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«What kind of dirt do you need?»: Da San Diego e Tijuana a Venezia: Border Art oltre i confini

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Abstract

Storie dell’arte contemporanea , diretta da Nico Stringa e Stefania Portinari, mappa indagini legate alla storia e al sistema dell’arte contemporanea, declinandosi in ambiti di ricerca connessi a studi compiuti per progetti ideati con l’Ateneo, per specifici argomenti del contemporaneo, comprensivi anche della storia delle arti decorative e del design, in monografie su temi sia veneziani che internazionali.
Border Art Workshop/Tallér de Arte Fronterizo (BAW/TAF), Pianta dell’installazione
Colón Coloni zado - Tutto è Mio - ¿De Qui én?, 1990, Venezi a, La Biennal e di Venezia.
Coutesy dell’artista Richard Alexander Lou
Storie dell’arte contemporanea 4 | Atlante delle Biennali 1
ISSN 2704-9973
ISBN [ebook] 978-88-6969-366-3 | ISBN [print] 978-88-6969-367-0
Open access 229
Published 2019-12-18
© 2019 | cb Creative Commons Attribution 4.0 International Public License
DOI 10.30687/978-88-6969-366-3/015
Storie della Biennale di Venezia
a cura di Stefania Portinari e Nico Stringa
Edizioni
Ca’Foscari
Edizioni
Ca’Foscari
«What kind of dirt do you need?»
Da San Diego e Tijuana a Venezia:
Border Art oltre i confini
Andrea Masala
Abstract Only one year aer the fall of the Berlin Wall, in 1990, another border could
be obser ved at the Aperto section of the Venice Biennale. It was the work Colón Coloni-
zado – Tutto è Mio – ¿De Quién? by the Border A rt Works hop/Tallér de Arte Fronter izo (BAW/
TAF), a binational colle ctive of art ists from the S an Diego-Tijuana borde r region. The pro-
ject cor responds to the fir st landing of Border Art overseas , but also to the disso lution of
the BAW/TAF. The work is ther efore subject and co nductor of the es say. Its site-specificity
aspec ts are deepen ed in relationship to t he Biennale’s exhibiti on context. Th e analysis of
this case s tudy will prese nt the Venice Biennial as a key m oment and a stage fo r the trans-
formation of the border space from ge ographical-ter ritorial to mental and conceptual.
Keywords B order. Space. Border Ar t. BAW/TAF. Site-spe cificity.
Quando siamo messi con le spalle al muro, possiamo provare un sen-
so di oppressione o claustrofobia; se ci voltiamo verso di esso, inve-
ce, può nascere in noi un’esplosione di creatività.1 I conni nazionali,
siano essi marcati o no da muri e barriere, hanno il medesimo eet-
to sugli artisti, che riescono a trasformare l’angoscia dell’occlusione
in arte e bellezza. Allo stesso modo, voltare le spalle a un problema
e ngere che non esista non fa che incrementarlo, mentre guardarlo
Questo saggio prende av vio da Masala, A ndrea (2019). T/HERE. Borders Art a San Die-
go e Tijuana (1970-2005) [tesi di laurea magistrale]. Relatore Giuseppe Barbieri; cor-
relatore Cri stina Bald acci. a.a. 2018/2019. Venezia: Università Ca’ Foscar i Venezia.
1 La riessione è ispirata a Casey, Watk ins 2014.
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dritto in faccia ore l’opportunità di superarlo e renderlo un punto
forte della nostra identità e della nostra storia. Questo fu lo spirito
che mosse l’attività del Border Art Workshop/Tallér de Arte Fronte-
rizo (BAW/TAF), una collettiva bi-nazionale e attivista di artisti im-
pegnati nell’arontare il tema del conne (border) in un particola-
re contesto: il tratto del lungo conne tra Stati Uniti e Messico che
attraversa il complesso urbano di San Diego e Tijuana. Nel 1990, il
BAW/ TAF2 ebbe modo di portare questo conne all’interno della se-
zione Aperto della XLIV Biennale di Venezia Dimensione Futuro. La
loro opera, Colón Colonizado – Tutto è Mio – ¿De Quién?, ebbe modo
di far superare alla cosiddetta Border Art statunitense e messicana
i conni territoriali entro i quali si era espressa no a quel momen-
to. In altre parole, questo progetto corrisponde al primo esempio ol-
treoceano di un genere artistico sviluppatosi e manifestatosi appo-
sitamente sul conne e lungo i territori ad esso adiacenti.
La partecipazione del BAW/TAF con questa installazione non sarà
solamente l’argomento di questo intervento, ma anche il suo lo con-
duttore. Intendo, infatti, avanzarne una lettura in chiave di site-speci-
city, ma anche adottare questo caso di studio come pretesto per ri-
portare l’attenzione sul particolare rapporto tra artisti e conni e sulle
diicoltà dell’adattare un simile spazio geo-politico ad altri contesti.
Era il 1990 e, solamente un anno prima, il conne che aveva di-
viso il mondo in due, il Muro di Berlino, era caduto lasciando spazio
all’idea di liber e globalizzazione, incarnate dalla sensazione di
uno spazio riacquistato e nella consapevolezza di essere alla ne di
un lungo secolo contraddistinto da divisioni e muri politici (GREPPI
2019). Alla Biennale di Venezia il nuovo spazio post-Berlino echeggia
-
va nella mostra Ambiente Berlin all’interno del Padiglione Italia, dove
Emilio Vedova esponeva Absurdes Berliner Tagebuch e Hans Ticha la
sua tela Il Muro. A conferma della ne dell’incomunicabilità dei due
blocchi mondiali stava l’opera dello statunitense Rauschenberg as-
sieme a un gruppo di giovani artisti dell’ex Unione Sovietica (Di Mar-
tino 2003, 78). Un’epoca era nita e un’altra prendeva il suo posto,
come dimostra l’attenzione verso il futuro spiegata dall’allora diret-
tore del settore arti visive, Giovanni Caradente, come un occhio di
riguardo per gli artisti emergenti:
Il titolo Biennale ’90, Dimensione Futuro voleva essere semplice-
mente benaugurante, dato che vi era internazionalmente privile-
giata la selezione di artisti più giovani rispetto alla passata Bien-
nale. […] “L’artista e lo spazio” […] è l’altra possibile denizione
2 Gli art isti del BAW/TA F che col laborarono al progetto per la Biennale furono: Ya-
reli Arizmendi, Carmela Castrejon, Berta Jottar, Richard Alexander Lou, Robert San-
chez, Michael Schnorr.
Andrea Masala
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che si può aidare a questa Biennale, come essa è venuta con-
gurandosi, non solo in Italia, ma anche negli altri paesi del mon-
do, a mano a mano che gli artisti prendevano contatto con lo spa-
zio loro assegnato. (Caradente 1990, 16)
In questa generale ripresa di ato a seguito della lunga immersio-
ne nel secolo degli ‘ismi’ e delle grandi fazioni mondiali, la presen-
za in Biennale di un gruppo artistico incentrato sul tema del conne
sembrava riportare le coscienze davanti alla realtà. Nonostante ciò,
la partecipazione del BAW/TAF rimaneva perfettamente contestua-
lizzata e giusticata. La riessione sullo spazio, su cui insisteva Ca-
radente, era stata, infatti, centrale all’attività del gruppo, già dalla
sua fondazione, precedente di soli sei anni. Lo si può leggere chiara-
mente in una prima dichiarazione d’intenti, che aerma quanto se-
gue in toni da manifesto avanguardistico:
The BAW/TAF proposes the planning and production of the rst bor-
der opera dening our region from the perspective of people who
live and work in our binational borderland. The San Diego/Tijuana
region, Los Angeles, Seoul and Tokyo are the spokes of the Pacic
Rim. We feel that our cross-cultural binational neighborhood is more
than ready for a complex multilayered-layered mixed media prod-
uct with people who understand the beauty and problems of living
in the most traicked international border crossing in the world.3
Si comprende bene che l’intera poetica artistica del BAW/TAF era
stata sviluppata a partire proprio da una riessione sullo spazio, de-
clinata, in questo caso, in base alla delicatezza e alle peculiarità di
un luogo che merita di essere introdotto prima di un’analisi dell’o-
pera in Biennale.
L’area geo-politica e socio-culturale sviluppatasi lungo le due città
frontaliere di San Diego e Tijuana è ancora oggi teatro di una forte
cultura ibrida, in cui linguaggi messicani si mescolano a pratiche sta-
tunitensi inuenzandosi a vicenda (Anzaldúa 1987, 3). Questo confer-
ma in primis quanto espresso in apertura, ovvero che un conne non
impedisce aatto gli scambi culturali, ma funziona da stimolo crea-
tivo e da punto di incontro. Inoltre, questo aspetto è prova ulteriore
della simbiotica e intensa connessione tra cultura e spazio in questa
particolare area. Un sito diviso da un conne risulta, infatti, pregno
di una marcata intensità semantica. Essa è la conseguenza del prin-
cipale scopo di un border, ovvero, quello di delimitare, denire e di-
3 San Diego (CA), University of California in San Diego, Geisel Library, Special Col-
lections & Archives, Michael Schnorr Collection of Border Art Workshop/ Tallér de Arte
Fronter izo R ecord s, 1978-2008, MSS 0760, Box 1, Folder 10, Group Statement.
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stinguere ciò che sta ‘da questa parte’ da ciò che sta ‘da quella par-
te’. Un conne nazionale spesso presuppone che al di di esso vi
sia un ‘altrove’, in cui si parla un’altra lingua, dove abita un’etnia di-
versa e dove si portano avanti dierenti culture e tradizioni. In so-
stanza lo spazio diventa doppio e si fa carico di diversi signicati e
accezioni che costantemente inuenzano e rimodellano la vita del-
le persone in base alla loro posizione rispetto alla linea frontaliera.
Sebbene il BAW/TAF avesse già arontato queste tematiche in una
serie di performance e ins tallazioni eseguite sulla borderline stessa,
il progetto per la Biennale fu particolarmente diicoltoso da realizza-
re. Come si sarebbe potuta rendere la medesima intensità dello spa-
zio di frontiera all’interno di un contesto geograco, culturale e espo-
sitivo così lontano da esso com’era, di fatto, la Biennale di Venezia?
Per rispondere al quesito e entrare nel merito della questione si
rende necessario fare delle premesse e delle precisazioni, che tor-
neranno utili al lettore per recepire meglio il linguaggio dell’opera
Colón Colonizado – Tutto è Mio – ¿De Quién?.
Innanzitutto occorre chiamare le cose con il proprio nome: il ter-
mine border si riferisce a ogni tipo di conne esistente, geograco
o mentale che sia. È quindi possibile riferirsi in termini di border a
questioni relative al genere, all’identità, all’orientamento sessuale,
all’etnia e alla classe sociale. Ci troviamo dinnanzi a un border ogni-
qualvolta vi sia una divisione tra ciò che è consueto e ciò che è di-
verso, tra il consentito e il proibito, tra il comune e il diverso, tra il
dentro e il fuori, tra noi e loro. In sostanza i conni stanno contem-
poraneamente ovunque e da nessuna parte, poiché ne esistono in-
nite tipologie che costantemente instauriamo e oltrepassiamo. Di
conseguenza la Border Art nisce per riettere questo caleidosco-
pico ventaglio di applicazioni tramite l’adozione di un’insieme di lin-
guaggi multimediali che presentano le due principali accezioni di
border – territoriale e mentale – come interconnesse e spesso inter-
dipendenti tra loro. Anche per questa ragione, lo status quaestionis
è andato nel tempo focalizzandosi sempre più sugli eetti meno tan-
gibili e più sociali del border, no ad abbattere i conni disciplinari
dei border studies, dei gender studies, dei de-colonial studies a favo-
re di approcci transdiciplinari che, di volta in volta, sottolineano for-
za e debolezza di questo concetto (Zaccaria 2004, 8).
L’accezione che maggiormente interessa questo scritto, ovvero la
separazione tra due territori o due nazioni, rimane quella più imme-
diata e tangibile di questo sfaccettato e poliedrico concetto. Non a
caso, l’etichetta Border Art venne a galla per la prima volta proprio
in relazione all’operato del BAW/TAF (Chávez 1993, 5) che – come si
è precisato – era focalizzato sul comprendere e divulgare le contro-
verse dinamiche geo-politiche e socio-culturali della border region.
Prima dell’operato del BAW/TAF era stata la Chicana/o Art ad oc-
cuparsi di questi problemi, sebbene con un’accezione e con degli in-
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tenti dierenti. Quest’ultima si era protratta durante i tormentati e
movimentati anni ’60 e ’70 del Novecento, gli anni derivati dal pre-
cedente riuto di Rosa Parks a cedere il suo posto sull’autobus a un
uomo bianco. Durante quel periodo di lotte per i diritti civili e per
l’uguaglianza tra le minoranze e tra i sessi, lo spirito rivoluzionario
non era venuto a mancare tra le minoranze messicane degli USA, i
cui membri sono meglio noti come chicanas/os. Esse avevano trovato
nell’arte, specialmente nel muralismo (cf. Barnett 1984) e nella gra-
ca, il principale strumento per la promozione delle proprie idee e per
l’avanzamento delle loro lotte civili. Le due tecniche artistiche ave-
vano permesso loro di lamentare le diicoltà derivate dalla propria
condizione minoritaria, come la subalternità lavorativa e le varie in-
giustizie spesso subite dal razzismo comune nella società angloame-
ricana dominante. Il tema dell’immigrazione era il collante tra tutti
questi problemi, nonché quello più connesso al border.
Questo consolida ulteriormente il rapporto di interdipendenza e
consequenzialità tra border sico e mentale. Infatti, questi problemi
avevano avuto origine dalla creazione della linea territoriale, trac-
ciata sulle mappe nel 1848 e stabilita sulla carta tramite il trattato
Guadalupe Hidalgo. Ancora oggi essa costituisce il lungo percorso
del conne tra il primo e il terzo mondo, tra Stati Uniti e Messico. Ad
animare il Movimiento Chicano accorreva il grido «we did not cross
the border, the border crossed us», perfett a test imonia nza del la dia-
spora (Davalos 2001, 21) a cui il popolo messicano venne destinato
da questa linea. In sintesi, il conne aveva tagliato in due il Nuovo
Mondo collegando idealmente l’Oceano Atlantico a quello Pacico e
frammentando in molteplici border mentali le coscienze delle popo-
lazioni che abitavano a cavallo di questa linea.
La parola workshop come denominativo del BAW/TAF restituisce
l’idea di un laboratorio impegnato a comprendere ciò che avviene in
questa zona, piuttosto che il nome di un gruppo di artisti. Non a caso,
alcuni fondatori del BAW/TAF provenivano dalla precedente esperien-
za chicana, che si era aievolita verso la ne degli anni ’70. Ad essi ap-
parteneva Victor Ochoa, il quale mi racconta durante un’intervista:4
I am one of the original founders of the Centro Cultural. […] We
had dierent disciplines and artists: poets, dancers… we had all
the di erent discipline s, et c. So we were going to a dierent di r ec-
tion and – you know – I think in 1984 we received a grant. […] I was
a director there at the Centro, and we decided what kind of a pro-
je ct we wa nted to do…, and we ca me up with this thing on the bor -
der. So, then, what we did was starting to invite artists to dialogue
about doing some project about the border as a group of artists.
4 Interv ista di And rea Masala a V ictor Ochoa, San Diego (CA), 9 dicembre 2018.
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Assieme a Ochoa si radunarono attorno al Centro Cultural de La Ra-
za (un edicio espositivo del Balboa Park di San Diego, sede del grup-
po), gli artisti Michael Schnorr, David Avalos, Sara-Jo Berman, Isaac
Artenstein, Guillermo Gómez-Peña e Jude Ederhart. Tutti vantavano
trascorsi, linguaggi artistici, idee, genere, provenienza e cultura dif-
ferenti: alcuni di loro, infatti, erano statunitensi, altri chicanos, al-
tri ancora messicani.
In base a quanto aermato nora, non sarebbe una forzatura in-
tendere questo aspetto come una prima inuenza da parte dello spa-
zio sulla border art. La provenienza degli artisti da luoghi dierenti
causò, infatti, la convergenza di molteplici linguaggi, di diversi pa-
nieri tematici, di più medaglioni iconograci. Ogni artista rappre-
sentava quasi un’enclave del proprio Paese, del quale portava con sè
i tratti, la lingua e le principali caratteristiche. Per questo motivo, il
periodo di attività del BAW/TAF viene identicato come la fase della
‘multiculturalità’ della Border Art (Berelowitz 2003, 143-81). L’ete-
rogeneità etnico-culturale del gruppo vide, inoltre, il numero di ar-
tisti partecipanti variare di volta in volta. Le dierenze interne si
esprimevano anche in termini di genere: tra i sette membri fondato-
ri, solamente due (Jude Eberhardt e Sara Jo Berman) erano donne.
Le due artiste, sposate rispettivamente con Isaac Artenstein e Guil-
lermo Gómez-Peña, si ritrovarono spesso a ricoprire un ruolo margi-
nale nei progetti e nelle decisioni nel gruppo. Per questo motivo, nel
1988, decisero di separarsi dal gruppo e di fondare con altre artiste
un corr ispet t i vo fe m m i n i le del BAW/ TA F, da loro denom i n ato Las Co -
madres (Sánchez 2007, 158-201).
Le dierenze proprie del gruppo nirono per complicare ulterior-
mente la diicoltà implicita nel parlare di border a Venezia. Infatti,
oltre che ricreare una dimensione spaziale, il gruppo dovette amal-
gamare più approcci, tecniche e background culturali in un’opera,
che sarebbe dovuta risultare come un intervento coeso e unitario.
Da qui nacque l’articolazione linguistica di Colón Colonizado – Tut-
to è Mio – ¿De Quién?.
Come si può evincere dal disegno progettuale, l’installazione con-
sisteva in una stanza di sei metri di altezza, sei di larghezza e sei di
profondità. Dall’esterno la pianta risultava quadrata ma all’interno
essa aveva una forma triangolare dettata dalla presenza di due mu-
ri progressivamente convergenti. La parete di fondo e il soitto era-
no oscurate da un rivestimento in plastica nera, che faceva scompa-
rire lo spazio esterno a favore di una dimensione spaziale ‘altra’. Le
pareti laterali incrementavano questa sensazione: a sinistra erano
presenti delle fotograe e a destra dei murales a carboncino entram-
bi raiguranti il paesaggio della zona frontaliera. Nella parete de-
corata con i murales erano incastonati quattro schermi che proiet-
tavano degli estratti di alcune precedenti performance del gruppo
riguardanti tematiche come le atrocità della conquista e della colo-
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nizzazione europea del Nuovo Mondo, l’invasione di Panama e l’ab-
battimento del Muro di Berlino.
Lo spettatore era invitato ad accedere in questa stanza attraverso
una porta sovrastata da un’immagine di Cristoforo Colombo. Una vol-
ta all’interno, l’esperienza provata era multisensoriale, oltre che ri-
essiva. Il visitatore poteva infatti interagire con l’installazione cam-
minandovi dentro e misurando con i suoi passi lo spazio circostante.
La convergenza delle pareti interne in un unico punto, se da un la-
to rendeva questa stanza opprimente, dall’altro, invece, come fosse
un corridoio prospettico del Brunelleschi in tre dimensioni, permet-
teva di sentirsi protagonisti del paesaggio riprodotto ai lati. La vi-
sta e l’udito venivano stimolati ulteriormente dalle immagini del bor-
der riprodotte alle pareti e dai suoni delle proiezioni trasmesse negli
schermi; il tatto, invece, veniva chiamato in causa attraverso i piedi.
Quest’ultimo aspetto è solo apparentemente insignicante, dal
momento che, come mi conferma l’artista Richard Alexander Lou in
un’intervista,5 in fase progettuale gli autori chiesero agli uici della
Biennale, tra le altre cose, del materiale ‘sporco’ da inserire all’inter
-
no della stanza. La risposta della Biennale recita il titolo che ho scel-
to di dare a questo testo: «What kind of dirt do you need? In anycase
no smelling dirt».6 Questa semplice frase racchiude in maniera em-
blematica il limite principale costituito dal dover eseguire un’opera
per un museo e non sul sito esatto in cui i due paesi si incontrano.
In altre parole, la domanda «che tipo di sporco vi serve?» è ciò che
meglio testimonia quest’opera come una riproduzione del conne e
non come un intervento sul sito originale. Il BAW/TAF aveva chiesto
un tipo di sporcizia che ricordasse la terra del deserto, in modo ta-
le da dare al visitatore la sensazione del suolo sotto le scarpe e per
restituire il suono del crepitio della terra al passaggio su di essa. A
pensarci bene, lo spazio è una cosa che si può percepire pienamen-
te quando si ha la possibilità di muoversi dentro di esso, di attraver-
sarlo e di sperimentarne le dimensioni. La terra, dunque, avrebbe
restituito la concretezza dello spazio geograco, della dimensione
tangibile e concreta del deserto tagliato in due da una linea immagi-
naria. In quest’ottica, chi percepiva meglio il conne era il migran-
te illegale senza documenti, undocumented negli USA, che tentava
(e questo accade ancora oggi) di perseguire il suo sogno americano
viaggiando di nascosto nel deserto quando il cielo era nero come il
soitto di questa stanza.
5 Interv ista di And rea Ma sala a Richard A lexander Lou, 17 dicembre 2018, San Die-
go (CA).
6 San Diego (CA), University of California in San Diego, Geisel Library, Special Col-
lections & Archives, Michael Schnorr Collec tion of Border Art Workshop/Tal lér de Ar -
te Fronterizo Recor ds, MSS 760, Box 13, Folder 8, T he New Museum exhibit notes and
correspondence, 1990.
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L’importanza di questo materiale può essere meglio compresa tra-
mite il suo accostamento spontaneo con gli insegnamenti di Robert
Smithson, artista pioniere del concetto di site-specicity. Ad esem-
pio, la sua celebre opera Spiral Jetty del 1970 consisteva in un’enor-
me spirale di rocce dentro il Great Salt Lake in Utah. La sua pecul ia-
rità era il suo essere in costante dialogo con il lago, che ne inuenza
ancora adesso continuamente colore, visibilità, forma e, dunque, per-
cezione da parte dello spettatore. L’opera è dunque a diretto contatto
con le condizioni atmosferiche, geologiche e ideograche del luogo e
vuole far riettere esattamente sulle caratteristiche di questo deter-
minato paesaggio. Se Spiral Jetty rappresentava un chiaro esempio di
opera site-specic in un contesto naturale, i vari non-sites dell’auto-
re avevano accezioni dierenti. Esse erano sempre delle opere site-
specic, ma, in questo caso, consistevano nella riproduzione di un
sito all’interno di un contesto museale. Tuttavia, non bisogna inten-
derle come copie esatte e dettagliate di paesaggi, ma sculture sinte-
tiche, concettuali e simboliche, caratterizzate dall’unione di specchi,
materiali organici, terra, sassi raccolti in precedenza dall’autore du-
rante i suoi viaggi lungo paesaggi naturali. Scopo di questi lavori era
stimolare una dialettica tra spazio interno e esterno o, meglio anco-
ra, delle riessioni su tempo, sito, entropia, materia, vista, natura e
cultura. In poche parole, la lezione di Smithson riguardava la possi-
bilità di creare opere site-specic anche fuori dal sito e i suoi non-
sites confermavano dunque che ciò era possibile grazie al ricorso a
una dimensione concettuale.
Se trasponiamo questo ragionamento alla stanza realizzata in
Biennale dal BAW/TAF, risulta più semplice capire come il gruppo
fosse riuscito a ricreare il border in un contesto dierente, come
quello del white cube. La Biennale era infatti un contesto espositi-
vo dalle caratteristiche più simili all’arido e asettico spazio museale
moderno e contemporaneo evidenziato dalla canonica riessione di
O’Doherty (1976). Sebbene non completamente ascrivibile al bianco-
re e alla trasparenza del white cube, l’assenza di appigli culturali o
paesaggistici, rendeva, infatti, il compito ancora più complicato. Alla
maniera di Smithson, pertanto, il BAW/TAF non si limitò a riprodurre
un paesaggio in maniera canonica, ma a restituirne una dimensione
che unisse tratti tangibili e concettuali. La loro stanza funse da rap-
presentazione non soltanto di un conne geograco, ma dell’intero
sfaccettato concetto di border, precedentemente introdotto in base
alle sue dierenti accezioni. Oltre che restituire la sensazione tota-
lizzante di trovarsi in un altro paesaggio, l’opera del BAW/TAF sti-
molava la riessione grazie a un processo di ricostruzione delegato
allo spettatore. Ne è prova principale la presenza della foto di Cri-
stoforo Colombo al di sopra dell’ingresso. Se letta in relazione al ti-
tolo dell’installazione, si palesa chiaro il messaggio secondo il quale
sia necessario passare sotto la colonizzazione di Colombo per com-
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prendere il luogo in cui si sta accedendo. Linee di frontiera articia-
li e arbitrarie come quella qui presa in considerazione sono tipiche
di un territorio post-coloniale, così come lo sono i vari border men-
tali a esse conseguenti e profondamente radicati nelle controversie
del melting-pot statunitense. In sostanza, se a Spiral Jetty era neces-
saria l’azione della natura per essere considerata site-specic, all’in-
tervento del BAW/TAF in Biennale serviva il fattore umano e sociale
come nesso tra opera e paesaggio. Il border, infatti, è un teatro quo-
tidiano per movimenti e dinamiche sociali, così come il lago è ogget-
to di continui mutamenti atmosferici e idrograci.
La nostra analisi sta facendo emergere sempre più la volontà del
BAW/TAF di raggiungere una dimensione concettuale della Border
Art tramite l’adozione delle potenzialità comunicative oerte dallo
spazio e dal sito, anche quando in realtà ci si trovava ad agire lon-
tano da esso. A questo proposito l’artista Michael Schnorr spiega:
In our specic case “site” has always two sides: it has been deter-
mined by nationalistic sparring, has a layered as well as ruptured
component, and comes with an established mass media presence.
These geo-political realities place the phenomenon of border-as-
site in a context other than that of conventional site specic “loca-
tions”. Accumulated evidence concerning the border-site is thrown
int o cha os when one rea l i z es that if seen fr om on ly one sid e, th e sit e
eliminates its other side. Within the racist and ethnocentric form of
this chaos (of the “other”) there are four primary models by which
the border site might be dened and engaged. To construct tangi-
ble, participatory relationships among artists and audience on the
site, as well as to redene a place that is not politically neutral, is the
true potential of work i n g with the border-as-site. (Sc h nor r 198 8, 42)
La dichiarazione suggerisce che il BAW/TAF abbia sviluppato la sua
riessione sul border lungo due piani principali: quello reale e quel-
lo della percezione che si ha di questa realtà. Sostenendo che, se vi-
sto da un solo lato, il conne elimina l’altra parte, Schnorr non fa
riferimento solamente alla caratteristica implicita ai muri e alle bar-
riere7 di bloccare lo sguardo. Egli allude, piuttosto, alla necessità di
un approccio alla zona che vada oltre quello dei media, della cultu-
ra dominante o di quella minoritaria. Queste nivano sempre per la-
sciare un’ombra su un aspetto della verità, analizzandone solo una
componente, esattamente come fa un muro sul terreno. La necessità
espressa dal BAW/TAF era pertanto quella di smettere di ragionare
nei termini di uno sguardo ‘da questa’ e ‘da quella parte’ e comincia-
7 Occorre precisa re, tutt avia, che ai tempi in cui agiva il BAW/TAF, non vi era ancora
un muro divisorio tra San Diego e Tijuana, ma solamente una recinzione di lo spinato.
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re ad adottare un’ottica più evoluta. Questa avrebbe dovuto conside-
rare ogni singolo aspetto e ogni singola prospettiva del border in un
complesso culturale dai tratti globali che fosse orientato anche ver-
so le similitudini con altri conni critici del mondo.
Tutto ciò giustica anche la presenza degli estratti delle perfor-
mance proiettati alle pareti. Il loro scopo era di mostrare gli aspetti
sociali, umani e psicologici di quel particolare spazio e di aiutare la
riessione del visitatore sul tema. A loro volta, queste facevano parte
di una serie composta da sette performance mensili, intitolata Desti-
nation L.A., eseguita tra il 1989 e il 1990 al Soccer Field, una spiana-
ta tra il Canyon Zapata di San Diego e il quartiere Colonia Libertad
di Tijuana. Ai tempi il sito si riempiva quotidianamente di migranti,
che aspettavano insieme il tramonto per tentare di entrare negli USA
di notte. Gli artisti erano soliti cominciare gli eventi disegnando un
enorme piano da gioco nel terreno (generalmente un monopoli o una
scacch iera) e, successivamente, con l’aiuto di vari ogget t i (cro ci di le-
gno, bare o riproduzioni di monumenti di demarcazione territoriale
in polistirolo), mettevano in scena una serie di passaggi trans-fron-
talieri dapprima da nord verso sud e poi in direzione contraria (Kel-
ley 1990, 24-5). Questo restituisce l’idea che lo spazio si percepisca
al meglio in base ai movimenti che esso consente e, nel caso del con-
ne, ciò assume ancora più intensità. Il BAW/TAF presentava il con-
ne come un luogo possibile solamente in base ai passaggi da esso
permessi o ostacolati. L’immagine era quella di luogo d’attesa, di pas-
saggio, o meglio, come di quello che il celebre antropologo francese
Marc Augé avrebbe denito un ‘non-luogo’ (Augé 1992). Il rapporto
tra la collettiva e questo sito era dunque quello di un paesaggio sico
che era soprattutto teatro di pratiche sociali, culturali e artistiche, in
cui processi di territorializzazione e deterritorializzazione partecipa-
no ogni giorno a un gioco intricato (Malagamba-Ansotegui 2001, 72).
L’intervento in Biennale dunque, grazie alla sua accezione senso-
riale, esperenziale e concettuale, risulta essere una sintesi non so-
lo della situazione frontaliera, ma anche dei vari approcci dei singoli
artisti del BAW/TAF allo spazio. Si potrebbero circoscrivere le loro
opere con la chiave di lettura della site-specicity in quella che vor-
rei proporre come una ‘doppia via’. Questa può, altrimenti, essere in-
tesa come la predominanza di due tendenze principali nell’adozione
del sito. Una di esse è la ‘tendenza all’accentramento’ e l’altra, inve-
ce, è quella ‘all’espansione’. In altri termini, la prima corrisponde alle
performance site-specic ese g u ite es attamente sulla li nea di con ne,
come Destination L.A., mentre la seconda equivale alle installazioni
lontane da essa, tra cui troviamo appunto l’intervento per Aper to. Se
si riette ulteriormente su questo dato alla luce di quanto esposto -
nora, si vede confermato da parte del BAW/TAF il medesimo approc-
cio di Smithson al site-specic. Dunque, con la loro insistenza sul sito
e sul concetto di site-specicity, gli artisti del BAW/ TAF ridenirono
Andrea Masala
«What kind of dirt do you need?» Da San Diego e Tijuana a Venezia: Border Art oltre i confini
Andrea Masala
«What kind of dirt do you need?» Da San Diego e Tijuana a Venezia: Border Art oltre i confini
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Storie della Biennale di Venezia, 229-243
il conne: solamente dopo aver assunto uno status di entità solida e
sica e aver assunto il ruolo di un partecipante alla produzione ar-
tistica, questo potè diventare successivamente portatile e metafori-
co per essere presentato a un pubblico più vasto (Sheren 2005, 25).
Questa trasformazione del conne fu lateralmente proprio il moti-
vo che portò alla rottura del gruppo. Il problema era proprio la desti-
nazione che la Border Art avrebbe dovuto raggiungere, qualora con
destinazione si intenda il contesto espositivo e istituzionale, piutto-
sto che il contesto geograco.
Si pensi agli spazi della Biennale di Venezia: sebbene il sistema
dei Padiglioni possa ricordare, di fatto, quello di una riproposizione
ideale e virtuale dei conni nazionali, la circolazione di persone al
loro interno non viene aatto bloccata ma, al contrario, incoraggia-
ta. La Biennale Arte è infatti un enorme contesto culturale e arti-
stico dove, una volta ogni due anni, converge l’intera comunità arti-
stica mondiale (e non) che riette nell’acqua della laguna veneziana
cultura, storia e pensiero contemporaneo. In questo immenso calde-
rone artistico non mancano grandi rme dell’arte contemporanea,
come Je Koons nella stessa sezione Aperto in cui esponeva il BAW/
TAF. Fu esattament e l’accostament o a gra ndi rme e a grandi istitu-
zioni a generare dissidi interni al gruppo, che si sarebbero addiziona-
ti alla già descritta eterogeneità interna che lo contraddistingueva.
In realtà il gruppo avrebbe continuato a lavorare ancora, anche
se con un numero di partecipanti ridotto ai minimi termini. La da-
ta convenzionale per indicarne lo scioglimento equivale, tuttavia, a
quella della loro partecipazione alla Biennale di Venezia. Responsa-
bile di ciò non fu propriamente la mostra veneziana, ma una più ge-
nerale attitudine da parte dei border artists a collaborare con isti-
tuzioni simili ad essa. Nel 1989, infatti, il Museum of Contemporary
Art of San Diego si era rivolto al National Endowment for the Arts
(NEA), agenzia federale statunitense per la promozione degli arti-
sti, al ne di intraprendere un progetto di tre anni a carattere bi-na-
zionale, che sarebbe sfociato nel 1993 nella mostra La Frontera/The
Border Art About the Mexico/United States Border Experience (Bere -
lowitz 2003, 168). Il ricorso a un’istituzione tipica del mondo dell’ar-
te statunitense, gestita ai tempi principalmente da persone di etnia
anglos, portò l’artista del BAW/TAF Guillermo Gómez-Peña a lamen-
tare una specie di ‘svendita della Border Art’. In un articolo del 1991
intitolato Death on the Border: An Eulogy to Border Art egli aermò:
A movement that began as an attempt to dismantle Anglo-Saxon
patriarchal authority end up being appropriated, controlled, pro-
moted and presented by Anglo-Saxon patriarchs… The border as
metaphor has become hollow. Border aesthetics have been gentri-
ed and border culture as a utopian model for dialogue is tempo-
rarily bankrupt. (Gómez-Peña 1991)
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Se si riconsidera nuovamente lo sviluppo temporale della Border Art,
già il suo distacco dalla Chicano Art presenta una tendenza da parte
di questo genere artistico a espandersi verso contesti geograci pro-
gressivamente più lontani, ma soprattutto a raggiungere un pubblico
sempre più vasto. La polemica di Gómez-Peña conferma questa attitu-
dine. Separatasi da un’arte minoritaria, la Border Art, agli albori degli
anni ’80, aveva ammesso tra i suoi addetti anche personalità estranee
alle poetiche chicane, esat t a m ent e comemez-P eña , che era in rea l -
tà originario di Città del Messico o Michael Schnorr, un ebreo statu-
nitense nato a Honolulu e trasferitosi a San Diego.8 La Border Art, in
sintesi, stava via via assumendo un carattere globale anche nei suoi
partecipanti, oltre che nei suoi destinatari. A ulteriore conferma di
ciò, si sarebbe susseguito tra San Diego e Tijuana dal 1992 al 2005
il festival d’arte contemporanea InSite Specic: questo avrebbe per-
messo la convergenza di artisti provenienti da tutto il mondo sul con-
ne e avrebbe consentito a questi di trattare anche tematiche rela-
tive al border, a prescindere dalla loro provenienza. Questa equivale
alla terza fase della Border Art, qu ella che la Berelowitz denisce, per
l’appunto, quella della ‘globalizzazione’ (Berelowitz 2003, 172) e che
vede annullata la polemica su chi sia autorizzato o meno a trattare le
tematiche frontaliere e su quali siano le istituzioni escluse o prepo-
ste alla promozione di un tale genere artistico.
Dovendo descrivere in sintesi e gracamente l’espansione degli
attori della Border Art, si può dire che corrisponde a un cammi-
no che assume i contorni e i tratti di un’enorme parabola, i cui ver-
tici – al contrario dei muri di Colón Colonizado – Tutto è Mio – ¿De
Quién? – proseguono allargandosi a simboleggiare una crescita e un
progressivo allargamento.
Resta dunque da comprendere quale signicato e quale ruolo ab-
bia giocato la Biennale all’interno di questa crescita. Non dev’esse-
re infatti casuale la coincidenza tra la ne dell’esperienza del BAW/
TAF e la sua incoronazione a gruppo artistico internazionale ottenu-
ta in questa circostanza. La Biennale assume, a questo punto, un ruo-
lo chiave, per comprendere il quale basta osservare la situazione at-
torno alla stanza buia del BAW/TAF. Oltre a Koons, infatti, esposero
accanto ad essa artisti come Lorna Simpson e il Gran Fury, attenti a
quelle tematiche, da me descritte in precedenza come border menta-
li: la sessualità, i pregiudizi sull’AIDS, il razzismo nei confronti don-
ne nere americane… In sostanza, la sezione Aperto ’90 agì da arena
politica per una serie di problemi che in alcuni luoghi erano senz’al-
tro più sentiti di altri, ma che, in fondo, erano condivisi a livello in-
8 San Diego (CA), Universit y of Cal ifor nia in San Diego (UCSD), Geisel Library, Spe-
cial Collections & Archives, InSite A rchive, MSS 707, BOX 208, Folder 17, Michael
Schnorr’s curriculum.
Andrea Masala
«What kind of dirt do you need?» Da San Diego e Tijuana a Venezia: Border Art oltre i confini
Andrea Masala
«What kind of dirt do you need?» Da San Diego e Tijuana a Venezia: Border Art oltre i confini
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ternazionale. Questo venne perfettamente espresso dalle parole del
curatore della rappresentanza statunitense di Aperto:
Osservando il lavoro degli artisti statunitensi possiamo delinea-
re due fenomeni: la continua espansione dei parametri artistici in
termini formali, così come di contenuto e tematica, e, forse in ma-
niera più esplicita, la politicizzazione dell’arte e la preoccupazione
per le problematiche sociali negli anni ottanta. La loro opera esem-
plica l’ulteriore integrazione fra arte e politica, istanze sociali,
economia e religione, un’arte che riesce a travalicare le frontiere
del mondo artistico, in netta opposizione con la rimozione forma-
lista dell’arte dal mondo “reale”. (Shaerer 1990, 269)
Il comune denominatore tra gli artisti americani poteva essere in-
dividuato nella multimedialità e nella tendenza ad arontare più te-
matiche allo stesso momento. Colón Colonizado – Tutto è Mio – ¿De
Quién? fu esemplare in questo senso, ma più importante ancora fu la
tensione politico/attivista che accomunò l’opera agli altri lavori. La
politica, intesa come azione su problemi comuni, venne rispecchiata
anche nella scelta degli artisti invitati ad Aperto: vi esponevano, in-
fatti, centoquattro artisti, trentuno dei quali divisi in sette gruppi.
La condivisione del processo artistico, dunque, annullava completa-
mente il dogmatico rapporto tripartito autore-opera-spettatore. L’an-
nullamento del singolo creatore andava allora a favore di un’opera
riassuntiva che racchiudeva, oltre che più tematiche, anche più au-
tori, approcci, punti di vista e linguaggi. Ancora una volta, la parte-
cipazione del BAW/TAF risulta coerente, soprattutto se la si inseri-
sce nella ‘prospettiva internazionale’ evidenziata da Shaerer (1990,
269-72). Era questa la propensione ad arontare problemi comuni a
più nazioni e a più persone, in altri termini: problemi politici.
Trattare temi politici spinge sempre a suscitare polemiche; farlo
alla Biennale di Venezia signica lanciare benzina nel bracere di opi-
nioni, critiche e discussioni che ogni due anni, dalla fondazione del-
la mostra, brucia puntualmente in laguna. Il Grand Fury aveva infat-
ti accostato un fallo all’immagine di Papa Giovanni Paolo II, Damien
Hirst aveva sezionato una vacca e l’aveva immersa nella formaldei-
de suscitando le ire degli animalisti e degli ambientalisti. Più di tut-
ti, però, fu Koons a suscitare scandalo con la scultura che ritraeva
lui e la celebre sex symbol Cicciolina in esplicite pose sessuali. Il de-
cennio si apriva pertanto con una serie di strascichi di poetiche e di
problematiche che avevano alimentato gli anni Ottanta, ma adotta-
va una nuova arte, militante e impegnata nel sociale.
La Biennale funzionò da perfetto teatro per mostrare il cambia-
mento, non soltanto dei parametri della Border Art, del rapporto arti-
sta-spazio e artista-conne, ma, soprattutto, del periodo politico che
si presentava come il fotonish cronologico del Vecchio Millennio.
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Storie della Biennale di Venezia, 229-243
In estrema sintesi, nell’economia di questo lavoro si è avuto modo
di osservare il modo in cui lo spazio ‘terzo’ della Biennale permise
allo spazio binario del conne USA-Messico di diventare uno ‘spazio
mentale’. Per giungere a Venezia il border dovette essere dapprima
de-costruito, poi ricostruito e inne reso applicabile a ogni contesto.
Questo processo rispecchia l’espansione in ogni campo dell’esperien-
za umana del concetto di border e presenta la Biennale di Venezia del
1990 come un piccolo tassello che consentì, almeno alla Border Art, di
seguire la medesima espansione a macchia d’olio. Inne, il BAW/TAF
confermò che il problema dei conni non era aatto nito con Berli-
no, ma era ancora presente e pressante oltreoceano o, se non altro,
che l’unico modo di non sentirsi oppressi da questi conni è sempre
quello di arontarli, di superarli, di voltarsi verso essi come farem-
mo davanti a un muro alle nostre spalle.
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Article
USA La frontera entre México y Estados Unidos se escapa a una definición rígida en las artes y la cultura de los "fronterizos" (los que viven del lado mexicano y de los "chicanos". Aunque la división geopolítica es una realidad desafiante para la vida cotidiana en la frontera, la ambigüedad cultural de los fronterizos y los chicanos es clave para entender el arte producido durante los últimos 30 años.
Breve storia del nostro tempo, Milano (IT), Feltrinelli Editore
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Storia della Biennale di Venezia 1895-2003: arti visive, architettura, cinema, danza, musica, teatro, Venezia, Papiro arte
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Di Martino, Enzo (2003). Storia della Biennale di Venezia 1895-2003: arti visive, architettura, cinema, danza, musica, teatro. Venezia: Papiro arte.
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