, oscillante tra le preoccupazioni per la stagnazione burocratica e l'entusiasmo per il potenziale trasformativo. Collocando le azioni collettive all'interno di un tessuto socio-spaziale più ampio, il capitolo mette in luce l'esclusiva traiettoria italiana di reinvenzione civica, in cui gli sforzi localizzati colmano le disuguaglianze strutturali e promuovono l'innovazione sociale. L'analisi evidenzia l'interazione tra riconoscimento, solidarietà e decommodificazione come elementi fondamentali per la vita associativa. Il capitolo esamina come gli attori civici gestiscano le aspettative dissonanti dei diversi stakeholder, creando pratiche inclusive che rispondono ai bisogni immediati dei gruppi emarginati e, al tempo stesso, trasformano il contesto locale. Il capitolo esamina anche il declino della capacità di collaborazione inter-associativa e il suo impatto sull'advocacy e sull'impegno istituzionale, sottolineando la necessità di rafforzare le capacità collettive. In particolare, questo contributo illustra le complessità spaziali e relazionali dell'associazionismo italiano, dove la prossimità e la densità delle relazioni sociali favoriscono la sperimentazione democratica e il rinnovamento della società. Esaminando le dimensioni micro, meso e macro delle azioni civiche, il capitolo colloca il panorama civico italiano all'interno di un quadro comparativo europeo, offrendo spunti di riflessione sul potenziale dell'azione associativa trasformativa in contesti segnati dalla frammentazione strutturale.
... However, other scholars have questioned the role of the associations as a "school of democracy". Disagreements have developed with respect to the same concept of social dialogue introduced by Putnam (Vitale, 2009;Portes, 1998;Foley & Edwards, 1999), which refers to both structural aspects (networks of relationships) and cultural aspects (norms, social values, interpersonal trust, and institutional trust). The different aspects are related, and thus establishing which one precedes the others is dif cult to determine in causal terms. ...
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Come già ricordato, l’Italia è sempre stata caratterizzata da un livello di partecipazione associativa molto basso, soprattutto se paragonato ad altri Paesi europei. Il dato ha impressionato gli osservatori fin dalle prime ricerche (ricordiamo fra le altre quella di Gabriel Almond e Sidney Verba (1963)sulla cultura civica). In un contesto in cui l’integrazione politica era ampiamente basata su culture di partito - la cosiddetta Prima Repubblica - la maggior parte delle reti associative era collaterale ai partiti politici di massa (Biorcio, 2007: 189). Proprio per queste ragioni, per mettere a fuoco i tratti dell’associazionismo contemporaneo, dobbiamo adottare una prospettiva di medio periodo, e analizzare i cambiamenti successivi a ‘Tangentopoli’ e al crollo dei partiti di massa (...).
... La maggior forza istituzionale, organizzativa ed economica e il più elevato livello di pre-strutturazione e legittimazione del campo sanitario prelude ad alcuni rischi di egemonia del medesimo 53 , che possono essere tanto più elevati, paradossalmente, tanto più i legislatori regionali spingono verso l'integrazione. Su questo punto, però, si registrano orientamenti molto differenziati 54 . Inoltre, una variabile importante è data dai modi in cui, localmente, sono andati strutturandosi i rapporti. ...
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L'approvazione della L. 328/00 si inserisce in un quadro di trasformazione delle politiche sociali che coinvolge tutti i paesi europei da oltre vent'anni. Tali trasformazioni si caratterizzano per alcuni evidenti processi di imitazione e disegni convergenti di policy, anche grazie ai fattori di pressione e integrazione dati dal ruolo dell'UE e dallo sviluppo di mappe concettuali e linguaggi trasversali e parzialmente condivisi. Allo stesso tempo, si caratterizzano anche per un elevato livello di retorica, alimentato proprio dall'attivismo della politica istituzionale che rischia di ottundere la comprensione di ciò che è effettivamente in corso. Questo problema riguarda molto l'Italia, dove si è costantemente alle prese con profonde discontinuità, eccezioni e contraddizioni nel rapporto tra disegno normativo e pratiche di governo e intervento. Da qui nasce la motivazione a ricercare uno schema interpretativo sperabilmente utile a fare luce sui cambiamenti grandi e piccoli che mutano effettivamente i modi della relazione cittadini-istituzioni nel rapporto tra teoria, prassi e ambiente, tra norma e processo e tra forma e processo: le logiche di funzionamento del sistema di welfare. Scopo di tale schema è comprendere quali logiche implicite ed esplicite sono effettivamente in essere tentando di cogliere la multidimensionalità tecnica, pragmatica, interpersonale, politica e contestuale dei processi di costruzione di policy. Nel saggio sono brevemente definite le caratteristiche dello schema interpretativo discutendo alcuni risultati di ricerche. Lo scopo non è arrivare a conclusioni ultimative ma osservare, a partire dalla parzialità del materiale a disposizione, cosa è in corso nel contesto italiano nel solco della trasformazione dei sistemi assistenziali.
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Este informe, titulado ¿Atrapados en un agujero? Discriminación y privación habitacional de los gitanos en las ciudades europeas, ofrece una exhaustiva exploración sociológica de las dinámicas que perpetúan las desigualdades habitacionales y la exclusión social de las comunidades gitanas en Europa. Basado en una metodología cualitativa rigurosa, el estudio abarca 128 entrevistas semiestructuradas y 10 grupos focales realizadas en cinco ciudades representativas: Barcelona, París, Milán, Gyöngyös/Miskolc y Târgu Mureș. Pregunta de investigación: ¿Cuáles son los factores estructurales e institucionales que originan y perpetúan la privación habitacional y la discriminación contra los gitanos en los entornos urbanos europeos, y cómo pueden abordarse eficazmente? Enfoque teórico: Anclado en una perspectiva sociológica crítica, el informe utiliza conceptos clave como el antigitanismo, la segregación residencial y la gobernanza multinivel para analizar cómo las políticas públicas y las prácticas institucionales moldean las desigualdades habitacionales. Además, destaca las dimensiones simbólicas y materiales de la exclusión, integrando una visión transnacional y comparativa. Principales resultados: Las condiciones de vivienda de las comunidades gitanas oscilan entre asentamientos precarios, ocupaciones y barracas, hasta dificultades en el acceso a viviendas sociales y centros temporales de acogida. Los mecanismos de discriminación están profundamente arraigados en las prácticas administrativas, desde los sistemas bancarios hasta las infraestructuras públicas, y generan barreras significativas para la inclusión. Una evaluación crítica de las políticas públicas revela tanto las limitaciones de los enfoques actuales como las oportunidades para el diseño de políticas más inclusivas, basadas en siete principios fundamentales. Valor añadido: El informe subraya la importancia de una gobernanza multinivel y de la implicación activa de las comunidades gitanas en la formulación e implementación de políticas. La comparación entre ciudades permite identificar patrones comunes y adaptaciones contextuales específicas, proporcionando un marco valioso para el diseño de intervenciones basadas en evidencia. Acceso al informe: Este informe está disponible en español, inglés, francés, italiano, húngaro y rumano. Los lectores interesados pueden descargarlo en este enlace o contactar al autor para obtener materiales complementarios, incluyendo presentaciones y resúmenes de casos específicos. Este trabajo es una contribución esencial para académicos, responsables de políticas públicas y profesionales interesados en comprender y abordar las desigualdades estructurales en el acceso a la vivienda en Europa.
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Ce rapport, produit dans le cadre du projet européen R-HOME - Roma: Housing, Opportunities, Mobilisation and Empowerment, explore les dynamiques complexes de la privation de logement et de la discrimination envers les Roms dans les villes européennes. Basé sur une étude qualitative menée dans cinq pays, il vise à mettre en lumière les mécanismes socio-politiques qui structurent les inégalités dans l'accès au logement. Ce rapport est accessible sur demande en contactant l'auteur, Tommaso Vitale, en français, hongrois, italien, anglais, roumain ou espagnol. Financé par le programme " Droits, égalité et citoyenneté " de l'Union euro-péenne (2014-2020). Sujet : REC-RDIS-DISC-AG-2018 - Appel à propositions pour soutenir des projets nationaux ou transnationaux sur la non-discrimination et l'intégration des Roms. Numéro de la convention de subvention : 849199 Question de recherche : Quels sont les principaux facteurs structurels et institutionnels qui engendrent et perpétuent la privation de logement et la discrimination des Roms dans les contextes européens, et comment peuvent-ils être surmontés ? Cadre théorique : Ancré dans une approche sociologique critique, le rapport mobilise les travaux sur les inégalités ethniques, la stratification résidentielle et les politiques publiques. Il s'appuie sur des concepts clés tels que l'antitsiganisme et la ségrégation résidentielle pour interroger les interactions entre politiques publiques, discrimination institutionnelle et dynamiques communautaires. Méthodologie : L'étude repose sur 128 entretiens semi-directifs et 10 groupes de discussion réalisés dans cinq contextes urbains (Barcelone, Paris, Milan, Gyöngyös/Miskolc, Târgu Mureș). Cette méthode comparative vise à dégager des similitudes et des différences transnationales dans les expériences des Roms face à la privation de logement et à la discrimination. Contenu du rapport : Conditions de logement : Analyse des formes variées de précarité, des squats aux logements sociaux, en passant par les bidonvilles et les centres d'hébergement temporaire. La section met en évidence l'impact de ces conditions sur la santé, l'éducation et la sécurité des familles roms. Discrimination en matière de logement : Étude des perceptions et des mécanismes de discrimination, notamment dans les relations avec le système bancaire, les services publics et les infrastructures. Politiques et programmes : Évaluation critique des instruments de politique publique, des programmes d'insertion urbaine et des initiatives locales. Cette section propose sept principes pour concevoir des politiques inclusives et équitables. Leçons apprises : Synthèse des recommandations, insistant sur l'importance d'une gouvernance multi-niveaux et de l'implication active des communautés roms dans l'élaboration et la mise en œuvre des politiques.
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Il concetto di sussidiarietà è spesso usato a sproposito, in particolare per contrappore forzatamente il terzo settore, banalizzato a "privato sociale", agli enti locali e alle istituzioni pubbliche. La sussidiarietà è ormai principio costituzionale, ed è urgente mostrarne la valenza euristica per intraprendere forme e strategie di collaborazione fra enti locali e terzo settore nella programmazione dell'insieme delle politiche sociali sui territori. In questo breve articolo inizierò tratteggiando per sommi capi alcuni dei maggiori problemi istituzionali che mettono a seria prova il welfare locale. Di seguito entrerò nel merito del concetto di sussidiarietà, con l'intento di fare un poco di chiarezza e di riflettere sulle ragioni per cui oggi la sussidiarietà è un criterio di estrema importanza nel campo delle politiche e dei servizi sociali. Tratterò poi un punto spinoso del dibattito: cosa è pubblico, oggi? Proverò, di conseguenza, a tematizzare i nessi fra sussidiarietà e autorità, per arrivare, infine, a discutere la posta in gioco per il terzo settore nella riflessione sulla sussidiarietà. L'articolo riprende le mie conclusioni alla giornata di studio "La sussidiarietà in solido", organizzata dal Forum del III settore a Milano il 15 marzo 2006, e rimanda alle note bibliografiche per degli approfondimenti mirati (...).
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L’hétérogénéité a souvent été soulignée comme étant l’une des caractéristiques distinctives du mouvement alter-globalisation, souvent qualifié, de façon significative, de « mouvement des mouvements » (Agrikoliansky, Fillieule, Mayer 2005). En Italie, c’est surtout la coprésence de matrices à orientation catholique et laïque qui caractérise le cycle de la protestation alter-globalisation. Un exemple suffira à l’illustrer. À l’été 2005, la coalition de centre gauche organise des primaires pour choisir un candidat commun aux élections générales de 2006. Prodi et Bertinotti (ancien secrétaire de Rifondazione Comunista et alors président de la Chambre des députés) sont les candidats les plus en vue (...).
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Territorial Pacts (TP) aim to improuve those elements of the social context, which can help generalized cooperation and local development processes. The systematic empirical research has pointed to two typical configuration of the local level concertation processes of the TP: the "integrative" TP and the "distributive" TP. This article has two main aims: (i) to argue that public policies can positively increase the social capital and trust of the local production systems, and (ii) that public policies can have positive effect also where the inherited social capital is a very low level. The major analytical framework used in this article tries to combine insights from game theory and network analysis, in the resolution of real world collective action dilemmas. To support the analytical schema, four case studies of TP in the same territorial area, will be sketched.
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The reform of social services enacted in Italy in 2000 (Law 328) is closely linked to a model of local governance based on negotiation and participation. In this respect, the law identifies in the "Piano sociale di zona" (Area Plan) the instrument for the associated and participated planning of services and social interventions of local communities falling within the same territorial domain. In this paper we analyse in detail four cases of multi-actor governance in Area Plans, with the aim to shed light on the role played in it by participation and on the type of participation that is given in it, with respect to four main aspects: who participates to what, where and how. Our research focuses on two "Piani sociali di zona" in the Lombardy Region (North of Italy) and two "Piani sociali di zona" in the Campania Region (South of Italy), by means of institutional analysis applied to participation issues. The dynamics of local governance we observed show, at last, that limited potentials (in term of resources) for participation can be increased thanks to an administrative action, which promotes and develops interest to participate. Vice-versa, high potentials can be channelled in rigid and hardly inclusive forms, by a public regulation directed towards the market model or of an authoritative nature.
La regione nell'organizzazione dell'assistenza, in "Le Regioni
  • U Pototschnig
U. Pototschnig, La regione nell'organizzazione dell'assistenza, in "Le Regioni", 1974, p. 941; ora in Id., Scritti scelti, Giappichelli, Padova 1999, p. 532.
Il federalismo in Italia: elementi di discussione
  • . C Cfr
  • Saraceno
Cfr. C. Saraceno, I livelli essenziali di assistenza nell'assetto federale italiano, in "Reforme", Federalismo 2006. Il federalismo in Italia: elementi di discussione, 2006, p.169, <www.reforme.it/federalismo/rapporto_2006_completo.pdf>.