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Alfredo Mela
La ricostruzione della comunità. Un’esperienza in ambito
marchigiano
1. Un intervento di comunità in situazione di post-emergenza
Anche in Italia, come in altri paesi, si è assistito – specie a partire dal terremoto dell’Aquila del 2009
– ad un’ampia mobilitazione di psicologi in occasione di eventi calamitosi; parallelamente si è venuto
consolidando il campo della psicologia dell’emergenza, con l’approfondimento dei fondamenti teorici e la
sedimentazione di metodologie e lezioni apprese da esperienze sul campo. Il contesto principale di azione
degli psicologi è la fase dell’emergenza, sia nel momento immediatamente dopo l’evento, sia in quello in
cui – grazie all’intervento di soccorritori – viene allestito un “territorio provvisorio” (fatto di tendopoli, o
di strutture di accoglienza come hotel o villaggi turistici), destinato a rappresentare il teatro della vita
quotidiana degli sfollati per alcuni mesi.
Benché non sia assente nei testi italiani dedicati al ruolo professionale dello psicologo in situazioni di
emergenza il riferimento a finalità di diversa natura1,lo scopo principale dell’intervento è il supporto
individuale all’elaborazione dell’evento traumatico e la prevenzione della manifestazione di condizioni
patologiche, quali i disturbi d’ansia o il PTSD.D’altra parte, anche nella letteratura internazionale
mainstream(soprattutto nel contesto anglosassone) tale compito compare per lo più come quello
principale da perseguirecon livelli diversi di intervento: quello immediato del primo soccorso psicologico
e quello di una prevenzione successiva, in tempi più lunghi, attraverso tecniche specifiche, come gli Skills
for PsychologicalRecovery (Berkowitzet al., 2010). Peraltro alcuni autori - anche facendo riferimento ad
esperienze italiane come il terremoto emiliano - hanno fatto notare che questa concentrazione quasi
esclusiva sul trauma individuale ha rappresentato un limite degli interventi psicologici in occasione di
calamità, osservando che in futuro sarà necessario dedicare maggiore attenzione ai fattori di resilienza a
livello familiare, di organizzazione, di comunità (Reifelet al., 2013).
Nel seguito di questo articolo si parlerà di un caso di intervento psicologico in una comunità colpita
dagli eventi sismici dell’Italia centrale (agosto 2016 - gennaio 2017) nel quale, in controtendenza rispetto
a quanto prima osservato, l’approccio si ispira alla psicologia di comunità e l’obiettivo è proprio quello di
stimolare la resilienza al livello collettivo. Questo tipo di azione non sarà presentato come alternativa al
supporto individuale; anzi, un’attenzione personale a specifiche persone è parte integrante dell’azione
svolta. Piuttosto, la sua peculiarità sta nel fatto di collocarsi in una fase successiva a quella della prima
emergenza, ovvero nel periodo in cui si avvia il processo dicommunity recovery,la ricostituzione
materiale ed immateriale della comunità dopo le lacerazioni dovute non solo al terremoto, ma anche alle
modalità con cui la macchina dei soccorsi ha operato (talora per ragioni di necessità) e, in particolare,
quelle legate alla separazione fisica della popolazione tra la parte che è sempre restata nella propria
località e quella che è stata trasferita in strutture della costa marchigiana.
Prima di entrare nel merito del caso, tuttavia, è necessario accennare ai presupposti teorici e
metodologici dell’intervento, iniziando con una riflessione critica sullo stesso concetto che ne è alla base,
vale a dire quello di resilienza comunitaria.
2. L’idea di resilienza comunitaria.
Come è noto, il termine resilienza è oggi largamente usato in molti campi delle scienze umane (dalla
psicologia, alla sociologia, dagli studi ambientali alla pianificazione territoriale) ed è oggetto di molteplici
e talora controverse definizioni ed interpretazioni (Norris, 2007;Windle, 2011). Per quanto riguarda, più
specificamente, la nozione di resilienza comunitaria, Berkes e Ross (2013) suggeriscono che vi sono
fondamentalmente due filoni della letteratura che concorrono a delinearla ed i cui contributi potrebbero
essere oggetto di una fruttuosa ibridazione.
1Ad esempio un documento dell’Ordine degli Psicologi del Lazio (2016, p. 6) cita, tra i compiti della psicologia delle
emergenze, quello della «riparazione del tessuto sociale lacerato».
1
Il primo deriva dalle discipline ecologiche ed ha il proprio centro nel concetto di Socio-Ecological
Systems (SES). Esso pone l’accento sulle proprietà di sistemi derivanti da processi coevolutivi che
producono una stretta interazione tra una comunità ed il proprio ambiente naturale e costruito (Adger,
2000; Cote eNightingale, 2012). La resilienza socio-ecologica indica la capacità di un sistema di
affrontare turbamenti conservando la propria identitàgrazie a processi di auto-organizzazione,
apprendimento e adattamento. L’adattabilità e la capacità di trasformarsi rappresentano due prerequisiti
fondamentali della resilienza (Folkeet al., 2010).
Il secondo filone – più vicino all’approccio adottato nell’intervento in oggetto – ha una più diretta
derivazione psicologica: esso si focalizza sulle proprietà di una comunità che la rendono adatta ad
affrontare le sfide che provengono da condizioni avverse e/o rapidi cambiamenti (Berkes eRoss, 2013). In
questo tipo di letteratura molti contributi focalizzano l’attenzione sullo studio dei fattori(o, più
operativamente, degli indicatori) che favoriscono la resilienza comunitaria, ovvero sull’analisi del ruolo
che singoli elementi hanno avuto in date situazioni di emergenza. Tra i fattori presi in considerazione vi è
ad esempio il capitale sociale (Aldrich, 2010), la diversificazione delle risorse economiche e la loro equa
distribuzione, l’atteggiamento della leadership e delle istituzioni, la rete di relazioni con altre comunità,
gli orientamenti valoriali che inclinano all’attivazione e alla cooperazione per scopi collettivi, la presenza
di competenze atte ad affrontare i disastri, la presenza di servizi, di relazioni positive con i luoghi, di reti
informative efficienti ed affidabili.
Benché l’individuazione di fattori di resilienza preesistenti ad un evento negativo sia di indubbia
importanza non solo a scopi analitici, ma anche di prevenzione e mitigazione degli effetti, la resilienza
non può essere considerata come una proprietà statica di una comunità, ma si manifesta soprattutto in
forma dinamica. Più che consistere in un complesso di caratteristiche invarianti, si esprime come un
processo con cui una comunità, attingendo da varie risorse, cerca di affrontare le sfide che la situazione
post-disastro presenta, lungo una traiettoria prolungata nel tempo (Kirkmaieret al., 2009). Questo aspetto
merita di essere sottolineato perché si lega ad un possibile fraintendimento o ad usi distorcenti del
concetto di resilienza. Il principale vantaggio di questo, infatti, sta nel fatto che esso attribuisce un ruolo
attivo alla comunità nel percorso che va dalla prima emergenza alla ricostituzione. Se, tuttavia, si tende ad
identificare la resilienza come una proprietà statica, tale ruolo attivo viene sminuito e sostituito da una
sorta di determinismo che, a seconda dei caratteri che si ritengono più importanti, fa dipendere
interamente l’esito di un processo da preesistenti fattori ecologici, culturali, sociali o economici. Peggio
ancora, in questa prospettiva si potrebbe giungere a ritenere che tale esito (positivo o negativo) sia
imputabilesolo ai caratteri strutturali della comunità: si produrrebbe in tal modo un implicito scarico di
responsabilità tanto nei confronti delle pratiche e delle scelte politiche esterne che hanno condotto ad un
disastro, o ne hanno amplificato gli effetti, quanto a riguardo della efficacia ed appropriatezza della
macchina dei soccorsi e dei piani di ricostruzione. In questa interpretazione, dunque, la resilienza
diverrebbe un alibi per una considerazione de-politicizzata degli eventi calamitosi e per una
giustificazione delle debolezze dell’intervento pubblico, aprendo la via ad una sorta di privatizzazione dei
disastri (Pellizzoni, 2017).
In contrasto con tale ottica, un buon uso del concetto di resilienza implica una considerazione
effettivamente dinamica delle modalità con cui una comunità reagisce a situazioni avverse, attivando
risorse già presenti al proprio interno o reperibili in reti di cui fa parte, interagendo in modo attivo con
quelle messe a disposizione dall’intervento esterno delle istituzioni, richiedendo che esse siano fornite in
forme culturalmente appropriate ed adeguate alle necessità locali. L’attenzione alla resilienza, dunque,
non mette in ombra la dimensione politica dell’evento; al contrario esige che questo sia inquadrato in un
contesto più ampio di cause, attori e responsabilità.
3. L’intervento nella comunità di Fiastra
Il caso specifico di cui si parlerà ora concerne un intervento ispirato alla psicologia di comunità in un
contesto dell’alto maceratese – il comune di Fiastra – messo in atto a partire dal novembre 2016 da due
associazioni torinesi, Psicologi nel Mondo-Torino e Psicologi per i Popoli-Torino, con l’intento di
stimolare la resilienza comunitaria della popolazione locale e di accompagnarla in un percorso verso la
ripresa socio-economica ed il benessere psicologico.
Fiastra è un comune del Parco Nazionale dei Monti Sibillini: la sua popolazioneal 1-1-2016 era di 666
abitanti. Essa è in costante diminuzione nel secondo dopoguerra, con un calo che prosegue – sia pure con
andamento più rallentato - anche in questo secolo. Dall’inizio del 2017 la municipalità ha incorporato il
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confinante comune di Acquacanina, di popolazione ancora più esigua (122 abitanti alla fine del 2016). Il
concentrico di Fiastra è situato ad un’altitudine leggermente superiore ai 700 metri; tuttavia, numerose
altre frazioni (che includono numerose seconde case, per lo più abitate in estate da persone di origine
fiastrana residenti a Roma o in altre città) sono presenti nel territorio comunale a quote inferiori o
superiori.
Marginalmente interessata dal terremoto del 24 agosto 2016, Fiastra è stata colpita dal sisma del 26
ottobre e, con intensità ancora maggiore, da quello del 30 ottobre, che ha danneggiato gravemente
l’abitato, pur non provocando vittime o feriti gravi. Ciò è dovuto in larga parte al fatto che, tra le date dei
due terremoti di fine ottobre, un’ampia parte della popolazione locale è stata spostata in strutture ricettive
del litorale e in particolare in due villaggi turistici di Porto Recanati.
La separazione della comunità tra la parte rilocalizzata sulla costa e quella rimasta sulla montagna ha
prodotto per entrambe non solo condizioni di disagio fisico e psicologico, ma anche effetti di rottura della
coesione. Tali fenomeni sono, del resto, analoghi a quelli osservati in altri eventi; per quanto concerne il
disagio psicologico individuale vi sono indizi che fanno pensare che anche in questa circostanza i danni
maggiori siano stati subiti dalla popolazione allontanata dalla propria sede abituale, nonostante la minore
esposizione ai rischi di nuove scosse. Un effetto, questo, già studiato in contesti ben differenti da quello in
oggetto (Fullilove, 2014; Winstanley, Hepi e Wood, 2015); su di esso incide il carattere forzato dello
spostamento, la separazione dai luoghi di vita quotidiana e la permanenza prolungata in una condizione di
ridotta autonomia e, per molti, di inattività indesiderata.
L’intervento delle due associazioni torinesi è stato definito dopo un’iniziale ricognizione nell’area
terremotata marchigiana, grazie a contatti favoriti da membri delle Brigate di Solidarietà Attiva (BSA)
operanti in quel contesto. Tra i vari centri visitati si è scelto di intervenire nel comune di Fiastra, grazie
alla richiesta dell’amministrazione comunale e alla presenza di soggetti attivi della società civile (in
particolare il gruppo “Ricostruiamo Fiastra”). Il mandato fondamentale è stato quello
dell’accompagnamento della comunità verso una ricomposizione delle problematiche legate alla
separazione e verso un rilancio delle attività economiche e sociali.
L’azione svolta si è basata su principi teorici e metodologici messi a fuoco anche in precedenti
esperienze di lavoro di comunità compiute – specie in contesti di cooperazione internazionale - da alcuni
membri delle associazioni torinesi (Chicco e Mela, 2016). Essi comprendono, in primo luogo, l’idea che
l’azione non corrisponde all’implementazione di un progetto predefinito, ma si modella nel tempo in base
alle esigenze mutevoli della comunità. Queste ultime non sono stabilite unicamente in base all’analisi
degli operatori esterni, ma sono discusse – in forma paritaria – con gli attori locali e in particolare con i
leader istituzionali e non istituzionali.Il gruppo di lavoro, pur essendo costituito prevalentemente da
psicologi, ha all’interno altri tipi di competenza2; ciò in quanto si ritiene che lo stesso benessere
psicologico delle persone dipenda non solo da caratteri intrapsichici o relazionali, ma anche da condizioni
esterne, quali l’agire dellagovernance locale e sovralocale, le dinamiche socio-economiche che
coinvolgono la comunità e la qualità dell’ambiente fisico. Infine, come già osservato, l’intervento ha per
scopo la riattivazione di risorse di resilienza già presenti, ma in qualche misura bloccate dagli effetti dello
stress derivante dal terremoto e dalle vicende delle fasi successive, caratterizzate da prolungata incertezza
sul futuro. Il modello di riferimento per l’azione può essere avvicinato a quello della Participatory Action
Research, con unapriorità all’ambito dell’azione su quello analitico e con influenze dei modelli latino-
americani legati alla psicologia della liberazione (Montero, 2004).
Le linee d’azione, messe in atto per mezzo di visite mensili a Fiastra (della durata di 4 o 5 giorni) da
parte di un gruppo dioperatoritorinesi,hanno riguardato diversi aspetti della situazione post-terremoto, con
un’evoluzione delle attività che ha cercato di seguire il succedersi delle esigenze emerse. In un primo
tempo si è operato parallelamente nel municipio ed in una delle strutture di Porto Recanati, che
raccoglieva un ampio gruppo di sfollati provenienti dalla comunità: in questa fase si sono realizzati
gruppi di ascolto in entrambi i contesti, in un setting protetto, che hanno consentito ai partecipanti di
parlare liberamente dell’esperienza personale del terremoto, delle sue conseguenze psicologiche a livello
individuale e familiare, delle preoccupazioni per il futuro. Sempre in parallelo si è lavorato sia in
montagna, sia sulla costa, con i bambini e gli adolescenti: questa attività ha avuto come sede principale la
scuola elementare e media3. Anche con i bambini si sono svolti incontri di ascolto delle esperienze e
preoccupazioni; in essi sono emerse con forza non solo le conseguenze del terremoto (e, per chi stava al
2In particolare, il gruppo di intervento è composto da Anna Maria Bastianini, Tiziana Celli, Ester Chicco, RozyDako, Carla
Ortona (psicologhe e psicoterapeute), Alfredo Mela (sociologo), Camilla Falchetti (architetto), Franco Moggi (esperto di sviluppo
locale). Ha dato un contributo ai lavori anche il regista Enrico Masi.
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mare, i timori legati al ritorno in un luogo che iniziava ad essere percepito come lontano e pericoloso), ma
anche quelle della separazione da amici e compagni di classe.
Un’altra linea di attività, nella quale sono stati coinvolti bambini, adolescenti ed adulti, ha riguardato
la progettazione partecipata per il recupero di uno spazio verde a Fiastra. Infatti, per esigenze legate alla
collocazione di alcuni container destinati ad ospitare attività di servizio, l’unico giardino del villaggio
attrezzato per il gioco dei bambini è stato smantellato. Tuttavia, poco a lato dell’abitato esiste un giardino
(inizialmente destinato a ricordare le vittime di guerra) che era stato frequentato dalle generazioni
precedenti, ma era ormai da tempo in stato di abbandono. Il recupero di questo spazio è stato visto, in
accordo con l’amministrazione comunale, come l’occasione per ricreare un punto di incontro, il cui valore
simbolico è accresciuto dal fatto di essere al tempo stesso un luogo tradizionale e rinnovato, atto dunque a
sottolineare la continuità nel tempo della comunità e la sua ripresa dopo l’impatto del terremoto e della
separazione. Inoltre, il fatto che la sua nuova forma nasca anche da un percorso partecipativo può
contribuire ad un’appropriazione affettiva di questo luogo, come punto di partenza per una più
generalizzata riappropriazione del territorio, nonostante i mutamenti intervenuti, alcuni dei quali – come
la demolizionedella scuola, irrimediabilmente danneggiata dal sisma - sono irreversibili.
Altre linee di lavoro hanno poi riguardato il sostegno alle operatrici del parco, in vista della ripresa
delle iniziative estive, la circolazione delle informazioni, come pure il sostegno individuale e di gruppo a
persone in particolare difficoltà, soprattutto anziane. Nel periodo più recente, che ha visto la fuoriuscita
dalle strutture turistiche della costa ed il ritorno di una parte rilevante della popolazione a Fiastra, si è
posto il problema della celebrazione tanto dell’anniversario dei terremoti di fine ottobre, quanto del
nuovo inizio delle attività scolastiche nel territorio comunale, sia pure in sedi ancora provvisorie. Come è
stato spesso osservato, la dimensione rituale ha un ruolo essenziale nella ricostruzione delle comunità
dopo eventi dolorosi (Sbattella, Tettamanzi e Iacchetti, 2005) e, in particolare, la ricorrenza
dell’anniversario di un disastro rappresenta un momento carico di valenze emotive, nel quale possono
riemergere gli aspetti traumatici del vissuto (Nemethet al., 2012) con effetti depressivi. L’intervento
effettuato ha aiutato a prendere coscienza di questi aspetti ed ha favorito lo sviluppo di iniziative sia in
occasione del primo giorno di scuola, sia in quella dell’anniversario dei sismi del 26 e 30 ottobre. A
riguardo di quest’ultimo tema è stato condivisa la convinzione che non si deve negare l’esigenza di
mantener viva la memoria delle sofferenze subite in occasione del terremoto e nei mesi successivi, ma
evitare che il ricordo si fissi univocamente sugli aspetti più dolorosi, inquadrandolo invece in un contesto
più ampio e dotato di una dimensione evolutiva, aperta al futuro. Appare emblematico di questo
approccio il titolo delle iniziative di celebrazione dell’anniversario, scelto dal gruppo di cittadini che ha
organizzato l’evento di fine ottobre: “Fiastra tra buio e luce. Racconti di un paese in movimento”.
4. Note conclusive
L’ intervento ora illustrato si avvia alla conclusione, ma non è stato ancora sottoposto ad una
valutazione ex post, che consenta di mettere in luce gli elementi positivi e negativi del percorso compiuto
e le lezioni apprese. Tuttavia, in sede conclusiva vale la pena di sottolineare ancora una volta come
l’intervento esterno non si sia configurato altrimenti che come un tentativo di stimolazione delle risorse
collettive ed individuali e della resilienza comunitaria, in base all’interpretazione di essa che è stata
ricavata interagendo con un insieme di soggetti operanti in ruoli istituzionali o informali. Non si è trattato
dunque di un progetto che intendesse modificare, con l’applicazione di un metodo precostituito, variabili
di un sistema ritenute disfunzionali, né principalmente curarei sintomi di una possibile traumatizzazione
delle persone colpite dal sisma.
Si è ritenuto piuttosto che le forme di resilienza di cui la comunità è dotata fossero già in azione e
stessero producendo un’evoluzione della situazione; tuttavia si sono osservati anche fattori di blocco e di
contrasto sui quali è apparso utile lavorare. E’ questo, tuttavia, un lavoro che non opera un attacco
frontale nei confronti degli aspetti problematici, ma cerca di inserirsi nei processi in corso, rafforzando le
tendenze che sembrano andare in direzione di esiti positivi. E’ un modo di intervenire che ricorda quanto
dice Jullien (2015), riferendosi alla filosofia cinese, a riguardo dell’agire “di sbieco”: «invece di mettere
in rilievo l’iniziativa del soggetto, tratto specifico del procedere metodico, lo sbieco apre un margine di
manovra in reazione alla difficoltà incontrata intraprendendo una deviazione per disinnescarla» (p. 78).
3E’ importante notare, a tale proposito, che gli allievi spostati al mare hanno continuato ad avere in classe i propri insegnanti,
che si sono divisi tra le aule di Fiastra e i locali messi a disposizione a tal scopo da un istituto salesiano di Porto Recanati.
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Prendere sul serio la resilienza comunitaria porta dunque a privilegiare l’azione obliqua, che segue la
situazione lungo la via che essa già ha imboccato, ma non rinuncia ad imprimere piccole spinte laterali,
utili a superare fattori di blocco e ad evitare cortocircuiti.
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