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PREMIO RICERCA CITTÀ DI FIRENZE
– 9 –
COLLANA PREMIO RICERCA «CITTÀ DI FIRENZE»
Commissione giudicatrice, anno 2011
Giampiero Nigro (Coordinatore)
Maria Teresa Bartoli
Maria Boddi
Franco Cambi
Roberto Casalbuoni
Cristiano Ciappei
Riccardo Del Punta
Anna Dolfi
Valeria Fargion
Siro Ferrone
Marcello Garzaniti
Patrizia Guarnieri
Giovanni Mari
Mauro Marini
Marcello Verga
Andrea Zorzi
Carolina Nutini
Tra sperimentalismo
scapigliato ed espressivismo
primonovecentesco. Poemetto
in prosa, prosa lirica e
frammento
Firenze University Press
2012
Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo
primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento / Carolina Nutini. – Firenze : Firenze
University Press, 2012.
(Premio Ricerca «Città di Firenze» ; 9)
http://digital.casalini.it/9788866552727
ISBN 978-88-6655-272-7 (online)
© 2012 Firenze University Press
Università degli Studi di Firenze
Firenze University Press
Borgo Albizi, 28, 50122 Firenze, Italy
http://www.fupress.com/
Printed in Italy
Progetto grafico di Alberto Pizarro Fernández, Pagina Maestra snc
Sommario
Premessa IX
PARTE PRIMA. Esperimenti scapigliati verso il “poemetto in prosa” e in direzione
di una “prosa lirica” 1
1. Iginio Ugo Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 3
1.1 I Canti del cuore: pubblicazione e polemiche 3
1.2 Un «genere speciale di letteratura» e un modello accennato: le «traduzioni
italiane de’ poemi giovanili di Byron» 4
1.3 L’esperienza francese e la tradizione italiana 10
1.4 Leopardi e Foscolo nei Canti 13
1.5 Il “frammento” umoristico 17
2. Il primo Dossi: in direzione del frammento 29
2.1 La «mancanza intera di una vita presente»: l’Altrieri 29
2.2 Il lampo del ricordo, tra lirismo e umorismo 33
2.3 «E allora… questo Alberto Pisani?»: formazione di un artista 46
2.4 «Una ventina di razzi - imàgine della più desiderèvole vita, corta e
splendente» 54
2.5 Parabola discendente e incontro con la femme fatale 68
2.6 Dossi e la narrativa umoristica: alcune idee e modelli 72
2.7 La forme brève dossiana: tra bozzetto e poème en prose 86
3. Aforisma, frammento e prosa lirica nell’opera di Ambrogio Bazzero 93
3.1 Lagrime e sorrisi: scrittura aforistica e autobiografia lirica 93
3.2 Riflesso azzurro: frammenti «d’affetto e di rimpianto» 98
3.3 Le prose in rivista: tra «fantasmagoria» e avanzare del «deserto» 107
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
PARTE SECONDA. Il poemetto in prosa tra il 1878 e il 1898 117
1. Girolamo Ragusa Moleti: dalla traduzione alla pratica del poemetto in prosa 119
1.1 La prima formazione e l’attività su periodici del «rompicollo» (1876-1878) 119
1.2 Prime armi: un canzoniere tardo-scapigliato 130
1.3 Un maestro frainteso e mai abbandonato: Carlo Baudelaire. Studio 140
1.4 Tradurre i Petits poèmes en prose 151
1.5 Alla maniera di Baudelaire: Miniature e Filigrane 164
1.6 «Boja de’ decadenti» (1897-98) 176
2. Vittorio Pica e i «poemucci in prosa»: espedienti per favorire la ricezione del
Simbolismo in Italia 185
2.1 La critica dell’inconciliabile: raccontare l’«istoria morale contemporanea» o
l’Individuo, «contro ogni conculcativa sovranità sociale» 185
2.2 Tra romanzo naturalista e poesia simbolista 194
2.3 Il «poemuccio in prosa» come genere 201
2.4 I colori della vita vera, «ma pur sempre frammentariamente»: Dossi, “neo-
bizantino” in Italia 219
3. Semiritmi di Capuana e poemetti in prosa “al femminile”, tra «Fanfulla della
Domenica» e «Marzocco» 229
3.1 «Dapprima per parodia», «e poi, sul serio»: i Semiritmi 229
3.2 Pratiche per un apprendistato simbolista 247
4. Ricciotto Canudo: Piccole anime senza corpo 265
4.1 L’esordio letterario, tra poesia e prosa (1895-1898) 265
4.2 Qualchecosa di un po’ insolito», ma nessuna «stravaganza» o «analisi del
patologico» 273
4.3 Piccole anime senza corpo 278
4.4 Visioni, oggetti-simbolo e paesaggi trasfigurati 303
PARTE TERZA. Per un’indagine sullo «scritto vociano»: «La Voce» 1908-1913 311
1. Primi passi verso il “frammento vociano” (1908-1911) 313
1.1 Una rivista non letteraria, con collaboratori «sciaguratamente artisti» 313
1.2 Alcune definizioni per lo “scritto vociano” 317
1.3 La letteratura, nel «senso dispregiativo che basta pienamente ad esprimere
quella ch’essa è in Italia» 325
1.4 L’anno 1909 334
1.5 L’anno 1910 340
1.6 L’anno 1911 362
2. Linee per un primo bilancio 389
2.1 Una riforma interiore per cambiare il mondo: pericoli e virtù della poetica
vociana 389
2.2 Fronti comuni, battaglie divergenti 394
3. L’anno 1912 403
3.1 Da gennaio a marzo: poetiche in formazione e l’estetica dell’«ignoto» 403
3.2 «Dacci oggi la nostra poesia quotidiana»: questioni letterarie e lacerti di opere
prime 411
3.3 Letteratura in fieri: arte interna, frammentarietà, carattere filosofico 427
3. 4 Le prime rese dei conti: «claudellismo» e «lemmonismo» 433
4. L’anno 1913 441
4.1 Segnali di cambiamento 441
4.2 La «creazione artistica», tra letteratura e filosofia, tra poesia e prosa 445
4.3 Papini, Soffici e il punto di vista di Boine 453
4.4 Rebora, Sbarbaro e Jahier 460
4.5 Un vociano ad honorem: Gian Pietro Lucini 472
4.6 Per una sintesi dell’anno quinto 479
5. Conclusioni 483
5.1 Il “frammento”: punto d’incontro e diffrazione delle esperienze letterarie vociane 483
5.2 Eversione letteraria in nome dell’autenticità del sentimento 486
5.3 «La Voce» 1908-1913: per un nuovo tassello di un’ideale “storia del
frammento” in Italia 491
5.4 “Poesia in prosa”: sul crinale tra arte “pura” e “impura” 500
Bibliografia 505
Indice dei nomi 535
Premessa
E dare una nuova poesia senza nome af-
fatto e che non possa averne dai generi
conosciuti è ragionevole bensì, ma di un
ardire difficile a trovarsi, e che anche ha
infiniti ostacoli reali, e non solamente
immaginari nè pedanteschi.
G. Leopardi
«Riunire nuovamente tutti i separati generi poetici» e «porre in contatto la poesia con
la filosofia e la retorica», «ora mescolare ora combinare poesia e prosa, genialità e cri-
tica, poesia d’arte e poesia ingenua»: questi i propositi della poesia romantica, secon-
do i termini del Frammento 116 dell’«Athenäum», da attribuire a Friedrich Schlegel1.
In questo programma si può già individuare l’ingresso, in letteratura, del gusto del
frammento, di un possibile incontro tra poesia e prosa e di un contatto proficuo con
la filosofia: tendenze che attraverseranno l’età romantica europea e il Decadentismo,
per arrivare alle soglie del Novecento.
Sulla separazione e sul possibile incontro tra poesia e prosa rifletteva, in ambito
italiano, per lo più svincolato dalle elaborazioni del Romanticismo d’oltralpe, Giaco-
mo Leopardi, che allo Zibaldone consegnava riflessioni ormai celebri come la seguen-
te:
Forza dell’assuefazione sull’idea della convenienza. L’uso ha introdotto che il poeta
scriva in verso. Ciò non è della sostanza nè della poesia, nè del suo linguaggio, e mo-
do di esprimer le cose. Vero è che questo linguaggio e modo, e le cose che il poeta di-
1 F. Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica (1798), Introduzione e trad. di V. Santoli, Sansoni, Fi-
renze 1967, p. 64; si trattava poi di «render viva e sociale la poesia, poetica la vita e la società, poetizzare lo
spirito». Trattando delle Origini europee del Romanticismo, Giovanni Macchia individua, in questa rinno-
vata concezione, una «indistinzione» tra prosa e poesia che «inaugurava qualcosa di nuovo» (G. Macchia,
Origini europee del Romanticismo, in E. Cecchi e N. Sapegno (diretta da), Storia della letteratura italiana,
VII, Garzanti, Milano 19882, p. 475; si veda in particolare il par. XI, I poteri della parola e il gusto del
frammento, ivi, pp. 472-475).
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
X Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
ce, essendo al tutto divise dalle ordinarie, è molto conveniente, e giova moltissimo
all’effetto, ch’egli impieghi un ritmo ec. diviso dal volgare e comune, con cui si espri-
mono le cose alla maniera ch’elle sono, e che si sogliono considerare nella vita. Lascio
poi l’utilità dell’armonia ec. Ma in sostanza, e per se stessa, la poesia non è legata al
[1696] verso. E pure fuor del verso, gli ardimenti, le metafore, le immagini, i concetti,
tutto bisogna che prenda un carattere più piano, se si vuole sfuggire il disgusto
dell’affettazione, e il senso della sconvenienza di ciò che si chiama troppo poetico per
la prosa, benchè il poetico, in tutta l’estensione del termine, non includa punto l’idea
nè la necessità del verso, nè di veruna melodia. L’uomo potrebb’esser poeta caldissi-
mo in prosa, senza veruna sconvenienza assoluta: e quella prosa, che sarebbe poesia,
potrebbe senza nessuna sconvenienza assumere interissimamente il linguaggio, il
modo, e tutti i possibili caratteri del poeta. Ma l’assuefazione contraria ed antichissi-
ma (originata forse da ciò che i poeti si animavano a comporre colla musica, e com-
ponevano secondo essa, a misura, e cantando, e quindi verseggiando, cosa molto na-
turale) c’impedisce di trovar conveniente una cosa che nè in se stessa nè nella natura
del linguaggio umano, o dello spirito poetico, o dell’uomo, o delle cose, rinchiude
niuna discordanza. [1697] (14. Sett. 1821.).2
Le meditazioni di Leopardi sulla natura della prosa e della poesia non erano solo
dettate da un vago bisogno di autenticità, ma da una necessità di precisare l’incontro,
nella sua opera, dei dati poetici con i dati dell’intelletto, di definire insomma quel suo
«filosofar poetando». Se la questione pareva forse a lui stesso di difficile soluzione,
essendo peraltro la filosofia uno strumento della ragione e ponendosi quest’ultima in
contrasto con il romantico sentire, è indubbio che, nella sua opera, la poesia abbia in-
contrato la prosa in maniera mirabile. Si pensi alle Operette morali, quel libro fonda-
mentale pubblicato ben prima di aver organizzato il volume dei Canti: elaborate a
partire da modelli dell’antichità, in particolare sulla traccia dei Dialoghi lucianei, esse
aprono la strada di una «poesia in prosa» (formula che ricorre in una lettera a Monal-
do)3 che assume varie forme, dal dialogo alla “prosa d’arte”, dall’Elogio degli uccelli, al
Cantico del gallo silvestre, al Coro dei morti nello studio di Federico Ruysch.
Si comprende allora la ragione per cui Giacomo Leopardi non può che essere il
punto di riferimento ideale per un lavoro che si proponga di indagare la storia delle
prime contaminazioni tra poesia e prosa, tramite la sperimentazione di forme molte-
plici. Si troveranno dunque, nel percorso tracciato, punti di contatto ideali con le ela-
borazioni leopardiane, affinità e consonanze ideologiche mitigate, spesso, da quelle
incomprensioni e superficialità che caratterizzano per anni le letture di quell’insigne e
isolato modello del nostro Ottocento. Un’altra ricerca, di carattere comparatistico,
2 G. Leopardi, Zib. 1695-97; le cit. sono tratte dall’ed. di R. Damiani (a cura di), Mondadori, Milano 1997.
3 A Monaldo Leopardi, [Firenze], 8 Luglio [1831?], in G. Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a c.
di W. Binni, con la coll. di E. Ghidetti, Sansoni, Firenze 1988, I, p. 1362.
Premessa XI
andrebbe dedicata alle traduzioni in prosa dei Canti (si ricordi, per l’ambito francese,
quella curata da Valery Vernier nel 1867) e alle versioni delle stesse Operette, che gi-
ravano l’Europa lasciando tracce non indifferenti, tematiche e formali,
nell’elaborazione di “poesie in prosa”, come nel caso dei Senilia di Ivan Turgenev.
L’avvicinamento alla poesia per una via più diretta di quella offerta, soprattutto in
Francia, dalle rigide regole di versificazione conduce all’altro testo-guida della pre-
sente ricerca, i Petits poèmes en prose di Charles Baudelaire, altro modello imprescin-
dibile, a livello tematico e formale, per un ingresso nella modernità. Paradossalmente
più letto e citato di un Leopardi, con il quale si fatica a confrontarsi, e inizialmente
sbandierato come eroe di un piuttosto esteriore ribellismo, anche Baudelaire soffre di
letture superficiali; eppure un confronto con il suo sogno di una «prose poétique,
musicale sans rhythme et sans rime» era indispensabile per chi volesse ridefinire, ro-
manticamente, lo statuto dei generi anche in ambito italiano.
Ricostruire aspetti, modi e ragioni che hanno caratterizzato l’incontro della prosa
con la poesia tra Scapigliatura ed espressivismo primonovecentesco è dunque
l’intento del presente lavoro, che prevede, già nel titolo, diverse forme in cui il travali-
camento dei generi si va realizzando, ovvero poemetto in prosa, prosa lirica e fram-
mento. Seguire da un punto di vista storico-letterario e inquadrare, di volta in volta,
tali sperimentazioni nell’ambito della poetica degli autori sono i principi che hanno
guidato questa ricerca, con la quale, pur nell’esigenza di effettuare prelievi e scelte si-
gnificative (lasciando completamente ai margini, ad esempio, l’esperienza dannun-
ziana), si è tentato di delineare i tratti fondamentali di un periodo, tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in cui venivano gettate le fondamenta per una
“poesia in prosa”.
Il petit poème en prose è stato studiato, in territorio francese, nell’intento di iso-
larne la nozione, di delineare un “genere”, sul cui statuto ancora si discute, ma del
quale esistono ormai anche antologie e trattazioni diacronicamente disposte. In am-
bito italiano è forse d’obbligo una maggiore cautela, considerando che da poco tempo
si è cominciato ad inquadrare e approfondire questi fenomeni: l’obbiettivo di una ri-
cerca che voglia approfondire prove ed esperimenti diretti ad una revisione degli sta-
tuti autonomi di poesia e prosa deve essere, prima di tutto, quello di individuare i te-
sti significativi e i protagonisti maggiori e minori di un tale processo, di ricostruire la
storia di quelle prime manifestazioni descrivendole nel contesto culturale in cui si
andavano affermando. Si è dunque preferito non indugiare su controverse questioni
o classificazioni teoriche di uno o più supposti “generi”, sulla morfologia esterna delle
varie forme riconosciute per iterazione di costanti formali (poemetto in prosa, fram-
mento o altri): si è tentato, per il momento, di registrare, seguire e motivare
l’emergere delle scritture alla frontiera tra poesia e prosa.
XII Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
I primi indizi di una sperimentazione letteraria che prenda in considerazione la
revisione della prosa, della poesia e dei rispettivi confini si rintracciano, nella seconda
metà dell’Ottocento in Italia, nell’ambito della koinè scapigliata (Parte I: Esperimenti
scapigliati verso il “poemetto in prosa” e in direzione di una “prosa lirica”). La frantu-
mazione “umoristica” dell’intreccio e l’elaborazione di una prosa lirica, spesso auto-
biografica, nonché di forme simili al poemetto in prosa saranno dunque messe in lu-
ce tramite l’analisi di alcuni scritti di Iginio Ugo Tarchetti, di Carlo Dossi e di Am-
brogio Bazzero.
Si seguiranno poi le tracce del poemetto in prosa e di scritture affini negli ultimi
due decenni del secolo (Parte II: Il poemetto in prosa tra il 1878 e il 1898. Dalle orme
di Baudelaire a pratiche di apprendistato simbolista); il Baudelaire che influenza vari
ambienti culturali (da Milano alla Sicilia) è già diverso dall’idolo maudit di Emilio
Praga e sta diventando il maestro di stile – peraltro incompreso – dei poemetti in
prosa, piegati ad incrociare, non sempre con profitto, la tradizione italiana, come ac-
cade con Girolamo Ragusa Moleti. Si incontrerà poi Vittorio Pica, primo critico in
Italia a presentare il «poemuccio in prosa» come genere in evoluzione e ad esaltarlo
nella forma elaborata da Mallarmé. Si esaminerà lo sviluppo di scritture poetiche in
prosa, sorte spesso in rivista e per mano femminile (un esempio: Grazia Deledda),
segnale di un apprendistato nell’ambito di un simbolismo di tipo “minore”, da con-
frontarsi con l’esperimento, sostanzialmente agli antipodi, di Luigi Capuana poeta in
Semiritmi, decisamente “anti-simbolista”. A ideale chiusura delle indagini ottocente-
sche si prenderanno in considerazione le Piccole anime senza corpo di Ricciotto Ca-
nudo, risultato estremo di un’«arte aristocratica».
L’ultima parte della ricerca (Parte III: Per un’indagine sullo «scritto vociano»: «La
Voce» 1908-1913) sarà destinata, infine, ad una disamina del “frammentismo” vocia-
no, operata attraverso una lettura analitica di interventi scelti, di carattere letterario,
pubblicati sulla rivista prezzoliniana tra il 1908 e il 1913 (con particolare attenzione
alle firme di Boine, Jahier, Papini, Prezzolini, Slataper, Soffici). Si affronta qui la sfida
di individuare possibili caratteri comuni e diffrazioni di una “poetica vociana”,
nell’esigenza di riconsiderare la «Voce» prezzoliniana come ulteriore tassello per
un’eventuale “storia del frammento” in Italia, esperienza diversa rispetto a quelle de-
robertisiana e rondista per i modelli, la poetica (“impura”) e la percezione del rappor-
to tra letteratura e “impegno”.
Parte prima
Esperimenti scapigliati verso il “poemetto in prosa” e in direzione di
una “prosa lirica”
1. Iginio Ugo Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica
1.1 I Canti del cuore: pubblicazione e polemiche
I Canti del cuore risalgono al primo anno di attività letteraria del giovane Iginio Ugo
Tarchetti (1839-1869)1, denso di sperimentazioni e di riflessioni che investono emi-
nentemente la narrativa e prendono forma nelle Idee minime sul romanzo, presentate
sulla «Rivista minima» il 31 ottobre 1865. Il 31 luglio del 1865 Tarchetti aveva pubbli-
cato, sempre sulla «Rivista minima», i Canti, con l’indicazione «Prose liriche», prece-
duti da una nota introduttiva; non sembra che abbia poi ripreso in mano questi ten-
tativi giovanili, avendo peraltro trovato la propria dimensione nella scrittura di prosa.
La «Rivista minima» aveva accolto, a partire dal 15 febbraio dello stesso anno, Schizzi
a penna, Impressioni di viaggio di Emilio Praga2; non era nuova, quindi, alla pubblica-
zione di prose liriche, seppur di tipo piuttosto diverso. Gli Schizzi erano pièces adatte
allo spazio di un periodico, purché non pensate per esso, e si presentavano nella for-
ma dimessa del bozzetto o della prosa impressionistica, sfruttando l’identità praghia-
na di pittore-poeta. Si tratta di prose liriche, di matrice autobiografica, che si appog-
giano al genere del bozzetto di viaggio, accennando temi e luoghi che trovano coinci-
denza nelle poesie.
Nel 1879 Domenico Milelli, amico fedele quanto curatore poco affidabile, ri-
stampò i Canti (Bologna, Zanichelli) in un’edizione che comprendeva Disjecta (Versi)
e Canti del cuore, con un profilo di Tarchetti da lui curato. Le poesie erano state pre-
cedentemente pubblicate tra il 1867 e il 1868, e poi raccolte nella «Strenna
dell’Illustrazione universale pel 1875» con il titolo di Frammenti lirici. Per quanto ri-
guarda le liriche, l’imprecisione del Milelli porta a tralasciare tre componimenti; per i
Canti, viene introdotta qualche modifica al testo, per lo più arbitraria3.
1 Cfr. Nota biobibliografica, in I. U. Tarchetti, Tutte le opere, a c. di E. Ghidetti, Cappelli, Bologna 1967, I,
pp. 63-68.
2 Gli Schizzi a penna si leggono oggi nell’ed. curata da Ermanno Paccagnini (Salerno Editrice, Roma
1993).
3 Cfr. Nota biobibliografica, cit., p. 68. Una recensione a Disiecta e Canti firmata da Asper (Un mazzetto di
poesie, «Illustrazione italiana», 11 maggio 1879) è interessante a tale proposito: «credevamo che
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
4 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
L’operazione editoriale del Milelli mirava a riproporre un Tarchetti poeta sulla li-
nea di Lorenzo Stecchetti (alias Olindo Guerrini), simbolico erede degli aspetti più
scandalistici e maledetti degli Scapigliati, la cui raccolta, Postuma, era stata data alle
stampe appunto due anni prima4. Anche tra i contemporanei non mancava chi incol-
pava il Milelli di assecondare troppo le mode del tempo; “Asper”, recensendo le Odi
pagane del Milelli, lo accusava di imitare con troppo zelo le mode vigenti, denun-
ciando il suo palese ritorno a Carducci dopo l’abbandono dei «sonetti che parevano
figliati dalla Musa dello Stecchetti»5. Un’altra recensione, anonima, a Disjecta e Canti
imputava al Milelli di non aver reso un buon servigio all’amico defunto, lanciandogli
tra l’altro la solita accusa: «Il Tarchetti, secondo il Milelli, non appartenne a nessuna
combriccola letteraria, ciò che non si può dire del suo biografo […]»6. Aggiungeva
poi: «Di questo povero Tarchetti, che è morto giovine dopo aver vissuto infelice, non
ci reggerebbe l’animo di dir male, benché i suoi versi siano poca cosa ed anche, come
saggi giovanili, poco promettenti». Come quest’ultimo, diversi recensori criticano Di-
sjecta e Canti proprio in quanto operazione editoriale di dubbio valore, che poco ag-
giunge alla fama del Tarchetti, la cui anima lirica non è posta in discussione, ma si è
certo mal espressa nelle poesie. Sul «Fanfulla della domenica», un altro recensore af-
ferma: «Io credo che il Milelli, raccogliendo questi versi del compianto amico, non
abbia fatto un servizio alla memoria di lui»7.
1.2 Un «genere speciale di letteratura» e un modello accennato: le «traduzioni italiane
de’ poemi giovanili di Byron»
Fatto interessante e non comune è la scelta di aprire i Canti con un’Introduzione che
mira a spiegare e rivendicare, seppur con tono dimesso, la forma di una prosa che
tende alla poesia: «questo genere speciale di letteratura (e vorrei dirlo poesia) è, per
[l’introduzione del Milelli] ci significasse quanti e quali versi della breve presente raccolta appartengono
veramente al Tarchetti e quali no, perché noi sappiamo che tra le poesie pubblicate nella Rivista Minima,
dopo la morte dell’autore più di qualche verso fu appunto aggiustato od aggiunto dal primo pietoso edi-
tore. Ma ci siamo ingannati» (è da considerare che forse il riferimento alla «Rivista minima» sia una svi-
sta, perché tutte le poesie erano state invece pubblicata nella «Strenna dell’Illustrazione universale pel
1875»).
4 Si veda a riguardo E. Ghidetti, Introduzione, in Tarchetti, Tutte le opere, cit., I, p. 57.
5 Asper, Barlumi e tenebre, «Illustrazione italiana», 26 gennaio 1879; parz in La pubblicistica nel periodo
della Scapigliatura, a c. di G. Farinelli, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1984, p. 598.
6 [Anon.], Rec. a I. U. Tarchetti, Disjecta, «La Rassegna settimanale di Politica, Scienze, Lettere ed Arti», 6
aprile 1879; parz. in La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura, cit., p. 1123.
7 [Anon.], Rec. a I. U. Tarchetti, Disjecta, «Fanfulla della domenica», parz. in La pubblicistica nel periodo
della Scapigliatura, cit., p. 299.
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 5
quanto io mi sappia, intentato in Italia»8. Non solo i lettori odierni vi appuntano
l’attenzione9, ma anche i recensori del 1879 finivano per appellarsi all’Introduzione
per definire i Canti; Cameroni, ad esempio, una delle poche voci favorevoli, sembra
riconoscere a Tarchetti di aver tentato un genere letterario che si allontanasse dai ca-
noni classici della prosa, definendo i Canti «canzoni (in prosa)» e mettendole in rap-
porto con le liriche: «Ha fatto benissimo il Milelli, raccogliendo le liriche disseminate
dal Tarchetti sul Gazzettino ed in altri giornali ed i Canti del cuore, semplici e squisi-
tissime composizioni in prosa […]. Le liriche e le canzoni (in prosa) raccolte dal gio-
vane poeta calabrese […] al pari d’ogni altro scritto del nostro Tarchetti, hanno per
impronta affatto propria la mirabile, strana armonia fra la sensibilità femminea delle
sue fibre e la virilità foscoliana del suo carattere»10.
In genere non si è data grande importanza agli accenni di Tarchetti a modelli di
riferimento, che sono pochi e vaghi, ma forse significativi. Unico autore che Tarchetti
richiama esplicitamente nell’Introduzione è il primo Byron:
Io attinsi, fanciullo, questa forma dalla lettura de’ grandi poeti popolari tedeschi, e
dalle traduzioni italiane de’ poemi giovanili di Byron, e parvemi forma elettissima di
poesia11.
In Italia non mancavano trasposizioni in versi di Byron (si pensi all’edizione delle
Opere del 1853, con traduzioni di Giuseppe Gazzino, Giuseppe Nicolini, Pietro Isola,
Pellegrino Rossi, Andrea Maffei, Marcello Mazzoni, Giovan Battista Cereseto)12, ma
vi erano anche traduzioni in prosa poetica, che ricalcavano gli espedienti poetici del
testo senza adottarne la versificazione. Sicuramente Tarchetti si era trovato a leggere
8 I. U. Tarchetti, Canti del cuore, in Id., Tutte le opere, cit., II, p. 431.
9 Alla questione dei Canti del cuore come “poesia in prosa”, segnalata da Paolo Giovanetti (cfr. Al ritmo
dell’ossimoro. Note sulla poesia in prosa italiana, «Allegoria», X, 28, gennaio-aprile 1998, pp. 19-40), ha
dedicato un intervento Simone Giusti: La prosa organizzata in poesia. Tra Tarchetti e Baudelaire, «Mo-
derna», II, 2, 2000, pp. 45-57. Peraltro anche Giorgio Cusatelli (La poesia dagli scapigliati ai decadenti, in
Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, VIII, Garzanti, Milano 1968), citava i
Canti del cuore come esempio di «lirica in prosa» (ivi, p. 507).
10 F. Cameroni, Rec. a I. U. Tarchetti, Disjecta, «Il Sole», 28 marzo 1879, parz. in La pubblicistica nel peri-
odo della Scapigliatura, cit., p. 1364.
11 Tarchetti, Canti del cuore, cit., p. 431.
12 Opere di Giorgio Lord Byron, precedute da alcune avvertenze critiche sulle stesse e da un discorso di C.
Cantù, Rossi-Romano, Napoli 1853. Nel Discorso, Cantù descrive la fanciullezza e i primi versi di Byron,
che peraltro non compaiono poi nel volume, cita traducendo in prosa alcuni versi ed osserva: «trar bene
in versi quel poeta è opera d’un gigante, che n’abbia gran parte dell’ingegno. Ho preferito voltarlo in pro-
sa, come meglio seppi […]» (Discorso intorno alla vita dell’autore letto da Cesare Cantù ai socii
dell’Ateneo di Bergamo, ivi, pp. 5-6).
6 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
le traduzioni in versi di Andrea Maffei, per ragioni geografiche e biografiche13, ma
forse l’ipotesi, molto plausibile, che conoscesse anche delle traduzioni in prosa, è an-
cor più interessante. Le traduzioni in prosa, infatti, si presentano in una forma, tesa a
ricostruire una poeticità fuori dal verso, che poteva costituire un modello per i Canti
del cuore.
È significativo che, in occasione della ristampa in volume di Canti e Disjecta, an-
cora il recensore “Asper” affermi, accogliendo e ampliando i suggerimenti
dell’Introduzione tarchettiana, non senza una punta di sarcasmo: «Il grazioso volu-
metto è occupato in buona parte da certi Canti del cuore che sono brevi elegie: brevi
querimonie in prosa, forma di poesia codesta (se così può dirsi), che il Tarchetti tolse
a prestito dalle versioni delle liriche di Byron, fatte dal Rusconi»14. Un lettore
dell’epoca metteva dunque in relazione la forma dei Canti a un libro di versioni in
prosa delle liriche di Byron.
Scorrendo le Opere di Lord Giorgio Byron tradotte da Carlo Rusconi (Torino,
Unione tipografico-editrice, 18592) e soffermandosi in particolare sulle traduzioni
delle prime raccolte poetiche, non sfuggono delle somiglianze. Dalle opere giovanili
di Byron tradotte da Rusconi Tarchetti poteva derivare temi ed immagini che si avvi-
cinavano alla sua sensibilità e, insieme, una forma di prosa poetica che tentasse di re-
stituire una poeticità semplice e diretta, non mediata dalla versificazione italiana. Si
prendano, ad esempio, le Ore d’ozio, prima raccolta poetica byroniana a comparire
nel volume di Rusconi, e si noteranno, già in limine, le prime consonanze. Nella Pre-
fazione alla prima edizione delle Ore d’ozio, che non compariva più nella seconda e-
dizione inglese ma era riportata nella traduzione del Rusconi, Byron scriveva: «Que-
ste composizioni sono il frutto delle ore perdute di un giovine che da poco soltanto
ha compiuto il suo diciannovesimo anno»; «Alcuni di questi poemetti sono stati scrit-
ti in ore di infermità e di abbattimento […]»15. Allo stesso modo, Tarchetti attribuisce
i Canti agli smarrimenti e alla smania dell’età in cui, a detta di Leopardi, «desideri e
passioni sono più ardenti e bisognosi»16: «Io pubblico qui alcune pagine, tra le molte
che scrissi, di questi canti, e tutte prima dei venti anni, in quell’età travagliata da una
tristezza irragionevole, incomprensibile […] quasi una vanità del dolore»17.
13 Cfr. E. Ghidetti, Tarchetti e la scapigliatura lombarda, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1968, p. 94.
14 L’articolo prosegue: «Il Tarchetti trovava in quella prosa italiana, nata dagli amorosi versi byroniani,
un’armonia affascinante, una forma elettissima di poesia e invitava gl’italiani a servirsene. Infelici coloro,
seppur ce ne furono, che tennero l’invito» (Asper, Un mazzetto di poesie, cit.).
15 G. Byron, Opere complete, V (Ore d’ozio, Bardi inglesi, Liriche, Deforme trasformato, Werner, Cielo e
terra ecc. ecc. ecc.), trad. di C. Rusconi, Unione tipografico-editrice, Torino 18592, p. 9.
16 Leopardi, Zib. 279 (16 ottobre 1820).
17 Tarchetti, Canti del cuore, cit., pp. 431-32.
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 7
Il titolo stesso dei Canti del cuore avrebbe ragione di derivare da Byron,
all’insegna dell’ispirazione del «cuore», intesa come impulsiva passionalità e brama di
assoluto tipiche della giovinezza, nonché come simbolo del rifiuto della convenziona-
lità poetica. Ad esempio, nel Primo bacio dell’amore, Byron consiglia ai poeti di non
invocare invano muse inesistenti, ma di cercare ispirazione nel sentimento: «Fredde
composizioni d’arte, io vi abbomino. […] io cerco le ispirazioni di un cuore che batte
di voluttà al primo bacio dell’amore»18. In un'altra lirica (Risposta ad alcuni nobili
versi che un amico avea mandati all’autore, e nei quali gli rimprovera il calore delle sue
descrizioni) Byron scrive: «Il saggio si allontana talvolta dalle vie della saviezza: e co-
me la gioventù potrebbe essa reprimere gl’impulsi del cuore?»19. Tarchetti, a sua vol-
ta, scrive nell’Introduzione: «Dove tu possa trovare la ragione del ritmo, dover
l’origine della dolcissima melanconia che ne emana, tu nol sai; ma ti senti tutto nel
cuore»20. L’affermazione è forse meno banale di quanto sembra: Tarchetti sta parlan-
do della forma dei Canti («Io attinsi, fanciullo, questa forma […]») e «il cuore» giusti-
fica, come in Byron, un rifiuto della convenzionale poesia in favore di un «ritmo» di
cui non si può “trovare la ragione”, ma che bisogna «sentire nel cuore», in questo ca-
so il «ritmo» di una poesia in prosa.
Basta poi scorrere le Ore d’ozio per individuare coincidenze tematiche. Ricorre in
Tarchetti, come in Byron, la pulsione di morte: «Oh amante mia! Io non aspiro che
alla tomba, dopoché l’amore e l’amicizia mi han per sempre abbandonato!» (A Caro-
lina, strofa finale)21; «Volgono ora nella mia anima tristi pensieri di morte, abbando-
natemi al mio dolore» (Io canto la morte della mia giovinezza)22. Il tradimento della
donna rivela l’effimera natura dell’amore: «la tua passione e la tua fede hanno durato
meno che un fiore del tuo giardino» (Io amava i fiori…)23; : «Insensati, noi crediamo
che quelle promesse avvincano il cuore per sempre, ma al trascorrere d’un giorno es-
so è già mutato» (Alla donna)24. Il ricordo è l’unico baluardo che resiste, nel bene e
nel male, dopo la perdita dei sogni e delle speranze: «La speranza più non abbellisce il
mio avvenire; brevi furono i giorni di mia felicità […] amore, speranze, gioie, addio!
Perché non posso io aggiungere ancora addio ricordanze?» (Ricordanze)25; «Lasciate
che io pianga i miei sogni e le mie speranze […] ma chi potrà rapirmene la memo-
18 Byron, Opere complete, cit., p. 21.
19 Ivi, p. 52.
20 Tarchetti, Canti del cuore, cit., p. 431.
21 Byron, Opere complete, cit., p. 19.
22 Tarchetti, Canti del cuore, cit., p. 439.
23 Ivi, p. 434.
24 Byron, Opere complete, cit., p. 29.
25 Ivi, p. 67.
8 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
ria?» (Io canto la morte della mia giovinezza)26. L’amicizia è la forma di affetto che
può riscattare le sconfitte, ed entrambi le dedicano almeno un componimento:
«L’amicizia è l’amore senz’ali»27, «Oh amico, se tale io posso dunque chiamarti…»28.
Al tema del pianto, delle “lacrime”, che ricorre nei Canti, Byron aveva intitolato una
lirica, The tear.
A livello formale, la prima analogia tra le traduzioni in prosa del Rusconi e i Can-
ti concerne la struttura stessa di ogni prosa: i paragrafi sono modellati come se fosse-
ro strofe (ogni Canto è formato da un numero variabile di “couplets”, da due a sette),
secondo un effetto che caratterizza in genere, appunto, le traduzioni in prosa, che ri-
producono in tal modo la suddivisione strofica. I paragrafi di una prosa sono spesso
concatenati tra loro ed incorniciati in una struttura ad anello; il procedimento trova
vari esempi in Tarchetti (si riportano l’inizio e la fine del componimento): «Fanciullo,
una lagrima io ho veduto spuntare da’ tuoi occhi […] oh! ben più tristi saranno per
l’avvenire le tue lacrime o fanciullo!»; «Io amava i fiori, e tu mi donasti una rosa del
tuo giardino […] la tua passione e la tua fede hanno durato meno che un fiore del tuo
giardino»29. La circolarità del testo potrebbe derivare proprio dalle traduzioni del Ru-
sconi, di cui si veda ad esempio A M…: «Oh! se i tuoi occhi avessero invece di fiam-
ma l’espressione di una tenerezza viva, ma dolce […] Perocché se i tuoi occhi splen-
dessero là in alto come astri […]»30.
Nelle traduzioni di Byron fatte da Rusconi, le figure della ripetizione, presenti o-
riginariamente nel testo poetico inglese, sono mantenute ed assumono importanza
ancora maggiore, in quanto scandiscono il ritmo del testo in prosa; basta pensare a
The tear e alla cadenza ricorrente della parola “lagrima”. In Epitaffio di un amico di
Byron si tratta di un’invocazione martellante: «Se le lagrime avessero potuto rattenere
[…]; se i gemiti avessero potuto allontanare […]; se la giovinezza e la virtù avessero
potuto ottenere […]»31. Similmente avviene in A M. S. G.: «Ogni volta ch’io veggo le
tue labbra incantevoli […]. / Ogni volta ch’io miro quel seno splendido […] / Non
mai io ti ho confessato […] / No […] Giammai […]»32. Non mancano l’iterazione
dell’apostrofe o di un termine ad inizio strofa/paragrafo: «o amica mia, mia amica, oh
amica dolce» (A Carolina); «Io riveggo col pensiero, Riveggo la tomba, Riveggo anco-
ra la stanza» (Sopra una lontana vista del villaggio e del collegio di Harrow).
26 Tarchetti, Canti del cuore, cit., p. 439.
27 Byron, Opere complete, cit., pp. 72-73.
28 Tarchetti, Canti del cuore, cit., p. 434.
29 Ivi, pp. 433-34.
30 Byron, Opere complete, cit., pp. 28-29.
31 Ivi, p. 14.
32 Ivi, p. 48.
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 9
Allo stesso modo, le figure della ripetizione sono frequenti all’interno di ogni
componimento di Tarchetti, costruendo un tessuto ritmico e semantico, benché esso
risulti, alla fine, poco riuscito, nella semplicità che scade in banalità. Spesso si tratta
dell’iterazione di un sintagma che, come un ritornello, scandisce il procedere del can-
to intorno a un tema, o di un’apostrofe significativa: «Oh amico, se tale io posso dun-
que chiamarti […] Oh amico, se tale io potrò sempre chiamarti […] Oh amico, pe-
rocché tale io dovrò sempre chiamarti»33; lo stesso vale per il «fanciullo» del primo
Canto, per il «piccolo uccello dagli occhi neri» del quarto. Le prose non mancano di
essere incatenate tra di loro, attraverso la ripetizione di parole-chiave che contribui-
scono a riproporre temi cari alla riflessione di Tarchetti: il pianto, simbolo del male di
vivere, la giovinezza presto privata di sogni e speranze, la memoria. Anche la forma
della poesia-lettera è praticata da Byron, che nel titolo esplicita spesso il destinatario,
e dal Tarchetti, che fa appello alla donna amata (Io amava i fiori e tu…) o all’amico
(Oh amico…).
Si prenda, per un esempio, Io vado errando lontano dalla mia patria34, che ha il
sapore di una riscrittura, nei termini tarchettiani, del sonetto In morte del fratello
Giovanni di Foscolo. Una struttura ad anello incornicia il componimento, con varia-
tio nel finale, che amplia la dimensione dell’esilio ad un immutabile condizione esi-
stenziale: «Io vado errando lontano dalla mia patria […] io vado errando sulla terra
come una foglia trasportata dal vento». Il termine “patria” ricorre più volte nei Canti,
in un tessuto di citazioni che in realtà restituiscono il senso di un guscio vuoto: nel
terzo canto si è presa la decisione di abbandonare l’illusione patriottica come insensa-
ta, per inseguire un sogno di sfrenato individualismo («Oh liberi torrenti, vergini e
deliziose foreste!… due cuori disillusi rifuggono dalla società […]»)35; nel settimo, le
«canzoni della patria» non sono ricordate per il loro significato educativo, ma come
«cadenze lamentevoli», «canzoni della solitudine»36. La ripetizione, dunque, dei ter-
mini chiave suggerisce, da un canto all’altro, il senso degli stessi: una «mano maledet-
ta» allontana l’io dalla patria, ma questa distanza non ha il calore dell’allontanamento
politico, quanto il gelo dell’isolamento esistenziale («Giovine ancora senza affetti, e
senza speranze»). Chi visiterà un giorno, forse, il «sepolcro» di questo giovane, non
sarà il fratello o la madre, ma una «povera foglia», divelta, come lui, dal ramo: «verrai
un giorno a riposarti inconsapevolmente sul mio sepolcro».
33 Tarchetti, Canti del cuore, cit., pp. 434-35.
34 Ivi, p. 440.
35 Ivi, p. 435.
36 Ivi, p. 440.
10 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
1.3 L’esperienza francese e la tradizione italiana
Il fatto che Tarchetti abbia attinto la «forma» dei Canti, oltre che temi e immagini che
è agevole rintracciare, dalle traduzioni, per lo più in prosa, di Byron, ma anche dai
grandi poeti tedeschi, è interessante anche alla luce della storia del poème en prose
francese, ricostruita dalla critica in modo più o meno concorde37. È infatti opinione
condivisa che in Francia siano state le traduzioni in prosa di opere straniere di poesia
(o di prosa ritmica) a porre le basi per lo sviluppo del poème en prose, rendendo fami-
liare l’idea di una “poesia in prosa”. La svolta significativa, in tal senso, sarebbe avve-
nuta proprio attraverso l’influenza delle traduzioni, a partire dal 1700, che avrebbe
mostrato come la rima e il verso tradizionali non fossero indispensabili all’“effetto
poetico”. Si tratta di traduzioni da poeti stranieri che vanno cercando un poetico
primitivo: Ossian (i Canti tradotti da Turgot, 1760), Gessner (Gli idilli, Huber-
Turgot, 1762), Young (Nuits, ad opera di Le Tourneur, 1769). Le traduzioni sono dif-
fuse, per lo più, come frammenti isolati dal contesto, staccati dal testo a più ampio
respiro.
Da Ossian e Gessner alcuni autori prendono ispirazione per confezionare le loro
opere di “poesia in prosa” quali pseudo-traduzioni: Évariste de Parny (Chansonnes
Medécasses, 1787) è forse, in tal senso, il più celebre, spesso citato come uno degli
“antenati” di Bertrand. Parny affermava: «J’ai recueilli et traduit quelques chansons
qui peuvent donner une idée des usages et des moeurs. Ils n’ont point de verse; leur
poésie n’est qu’une prose soignée: leur musique est simple, douce, et toujours mélan-
colique»38. Si tratta di un’idea non lontana dalla tarchettiana ricerca del “ritmo” che si
senta “nel cuore”, dove ricorrono peraltro anche le idee di dolcezza e di malinconia:
«Dove tu possa trovare la ragione del ritmo, dover l’origine della dolcissima melan-
conia che ne emana, tu nol sai; ma ti senti tutto nel cuore»39. Naïveté e brevità caratte-
rizzano i dodici poèmes, e Parny è il primo ad introdurre la chanson à couplets e a fare
uso del refrain, ispirato alla canzone popolare. In Francia anche il romanticismo in-
glese (Wordsworth e Coleridge) e il romanticismo tedesco, con le ballate di Goethe
(Le Roi des Aulnes, 1782), di Bürger (celebre Lénore, 1773) e di Schiller, tutte tradotte
37 Tra i principali studi sul tema, si ricordino S. Bernard, Le poème en prose de Baudelaire jusqu’à nos
jours, Nizet, Paris 1959; M. Parent, Saint-John Perse et quelques devanciers; études sur le poème en prose,
Klincksieck, Paris 1960; La forme brève. Actes du colloque franco-polonais (Lyon, 19, 20, 21 septembre
1994), textes recueillis par S. Messina, Champion, Paris / Cadmo, Fiesole 1996; Y. Vadé, Le poème en
prose et ses territoires, Belin, Paris 1996; Ch. Leroy, La poésie en prose française du XVIIe siècle à nos jours,
Champion, Paris 2001; J. Roumette, Les poèmes en prose, Ellipses, Paris 2001.
38 L’«Avertissement initial» è riportato, come fattore significativo, da Julien Roumette (Les poèmes en pro-
se, cit., p. 7).
39 Tarchetti, Canti del cuore, cit., p. 431.
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 11
da Nerval a partire dal 1829, furono fonte di nuova ispirazione, proprio perché, tra
l’altro, erano solitamente tradotte in prosa, per mantenere la freschezza originaria del
ritmo40.
La tradizione poetica italiana, peraltro non gravata dal peso dell’alessandrino,
non si può dire subisse una scossa comparabile, per quanto riguarda una revisione
della frontiera poesia/prosa, ad opera delle traduzioni, condotte tra l’altro molto spes-
so in poesia: caso emblematico è l’Ossian del Cesarotti, rigorosamente in versi. Sem-
mai, il riferimento di Tarchetti ai «grandi poeti popolari tedeschi» fa tornare alla
mente i primi traduttori del romanticismo italiano, a partire dallo stesso Berchet, che
aveva scelto per le ballate di Bürger una traduzione in prosa che mantenesse evidenti
le onomatopee, le assonanze, le ripetizioni di versi. Tra l’altro, nella prima parte della
Lettera semiseria, il Berchet confutava la tesi di Voltaire secondo cui i poeti non si de-
vono tradurre che in versi, sostenendo la validità delle versioni in prosa, che consen-
tono di mantenere l’originalità41. Lo sguardo sulla realtà francese conferma che gli
esperimenti di Tarchetti, al di là della loro natura di tentativo poco riuscito, avevano
colto una questione non secondaria del rinnovamento portato dal Romanticismo in
Europa, che aveva avuto poco spazio in Italia.
A voler delineare il prescelto «genere speciale di letteratura», Tarchetti individua
un unico precedente in Italia: esso può considerarsi «intentato in Italia, a meno che
non si vogliano così classificare le molte e pregevoli canzoni popolari, di cui abbiamo
alcune bellissime raccolte»42. All’epoca dei Canti del cuore Tarchetti poteva aver co-
nosciuto i Canti popolari siciliani raccolti e illustrati da Lionardo Vigo (1857; la Rac-
colta amplissima verrà pubblicata una decina d’anni dopo), nonché i Canti popolari
40 Tra l’altro, si potrebbe accennare che anche tra le prime versioni francesi di Leopardi risulta una tradu-
zione in prosa, come il Leopardi di Valéry Vernier del 1867 (V. Vernier, Leopardi, Librairie Centrale, Pa-
ris 1867 [traduit de l'italien; poésies complètes]). Sulla base di questa traduzione si è anche ipotizzato,
come ricorda Stefano Garzonio, un rapporto tra le poesie in prosa di Turgenev e «le traduzioni prosasti-
che francesi dei Canti leopardiani, che così resi potevano essere percepiti appunto come brevi miniature,
frammenti lirico-filosofici in prosa, tenendo anche conto che in Russia il termine “poemi in prosa” era già
stato impiegato in precedenza, guarda caso, proprio a proposito del Leopardi e, più precisamente, delle
sue Operette morali» (S. Garzonio, Introduzione, in I. Turgenev, Senilia. Poesie in prosa 1878-1882, Marsi-
lio, Venezia 1996, p. 35).
41 «Le ragioni che devono muover il traduttore ad appigliarsi più all’uno che all’altro partito stanno nel
testo, e variano a seconda della diversa indole e della diversa provenienza di quello. Tutti i popoli, che più
o meno hanno lettere, hanno poesia. Ma non tutti i popoli posseggono un linguaggio poetico separato dal
linguaggio prosaico» (G. Berchet, Opere edite e inedite, pubbl. da F. Cusani, Pirotta e C., Milano 1863, p.
208).
42 Tarchetti, Canti del cuore, cit., p. 431.
12 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
toscani, corsi, illirici, greci raccolti e illustrati da Niccolò Tommaseo, per citare solo
alcune raccolte celebri nella storia della poesia popolare43.
Resta da chiedersi in che senso Tarchetti si richiami alla poesia popolare. Per Vi-
co, che aveva anticipato, nel Settecento, alcune riflessioni del Romanticismo in meri-
to al concetto di poesia popolare (come del resto Herder), il poeta popolare per eccel-
lenza era Omero, nella cui epica si rifletteva l’età eroica e primitiva del popolo greco.
Si sa poi come, con il Romanticismo, la poesia popolare divenga simbolo estetico, po-
litico e morale. In Tarchetti, al concetto di poesia popolare non pertiene più l’idea di
creazione collettiva e si è dileguato il principio che il “popolo” possa essere fonte di
ispirazione o pubblico a cui rivolgersi per identità di sentimenti; il cantore della mo-
dernità è l’individuo, solo e per lo più incompreso.
Si può ipotizzare allora che Tarchetti si richiami alla poesia popolare per due ra-
gioni: da un lato per un’idea di spontaneità, semplicità, andamento naturale (e a volte
prosastico) della poesia; dall’altro per una poesia che si affidi al ritmo piuttosto che
alla versificazione, alle figure della ripetizione piuttosto che alla prosodia classica. Ri-
spetto a studiosi ottocenteschi quali Nigra, D’Ancona, Pitré (tutti con interessi di tipo
folklorico), Tarchetti si serve del concetto di poesia popolare in una maniera diversa,
che si avvicina semmai all’idea di “tono popolare” che verrà elaborata da Croce. Nel
saggio Poesia popolare e poesia d’arte del 1929, Croce afferma che sussiste tra poesia
popolare e poesia colta una differenza assimilabile a quella tra buon senso e pensiero
critico sistematico, tra candidezza e bontà avveduta: «Essa [la poesia popolare] e-
sprime moti dell’anima che non hanno dietro di sé, come precedenti immediati,
grandi travagli del pensiero e della passione; ritrae sentimenti semplici in corrispon-
denti semplici forme. […] Le parole e i ritmi in cui essa si incarna sono affatto ade-
guati ai suoi motivi […]»44. Per Croce, al contrario della generazione di folkloristi che
lo aveva preceduto, non sono l’ambiente e la tradizione culturale a determinare la po-
esia popolare. Essa non è caratterizzata dall’«elaborazione popolare», quanto dal «to-
no popolare»: «In virtù del definito concetto psicologico, onde la poesia popolare è
fatta consistere essenzialmente in un atteggiamento dell’animo o in un tono del sen-
timento e dell’espressione, essa non si identifica con la poesia e con il cosiddetto po-
polo o di altre condizioni estrinsecamente e materialmente determinate»45. Autori di
poesia popolare sono dunque, semmai, alcuni uomini che «ancorché colti, siano ri-
43 L. Vigo, Canti popolari siciliani, Gioenia, Catania 1857; N. Tommaseo, Canti popolari toscani, corsi,
illirici, greci, Stab. tip. encicl. di G. Tasso, Venezia 1841-1842 (ora Forni, Bologna 1973). Per avere un
quadro delle pubblicazioni di raccolte di poesia popolare si può consultare la Bibliografia delle tradizioni
popolari d’Italia del Pitré.
44 B. Croce, Opere. Scritti di storia letteraria e politica, XXVIII, Poesia popolare e poesia d'arte. Studi sulla
poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Laterza, Bari 1933, p. 5.
45 Ivi, p. 12.
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 13
masti, verso la vita e certi aspetti della vita, in quella semplicità e ingenuità di senti-
mento […]»46. Tale dimensione individuale della poesia popolare interessa appunto
Tarchetti, che non si cura del bagaglio di leggende e storie tramandate nei secoli (ri-
preso semmai dai tardoromantici Prati e Aleardi), quanto dell’idea di una semplicità
dei sentimenti e delle forme, della possibilità di salvaguardare il sentimento origina-
rio senza costringerlo nelle forme poetiche tradizionali47.
Insieme al riferimento alle traduzioni, anche questo cenno alla canzone popolare
non è secondario e può essere ancora considerato alla luce degli studi francesi sul
poème en prose. Negli anni della Restaurazione (1815-30), compaiono in Francia di-
verse raccolte di canzoni popolari, come Le Chants populaires de la Grèce moderne di
Claude Fauriel (intorno al 1825), che diffondono la forma della canzone popolare. Le
canzoni sono caratterizzate, oltre che dal carattere leggendario delle storie, da una
struttura a couplets et refrains, destinata a essere rielaborata in maniera originale da
Bertrand. Dunque le raccolte di canzoni popolari avrebbero contribuito
all’elaborazione di una poetica del poème en prose, ovvero alla scelta di una prosa rit-
mico-lirica che rendesse, con più immediatezza e semplicità rispetto ai versi, i senti-
menti dell’io. Anche sotto questo aspetto, si può dire che Tarchetti abbia diretto il suo
sperimentalismo in un’interessante direzione di ricerca «intentata in Italia».
1.4 Leopardi e Foscolo nei Canti
Tarchetti intende sottolineare, nell’Introduzione, le differenze dei Canti rispetto alle
canzoni popolari:
Ma queste di cui io pubblico alcuni imperfettissimi saggi, non si aggirano che sopra
un sentimento, sopra un pensiero; quelle hanno invece la loro base in un fatto; queste
non riflettono che il grande quesito del destino umano, quello della vita morale e so-
ciale; le une sono una pagina della più astrusa filosofia, le altre una epopea48.
46 Ibid. Per questa concettualizzazione, Croce riceve le critiche dei folkloristi, come Menéndez Pidal: «La
poderosa mente del Croce non si è liberata dall’individualismo»; secondo il Cocchiara, la sistemazione di
Croce sottrae la poesia popolare al suo ambiente originario e la ritiene solo in parte degna d’interesse,
oggetto di studio gravato ancora dalla condanna del Carducci («Cantare certamente cantano; ma quando
non sono cose vecchie, le sono scempiaggini e sconcezze baciate con certi versi strani che Dio ne scampi»)
(cfr. G. Cocchiara, Le origini della poesia popolare, Boringhieri, Torino 1966, p. 36).
47 Non di rado la poesia popolare tratta di temi tarchettiani, come l’amore e la morte. Il Canto epico-lirico
ad esempio, che secondo il Nigra aveva proprio il Piemonte come centro d’irradiazione e le cui forme ci
rimandano alle ballate anglo-scozzesi, è ricco di tensione drammatica; la morte domina incontrastata, e
con la morte l’amore (cfr. ivi, p. 121). Si vedano Donna Lombarda che muore avvelenata (ivi, p. 119), o la
ballerina che smette di ballare quando sa che tutti i suoi sono morti (ivi, p. 123).
48 Tarchetti, Canti del cuore, cit., p. 431.
14 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Sentimenti, destino umano, filosofia vengono opposti a “fatti” ed “epopea”. In questa
dichiarazione d’intenti si ritrova un altro dei capisaldi del romanticismo che, secondo
la critica francese, sta alla base dello sviluppo del poème en prose, ovvero il gusto per il
lirismo autobiografico. Piegata a rendere gli stati d’animo, la prosa si fa lirica, princi-
palmente nelle confessioni, nei diari e nel romanzo epistolare, caratterizzati non
sempre da incisività e brevità, ma molto spesso da lirismo. Secondo Susanne Bernard,
ad esempio, anche le lettere del Werther sono da considerare quali prose liriche, che
non di rado si organizzano in couplets.
In questo senso, poteva funzionare per il Tarchetti proprio il modello dell’amato
e ammirato Foscolo. Si ricordi l’analisi di Binni riguardo all’incontro tra prosa e lirica
nell’Ortis:
Se il ricorso alla poesia in versi di altri autori è nell’Ortis […] sobria e funzionale a
una scelta di testi emblematici […], la sua prosa lievita in aperture verso una prosa
poetica densa e ricca di movimenti idillico-elegiaci, elegiaci, drammatici. Diverso da
un narratore puro e antilirico, il Foscolo dell’Ortis è sempre pronto a salire di tono
verso la lirica sia preparando movimenti lirici postortisiani suoi (i grandi sonetti, la
grande Ode, i Sepolcri), sia fornendo l’abbrivio alla lirica leopardiana: si pensi in que-
sta ultima direzione, che tanto ci dice della potenzialità complessa dell’Ortis anche nei
confronti del grandissimo Giacomo Leopardi, alla iniziata descrizione della natura
«dopo la tempesta» («l’aria torna tranquilla», nella lettera del 20 novembre 1797). Sa-
ranno brevi liriche in prosa livide e intense («il cielo è tempestoso […] coi raggi lividi
le mie finestre»), saranno movimenti più larghi e avvolgenti di nostalgia elegiaca e di
poesia della memoria («Ho visitato le mie montagne…», nell’ultimo frammento), sa-
ranno mescolanze di meditazione e di descrizione lirica (nella lettera del 19 gennaio
1798), saranno più esplicite descrizioni di paesaggio pausate e penetranti («Una sera
d’autunno» nel Frammento della storia di Lauretta). Tensione lirica che tanto arric-
chisce la prosa narrativa dell’Ortis e tanto dimostra la fertilità reale e potenziale del
grande libro49.
È una potenzialità, quella dell’Ortis come modello per una «lirica in prosa», sfrut-
tata solo in minima parte da Tarchetti, ma da segnalare come uno dei fondamentali
momenti di tangenza tra prosa e lirica nella letteratura moderna italiana. Dall’Ortis
Tarchetti sembra a tratti riprendere la forma epistolare, nel suo carattere di confes-
sione intima e partecipata, che permette la ripetizione, l’esclamazione, la sospensione,
l’interrogazione incalzante. Spesso l’io lirico ha un interlocutore diretto, a cui si rivol-
ge con apostrofi senza attendere in realtà risposta («Fanciullo», «Tu mi donasti una
49 W. Binni, Ugo Foscolo. Storia e poesia, Einaudi, Torino 1982, pp. 116-17.
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 15
rosa», «Oh amico», «Oh piccolo uccello», «Io ti ho sognata… Oh donna che dispera-
tamente amo»). Temi foscoliani percorrono i Canti, con una rielaborazione in senso
personale e individualistico; «Vado leggendo alcuni fogli d’un giovane morto a
vent’anni», scrive ad esempio Tarchetti. Ricorre il tema del sepolcro, da cui non si
spera però consolazione: nel terzo canto, lo scrittore confessa ad un amico la propria
pulsione di fuga/morte, sottolineando il fallimento delle speranze riposte nella patria
(«molte già ne versammo nella nostra patria») e la prospettiva di un «sepolcro ignora-
to». La patria è ormai oggetto di un passato irrecuperabile, relegata tra i ricordi
dell’infanzia («Oh soavissime canzoni della mia patria […]. Eteree come il canto che
m’addormentava sulle ginocchia di mia madre […]»)50, come per Emilio Praga («Mia
madre intanto, imagin benedetta, / nella sua sala profumata e fosca, / mi dicea di Fio-
renza e di Barletta, / Fanfulla e Fieramosca…»)51. Si profila il tema
dell’allontanamento dalla società, come tentativo per combatterne i mali, che Tar-
chetti svilupperà in futuro: «due cuori disillusi rifuggono dalla società ed abbandona-
no la loro sorte all’Oceano fra le braccia dell’amicizia»52.
Vari sono poi i riecheggiamenti leopardiani, facilmente individuabili: «le lacri-
me» non sono altro che «l’inconscio prevedimento d’una sciagura maggiore», per
compendiare il dramma terribile dell’infelicità umana di leopardiana memoria; «Tan-
to pensosa è la tua fronte e pallida è la tua guancia o fanciullo»; «così di tante speran-
ze non mi è rimasta che questa rosa appassita»53; leopardiano è anche il confronto
con la natura impersonato dal «piccolo uccello dagli occhi neri», con cui l’io lirico
condivide la solitudine, ma non il dolore; l’espressione finale del desiderio di tramu-
tarsi in uccello («Vorrei io pure avere le ali») assomiglia all’aspirazione che chiude
L’Elogio degli uccelli («io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello»).
Foscolo e Leopardi, se non citati espressamente nell’Introduzione, sono facilmen-
te rintracciabili nei Canti. Toni e temi derivanti dalle molteplici letture di Tarchetti si
incontrano poi con il vissuto personale di cui resta testimonianza nelle Lettere a Car-
lotta Ponti54 , dove abbondano lacrime, dolore, «tremenda malinconia», gelosia, illu-
sioni e speranze frustrate. Io canto la morte della mia giovinezza, ad esempio, rac-
chiude motivi ricorrenti anche nelle lettere; il 7 luglio 1863, il giovane Ugo scriveva a
Carlotta: «dopo una gioventù tumultuosa (ah molto, troppo tumultuosa) eccomi col
cuore esausto ed incapace di un amore nobile»55. In un’altra missiva, si legge «il mio
50 Tarchetti, Canti del cuore, cit., p. 439.
51 E. Praga, In morte di Massimo D’Azeglio (Trasparenze), in Id., Poesie, a c. di M. Petrucciani, Laterza,
Bari 1969, p. 293.
52 Tarchetti, Canti del cuore, cit., p. 435.
53 Ivi, p. 433-34.
54 Si veda a riguardo Ghidetti, Tarchetti e la scapigliatura lombarda, cit., pp. 95-96.
55 I. U. Tarchetti, Lettere a Carlotta Ponti, in Id., Tutte le opere, cit., II, pp. 575-76.
16 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
passato è un sogno, è uno di quei sogni felici che lasciano una grande impressione, e
che si conservano sempre confusamente nella memoria»56: Io canto la morte… è ap-
punto la rievocazione del passato come sogno («Ancora io sogno le emozioni di que-
sto passato. Altro non è la vita che un sogno, oh lasciatemi, lasciatemi dunque sogna-
re»)57. Forse nella tomba si sogna, diretto ad un interlocutore femminile, pare derivare
direttamente dall’immagine di una lettera: «ti ho sognato […]. Oh terribile quel de-
starsi alla realtà, quel doversi persuadere che era un sogno, un fuggevole sogno! Se io
fossi certo che i morti sognano, vorrei oggi stesso addormentarmi […]»58.
In chiusura, un’ultima riflessione è necessaria: i Canti del cuore vengono pub-
blicati nel 1865, datazione che ci permetterebbe di supporre che Tarchetti cono-
scesse Aloysius Bertrand e, magari, la Lettre-Préface di Baudelaire nota dal 1862. La
questione però forse non è così decisiva; i Canti del cuore, che veramente appaiono
come tentativi mal riusciti di una giovinezza inquieta, sul piano letterario e biogra-
fico, sono mal riconducibili ai grandi esperimenti dei due francesi. Bertrand, tra
l’altro, non era molto conosciuto, fu letto in Francia a partire dal tardivo tributo
che gli dedicò Baudelaire. Inoltre, anche ripubblicando i Canti più tardi, a nessuno,
né al Milelli né ai recensori, viene in mente di paragonarli a qualche fiore maledetto
del giardino di Francia.
I Canti del cuore valgono come un primo passo, nei territori d’Italia, verso una
prosa breve, autonoma e poetica, volutamente contrapposta alla poesia ufficiale ed
alle sue forme (si ricordi: «e vorrei dirla poesia»). Tra l’altro, l’esperimento in prosa
si accompagnava ad una serie di poesie, Disiecta, percorse spesso da «un linguaggio
parlato che si traduce in versi di facile musicalità, in arie popolari»59. Mentre avvi-
cinava la prosa alla poesia, dunque, quasi fosse un’altra faccia di una stessa meda-
glia, Tarchetti tendeva a un avvicinamento della poesia alla prosa, ponendosi a par-
te di quel movimento di desacralizzazione dell’aura poetica che avrebbe aperto le
porte del Novecento.
56 Ivi, p. 594.
57 Id., Canti del cuore, cit., p. 438.
58 Id., Lettere a Carlotta Ponti, cit., p. 584.
59 Ghidetti, Introduzione, cit., p. 59.
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 17
1.5 Il “frammento” umoristico
Di quando in quando un frammento di
basalto distaccandosi da qualche frana
precipitava percotendo nell’addentellato
delle pareti, traendo seco altri massi […].
I. U. Tarchetti, Un suicidio all’inglese
Se la linea del Foscolo didimeo e traduttore di Sterne si snoda, con percorso irregola-
re e sommerso, per tutto l’Ottocento italiano, sicuramente è nell’ambito scapigliato,
incline al rinnovamento del romanzo e del racconto, che trova un momento di profi-
cua “emersione”. Il fatto non sarebbe particolarmente rilevante, in questa sede, se al
filone “umoristico” non convenissero caratteri di riflessione, divagazione, ironia e pa-
thos che tendono a decentrare e frammentare il discorso narrativo. Accanto alla spin-
ta “romantica” di abolizione delle frontiere tra poesia e prosa in nome dell’autenticità
del sentimento, si faceva strada, nella scrittura di Tarchetti, un gusto per il “frammen-
to” proveniente da un ambito ben diverso.
L’umorismo tarchettiano si trova condensato essenzialmente in alcuni racconti
della prima maniera, quasi come “esercizio” sulla traccia, esplicitamente richiamata,
dello Sterne60 caro a Foscolo, e, soprattutto, in alcune prove più tarde e mature. Non
si può dire che Tarchetti abbia tramutato la propria disponibilità alla sperimentazio-
ne umoristica in un’elaborazione piena e completa, che permetterebbe di annoverarlo
senza remore ad un coté di più solidi “umoristi”: l’oscillazione di toni e maniere che
contraddistingue anche le prove più sterniane è ben rappresentata dalla struttura
duale dell’Innamorato della montagna, dove ad una prima parte intessuta d’ironia se-
gue una seconda all’insegna di un drammatico idillio romantico.
Non aveva, insomma, tutti i torti il Rabizzani quando, ravvedendosi, proprio in
virtù dell’Innamorato, riguardo a precedenti giudizi limitativi sull’umorismo di Tar-
chetti («nato morto perché egli lo provoca con antitesi di cui ognuno di noi può pro-
lungare indefinitamente la serie»)61, giungeva a queste conclusioni: «il Tarchetti aveva
60 Sterne è ricordato nelle Idee minime sul romanzo (1865) come «nome carissimo al mio cuore»; «fu detto
caposcuola del romanzo umoristico, ma sotto quel velo dell’umorismo e della satira ha nascosto quanto di
nobile e di affettuoso e di commovente fosse mai racchiuso in un libro» (cfr. Tarchetti, Opere, cit., II, pp.
530-31). «Satira», dunque, «commovente»: con limitati strumenti teorici, Tarchetti tenta comunque di
sottolineare l’unione tra ironia e pathos che contraddistingue, nella sua opinione, l’umorismo sterniano.
Sull’umorismo di matrice sterniana di Tarchetti si veda M. Muscariello, L’umorismo di Iginio Ugo Tar-
chetti ovvero la passione delle opinioni, in Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a
Pirandello, Nistri-Lischi, Pisa 1990, pp. 231-63.
61 G. Rabizzani, Un poeta senza tomba (I.U.T.), «Il Marzocco», 21 luglio 1912; poi in Id., Bozzetti di lette-
ratura italiana e straniera, Carabba, Lanciano 1914, pp. 143-53.
18 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
una vera volontà di umorista, cui mancò tempo e lena di irrobustirsi e liberarsi dalla
soggezione dei modelli»62. Eppure questi “frammenti” d’umorismo, distaccatisi dal
«cratere» vivo della sperimentazione tarchettiana, erano destinati a “trar seco altri
massi”63, se un autore come Dossi finirà per sentirsi, pochi anni dopo, scrittore essen-
zialmente umorista.
Modi e temi cari agli autori dell’umorismo d’oltralpe e soprattutto allo Sterne fo-
scoliano compaiono già nel racconto Un suicidio all’inglese (1865), che si apre con un
desco imbandito di «beccafichi», dove l’abbuffata ha una chiara funzione ironica e
autoironica: poche ora prima dedito alla «contemplazione di tante bellezze della na-
tura», l’uomo si mostra piuttosto nei suoi istinti più umilmente naturali, perseguiti
con indubbia serietà («continuammo il nostro pranzo con una perseveranza notevo-
le»)64. Segue una parodica «apologia del beccafico»65, costruito su un continuo con-
trappunto tonale, con un uso straniante delle formule dell’idillio campestre: «amico
dell’uomo», «piccolo ed agile uccello dal becco gentile», ha come ricompensa
l’uccisione distratta per mano del cacciatore («ne distrugge una gran quantità mentre
sta seduto all’ombra di un fico»); «nato nella tiepida primavera», finisce tra «due fet-
tuccie di lardo candidissimo che lo separano da’ suoi compagni di nido», morendo
«nel migliore della sua vita». Un’ombra di tristezza capovolge l’ironia: «Tale è il de-
stino del beccafico, e quello dell’uomo non è forse migliore».
Alla tipologia umoristica appartiene anche l’episodico disvelamento dell’autore e
dei meccanismi del racconto, attraverso un dialogo più o meno diretto con il lettore,
condotto in prima persona. La narrazione è intessuta da divagazioni di carattere ri-
flessivo di cui il narratore chiede venia («Mi venga perdonata tale digressione»)66 e
l’umorismo si appunta, in maniera sterniana, sugli inconvenienti del viaggio, che
contribuiscono a mettere in ridicolo un certo abito letterario del protagonista: gli at-
tesi cavalli per la gita sul Vesuvio, piuttosto che essere degni di Alfieri o di Byron, so-
62 Id., Sterne in Italia. Riflessi nostrani dell' umorismo sentimentale, con pref. di O. Gori, Formiggini, Ro-
ma 1920, p. 203.
63 I. U. Tarchetti, Un suicidio all’inglese, in Id., Opere, cit., I, p. 87.
64 Ivi, p. 82.
65 Ivi, p. 81.
66 Ivi, p. 81. Afferma infatti Muscariello che l’umorismo tarchettiano si appunta molto spesso «sulla co-
struzione degli intrecci», ricostruendo le molteplici tipologie di frantumazione del discorso, dal «feuille-
ton» di Mary e Robert al materiale epistolare (Muscariello, L’umorismo di Iginio Ugo Tarchetti ovvero la
passione delle opinioni, cit., pp. 235-36). Occorre però non insistere troppo su queste inserzioni di brani
come segnali di umorismo, ricordando ciò che afferma Ghidetti: vi è al fondo un’esigenza di «conferire ai
fatti una loro oggettiva veridicità» (Ghidetti, Introduzione, cit., p. 8), non tanto il piacere della digressione
come interruzione del ritmo narrativo, alla maniera dossiana.
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 19
no «lenti, sfiniti, pazienti»67. La curiosità nei confronti della storia di Sir Robert è illu-
strata nei termini di una “deformazione” della sensibilità propria dello scrittore:
[…] ma che non ama d’immaginare un novelliere o un poeta? La loro posizione è così
eccezionale nella società, la loro vita così scevra di godimenti, così esaurita dai disin-
ganni di tutti i giorni la loro virtù di sperare, che le facili illusioni di gloria e di ammi-
razione, con cui amano d’ingannare sé stessi, e la desolante convinzione della propria
nullità, diventano compatibili anche agli occhi dell’uomo positivo68.
Poco più avanti, invece, si riconosce ai letterati, «famosi simulatori», un certo credito
di verità: «è destino che nel cammino faticoso delle lettere, non si possa giungere alla
verità che per la via della finzione»69. Anzi, a chi dubitasse di fatti narrati (l’incontro
fortuito tra il protagonista e Mary), si risponderà con la citazione scoperta
dell’ipotesto («colle parole di Sterne»): di «romantiche combinazioni […] la fortuna
non è prodiga ad alcun viaggiatore, tranne che al sentimentale»70.
Racconto umoristico è anche Tragico fine di un pappagallo (Frammento) (1866),
dedicato al ritratto di un episodio di immotivata crudeltà, emblematico del carattere
degli inglesi, noché dei tratti peggiori della natura umana in genere. Dopo l’«apologia
del beccafico», il narratore, sempre autodiegetico, afferma di non voler fare
«l’apoteosi d’un pappagallo»71, pur dimostrando che c’è più umanità in quel compa-
gno dalle poche frasi che nel suo carnefice.
Ai primi tempi dell’attività tarchettiana appartiene anche un’altra prova
dell’ammirazione sterniana del giovane scrittore: Ad un moscone. Viaggio sentimenta-
le nel giardino Balzaretti (1865), prova sostanzialmente inconclusa, che porta, già nel
titolo, due chiari riferimenti al modello Sterne72. Si tratta del resoconto di una giorna-
ta, trascorsa fuori per evitare di incontrare un sarto creditore, che si sostanzia di con-
67 Tarchetti, Un suicidio all’inglese, cit., p. 83.
68 Ivi, p. 89.
69 Ivi, p. 94.
70 Ivi, p. 113.
71 Id., Tragico fine di un pappagallo (Frammento), in Tutte le opere, cit., I, p. 135.
72 Ad un moscone fu pubblicato in due puntate sulla «Rivista minima» di Ghislanzoni, il 30 giugno e il 15
settembre 1865. Per i riferimenti sterniani nel titolo, oltre alla definizione di «viaggio sentimentale», si
consideri «l’episodio famoso del moscone di Uncle Toby nel Tristam Shandy» (cfr. Ghidetti, Tarchetti e la
Scapigliatura lombarda, cit., p. 73). Ricorrono poi varie allusioni dirette nel testo: «ripeteva a me stesso le
esclamazioni del notaio di Yorick: - Ohimé! dove poserò io il mio capo? misero uomo!» (I. U. Tarchetti,
Ad un moscone. Viaggio sentimentale nel giardino Balzaretti, in Id., Tutte le opere, cit., II, p. 469); «io, sen-
za aver tolti meco, come Sterne, la mezza dozzina di camicie e il paio di brache di seta nera […]» (ivi, p.
497); «E mi vennero subito sulle labbra le parole di Sterne: “Tu puoi condirti a tua posta, o indolente ser-
vaggio, tu sei pur sempre un calice amaro […]”» (ivi, pp. 511).
20 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
tinue «divagazioni moralistico-letterarie»73. Oltre alla sua inclusione, di fatto, nel tito-
lo, l’istituto della dedica è rivisto, in maniera umoristica, in senso anticonvenzionale:
io fui debitore a quell’insetto del mio viaggio sentimentale – e non se n’abbiano a ma-
le i miei confratelli, se io, a costo di violare tutte le leggi di speculazione letteraria, in-
vece di dedicare queste pagine al conte di A, o al duca di B, o al principe di F,
coll’animo compreso della più nobile gratitudine, oso dedicarle ad un moscone74.
Il resoconto del viaggio al giardino pubblico è costituito da una serie di frammen-
ti, separati l’uno dall’altro, ispirati da uomini e cose che attirano, caso per caso,
l’attenzione dell’io; del resto il carattere frammentario, inconcludente e vario del rac-
conto è dovuto all’intenzione particolare dell’osservatore “sentimentale”:
A differenza di un viaggiatore positivo, che non mirerebbe oltre agli avvallamenti e
le elevazioni del suolo, io pongo sotto gli occhi del lettore il seguente piano topografi-
co-morale […].
Si incrociano riflessioni sulle pubblicazioni più diffuse e sulla società che le rice-
ve, tanto più quando si tratta dell’Arte di farsi sposare…; il narratore insinua il dubbio
sul significato dell’istituzione del matrimonio che, inteso quale strumento di control-
lo sociale contro «la corruzione dei costumi», è trattato dall’autore dell’Arte, senza
«vana ipocrisia», alla stregua di un contratto, scevro da ogni contenuto sentimentale
(«le sue istruzioni sono semplici logiche, positive»)75.
L’importanza assunta dalla moda nella società moderna, già notata e mirabilmen-
te parodiata nel celebre dialogo leopardiano, viene stigmatizzata attraverso la figura
dell’amico Donato, premiato da una «commissione di sapienti» come uomo «bene-
merito della civiltà, del progresso e della patria». Il riconoscimento che la società tri-
buta a tale «genio», riferito con adorazione antifrastica dall’io-protagonista, conduce
infine ad un ironico paragone con il pavone del parco:
E costui, io dissi ancora a me stesso, per la medesima virtù di quel pavone, sarà
giudicato un uomo d’importanza, un uomo modello, e rappresenterà in faccia alla
nazione, il prototipo della sua gioventù, forte, studiosa, pensante, informata a senti-
menti eletti e dignitosi?76
73 Ghidetti, Tarchetti e la Scapigliatura lombarda, cit., p. 73.
74 Tarchetti, Ad un moscone, cit., p. 496.
75 Ivi, p. 501.
76 Ivi, p. 508.
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 21
La tonalità oscilla tra l’ironia, esplicita o implicita, provocata dagli spettacoli del
parco, e la serietà di riflessioni mosse da quelle stesse osservazioni; spicca, ad esem-
pio, una considerazione sul “vero” di leopardiana memoria77:
E se la felicità sta nell’illudersi, perché ci affaticheremo noi di spingerci fino al reali-
smo più sconfortante?
Il nostro secolo ha tutto realizzato, perfino gli affetti, e pare che una forza irresisti-
bile ci trascini su questa via, né sappiamo quando potremo arrestarci. È una reazione
dell’umanità che vuole lacerare il velo fittizio del suo destino e contemplarlo e scru-
tarlo come una cosa.
Ma saremo per questo più felici?78
Il meccanismo della digressione è evocato più volte, praticato oppure accennato e
poi eluso: ordinando le pietanze per il pranzo, l’io-protagonista non manca di sof-
fermarsi sulla «voracità lombarda», che sconcerta «il forestiere»79; deciso ad una di-
gressione sulla «fisiologia della costoletta», che rimane ingannevolmente indicata nel
sommario («mi duole di frodarne il lettore»), il narratore ne è distolto dalla vista di
un «giovine», da cui si diramano altre osservazioni. La «distrazione», dunque, assurge
a guida delle impressioni del viaggiatore sentimentale; essa è talvolta più importante
del filo principale che si sta seguendo, com’è suggerito dalla vicenda del «dottissimo
Bevorischio»80, interrotto, da una coppia di passeri, nel suo lavoro sulle «generazioni
da Adamo in poi», per significative considerazioni sulla «bontà divina»; la vicenda di
Bevorischio, che occupa un intero frammento di narrazione, è anche la citazione più
ampia tratta dal Viaggio sentimentale di Sterne.
Tra il 1867 e il 1868 vanno considerati, come appartenenti alla tipologia di un
giornalismo dai tratti umoristici, con divagazioni di tipo morale, spesso riguardanti
lo statuto dell’artista nella società, alcuni articoli pubblicati sulla «Palestra musicale»
(in particolare le Conversazioni a spizzico, 1867), e sull’«Emporio pittoresco»
(1868)81. Lasciando a Ceserani e a Contorbia la parola su queste due esperienze, è for-
77 Per quanto riguarda la presenza di Leopardi, «autore costantemente presente al Tarchetti», afferma il
curatore delle opere: «riteniamo sia lecito parlare a questo proposito di un singolare capitolo della storia
della fortuna del recanatese nell’ambito della scapigliatura» (Ghidetti, Introduzione, cit., p. 9).
78 Tarchetti, Ad un moscone, cit., p. 510.
79 Ivi, p. 516.
80 Cfr. L. Sterne, Viaggio sentimentale, trad. di U. Foscolo, parte II, cap. XLIX (si cita dall’ed. Mondadori,
Milano 2001, p. 161). La citazione tarchettiana è peraltro vicinissima, diversamente che in altri casi, alla
traduzione di Foscolo; si discosta solo per la punteggiatura, per la sostituzione di «in quel poco d’ora» con
«nella breve ora», di «effettivamente» con «visibilmente».
81 Attente ricognizioni su queste due zone dell’attività giornalistica tarchettiana si trovano in R. Ceserani,
Un episodio dell’attività giornalistica di Tarchetti: la «Palestra musicale» (1867), «Critica letteraria», VII,
22 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
se conveniente registrare la presentazione della forma «a spizzico», in occasione della
quale Tarchetti sottolinea il pregio della frammentarietà che, forzata dallo spazio del-
la destinazione giornalistica e dall’esigenza di trattare argomenti difformi, è anche il
mezzo per favorire la partecipazione del lettore:
A spizzico! La è una forma assai comoda quando si ha a parlare di molte cose, e
non si può farlo distesamente di tutte; è un espediente assai agevole quando queste
cose presentano tutte quante un aspetto diverso, e non vi ha mezzo a fonderle e a col-
legarle […]. Ma come tutto ciò che è cattivo ha pure il suo lato buono, questa forma
ne ha uno, ed è che non intacca quel principio dimenticato sì spesso dai nostri scrit-
tori, il quale consiste nel non dir tutto, e nel lasciar qualche cosa a pensare anche a co-
loro che leggono82.
Se il letterato «vende» il «pensiero», è assai dannoso che egli divenga un uomo che
pensa «per gli altri»: si deve, piuttosto, fornire al lettore «un appiglio per pensare, per
mettere in moto la gran macchina dell’intelletto», evitando di smerciare «il diritto di
vivere un pajo d’ore senza pensare»83.
Tarchetti conclude: «Ecco perché noi scriviamo a spizzico, per accennare soltan-
to, per offrire i nostri pensieri in embrione»84. Il discorso è riferito alla cronaca disor-
ganica che Tarchetti si accinge a presentare sulle pagine della «Palestra musicale» e
non alla letteratura; d’altro lato, l’accento posto sulla frammentarietà, come elemento
che incoraggia una riflessione autonoma, offre anche la sponda per una comprensio-
ne del piglio divagante che condiziona le scritture tarchettiane di carattere umoristi-
co.
La definizione di Racconti umoristici pertiene però, in modo particolare, a In cer-
ca di morte e Re per ventiquattrore (1869), riuniti sotto tale denominazione. In questi
due racconti, più lunghi e articolati di quelli finora citati, l’umorismo non prende le
forme della digressione e dell’intervento riflessivo, moralistico e straniante del narra-
tore. Il primo di essi abbandona anche la forma della diretta esperienza vissuta
dall’io-protagonista, salvaguardandola appena nel cappello introduttivo, che delinea i
tratti dell’Inghilterra vista da uno straniero85. Alle suggestioni umoristiche apparten-
23, 1979, pp. 309-43; F. Contorbia, Tarchetti e l’«Emporio pittoresco», in Atti del Convegno nazionale su I.
U. Tarchetti e la Scapigliatura (S. Salvatore Monferrato, 1-3 ottobre 1976), Comune di S. Salvatore e Cassa
di Risparmio di Alessandria, S. Salvatore Monferrato 1979, pp. 255-339.
82 I. U. Tarchetti, Conversazioni a spizzico, in Ceserani, Un episodio dell’attività giornalistica di Tarchetti:
la «Palestra musicale» (1867), cit., p. 319.
83 Ivi, pp. 319-20.
84 Ivi, p. 320.
85 «Oh perché non sono nato sotto quel cielo severo e melanconico dell’Inghilterra, dove gli uomini cre-
scono liberi, nobili e dignitosi!» (I. U. Tarchetti, In cerca di morte, in Id., Tutte le opere, cit., I, p. 144).
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 23
gono però l’espediente della svolta imprevedibile delle vicende (il barone di Rosen
ingannato dalla stessa assicurazione che intendeva truffare), la trama del viaggio, che
incornicia le avventure del barone “morituro” dando modo, a lui e al lettore, di esplo-
rare la natura umana86, e, l’accostamento, rilevato da Bettini, di svariati registri87.
Il secondo racconto ha invece i caratteri dell’umorismo come critica sociale: l’io-
protagonista sogna di essere diventato, per eredità, re di una lontana isola
dell’«Oceano equinoziale»; l’ubicazione fantastica permette di forzare i termini della
realtà per meglio riflettere su di essa. La reazione alla notizia dell’inverosimile eredità
è segnata, ancora, dall’ironia diretta alla figura del letterato:
Tutti coloro che, come l’autore di questa storia, furono condannati al mestiere del
letterato, - il pessimo dei mestieri – e giova sperare pel bene dell’umanità che sieno
pochi – potranno immaginare la mia contentezza febbrile, mortale, e i trasporti for-
sennati della mia gioia. Io che aveva disperato sì spesso di me, che aveva sognato co-
me la più gran meta possibile nella mia fortuna quello stato d’imbecillità di mente e
di coscienza che sola può recare fama e agiatezza ai letterati in Italia, […] ora ero fi-
glio di un re […]88.
La “letterarietà” di certe fantasie pare quasi voler mettere il lettore sull’attenti, ricor-
dandogli il fondo fittizio delle avventure a cui sta assistendo; pregustando l’harem,
l’io afferma: «tentai di richiamarmi alla memoria quanto aveva letto di straordinario e
di favoloso su questi ritiri di piacere»89.
Luogo dal senso civile quasi utopico, per quanto testimoniano le leggi dello Stato
(«ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d’impotenza, ha il diritto al mantenimen-
to a spese dello stato»)90, l’isola non si sottrae al teatrino vacuo del potere, come rivela
la faccenda dell’«osso di balena», che, è consuetudine del paese, va introdotto nelle
«narici reali»91. Il nuovo re pensa già a come aggirare il popolo, «uscirne col naso in-
86 Ricorre anche la funzione demistificatrice del pasto, tipica della tradizione comica: «È vero – disse Ro-
sen – cenerò; l’uomo è il servitore d’uno stomaco, anzi l’uomo è uno stomaco, la credo la definizione me-
no inesatta fra le tante che si sono fatte di questo animale» (ivi, p. 169).
87 Si fa riferimento alla lingua burocratica del «Regolamento della società d’assicurazione sulla vita» e allo
stile epistolare (cfr. F. Bettini, Le componenti «avanguardistiche» della narrativa di Tarchetti: tra novità
ideologica e sperimentazione linguistica, in Atti del Convegno nazionale su I. U. Tarchetti e la Scapigliatu-
ra, cit., pp. 244-48). Muscariello aggiunge il lessico medico del Certificato sanitario stilato per la stipula-
zione della polizza assicurativa (Muscariello, L’umorismo di Iginio Ugo Tarchetti, cit., p. 244).
88 I. U. Tarchetti, Re per ventiquattore (Storia di un giorno della mia vita), in Id., Tutte le opere, cit., I, p.
205. Più avanti si ricordano le «mille lusinghe che venivano a blandire la mia vanità» di «scrittoruzzo po-
vero e sconosciuto» (ivi, p. 206).
89 Ivi, p. 208.
90 Ivi, p. 235.
91 Ivi, p. 215.
24 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
tatto»92 e magari fuggire con la bella Opala e qualche «diamante favoloso»; il popolo,
da parte sua, si ostina a pretendere, prima di tutto, il compimento dei riti della com-
media del potere, attraverso una tribale incoronazione.
Al versante umoristico appartiene poi L’innamorato della montagna (1869) che
rivela, già nel sottotitolo «Impressioni di viaggio», uno statuto non romanzesco, e-
splicato in una nota in calce alla prima edizione: non si tratta di un romanzo «nello
stretto senso della parola», ma di «impressioni e memorie di viaggio», frutto però di
una rielaborazione successiva («scritte […] dopo molti anni»)93. Sottraendo le proprie
«impressioni» al carattere accidentale, per così dire, degli “schizzi” stesi
nell’immanenza del viaggio, Tarchetti sembra anche voler togliere al lettore probabili
aspettative di tipo “pittoresco”, affermando: «coloro che vi cercano il pensiero legge-
ranno avidamente. Noi abbiamo in Italia qualche romanzo che diletta, pochi che mi-
gliorino, nessuno che dia impulso al pensiero». L’intento riflessivo si accompagna a
una dimensione frammentaria, all’abbandono dell’intreccio: «sono frammenti di un
più gran libro». Stavolta, infatti, «fantasticheria» e «divagazione» sono chiavi presenti
perfino nei titoli di due capitoli.
Il primo e il secondo capitolo sono di chiara impronta sterniana («io – come ave-
va letto nel viaggio di Yorick […]»)94: il passaggio tra Eboli e Potenza, con
l’osservazione di paesaggi «selvaggi» e «tristi», sotto pioggia, grandine e quant’altro,
porta il protagonista al pensiero dei «lazzari che vivono con quattro centesimi di lu-
maconi al giorno»95, ed apre a riflessioni sullo statuto della felicità (se sia lecito e ma-
gari preferibile perseguirla anche a prezzo della dignità). Digressioni ed exempla si
susseguono, debitamente segnalate al lettore («un fatto, che mi torna opportuno cita-
re»)96, fino al recupero del filo narrativo: «Ma ove era io? Uno sbuffo gagliardo di
vento interruppe a questo punto le mie digressioni»97. Il secondo capitolo si apre qua-
si come una “divagazione” dal primo98: l’episodio del cavallo Baruk esemplifica la
doppia natura, comica e patetica, che è solitamente riconosciuta all’umorismo: il di-
sturbo d’«infiammazione di vescica» che tormenta l’animale e costringe i viaggiatori
92 Ivi, p. 217.
93 La nota è riportata da Ghidetti in calce all’Innamorato della montagna (Impressioni di viaggio), in Tar-
chetti, Tutte le opere, cit., II, p. 115.
94 Ivi, p. 119.
95 Ivi, p. 120.
96 Ivi, p. 120.
97 Ivi, p. 123.
98 Altre divagazioni. La fisiologia di una vescica; il narratore segnala peraltro: «Ma la cosa che io sto adesso
per raccontare è di sì grande importanza, che non posso fare a meno di aprire un capitolo a posta» (ivi, p.
125).
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 25
alla sosta ha, senza dubbio, un immediato risvolto ironico, sulle tracce di Sterne99;
d’altro lato, le origini delle sue sofferenze lo accomunano al destino dell’uomo. Il ca-
vallo ridotto a «scheletro» e le due anziane compagne di viaggio spingono l’io-
protagonista a divagare sul tema della «vecchiezza»: «felice», perché ormai «ha vissu-
to»100, eppure alquanto amara, se «la coscienza ci opprime allora di tutti i suoi rim-
proveri»101.
Il terzo capitolo, con l’arrivo alla locanda, introduce anche una citazione da Nie-
vo: il camino «era uno dei più ampi che io avessi mai veduto, e mi richiamava alla
mente il focolare famoso della Fratta descrittoci sì bene dal Nievo». Al di là del circo-
stanziato riferimento all’immagine celebre della cucina del castello di Fratta, non è
forse un caso che cada, in questo punto, il riferimento a un autore che poteva ben es-
sere annoverato, per varie ragioni, alla tradizione umoristica italiana e, forse anche
come tale, fu seguito abbastanza da vicino, almeno nei primi testi, da Carlo Dossi102.
Il quarto capitolo, dal titolo sempre ammiccante ad un rapporto di confidenza
con in lettore (In cui viene finalmente in scena l’innamorato della montagna), intro-
duce, con la storia dello «strano suonatore», una riflessione, di carattere umoristico,
sulla valenza del paradossale:
Io dissi un tempo giocosamente che il paradosso non è che una forma ardita della ve-
rità; temo, e a ragione, di non essere nel vero; pure fui sempre invaghito del parados-
sale, come di cosa che ha proporzioni superiori alle ordinarie […]103.
Se il paradosso ha un probabile contenuto di verità non ordinarie, anche al riso ap-
partiene una profondità spesso non riconosciuta:
il riso è meno logico e meno efficace delle lacrime? […] Ma noi siamo poi, a conti fat-
ti, le sole creature che sappiano ridere […]; il ridicolo è forse il sublime del serio104.
99 L’episodio di «madama di Rambouillet» del Viaggio sentimentale (cap. XXXVII) è citato direttamente
(ivi, p. 133).
100 Ivi, p. 130.
101 Ivi, p. 134. A questo proposito si allude a Foscolo: «Il peggio è diventar vecchio, diceva Didimo» (ibid.).
102 Per un rapporto tra Tarchetti e Nievo si veda U. M. Olivieri, Narrare avanti il reale. «Le Confessioni
d’un Italiano» e la forma romanzo nell’Ottocento, Angeli, Milano 1990, pp. 154-77. Riguardo a questa ci-
tazione, Olivieri fa notare che non è in gioco tanto l’ironia, quanto l’«idillio di suggestione nieviana», lad-
dove «il focolare, divenuto centro della felicità infantile, riannoda i legami con un altro focolare lettera-
rio» (ivi, p. 157).
103 Tarchetti, L’innamorato della montagna, cit., p. 162.
104 Ivi, p. 163.
26 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Il capitolo quinto è interamente occupato da un racconto, che il narratore affer-
ma di aver riferito ai «commensali» dell’«albergo», dopo averlo ascoltato
dall’innamorato stesso. La Storia dell’innamorato della montagna si svolge con linea-
rità, senza digressioni, ed è, appunto, la dimostrazione di un paradosso: Giovanni,
illetterato ed educato lontano dalla società degli uomini, «è felice come lo sono pochi
quaggiù», ama ancora Fiordalisa, morta in un tragico incidente, e «vive di quella
memoria»105; non suona per la montagna, ma per evocare «i fantasmi di quell’amore
sepolto».
La costruzione del racconto è condotta «sullo sfondo di un idillio romantico che
ha per protagonisti i due giovani e la natura»106, poi tramutato in tragedia e risolto
nell’individualismo esasperato di Giovanni, che prelude a successivi sviluppi della
narrativa tarchettiana107. La componente umoristica non è però abbandonata in se-
guito a una brusca virata, perché a ben vedere il racconto, che pur non è costruito se-
condo le strutture solite all’umorismo, è la dimostrazione di una riflessione di tipo
umoristico sull’essenza del “bizzarro”, dello “strano”, del “paradossale”. Se le persone
comuni ipotizzano che Giovanni indirizzi la propria musica alla montagna perché
«pazzo»108, il protagonista, commosso da quelle note, si domanda senza tregua da do-
ve possa provenire «un affetto così incredibile e così mostruoso» («Innamorarsi di
una montagna!»)109.
Proprio a questo punto nasce la riflessione sull’essenza del «paradosso», che è in-
trodotta da una sorta di avvertimento: «l’abuso del pensiero ci conduce al paradosso»;
proprio l’abuso della «virtù di criterio»110 produce l’alterazione della stessa, condu-
cendo a conclusioni all’apparenza paradossali. Per esaminare il contenuto di verità
del paradosso occorre uscire dalla ragione e fare appello al sentimento: la «simpatia»
per il suonatore, allora, condurrà il «viaggiatore sentimentale» alla rupe e poi alla
porta di Giovanni.
Dietro alla risibile sagoma di un «innamorato della montagna» si erge, allora, la
figura di un uomo sventurato, che si è chiuso nel solipsismo della propria arte e di un
amore perduto in seguito a vicende dolorose. Il racconto, insomma, contiene, in nu-
ce, una delle riflessioni capitali dell’umorismo: il «ridicolo» e il «serio» sono più legati
di quanto si pensi, e la figura del pazzo, che può suscitare ilarità e sospetto, nasconde
105 Ivi, p. 180.
106 Ghidetti, Tarchetti e la scapigliatura lombarda, cit., p. 249.
107 Cfr. ivi, p. 250 e sgg.
108 L’albegatore, vox populi, afferma: «è un pazzo che passa il giorno e la notte picchiando sopra una sua
spinetta, e facendo l’occhiolino a quella montagna che vedete laggiù […] come lo si farebbe ad
un’amante» (Tarchetti, L’innamorato della montagna, cit., p. 158).
109 Ivi, p. 162.
110 Ibid.
Tarchetti: prosa lirica e frantumazione umoristica 27
in sé, in realtà, un grumo di inespresso dolore. La condizione di Giovanni non è che
l’esasperazione di una verità intuita dal viaggiatore nella condizione dei «lazzari» e
passibile di estensione a tutto il corpo sociale: proprio l’esclusione dalla società e dai
suoi vincoli di «doveri» e «dignità» può forse garantire la «felicità»111, che è ormai
«questione circoscritta all’ambito della sola persona»112.
Il filone umoristico è solo uno dei tanti percorsi, da Tarchetti, nei brevi anni della
sua produzione letteraria; eppure è presente, sulla scia di Sterne e del Foscolo didi-
meo, dall’inizio fino alla fine. L’autore scapigliato dal più sofferto individualismo ro-
mantico aveva lasciato traccia di una linea poco esplorata in Italia, eppure proficua di
ulteriori sviluppi, soprattutto per chi intendesse fare, del romanzo e del racconto, al-
trettanti campi di sperimentazione a tutti i livelli: l’ideale discendente
dell’esplorazione umoristica di Tarchetti sarà allora, senza dubbio, Carlo Dossi.
111 Ivi, p. 120. Si ricordi come viene apostrofato, polemicamente, Rousseau: «Se il bisogno di essere felici è
il primo bisogno della vita – e lo dice Rousseau nell’Emilio, colla stessa serietà con cui si direbbe una cosa
nuova – che giova il sofisticare sui mezzi che ci possono condurre a questa felicità?» (ibid.).
112 Ghidetti, Introduzione, cit., p. 49.
2. Il primo Dossi: in direzione del frammento
2.1 La «mancanza intera di una vita presente»: l’Altrieri
Ma l’ardor giovanile non sopporta la
mancanza intera di una vita presente, non
è soddisfatto del solo vivere nel futuro, ma
ha bisogno di un’energia attuale, e la mo-
notonia e l’inattività presente gli è di una
pena di un peso di una noia maggiore che
in qualunque altra età […].
G. Leopardi
Nato il 27 marzo 1849, «di 7 mesi, giallo per l’itterizia»1, il giovane Dossi dava alle
stampe per il Natale del 1868 un libro che si apre con una malinconica, invernale e-
vocazione di ricordi:
I miei dolci ricordi! Allorchè mi trovo rincantucciato sotto la cappa del vasto camino,
nella oscurità della stanza - rotta solo da un pállido e freddo rággio di luna che dise-
gna sull'ammattonato i circolari piombi della destra - mentre la múscia soriana, con
la zampa guantata, písola in gomítolo, ed anche il fuoco, a roventi carboni, dal leggier
crepolío, sonnécchia; o pure quando, seduto sulla scalea che riguarda il giardino, stel-
lándosi i cieli, séntomi in fáccia alla loro sublime silenziosa immensità, l'ánima mia,
stanca di febrilmente tuffarsi in sogni di un lontano avvenire e stanca di battagliare
con mille dubi, con le paure, con gli scoraggiamenti, stríngesi a un intenso melancó-
nico desidério per ciò che fu2.
Le ragioni dell’intimo ripiegamento sono accennate in conclusione di questo primo
paragrafo: il narratore, che parla in prima persona, vive una giovinezza «stanca di
1 C. Dossi, Note azzurre, a c. di D. Isella, Adelphi, Milano 2010, nota (d’ora in avanti NA) 2927, p. 335.
2 Id., L’Altrieri. Nero su bianco, in Opere, a c. di D. Isella, Adelphi, Milano 1995, p. 5. Si ricordi che Dossi
operò una revisione dell’Altrieri, ristampato nel 1881 (cfr. D. Isella, Dal primo al secondo «Altrieri», in Id.,
La lingua e lo stile di Carlo Dossi, Ricciardi, Milano-Napoli 1958). Per il primo Altrieri, cfr. Note ai testi, in
Dossi, Opere, cit., pp. 1419-26.
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
30 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
battagliare», distoglie lo sguardo dai «segni di un lontano avvenire» per riposare gli
occhi sulla vista di «ciò che fu»3.
A rileggere l’Ottocento nella prospettiva di George Steiner, si potrebbe inscrivere
un tale atteggiamento in quelle «immagini e strutture simboliche» nate in seno alla
Restaurazione e destinate a funeste conseguenze: secondo l’autore di Nel castello di
Barbablù, tutta l’Europa subisce l’insopportabile rallentamento del tempo che segue
la fine della rivoluzione francese, momento di sublime «eccitazione interiore» e «ac-
celerazione»4. Per la generazione “scapigliata”, si aggiunga la depressione legata alla
fine dei fervori patriottici nel momento in cui l’unità d’Italia si andava, politicamente,
concretizzando. All’indebolirsi della fiducia nel progresso storico segue la perdita del-
la speranza nel futuro: per Dossi, «l’ánima » è «stanca di febrilmente tuffarsi in sogni
di un lontano avvenire»5; «io vado, e ignoro il termine / del mio cammin qual sia»6
recita la poesia XIV di Disjecta di Tarchetti, dichiarando un comparabile senso di
smarrimento; «vagheggiati fantasmi della mia povera fantasia […] tuffatemi nelle vi-
sioni placidissime e nei desideri bollenti di un avvenire, spiato ora con tanta trepida-
zione»7 afferma Bazzero, trovando poi rifugio nella rievocazione del passato. È la fine
di ogni residuo vitalismo romantico: l’uomo conta per le azioni, ma l’impossibilità
dell’azione lo costringe ad una frustrazione senza fine. Il vagheggiamento dei tempi
andati, come passato personale (l’infanzia di Dossi e Bazzero) o poetico (si pensi al
medioevo di Fiabe e leggende di Praga), è riconducibile, in accordo con Steiner, alla
frustrazione di un presente incomprensibile.
Il diciannovenne Dossi raccoglie dunque i frutti di un clima che, proprio nella
capitale industriale d’Italia, aveva favorito la formazione della koinè culturale scapi-
gliata, sempre in bilico, con i suoi primi protagonisti, tra il “risarcimento romantico”
3 Di un tale stato di noia e torpore restano segni anche in Note azzurre di periodi successivi, come la 3922:
«Ma in me siede invece unicamente la grigia noja, la quale non può trovare l’eco del suo sbadiglio – pri-
mamente in chi scrive, poi in chi legge. […] Io mi desidero a volte un cambiamento totale di vita; di usci-
re cioè da questo asilo d'infanzia e gittarmi nella giovanil mischia» (in calce: «21 aprile 1877. Induno», in
Dossi, Note azzurre, cit., p. 524).
4 G. Steiner, Nel castello di Barbablù. Note per la ridefinizione della cultura. Conferenze in memoria di T. S.
Eliot (1971), trad. di I. Farinelli, SE, Milano 2002, pp. 23-24.
5 L’anomalia e il peso della scelta memoriale del giovane Dossi erano stati rilevati da Borgese (La vita e il
libro, I, Bocca, Torino 1910, pp. 65-70): «A diciannove, a venti anni, anche più in là, un uomo normale
non ha né tempo, né voglia di ripensare e di rivivere i primi ricordi, dalle panche di scuola su su fino ai
primi balocchi ed alle passeggiatine in camera di mamma tentate con la precauzione delle cercine e delle
tiranti. Quando s’è giovani, la mente è indirizzata verso il futuro, come la cima dell’albero è volta verso
l’azzurrità dello zenith. […] Ma Carlo Dossi non fu, almeno nella sua qualità di scrittore, un uomo nor-
male, e dette un tipico esempio di involuzione sentimentale».
6 I. U. Tarchetti, Disjecta, in Id., Tutte le opere, cit., II, p. 461.
7 A. Bazzero, Riflesso azzurro, in Id., Prose scelte, a c. di G. Frasso e E. Paccagnini, Otto/Novecento, Mila-
no 2009, pp. 138-140 (l’intero paragrafo è ripetuto, a sottolinearlo, due volte).
Il primo Dossi: in direzione del frammento 31
e l’aggiornamento della cultura letteraria italiana alle più moderne istanze europee.
Dossi non è il solo a dipingersi, a dispetto della giovane età, in preda alla stanchezza e
volto verso evanescenti evocazioni memoriali. Nel giorno del suo trentesimo comple-
anno (9 aprile 1851), Charles Baudelaire pubblicava su «Le Messager de l’Assemblée»
la poesia dal titolo La Cloche fêlée: il poeta non va incontro a una vigorosa vecchiaia
(«Bienheureuse la cloche au gosier vigoureux»); si sente già, e non per l’età avanzata,
una campana incrinata («Moi, mon âme est fêlée»).
Il est amer et doux, pendant les nuits d’hiver,
D’écouter, près du feu qui palpite et qui fume,
Les souvenirs lointains lentement s’élever
Au bruit des carillons qui chantent dans la brume.
Un’analoga sensazione avvolge il narratore dell’Altrieri, che cerca, nel tremolio delle
fiamme del camino, immagini dei volti del passato:
Mentre di fuori – ai lunghi sospiri del vento – frémono, piégansi le pelate cime degli
álberi e batte i vetri la piova - quì - vampéggia il più allegro fuoco del mondo, scop-
pietta, trémolo illuminando lieti visi dai colori freschíssimi […]8.
Qualche anno prima, nel 1864, si era ricordato delle «nuits d’hiver» baudelairiane
Emilio Praga, che, ad introdurre il lettore nelle Penombre, pubblicate all’età di venti-
cinque anni, sceglieva il periodo della morte della natura; il richiamo all’inverno di-
ventava la dichiarazione di un programma poetico all’insegna del ricordo e del sogno
di un idillio primaverile senza tempo: «tornano le memorie / del luglio e dell’aprile, /
a colorir lo stile / del pallido pittor»9.
Non è proprio della gioventù perdersi nella malinconia dei ricordi; Dossi invece,
in giovane età, fa della memoria oggetto e fonte di ispirazione, e, precocemente vec-
chio, si rivolge ai ricordi10. Una simile riflessione sul rapporto tra il giovane e il passa-
8 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 7.
9 Praga, Poesie, cit., p. 88. Sospiri all’inverno ricorda anche Paysage (Les Fleurs du Mal, LXXXVI): «Car je
serai plongé dans cette volupté / D’evoquer le Printemps avec ma volonté». Qui Praga toccava la poesia di
Baudelaire, dirompente novità nella stagnante cultura milanese, malgrado poi la svolgesse nei modi reali-
stico-quotidiani che meglio conosceva. La nebbia che a Parigi era foriera di fiabesche immagini di luce
(«Il est doux, à travers les brumes, de voir naître / L’étoile dans l’azur, la lampe à la fenêtre»), a Milano
rivelava il lavoro quotidiano dell’universo casalingo femminile («quando la nebbia intorbida / l’ampia
campagna rasa / è pur dolce l’imagine / delle donne in casa»). La concezione del paesaggio invernale
cambia, più tardi, nella poesia di Praga, assumendo nuove simbologie.
10 Molteplici sono le liriche in cui Praga si ritrae già vecchio, morto o predice la propria scomparsa. In
Desolazioni (Penombre) il poeta descrive uno stato di noia e angoscia, dicendo che ormai il cielo è lonta-
32 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
to sembrava aver informato, peraltro, anche le prime meditazioni di Tarchetti, che
scriveva ad Alessandro Appia, dedicatario di Un suicidio all’inglese, indicando così il
valore di quelle pagine: «so, non foss’altro, che avranno per te quello d’una memoria.
Ma dimmi, saressimo noi giunti a quell’età in cui non si vive più che di rimembran-
ze?»11. «Quell’età» di leopardiane «rimembranze», dato che la lettera data al 16 mag-
gio 1865, è, contro le aspettative, la giovane età di ventisei anni. Quello stesso raccon-
to, abbozzato probabilmente negli anni della carriera militare (il riferimento è, nella
lettera, al 1861), recava, incastonata tra le molteplici digressioni, una riflessione sulla
memoria, sul suo valore di riscatto esistenziale e sulla sua probabile mendacità:
Gli uomini amano sempre di abbellire coll’immaginazione il loro passato; la loro mi-
seria è in ogni luogo, e in ogni tempo così grande che non potendosi consolare del
tempo presente, né trovando alcuna lusinga di miglioramento nel proprio avvenire
fingono a sé stessi un passato molto più felice di quanto essenzialmente lo fosse12.
Da questo punto di vista, afferma altrove Tarchetti, la certezza della vecchiaia è prefe-
ribile all’ansia della gioventù, proprio per l’appiglio sicuro della memoria: «la vec-
chiezza ha vissuto, la gioventù deve vivere; ma nondimeno invidio la vecchiezza, il
passato è un fatto irrevocabile, l’avvenire è una supposizione»13.
Non è forse inutile ricordare almeno una riflessione sul binomio giovinez-
za/ricordo di Giacomo Leopardi, l’autore che, per diverse tematiche, si staglia come
precursore della crisi delle certezze testimoniata rumorosamente in Italia dalla Scapi-
gliatura (principalmente su influenza dei grandi europei, quali Baudelaire).
1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne ha, non serve altro che ad attristarlo
e stringergli il cuore. Le rimembranze della fanciullezza e della prima adolescenza, dei
godimenti di quell’età perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle immagi-
nazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di vita, di gloria, di
no, «ma la terra nel suo sen l’attira / per le calcagna» (ivi, p. 206). Nel Canzoniere del bimbo aveva prean-
nunciato la propria fine; perfino L’anima del vino e Orgia si chiudono l’una con la discesa nell’inferno,
l’altra con la risata amara sulla tomba del poeta. Nella “triade scapigliata” non è solo Praga ad avvertire
l’angoscia della fine; essa emerge, come inarrestabile decadenza, dal Lorenzo Alviati di Tarchetti: «noi
moriamo ogni giorno […], seppelliamo ogni sera una parte di noi, anzi la nostra intera esistenza morale,
poiché la sola vita fisica costituisce, nella sua decadenza progressiva, un fatto isolato e compiuto» (I. U.
Tarchetti, Lorenzo Alviati, in Id., Tutte le opere, cit., I, p. 562). «I miei pensier vanno verso la morte / co-
me l’acqua al pendio», dice Boito, mostrando l’ultima conseguenza della perdita delle speranze, proprio
nella lirica A Emilio Praga (Boito, Tutti gli scritti, cit., p. 33).
11 La lettera è citata in Tarchetti, Tutte le opere, cit., I, p. 80.
12 Id., Un suicidio all’inglese, cit., p. 81.
13 Id., L’innamorato della montagna, cit., p. 130.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 33
piacere, tutto svanito. 2. I desideri e le passioni sue, sono ardentissime ed esigentissi-
me. Non basta il poco; hanno bisogno di moltissimo. Quanto è maggiore la sua vita
interna, tanto maggiore è il bisogno e l’estensione e intensità ec. della vita esterna che
si desidera. E mancando questa, quanto maggiore è la vita interna, tanto maggiore è il
senso di [279] morte, di nullità, di noia ch’egli prova: insomma tanto meno egli vive
in tali circostanze, quanto la sua vita interiore è più energica. 3. Il giovane non ha
provato né veduto. Non può esser sazio14.
Compagno di autori della Scapigliatura quali Praga e Tarchetti nel sentimento di de-
cadenza che investe la visione del reale e della letteratura, con l’Altrieri Dossi trova la
misura delle proprie inquietudini e nevrosi in una scrittura «originalissima», che è
stata considerata tra gli antecedenti dell’espressionismo gaddiano. Il desiderio di vita
giovanile, la noia e la leopardiana «mancanza intera di una vita presente», unita al
«bisogno di un’energia attuale», vengono proiettate, da Dossi, nella ricerca stilistica.
2.2 Il lampo del ricordo, tra lirismo e umorismo
Proprio per il suo particolare statuto di risarcimento esistenziale, la memoria dossia-
na non diventa sostegno per una narrazione della vicenda formativa del protagonista.
Nel 1867 venivano pubblicate, postume, Le confessioni di un ottuagenario di Ippolito
Nievo: la narrazione di ampio respiro e l’intreccio di amore e di politica, che testimo-
nia l’importanza e il valore della memoria per il futuro, sono ben lontane dalla poeti-
ca che ispira l’Altrieri15. Assai distante potrebbe dirsi anche, in ambito scapigliato, la
concezione di memoria di Valera che, con Alla conquista del pane, intende rievocare
la difficile formazione del protagonista Giorgio per un’aspra denuncia degli ordina-
menti sociali.
Il romanzo autodiegetico di Dossi non organizza i ricordi nell’architettura del
“bilancio” o della “formazione”; la successione sostanzialmente cronologica delle tre
parti sembra nascondere, in ultima analisi, il valore del ricordo in sé come “lampo”,
di tipo lirico oppure umoristico, insomma come “frammento”. La formula del «Nero
su bianco» non fissa, in ultima analisi, un impegno di autenticità e completezza con il
lettore.
14 Leopardi, Zib. 278-79 (16 ottobre 1820).
15 Per un rapporto tra Dossi e Nievo in relazione all’Altrieri si vedano Isella, La lingua e lo stile di Carlo
Dossi, cit.; Olivieri, Narrare avanti il reale. «Le Confessioni d’un Italiano» e la forma-romanzo
nell’Ottocento, cit., pp. 154-77; A. Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine, Liguori, Napoli 1995, pp.
3-5.
34 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Le prime pagine dell’Altrieri, come nota Saccone, rappresentano «un ordito pre-
zioso», «una vera e propria prosa ritmica»16; il capitoletto introduttivo è incorniciato
da una struttura ad anello, dove la memoria è invocata tramite una sorta rito propi-
ziatorio: «I miei dolci ricordi!» è l’invocazione d’apertura; «Oh, i miei amati ricordi,
éccovi», è la chiusura. «Ed éccomi», «E tò», «éccovi»: riaffiorano alla memoria, con la
consistenza di oggetti, il narratore stesso «cittello, su di una sedia, alta, a braccioli,
con al collo un àmpio mantile», l’«avola», «entro una máchina di una séggiola», la ba-
lia Néncia e i genitori.
«Bríciole di ricordi»17 escono «a sbalzi, ad intervalli»18; il ricordo, cercato, non si
mostra immediatamente, ma appare come un lampo («-a un tratto-»), oppure si di-
pana lentamente: «Ma, col sangue che questo baciozzo attira, viene - pelle pelle - ogni
ricordo de’ tempi andati. È la palletta che sbrácia il veggio»19. Non siamo ancora nel
regno della memoria involontaria, ma la magia del recupero memoriale, basata su
un’alogica rêverie, evoca situazioni proustiane: la rivelazione è preparata da una ri-
flessione sull’oggi e dalla prospettiva di un domani doloroso, come nell’episodio più
celebre della Strada di Swann (il protagonista, «oppresso dalla giornata grigia e dalla
previsione di un triste domani», porta alla bocca la maddalena)20. Come nel caso del
«piacere delizioso» del ricordo in Proust, alla tristezza e al buio dell’inizio («mi trovo
rincantucciato sotto la cappa del vasto camino, nella oscurità della stanza») subentra-
no l’allegria e la luce: «qui vampeggia il più allegro fuoco del mondo».
Giochi di ombra e chiarore accompagnano in effetti il sorgere dei ricordi, allon-
tanandosi da un uso impressionistico o naturalistico della luce per privilegiare un fine
cromatismo: «nella oscurità della stanza – rotta solo da un pállido e freddo rággio di
luna», il narratore evoca i ricordi; essi compaiono, inizialmente, come macchie di co-
lore (il «giallo calore di una lucerna a ólio», i «lucenti cristalli» e «la scintillante argen-
tería», i «visi rossi» dei convitati, «due mani in bianchi guantacci», il «piatto turchi-
no»)21; «una tenebría» è l’unico ricordo di una malattia, mentre i giochi del bambino
si svolgono sotto un cielo «d’un azzurro ismagliante», occasione per un parodico au-
licismo («l’áura, fresca, aulentíssima»).
Per seguire il filo delle rievocazioni, Dossi sceglie dunque una prosa frammenta-
ria, che procede per episodi variamente concatenati, e libera da stretti vincoli diacro-
nici. Nel primo capitolo, Lisa, il punto di vista infantile permette al narratore di foca-
16 Ivi, p. 6.
17 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 9.
18 Ivi, p. 6.
19 Ibid.
20 Si riportano le parole di Proust nella nota traduzione di Natalia Ginzburg (prima ed. Einaudi, Torino
1949).
21 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 6.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 35
lizzarsi su avvenimenti di per sé insignificanti, eludendo continuamente la costruzio-
ne di un equilibrio narrativo; si veda, ad esempio, il racconto di «diavoleríe» e «di-
spetti» di Guido:
Lasciando stare i cióttoli ch'io volava a ca’ dei piccioni o contra un grazioso mucino
che si leccava quetamente i barbigi e spiluccávasi al sole; lasciando stare le girellette
de’ seggioloni, strappate; gli squassati álberi gravi di frutti, i sotterránei da talpe saltati
in ária e símil frugáglia, io non poteva, a mo’ d'esémpio, rasentare un vassojo carco di
boccie e chícchere, senza formicolare dalla prurígine di tempestarlo, nè, dando in un
villanello, fuggire dal procurargli uno scapezzone o almeno almeno, un gambetto22.
L’infanzia, simbolo dell’incorrotto e della felicità irrecuperabile, con uno spazio
particolare nella prosa dell’Altrieri, è tema decadente e scapigliato; Tarchetti, ad e-
sempio, rievoca spesso l’innocenza dell’infanzia:
Questo affacciarsi alla vita che dà una felicità non contesa; e la cieca imprevidenza, la
piena sicurezza dell’avvenire, la felice ignoranza del dolore… chi può rammentare
quest’età senza lagrime?23.
Nella poesia di Praga l’infanzia è presente a testimoniare uno dei poli dell’inesauribile
dualismo e, come notava già Romanò, si tratta di un simbolo senza implicazioni na-
turalistiche24. Nella poesia A mia madre, una delle ultime scritte («Milano, aprile
1875»), piena di desolazione, si chiede alla madre di riportare il ricordo dell’infanzia,
che si snoda in un elenco nostalgico di cose quotidiane («un capitombolo / dalla mia
culla, / un mal di stomaco, / la fanticella / i Magi, i bricioli / della scarsella»)25.
Nell’ambito di Trasparenze, in sede di bilancio e di elegiaca rievocazione del tempo
trascorso, con il peso di un senso minaccioso di fallimento, Manzoni stesso compare
come emblema dell’infanzia, delle illusioni ormai impossibili e di un’idea di letteratu-
ra da rimpiangere, forse, ma certo ormai morta («Blanda infanzia, mia seria adole-
scenza!… / io vi chiamo Manzoni!…»)26.
22 Ivi, p. 9.
23 I. U. Tarchetti, Una nobile follia, in Id., Tutte le opere, cit., I, pp. 388-89. Osserva Ghidetti: «L’età
dell’infanzia appare, qui [in Una nobile follia] come altrove, nella sua idillica semplicità, come uno dei
motivi costanti nella narrativa di Tarchetti» (Ghidetti, Tarchetti e la scapigliatura lombarda, cit., p. 156).
24 Cfr. A. Romanò, Introduzione, in E. Praga, «Tavolozza» e «Penombre», Cappelli, Bologna 1963, p. 16.
25 Praga, Poesie, cit., p. 338.
26 Ivi, p. 308. Il ricordo delle figure dell’infanzia (la madre, la nonna, i padri della patria, fino al figlio Mar-
co in cui rivive il bambino) comporta, già in Tavolozza, soluzioni stilistiche a volte interessanti: se spesso
il semplice lirismo e l’innalzamento di tono risolvono il tema del ricordo infantile, altre volte i ricordi si
snodano in un elenco di piccole cose di sapore precrepuscolare (cfr. Piccole miserie, ivi, pp. 72-73).
36 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
In Dossi, la rievocazione dell’infanzia diventa pretesto per un “espressivismo”27
della memoria, i cui “ingredienti” sono stati descritti analiticamente da Isella28: spic-
cano la lingua della propria terra (lombardismi e voci consonanti con il lombardo) e i
termini infantilmente deformati. Si incontrano onomatopee, riportate in corsivo («io
ebbi molto bìbì», «il favorito bèè di cartone […]»29) e la sintassi si curva a riprodurre i
discorsi non parlati tra madre e figlio, i quali, più vicini alla musica che alla parola, si
snodano su un piano fonosimbolico: «Giuochiamo a chi fa il bácio più píccolo; un
barbáglio di quelle graziosíssime paroline […] le nostre labra, in baciucchiando, pi-
spígliano»30.
La figura della ripetizione, ecolalia infantile, restituisce il tempo gioiosamente ri-
petitivo ed abitudinario dell’infanzia ed arricchisce la trama fonosimbolica del testo:
27 Per una prima comprensione del termine “espressionismo” nella critica letteraria, si dovrà considerare,
a confronto, i lavori di Contini, a partire dalla celebre introduzione alla Cognizione del dolore del 1963,
vero e proprio punto di irradiazione delle ricerche per una linea espressionistica in Italia (ma per la Sca-
pigliatura cfr. G. Contini, Prefazione a Racconti della scapigliatura piemontese, Bompiani, Milano 1953), e
il Novecento di Luperini, che si propone invece un utilizzo “storico” del termine, come inquadramento
delle avanguardie del primo novecento (crepuscolari, futuristi e vociani) all’interno dell’esperienza e-
spressionistica europea. Riferendosi alla categoria sovrastorica, si è qui utilizzato il termine “espressivi-
smo”, proposto da Vittore Branca a definire «quei modi di rappresentazione o quelle forme di scrittura
che, quasi categoria sovrastorica e nelle più diverse epoche – dall’Egitto e dalla Grecia omerica ai nostri
giorni - tendono con invenzioni espressive a dare più forza alla comunicazione letteraria esasperando i
contrasti formali, fino a contaminazioni o pastiches o deformazioni verbali o trovate lessicali-sintattiche,
con ricorso ai dialetti, ai gerghi, ai codici linguistici tecnici, ai forestierismi e agli idiomi stranieri, tutti in
certo senso ricreati» (V. Branca, Prime parole, in Atti del Convegno sul tema: L'espressivismo linguistico
nella letteratura italiana (Roma, 16-18 gennaio 1984), Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1985, p.
11). La proposta ha il vantaggio di eliminare la sovrapposizione terminologica con l’“espressionismo”
inteso come ben determinato fenomeno storico.
28 «Sicché l’operazione dossiana consisterà soprattutto nella franca adibizione, sulla base del dialetto mi-
lanese, di un ricco materiale lessicale, liberamente trascelto in virtù del suo potenziale espressionistico,
non importa da dove (cultismi, arcaismi, regionalismi vari, forme straniere o d’autore), e impiegato a
fermare sulla pagina, senza scarti eccessivi, le immagini e le sensazioni di un privato recupero del “tempo
perduto”: il tutto legato da una sintassi musicalmente pausata che regge la tensione lirica della memoria»
(D. Isella, Introduzione a Dossi, Opere, cit., p. XXV). Si vedano anche Id., La lingua e lo stile di Carlo Dos-
si, cit., gli studi raccolti in I lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda, Einaudi,
Torino 1984 e le note introduttive alle varie edizioni dossiane. Sulla «sovrabbondante» interpunzione
dell’Altrieri, che «frantuma il periodo in segmenti non grammaticali ma lirici, pone in rilievo elementi
sintatticamente di secondo piano, isola vocaboli o frasi-chiave, garantendo ad immagini e riflessioni una
mobilità, una parità stilistica che la prosa abitualmente non concede», si veda L. Cozzi, L’interpunzione
nel manoscritto dell’ “Altrieri”, in R. Daverio (a cura di), Studi di letteratura italiana offerti a Dante Isella,
Bibliopolis, Napoli 1983, pp. 343-46.
29 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., pp. 6-7.
30 Ivi, p. 7.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 37
Ed era allora altresì, che, tra lo sciorinamento di un sogno (noi c’insognavamo sem-
pre […]) che tra un sogno, dico, e un piano – in attesa di scambiarci doni sul sério –
ne pregustavamo intanto il miele con de’ presenti carini…31.
L’età del bambino (sei anni), all’inizio della parte dedicata a Lisa, è rivelata attraverso
un evento ricorrente e magico, l’arrivo dei Re Magi, descritto con le immagini gran-
diose delle favole, come sottolinea Saccone32: «con la loro stella chiomata, i loro carri
zeppi di scátole misteriose, i loro elefanti, i loro muli a pennacchi, a sonagliere, la loro
famiglia color cioccolato, dai grandi anelli alle orécchie»33.
Il punto di vista del ricordo infantile permette al narratore di far esplodere ampie
digressioni che frantumano la narrazione in “frammenti” di memoria34; il bagno, ad
esempio, è narrato con ricchezza e accumulo di particolari, volti a rendere la gioia e
l’importanza dell’operazione per il bambino:
Néncia, la báila asciutta: sobbrácciami d'improvviso, mi porta via - mi porta, in lá-
grime e sgambettando, ad una cámera ove stà un tépido bagno. E lì, essa e mammina,
mi svéstono, mi attúffano, m'insapónano da capo a piedi. Imaginate la bizza! Ma il
martírio finisce: tocco il paradiso. Sciutto, incipriato, rinfoderato in freschi lini dal
sentor di lavanda, mamma mi piglia sulle ginócchia...35.
In episodi di questo tipo si nota l’elaborazione di una prosa giocata tra oltranza e-
spressiva e lirismo affettivo-memoriale, in una felice commistione che rimarrà pres-
soché unica anche nel panorama della produzione dossiana.
Accanto e in alternativa a questa maniera, si trova spesso un tono più apertamen-
te umoristico, con frizioni e scambi tra il punto di vista di Guido bambino e del nar-
ratore adulto. Gli altri personaggi ad esempio, come la madre, il padre e la Nencia,
sono visti attraverso gli occhi del piccolo Guido, con un’aggiunta di ironia da parte
del narratore, che ricorda le frasi tipiche dei genitori, riguardanti le speranze riposte
nel nuovo nato:
E a dire che intanto i mièi buoni parenti ricamávano con seta ed oro mille e mille
progetti sopra di me! Essi, la prima agúcchia, l'avévano infilata allorachè il médico del
31 Ivi, p. 15.
32 Afferma Saccone che «Tutto il capitolo [primo] è dominato da una dimensione favolistica, espressa e
nel contempo elusa» (Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine, cit., p. 11).
33 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 8.
34 Francesca Caputo ha illustrato come la frammentazione investa la sintassi, che è caratterizzata
dall’«intermittenza», come strumento per strappare attimi alla memoria (F. Caputo, Sintassi e dialogo
nella narrativa di Carlo Dossi, Presso l’Accademia della Crusca, Firenze 2000, p. 16 e sgg.).
35 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 7.
38 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
casale, intascando un greve rotoletto – idest il mio pedággio per quì - lor presentava
con prosopopéa una sentenza Dio sa quante volte rattiepidita – quella: la cóccia del
neonato, essendo di una posta e bernoccolággine non comune, indubbiamente pro-
nosticava un uomo dai trentacinque ai trentasei carati: niente di meno!36
La rappresentazione ironica delle aspettative dei genitori e dell’educazione impartita
ai figli verrà ampliata nel secondo capitolo, per ricomparire poi anche nella Vita di
Alberto Pisani, a testimonianza di un tema che stimola la riflessione e la creatività de
giovane Dossi: «éccolo a punto – sclamò mio padre. La nostra speranza! – aggiunse
nell’indicare al nobil signore, me, suo impacciucato erede»37.
Con la figura di Gía, l’infanzia diventa senza dubbio terra degli amori innocenti,
o, come propone Isella, «vert paradis des amours enfantines»: «Alla sbrigata,
c’innamorammo l’uno dell’altro»38. Il paradiso degli amori infantili si trova «loin du
noir océan de l’immonde cité» e, recuperando un’opposizione declinata in varie ma-
niere in ambito scapigliato, la storia di Guido e Gía si svolge nelle campagne di Pra-
verde; la città compare nel paesaggio notturno, nella tragica sera fatale per la bambi-
na: «al di là, terra terra, un fumoso chiarore (esalazioni impestate): una città»39.
Il personaggio di Gía racchiude, innanzitutto, quell’antinomia tipicamente scapi-
gliata nei confronti dell’amore, un’attrazione/repulsione verso l’eros che sembra esse-
re risolta dall’autore con la sublimazione dell’amore nel mondo dell’infanzia.
L’assenza di passioni e sconvolgimenti porta al paragone con l’amore nella vecchiaia
(«Offértole il bráccio, ci incamminavamo come due vecchietti»)40, altra forma di paci-
ficata unione, secondo una coincidenza della condizione del «bimbo» e del «vecchio»
che Dossi ribadisce in una Nota azzurra:
L'arte mediterranea (greco-latina-italiana-spagn. e francese) è più carnale delle altre:
rappresenta la virilità. Più ideali, più schwärmerinnen sono l'arte Orientale (indiana,
araba, etc.) e l'arte occidentale (germanica) che rappresentano l'infanzia e la vecchiez-
za. Difatti il bimbo e il vecchio sono assai più sognatori dell'uomo, il primo per igno-
ranza, il secondo per scienza - (il primo per non ben distinguere ancora gli oggetti del
mondo in cui entra, l'altro per la disperazione di non vederli più netti)41.
L’originalità dossiana sta, al solito, nella commistione tra un punto di vista innovati-
vo (il racconto, per episodi, delle avventure dei bambini in ottica infantile) e uno stile
36 Ivi, p. 10.
37 Ivi, p. 11.
38 Ivi, p. 14.
39 Ivi, p. 23.
40 Ivi, p. 14.
41 NA 3504, in Dossi, Note azzurre, cit., p. 376.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 39
che sembra nutrirsi della sfrenata fantasia bambinesca, all’insegna di continue elenca-
zioni e digressioni:
Imperocchè, figurátevi, io le aprìi il quia - quel quia di cui mio padre avea dovuto pu-
lirsi la bocca - sopra una fossa che vaneggiava a' pie' nostri; come, ella era strada alla
scoperta di un tesorone di grossi marenghi (Gía sbarrò gli occhi) fondo... fondo…
una schioppettata e mezza; nascosto, diceva il carrozziere, or fa millanta… che tutta
notte canta - il quale noi spartiremo - poi, accennando a várie assi schieppate, le sufo-
lai a l'orécchio, che, se veramente avessi potuto trovare certi lunghi chiodi, mi ripro-
mettevo di costruirne una casettina sul gusto di quella delle chiócciole... con la diffe-
renza peraltro che volerebbe... la volerebbe: e, noi - aggiunsi - ruberemo la luna42.
La ricchezza del pastiche è confermata dalla riduzione a cui esso viene sottoposto in
vista della seconda edizione: «soldi d’oro» invece di «marenghi», «or fà millantanni
dal Re Salomone» piuttosto che «or fa millanta… che tutta notte canta», «scheggiate»
invece di «schieppate», e così via43.
Un’altra particolarità caratterizza la resa dossiana del rapporto tra i due bambini,
ovvero il tono lirico che spesso avvolge i ricordi, provocando l’insorgere di frammenti
di “prosa lirica”. Un tono di elegia racchiude, ad esempio, l’ultimo omaggio al tempo
dell’infanzia, provocando l’inserimento di una nostalgica prosa lirica che interrompe
il debole filo degli eventi, tra il racconto della “caccia” di Guido e l’inizio della malat-
tia di Lisa.
Allorachè ci penso, che bei tempi eran quelli! Quante volte io mi sento ancor a co-
sta della mia píccola compagna, su quella ringhiera che rispondeva sopra la via, gon-
fiando bolle di sapone, le quali, staccátesi dalla cannùccia (oh! le granate di casa) tre-
molávano, cullávansi nello spázio, poi, divenute colore cangiante, trasparentíssime - a
gran dispetto di quattro o cinque ragazzi che li attendévano, la bocca aperta, curiosi -
vanávano; e quante volte anche, mi trovo fáccia a fáccia con la cara tosetta, la sera, a
costrurre sul tavolino, ratenendo il fiato, torri di tarocchi e ridendo di gusto quando,
per un buffo del mio cattivo babbino, le sprofondavan di colpo.
E voi, minuti d'oro, ho forse mai obliati? minuti in cui - con de' cappelloni di páglia
- accoccolati sotto una vite, tra le frasche, i tortuosi ceppi, i pámpani, noi sgranavamo
il rosário dei grappi? Ah no - voi lo sapete - sempre io mi ricorderò di voi, sempre,
come della intensa gioja che in noi crepitava veggendo diserrare il chiusino del forno
e uscirne, sopra la pala cárica di scroscianti fragranti pagnotte, i panetucci, grossi non
più di noci - per noi; come del sapore di quelle gentili colazioncine di pane giallo
nuotante in iscodelle di freschíssimo latte - straripetute, insieme a Néncia, nelle ca-
42 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 13.
43 Cfr. Id., L’Altrieri. Nero su bianco2 (1881), ivi, p. 457.
40 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
panne, fra una covata di bimbi ed una di pulcini, intanto che i bigatti brucando su pe'
cannicci la fóglia, sembrávano, con il fruscío, contare già i venti-lire del loro padrone
o strascicarsi dietro la sérica vesta della signora44.
Si noteranno i procedimenti volti ad intessere la raffinata evocazione, come ripetizio-
ni e allitterazioni, con un’attenzione continua alle rispondenze sul piano fonosimbo-
lico: «quante volte […] quante volte»; «tremolávano», «cullávansi», «attendévano»,
«vanávano»; «tosetta […] torri di tarocchi»; «minuti d’oro […] minuti in cui»; «cap-
pelloni […] accoccolati», «ceppi […] pámpani […] grappi»; «frasche», «tortuosi»,
«sgranavamo», «rosário», «sempre, sempre», «scroscianti fragranti pagnotte» e così
via. L’ordito lirico di questi passi porta ad una riduzione dei termini d’invenzione o
di “eversione” (regionalismi, cultismi, ecc.); lo «stile personalissimo» si affida piutto-
sto alla gradazione intensiva dell’aggettivo (trasparentíssime, panetucci, colazioncine,
freschissimo, straripetute), alla costruzione sintattica «a volute e calappi» e a preziosi
traslati («i bigatti sembrávano […]»). Non è un caso che i due capoversi citati abbia-
no subito poche variazioni anche in occasione della seconda edizione dell’Altrieri.
Il personaggio di Gìa è stato accostato alla Pisana delle Confessioni di un italiano
di Nievo, per le scorribande a contatto con la natura e per il rapporto di infantile sen-
sualità con Guido. Il senso di dominio della terra è comparabile: «là nella campagna
mi sentiva padrone io; e le ne faceva gli onori come d’un mio feudo»45; «Stendévansi,
ove noi correvamo, le mie possessioni»46. Il narratore dell’Altrieri non insiste però a
lungo su questi aspetti del personaggio (ampiamente ripresi, com’è noto, da Calvino
nel Barone rampante); inoltre, l’accento sull’innocenza del legame tra i due bambini
sembra l’opposto della rivelazione della sessualità infantile operata da Nievo. Si assi-
ste, piuttosto, all’accelerazione progressiva del processo di decadimento e malattia
che portano alla scomparsa della bambina.
La ripetuta esaltazione di questi tempi prelude infatti alla loro fine, con la malat-
tia e la morte di Gía, che si presentano sotto le spoglie di uno spettro: «Era, per detto
di lei, un viso ovale, smorto, con le occhiaje livide, che le appariva nel fondo della
fratta, la guatava immóbile… dileguava»47. Si susseguono scene che ricordano
l’agonia delle donne di Tarchetti: la minaccia del «nero presagio», la bambina che
«s’assottigliava vie più, traluceva a guisa di ambra», «smorta la fáccia, affossati gli oc-
chi» alla luce della luna. Il contrasto tra luce e oscurità incornicia la scena dell’addio
di Gía, in un paesaggio pieno di bellezza e d’inquietudine, specchio di uno spazio in-
44 Id., L’Altrieri. Nero su bianco, cit., pp. 18-19.
45 Si cita da I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, a c. di M. Gorra (1981), Mondadori, Milano 2008, p.
111.
46 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 12.
47 Ivi, p. 19.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 41
teriore: la luna crea strane ombre, oltre i «villaggi dai lucenti tetti d’ardesia», querceti
come «masse nere, cupe», minacciose. Il raggio lunare, infatti, va presto a posarsi su
Gía come sinistro messaggero di morte: «colpì dritto su di lei, l’avviluppò». In questa
ultima figurazione, il personaggio perde un po’ di originalità, affiancandosi alle rap-
presentazioni scapigliate di “profondi misteriosi sensi”, “neri presagi”48 e morti.
Fin dal primo capitolo si noterà dunque, con Isella, che «la memoria gli restitui-
sce immagini già insidiate dal di dentro»49; l’ossessione della morte, che nella Scapi-
gliatura andava assumendo i tratti di un vero e proprio destino (dalla scomparsa pre-
coce di Tarchetti, a Praga, a Camerana suicida), fa la sua comparsa nell’Altrieri come
“morte dell’innocente”, impersonata dalla compagna di giochi Gía, e condizionerà,
senza rimedio, la crescita di Guido, intessendo una trama comune tra il primo capito-
lo e i successivi.
Il capitolo secondo (Panche di scuola) tratta dell’educazione e delle preoccupa-
zioni per l’avvenire: vista la «ripugnanza per tutto ciò che usciva dalle botteghe del
librajo e del cartaio», l’unico mezzo per educare un bambino vivace pare, ai genitori,
il collegio. L’“espressivismo” era principalmente, in Lisa, lo specchio di un mondo
interno50, e concorreva all’elaborazione di “frammenti” di carattere prevalentemente
lirico; abbandonare il focolare domestico significa, invece, incontrare gli altri e rac-
contare la realtà per episodi, prose brevi di tono ironico, schizzi parodici del mondo
esterno. Come presentazione del credo educativo del collegio, valgano le parole attri-
buite al direttore: «Ad una torre di pórfido, da costruirsi, non sérvono fondamenti in
stracchino»51.
Alla base dell’accanimento espressivista stanno, almeno in parte, riflessioni rela-
tive all’«assurdità dell’educazione collegiale» e delle idee pedagogiche correnti, incar-
nate dallo «zìo canonico» e dal padre:
sta il fatto che l’eccellente pretone, un giorno, propose a mio padre (e punto riden-
do!) di menarmi - lui stesso - alla Diana... alla Madonna di Efe... di Loreto od anche,
di fare fregare le mie lenzuola contro la cristallina arca di San Galuppo, il tocca-e-
sana degli invasati.
48 Cfr. ivi, p. 20: «un profondo misterioso senso», «sotto l’ombra di tale nero presagio».
49 Isella, Introduzione, cit., p. XXVI.
50 Croce parlava per Dossi di «linguaggio interno»: «Potrebbe dirsi talvolta, il suo, un “linguaggio inter-
no”, cioè un linguaggio mercé del quale l’autore discorre con sé medesimo, innamorato dei suoi ricordi e,
come gl’innamorati, usando parole piene di reconditi significati, che gli estranei non bene intendono».
Cfr. B. Croce, Carlo Dossi (1905), in Id., La letteratura della nuova Italia, III, Laterza, Bari 1973, p. 192.
Secondo Isella la ragione della manipolazione linguistica non sta nell’indignatio gaddiana verso una so-
cietà aristocratico-borghese milanese.
51 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 38.
42 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Babbo, peraltro, avea la mente ad una diversa esorcizzazione: il collégio. Io, con
tutto il rispetto per il brav'uomo, con la mássima vóglia di stanare scusa a certe super-
stizioni di lui, bisogna tuttavía che esclami come, de’ due rimedi, il migliore o, se non
altro, il meno cattivo, fosse quello di zío52.
Poco più avanti si leggono valutazioni riguardo ai pericoli di un’educazione omolo-
gante e repressiva: «Diàvolo! Essendo tante le gradazioni dei caratteri quanti gli uo-
mini, ne dovrebbero per necessità venire altrettanti sistemi di educare». A dimostra-
zione della teoria, segue il divertimento dell’esempio, incentrato su «un quidam» che,
«padre di cinque figli, si ponesse all'impegno d'incappellarli tutti con un solo berret-
to»53. Il problema dell’educazione era ritenuto da Dossi di primaria importanza e
l’istituzione collegiale è demolita, anche nelle Note azzurre, a più riprese54; nella Nota
2393 Dossi avanza critiche generali al sistema dell’istruzione, riportando una citazio-
ne da una non specificata «Ed. Review», secondo cui il successo dei metodi educativi
repressivi è dovuto al fatto che «in every age and state of society, fathers and elder
citizens have been suspicious and jealous of all freedom of thought and all intellectual
cultivation (not strictly professional) in their sons and juniors»55. Il caso di Daniele è
esemplare di ciò che può provocare una particolare situazione sociale ed educativa: il
compagno, proveniente da famiglia abbiente, è stato allevato e rovinato dalla nonna
«che infine lo indormentava, credo, col dolce suono di un dinderlíno a marenghi»56.
Così, Daniele diventa animatore e responsabile dell’uccisione della «tortorella» di
Ghioldi, vittima, come poi l’indifeso maestro stesso, di uno scherzo cameratesco fini-
to male; e, giustamente, Bigazzi nota come l’animale potrebbe ben appartenere
«all’allevamento tarchettiano»57. Bisognerà però rilevare come la critica sociale non
sia obiettivo primario della “manipolazione espressivistica”, che travolge episodi e
personaggi mettendone in rilievo il ridicolo e il paradossale; anche la figura del buon
52 Ivi, p. 32.
53 «Ne deriva che se un quidam, padre di cinque figli, si ponesse all'impegno d'incappellarli tutti con un
solo berretto o di calzarli colla medèsima scarpa, troverèbbesi lo cento miglia fuori di carreggiata - am-
messa la quale cosa, chi non vede l'assurdità dell'educazione collegiale?» (Ibid.).
54 Diverse Note azzurre riportano opinioni di studiosi o scrittori a riguardo (cfr. NA 3807, 4950, 4954) e
chiaramente Dossi conosceva le idee dell’amatissimo Jean Paul, che è di fatto uno dei primi esponenti
della pedagogia tedesca (Levana, 1807). Di educazioni difformi, che segnano il destino di due ragazzi, uno
ricco e uno povero, tratta anche uno dei primi racconti dossiani, Educazione pretina (cfr. C. Dossi, Due
racconti giovanili. Con un racconto di Luigi Perelli, a c. di P. Montefoschi, Salerno, Roma 1994).
55 NA 2393, in Dossi, Note azzurre, cit., p. 212.
56 Id., L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 52.
57 R. Bigazzi, I colori del vero. Vent’anni di narrativa: 1860-80, Nistri-Lischi, Pisa 19782, p. 181. Bigazzi
propone anche un parallelo tra «il Vincenzo tarchettiano» e la visione della guerra e del potere messa in
scena «nella satira del re-burattino di Pimpirimpara» (ibid.).
Il primo Dossi: in direzione del frammento 43
maestro Ghioldi, considerato dagli alunni al pari di «un portamantelli»58, non sfugge
alla caricatura. Lo stile, come la società, è spietato.
L’autore sembra intanto sfruttare le nuove circostanze narrative offerte dal capi-
tolo per elevare la forza centrifuga della scrittura, che si arricchisce nel capitolo di al-
tri espedienti, quali l’inserto giornalistico («ecco una Gazzetta: LA VOCE DEL
GRAN S. BERNARDO»)59, i proverbi o il troncamento inatteso del paragrafo (il V
capitoletto termina: «quanto al PERCHÈ, ecco:»)60.
Il capitolo, diviso in sottosezioni, è costruito per episodi, che si intrecciano con
repentini cambiamenti di tempo e luogo («E ne scopérchio un esémpio. Ritorno a’
miei cinqu’anni»)61. Si noterà anche che allo «scalcagnarsi» e al «vociare» dei compa-
gni Guido non ama granché mescolarsi; nella malinconia che costringe Guido alla
finestra, con i pensieri diretti a Gia, sembra adombrarsi un atteggiamento di scapi-
gliata estenuazione:
Egli è che cominciávanmi allora i tocchi di una malinconía dolce, profonda, la quale,
come non vi sarà nuovo, strínsemi violentíssima póscia e da cui non mi rifáccio che
ora62.
Il terzo capitolo presenta invece il protagonista nel suo quindicesimo anno d’età.
A questo punto, non sono solo il ricordo o l’ambiente ad autorizzare la frammenta-
zione e la distorsione espressivista delle immagini; il ragazzo stesso vive in un mondo
di percezioni distorte e l’espressivismo è il modo per raccontare un’adolescenza ne-
vrotica. I tormenti della crescita portano alla luce un sistema nervoso debole, intacca-
to dalla «melanconía» seguita alla morte di Lisa, «a poco poco inspessata, divenuta
morbosa»63. A quella morte aveva fatto seguito l’ingresso in un mondo alterato, dove
«almanaccare» e «perticare la luna»: «uno strano regno di spíriti ch’io sospettava
manco esistesse; un regno, se di diffícile entrata, d’impossíbile uscita». “Barocco”,
verrebbe da dire, è il «regno di spíriti» in cui il ragazzo tende a chiudersi: «sotto il
chiarore del fantástico mondo, le cose del materiale mi si colorávano al dóppio»64.
Con impietosa ironia, il narratore rappresenta le attitudini poetiche del giovinet-
to: «Io mi sedeva giusto a tavolino fra le dódici e un’ora, non so se istroppiando i miei
58 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 44.
59 Ivi, p. 34.
60 Ivi, p. 54.
61 Ivi, p. 31.
62 Ivi, p. 55.
63 «E, invero, la melanconía che Lisa con l’última stretta di mano mi gettava nel cuore, si era a poco a poco
inspessata, divenuta morbosa» (ivi, p. 66).
64 Ivi, pp. 66-67.
44 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
pensieri entro un sonetto imbrodolándoveli di aggettivi […]»65. La nevrosi del ragaz-
zo gli rende difficile, ça va sans dire, l’ingresso in società, come sarà poi per Alberto
Pisani:
Principiavo dunque, intenderete anche, a ingarbugliarmi in quella matassa di stúpide
convenzioni sociali più geroglífiche dei due bottoni che i sarti cucíscono dietro ai so-
prábiti e causa della maggior parte delle nostre píccole misérie...66.
Guido, invitato per la prima volta ad una festa, si innamora immantinente di «un pa-
jo di o che mi guardávano fisi fisi»67. Esagitato ed ubriaco di sogni libreschi («avevo
trincato troppi romanzi»68), inizia a scrivere una lettera alla contessina, ma si addor-
menta e sogna la storia della principessa annoiata di Pimpirimpara, che gli suggerisce
di utilizzare il foglio destinato alla missiva per la coniugazione del verbo greco irrego-
lare phàgo. Phagèin significa, peraltro, «mangiare», quasi a ulteriore richiamo alle fre-
quenti metafore della migliore tradizione satirico-umoristica incentrate sul cibo69.
Il sogno del regno della principessa Tripilla, ambientato nel «teatrino portabile»
che occupa il tavolo della camera di Guido, sembra essere la trasposizione inconscia
dell’esperienza in società appena vissuta, rielaborata sulla scorta dei «troppo roman-
zi» e, in particolare, per influsso della «contessa di Niévo», immediatamente sovrap-
posta alla sua «contessina». Il conturbante incontro con l’altro sesso si svolge di nuo-
vo, nel sogno, in un’occasione pubblica (con tanto di «fanti» e «cavalieri»), ma
l’espediente del teatro contribuisce a rendere l’interazione esageratamente legnosa e
impostata, come appunto avviene per i burattini. Il sogno suggerisce che il mondo
esterno, con cui il ragazzo è venuto a contatto nel ballo, evento tipico dell’alta bor-
65 Ivi, p. 62. L’evento del giorno, il cilindro nuovo, distrae l’aspirante poeta dalla creazione: «diméntico per
l’affatto de’ versi alla Luna e non curando quelli del fratellino, uscii a passeggiare fino a dì basso».
66 Ivi, p. 65. La difficoltà nelle relazioni sociali caratterizzerà anche Alberto Pisani, come testimonia la sua
sortita a teatro: «Al dispensino stava un biondone, acceso di colorito. Per il momento si limitava a vènder
biglietti. Bastò un'occhiata di lei a confòndere Alberto; al quale se aggiungi un pajo di guanti nuovi stret-
tìssimi, comprenderai quanto dovesse penare a produr fuori il borsino e ad aprirlo» (cfr. Dossi, Vita di
Alberto Pisani, in Id., Opere, cit., p. 128). Sovvengono le disavventure del Gadda al Cinema: «Sebbene la
profondità vellutata del mio sguardo rivelasse una mente fervida in ogni pensiero, tre grosse caramelle mi
ingombravano a un tal segno la cavità orale, che un idiota si sarebbe spiegato meglio» (cfr. C. E. Gadda,
La Madonna dei Filosofi, Garzanti, Milano 1989, p. 78).
67 Dossi, L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 67.
68 Ivi, p. 69.
69 Oltre ai ricordati «fondamenti in stracchino» dell’Altrieri, si veda anche la Vita di Alberto Pisani: l’ode
alla nonna deve essere presentata entro un pasticcio, e «ch’esso sia di Stràsburg» (Id., Vita di Alberto Pi-
sani, cit., p. 103); «una colazione abbondante impaccia ad Alberto la virtù volitiva» (ivi, p. 153).
Il primo Dossi: in direzione del frammento 45
ghesia70, sia artificioso e popolato da maschere: del resto, tra i «doméstici livreati buf-
fonescamente quasi come i nuovi cortigiáni d’Itália»71 della festa e i «cavalieri, coraz-
zati in stagnolo» del teatrino non passa poi molta differenza. Anche l’illuminazione
rende il senso di quest’artificialità, nella sala reale come in quella fittizia: «tutte quelle
lumiere con specchi che le raddoppiávano […] mi avéano imbriacato del tutto»72;
«tutto trémola, scintilla, crépita, esaggeratamente carco di elettricità»73.
Il regno di Pimpirimpara è alla mercé di un re ridotto all’immagine svuotata delle
sue insegne («una gran corona a gemme di talco, scettro e globo – insegne le quali
dávano ai sovrani, di una volta, maestà, e che ora la danno ai Re de’ tarocchi»)74, non-
ché all’autorità “personale” sulle cortigiane (quella di «distribuire delle pizzicottate
alle belle damine d’onore»)75, e al capriccio di sua figlia, annoiata da una vita lussuosa
e inutile. Se la critica e l’asocialità di Guido si rispecchiano, principalmente, nei rap-
porti agognati e temuti con l’universo femminile, che ha le sembianze della «mariuo-
la»76 contessina di Niévo, non è escluso che sia possibile leggere, proprio nel regno di
Pimpirimpara, un’allegoria dell’asfissiante vita della gioventù alto-borghese nell’Italia
di Vittorio Emanuele II.
A ben vedere, lo schermo dell’ironia77 gioca a nascondere i segni d’inquietudine
che emergono dal fondo oscuro della malinconia di Guido; ciò che veniva denunciato
e sbandierato nelle macabre visioni di Praga, Boito e Tarchetti emerge nell’Altrieri in
modo differente. Lo stato di alienazione nervosa derivato dalla morte della piccola
Lisa, che, novella Silvia, sembra indicare al compagno di giochi il destino di sofferen-
za e morte dell’uomo, è riscattato dall’ironia e dalla poesia che scaturiscono dal rac-
conto di singoli episodi, racchiusi in brevi frammenti. Se il quadro completo è a dir
poco preoccupante, al microscopio, tra una scena e l’altra, il racconto può svagarsi e
riscattarsi nello stile.
70 A riguardo osserva Guido: «Le feste, per chi non c’è abituato fanno come il vino; móntano al cervello»
(Id., L’Altrieri. Nero su bianco, cit., p. 67).
71 Ivi, p. 67.
72 Ibid.
73 Ivi, p. 70.
74 Ivi, p. 71.
75 Ibid.
76 Ivi, p. 75.
77 Si può sostanzialmente concordare con Bigazzi che, «se l’eden è irrecuperabile, la terra non è ancora
una condanna senza scampo, perché l’anamnesi è corroborata dall’umorismo, che […] serve a garantire
dagli eccessi lirici o scapigliati» (Bigazzi, I colori del vero, cit., p. 182-83).
46 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
2.3 «E allora… questo Alberto Pisani?»: formazione di un artista
La Vita di Alberto Pisani, pubblicata, nuova “strenna natalizia”, nel dicembre 187078,
si presenta, già dal titolo, apparentata al genere della biografia o autobiografia, che in
Italia aveva come illustre e immediato precedente le Confessioni d’un Italiano di Ip-
polito Nievo. D’altra parte, che gli umoristi europei, da Lawrence Sterne all’amato Je-
an Paul, presentassero, sotto un titolo convenzionale, narrazioni anticonvenzionali, è
fatto noto a Dossi. Fin dal titolo un gioco di dimidiamento, che sfrutta i quattro nomi
dello scrittore, mette in gioco l’autore separandolo da se stesso: Vita di Alberto Pisani,
scritta da Carlo (Alberto Pisani) Dossi. Né lo sdoppiamento si ferma: entro la stessa
Vita, appare chiaro che anche il Guido dell’Altrieri non è altro che una maschera di
Alberto Pisani, autore, sotto lo pseudonimo di Guido Etelredi, delle Due morali.
Il protagonista, dunque, è un doppio dell’autore, che ha però abbandonato la
“prima persona” dell’Altrieri. Di tali giochi di nascondimento Dossi trovava esempi
nei suoi autori prediletti e non mancava di soffermarsi su di essi nella Note azzurre:
Manzoni imitò Cervantes, nel nascondersi il più che gli fosse possibile dietro le spalle
del suo Anonimo Lombardo, cui attribuì e l'invenzione della storia de’ due sposi, e
ogni sua più bella pensata - come, dal canto suo, Cervantes avea ciò fatto, mettendo il
suo famoso Chisciotte sul conto dell'imaginario Cid-Hamed-Benengeli79.
L’anomalia nella struttura del racconto è stata più volte sottolineata: l’inizio è af-
fidato a un dislocato capitolo quarto, la narrazione è spesso interrotta
dall’inserimento di raccontini, giustificato in varie maniere. La frammentarietà della
struttura è stata vista in relazione con la predilezione di Dossi per il “frammento” e
per la prosa breve: Isella, in particolare, pone l’accento sul fatto che molte piccole
prose siano state, dieci anni dopo, estratte dalla Vita per ricomparire nelle Goccie
d’inchiostro, che non hanno trama né struttura lineare. Mirella Serri, occupandosi di
Carlo Dossi e il “racconto”, contestualizza, su questa base, l’autore nell’ambito di una
“preistoria del novecento”: Dossi «sollecita ad avventurarsi in percorsi conoscitivi di-
retti da prospettive molteplici. Percorsi che hanno poi portato lo scrittore a constata-
re l’impossibilità dell’unità e della completezza, sino alla distruzione del romanzo»80.
78 Cfr. Isella, Note ai testi, cit., pp. 1427-29; si ricordi che la Vita di Alberto Pisani rimase esclusa dalle ri-
stampe compiute negli anni romani e fu dunque riproposta ai lettori solo in occasione delle Opere com-
plete curate dal Lucini (vol. I, Treves, Milano 1909); diverse prose della Vita andarono invece a comporre
le Goccie d’inchiostro (Stabilimento Tipografico Italiano, Roma 1880).
79 NA 2397, in Dossi, Note azzurre, cit., p. 214.
80 M. Serri, Carlo Dossi e il «racconto», Bulzoni, Roma 1975, p. 16.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 47
Per meglio comprendere la genesi di questa frammentarietà, intendiamo riper-
correre i punti salienti della Vita di Alberto Pisani, intrecciate con la genesi impossi-
bile di una letteratura intesa in termini tradizionali; e, per tradizionali, s’intenda sia
una concezione dell’arte e dei suoi corifei come parte integrante della società, predo-
minante nel Romanticismo italiano, sia l’idea del genio maledetto, ribelle alle con-
venzioni sociali, del Romanticismo “nordico” e scapigliato. Tale questione sembra
essere alla base della ricerca dossiana di uno stile e di un genere di letteratura alterna-
tivo, nell’ambito della prosa piuttosto che nella poesia, ma basato sulla sperimenta-
zione e sulla commistione delle tecniche scrittorie.
La Vita di Alberto Pisani è, tra i libri di Dossi, il più significativo per quanto ri-
guarda la figura dell’artista, oggetto di riflessione particolarmente tormentata, in Ita-
lia, proprio a partire delle opere prime della triade scapigliata (Boito, Praga, Tarchet-
ti). La “morte dei padri”, epigoni manzoniani in testa, implicava un ripensamento del
ruolo del letterato, rimodellato sulle suggestioni, più o meno distorte, che giungevano
d’oltralpe81.
Introdotta in medias res, con l’iniziale capitolo IV, la presentazione di Alberto av-
viene attraverso l’espediente della biblioteca, tema non estraneo a modelli umoristici.
L’enumerazione degli studi eruditi della prima sala della biblioteca apparenta il pro-
prietario al Don Ferrante manzoniano: «ecco – tagliando corto - una infinita turba di
libraccioni, e nelle scansie e fuori.. spècula, theatra, convìvia, thesàuri… di astrologìa,
teologìa, etimologìa, ed altre scienze in ìa – tutta marròca»82. La descrizione di questo
studio «degno di Paracèlso» sembra un omaggio ai Promessi sposi, riletti attraverso la
vulcanica lingua dossiana, antimanzoniana nella forma ma fedele al modello nella so-
stanza. Il senso di claustrofobia avvertito dal lettore di fronte alla somma dottrina di
Don Ferrante ha qui modo di concretizzarsi in aperta ribellione e forza distruttrice:
«dalle, allo scrittojo! Una spinta, un’altra […] E lo scrittojo patatràcca giù; vanno sos-
sopra scartafacci e libroni»83. La baraonda ricorda uno spunto anche manzoniano,
ovvero la cervantiana condanna dei libri di cavalleria, presunti colpevoli della pazzia
di Don Chisciotte, con immediata “defenestrazione”. Anche Praga aveva dedicato un
componimento di Tavolozza alla Libreria; per la componente ironica e l’«urgenza
narrativo-effusiva»84 la lirica praghiana, che rielabora lo spunto baudelairiano de La
81 Sasso ricorda che Dossi definì la Vita “romanzo dell’adolescenza” e che l’adolescenza, tra slanci e delu-
sioni, è anche «metafora della condizione dell’artista» (cfr. L. Sasso, Prefazione, in C. Dossi, Vita di Alber-
to Pisani, Milano, Garzanti, 1999, p. XVII).
82 C. Dossi, Vita di Alberto Pisani, in Id., Opere, cit., p. 83.
83 Ivi, p. 84.
84 P. Gibellini, “La voce” di Baudelaire,“La libreria” di Praga, in Id., Indagini otto-novecentesche, Olschki,
Firenze 1983, p. 59.
48 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Voix (Pièces diverses, XVII), è comparabile alla descrizione di questa prima libreria
dossiana: «Che svolazzo di tarme! Che còrrer briaco di topi!»85.
Se il primo studio, «muffito», meriterebbe completa distruzione, un’altra stanza,
illuminata e leggera, è degna invece di oculato rispetto. Nelle Memorie del presbiterio
si insiste sul rispecchiamento tra un uomo e i suoi libri: «La libreria […] interrogatela
quando è patrimonio dell’uomo solitario, dell’uomo esiliato dalla società e che ha in
essa creata la società sua. Lo conoscerete»86. Allo stesso modo, Alberto si specchia nei
propri scaffali mimando, effettivamente, gusti e idiosincrasie di Dossi stesso. Signifi-
cativa è la scelta di rimuovere il Boccaccio, che non riceve mai, nelle Note azzurre, pa-
role di lode87; è da notare anche l’apprezzamento diretto a Foscolo: «Passa
l’epistolario di Ugo, insigne romanzo perché non scritto a disegno, perché di tale che
fieramente sentiva»88.
L’attenzione di Alberto è catturata dalla Vita Nuova di Dante: «èccolo dolcemen-
te sorpreso da quella eròtica malinconia sotto la quale l’adolescente Allighieri si cori-
cava, angosciato, in làgrime “come un pargoletto battuto”»89. Prendendo a modello
Beatrice, Alberto «avrebbe voluto una semidiafana amante», «un amore perfetto» in-
teso come «un fascio di desideri ardentissimi, di cui sfuggisse l’adempimento» (ag-
giunge: «Scopo raggiunto, amore finito»). L’immagine di Beatrice-semidiafana aman-
te («Pure, non si sarebber nemmeno toccati, mai»)90 ci riporta alla figura di Gìa morta
bambina, emblema di amore inadempiuto; citazioni dalla Vita nuova, tra il serio e il
faceto, si troveranno poi nel corso della narrazione. Il dualismo reale-ideale è polariz-
zato, come spesso avviene in Tarchetti, nell’amore, ma allontanato tramite lo scher-
mo dell’ironia.
Prendendo spunto dalle affermazioni di Alberto Pisani a favore della Vita nuova,
Simone Giusti ha ipotizzato una simmetria tra il prosimetro dantesco e la Vita di Al-
berto Pisani: la cornice dossiana corrisponderebbe alla prosa della Vita nuova, mentre
«i raccontini, bozzetti ecc. poi confluiti nelle Goccie d’inchiostro» sarebbero trattabili
85 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 85. Cfr. E. Praga, La libreria (Tavolozza), in Id., Poesie, cit., p. 66:
«Son sorci, sorci, ahi misero / che fan la vecchia libreria vibrar…».
86 E. Praga, R. Sacchetti, Memorie del presbiterio. Scene di provincia, a c. di G. Tellini, Mursia, Milano
1990, p. 48.
87 «Nella Storia dell'Umorismo - si accenni al non-umorismo del Malmantile, del Boccaccio, del Ricciar-
detto ecc.» (NA 388, in Dossi, Note azzurre, cit., p. 24); «Osservavo ad un professore di letteratura quanto
fosse deplorevole che per istudiare la buona lingua toscana, bisognasse bevere a fonti, sozze di sterco, qua-
li il Boccaccio etc.» (NA 2761, ivi, p. 304); « E nessuno più legge nè l'Aretino, che è degno in parte di lode,
nè il Boccaccio, che quasi tutto ne è indegno» (NA 3969, ivi, p. 528).
88 Id., Vita di Alberto Pisani, cit., p. 86.
89 Ivi, p. 87.
90 Ivi, p. 88.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 49
dal lettore «alla stregua di poesie»91. Considerando che Dossi fu uno scrittore di sola
prosa, l’ipotesi è arrischiata, ma suggestiva; si può concordare, semmai, sul fatto che
la Vita nuova possa aver attirato Dossi per gli elementi strutturali, rivisti in una pro-
spettiva certo lontana da quella dantesca: il materiale autobiografico, un amore infeli-
ce e mai consumato, conclusosi con la morte della donna, e la commistione dei generi
(condotta peraltro da Dante nella forma codificata del prosimetro). Il capitolo si
chiude su una maniglia che si apre, preannunciando, per quanto spera Alberto,
l’arrivo di cotale amante; si scoprirà nel, capitolo V, che si tratta invece del servitore92.
Nel corso della Vita, Alberto fa esperienza di diversi atteggiamenti verso l’arte e
l’artista, riassumibili in tre posizioni. In primis, egli incontra una concezione “aulica”
dell’artista, che implica un’alta considerazione di sé, una buona dose di egotismo e la
ricerca della stima degli altri; ne nasce un’arte magniloquente basata su elevati senti-
menti come l’amore (immaginato più che presente) e su uno stile ridondante, com-
pletamente avulso dalla realtà. La poesia, per la sua natura codificata, è il primo risul-
tato di tale mancanza di “naturalezza”:
Alberto, a furia di bèvere su, e dagli orecchi e dagli occhi, storie d'ogni gènere musi-
corum, pensò che ne poteva mettere insieme egli pure. E cominciò a misurare dei ver-
si; sòlito cominciamento; foggia di esprìmersi la men naturale di tutti, e però la più
fàcile93.
La letteratura intesa come ispirazione profonda del “genio” è parodiata, innanzi-
tutto, attraverso l’insistenza sulla disperante casualità della presunta “vocazione arti-
stica”, provocata da un’imprevedibile «gotta d’inchiostro»94:
Ma il caso ora antivenne al volere. Poco sotto al dì natalizio di donna Giacinta, Al-
berto stava sudando una di quelle lèttere d'augurio, che si ricòpiano poi in carta da
torta, e appunto avea già combinato:
Mia cara nonna - Essendo...
91 Cfr. S. Giusti, L'instaurazione del poemetto in prosa (1879-1898), Pensa MultiMedia, Lecce 1999, p. 31.
Da quell’affermazione aveva tratto già spunto Primo Levi per affermare che «nell’Altrieri è quella che dir
si potrebbe la Vita nuova del nostro tempo; né mai giovinetto scrisse di sé e dell’età propria con animo
così infantile e così adolescente» (P. Levi, Preludio, in C. Dossi, Opere, I, Treves, Milano 1909, p. XX).
92 Riguardo alla «femminilità intesa come pratica dell’imprevisto», cfr. Serri, Carlo Dossi e il «racconto»,
cit., p. 61.
93 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 101.
94 La goccia d’inchiostro ricorda anche la comica casualità del genio di Giusti, su cui ci si sofferma nelle
Note azzurre: «Una capata può di un genio fare un cretino - può di un galantuomo fare un briccone - Una
capata produsse forse il genio di Giusti. < (Vedi, sua vita) >» (NA 2004, in Id., Note azzurre, cit., p. 136).
50 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
allorchè, giusto dopo l'essendo, cadde una gotta d'inchiostro. Ciò che una gotta
d'inchiostro può fare, non è prevedìbile; quì, fece un poeta.
Ròttosi, per l'accidente, il filo alle idee dello scrittore, e sì che era un filo da pozzo!
Alberto, a riappiccarlo rivolse l'occhio allo scritto. Mia cara nonna - essendo... Mia ca-
ra nonna - essendo... dàgli e ridàgli, udì come un suono in cadenza, come un verso. E
se proprio? Alberto se ne commosse. Credeva il far versi cosa arcidìffìcile, un quid-
sìmile all'ingoiare coltelli, stoppa-accesa e turàccioli, abituale pasto de' bossolottaj.
Nulladimeno contò sulle dita... uno, due, tre, quattro, cinque, sei... sette! Per vero,
non ne sapeva la giusta misura; ma, poco su, poco giù, questo avea ben l'aria di èsser-
ne uno. E ne azzarderà egli un altro?.. Spìrito!
Mia cara nonna. Essendo
cotesto giorno quello...95.
Si aggiunga, a denigrazione di quell’arte poetica praticata dal bambino con tanta se-
rietà, il binomio poesia-cibo, che asseconda una classica modalità di abbassamento
95 Id., Vita di Alberto Pisani, cit., pp. 101-02. L’abbassamento ironico del ruolo dell’artista trova un retro-
terra fecondo, spesso dimenticato dagli studiosi, nei “classici” della Scapigliatura. Già in Tavolozza
(1862), Praga ironizza sulla convenzionalità dell’attività poetica: «-Non hai teco un rimario, viaggiato-
re?…- / Ove fuggisti, o mio lepido umore, / in che borgo ho smarrito le parole? // Sì, al focolar del primo
albergatore, sento che canterai, povero core, / l’amor d’Italia, e dell’Italia il sole!» (Olanda, in Praga, Poe-
sie, cit., p. 75); l’esercizio stesso della poesia è stigmatizzato come gioco formale del ricercare «un’altra
rima in i», per cui al poeta non rimane che bruciare la cantica e mettere «nelle coltri il cantor» (La libreri-
a, ivi, pp. 66-67). Toni simili compaiono anche in Penombre (1864): si veda il bizzarro Ancora un canto
alla luna (6), dove il poeta costruisce un mondo fantastico in cui recita la parte di un grottesco suddito
della luna («E anch’io, crisalide / forse di un astro, / da un sassolino / a te m’inchino»; ivi, p. 94) e poi,
sottraendosi indolente alla scena, dichiara: «io vado a letto, / ché, a parlar schietto, / l’infreddatura / mi fa
paura!». Altrove, il poeta si rappresenta incapace di creare perché in preda a un fastidioso Dolor di denti
(ivi, pp. 177-78). Un’aria canzonatoria nei confronti della creazione poetica è assunta apertamente anche
da Arrigo Boito, che tra l’altro, nella sua adesione alla Scapigliatura come rivolta formale, è da annoverare
tra i modelli di Dossi; a proposito della sua Ballatella scriveva a Cletto Arrighi, direttore della «Cronaca
grigia»: «[...] lo scopo [...] non è né filosofico, né religioso: ho voluto semplicemente esercitarmi nella sca-
brosa rima in -iccio» (Boito, Tutti gli scritti, cit., p. 1544). Questa caduta in basso dell’artista e del suo me-
stiere richiama alla mente un archetipo della modernità, che Dossi conobbe forse più tardi, quasi sicura-
mente all’altezza del 1879. «Dans un mouvement brusque, [elle] a glissé de ma tête dans la fange du ma-
cadam», scriveva Baudelaire nella Perte d’auréole (Le spleen de Paris, XLVI) poemetto pubblicato nel
1869. Il poeta, figura ormai profana, parla della sua perduta dignità con distacco e ironia: «Je puis main-
tenant me promener incognito, faire des actions basses, et me livrer à la crapule, comme les simplex mor-
tels»; «d’ailleurs la dignité m’ennuie».
Il primo Dossi: in direzione del frammento 51
comico: l’ode alla nonna deve essere presentata entro un pasticcio, e «ch’esso sia di
Stràsburg»96.
Peraltro, la parodia dell’ispirazione poetica trovava spazio già nella terza parte
dell’Altrieri, dove il piccolo Guido si sforzava di “istroppiare” i suoi pensieri in un so-
netto (si noterà, tra l’altro il gioco parodico sul termine “versi”), presto abbandonato
di fronte al cilindro nuovo:
Io mi sedeva giusto a tavolino fra le dódici e un'ora, non so se istroppiando i miei
pensieri entro un sonetto o imbrodolándoveli di aggettivi quando mamma, avanzáta-
si cheta cheta nella stanza depose davanti a me un... maah!... incartato di azzurro.
[…] diméntico per l’affatto de’ versi alla Luna e non curando quelli del fratellino, u-
scii a passeggiare fino a dì basso97.
Versi, sonetti e canzoni si annoverano anche tra i frutti della prima ispirazione di Al-
berto, a cui va aggiunta la barocca lettera alla vicina; un amore fantasticato attraverso
«poetici occhiali» non può che portare ad una prosa barocca e vacua:
Di quì a tre notti, nell’ora in cui la luna è a mezzo della sua carriera, io fuggirò da’
miei lari, tu per sèrica scala da’ tuoi, e uniti spiegheremo le vele verso la lìbera terra,
figlia del Gran Genovese…»98.
Il fallimento dell’amore per la figlia del Balotta si rovescia in una poesia «disperata»:
In conseguenza, la poesìa di lui si fe' disperata; e, come gli è vizio d'ogni scrittore...
che dico! d'ogni uomo, l'erìgere sè, in tutto, a unità di misura, così il nostro amico in-
filò migliaja di versi per annunciare Virtù ed Amore riascesi in grembo ai celesti, il
mondo... fango, opra terrena... vana (epperchè scrìverlo allora?) ed in una certa can-
zona, lunga come la broda de' Luoghi Pii, provò che mille e mille sciagure avèano fat-
to del cuore di lui una pòmice, sì conchiudendo:
«Giuro mai non alzar vecchio caduto;
Giuro restarmi muto
A chi mi chiederà pane o pietanza;
Giuro non piànger mai
Su vergin morta o spezzata fidanza:
96 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 103. Ma il cibo è presenza abbastanza costante; si ricordi anche il
trasferimento in un appartamento in città, «nel quale, da qualunque stanza, era possibil di scrivere la lista
dei piatti fumanti nella cucina» (ivi, p. 95).
97 Ivi, p. 62.
98 Ivi, p. 110.
52 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Se manco, o Sol! per me avvelena i rai»99.
L’ironia contro uno stile aulico e vuoto è scoperta e la «canzona» appare come una
vera e propria parodia di una poesia intesa come esercizio stilistico privo di valuta-
zioni critiche sulla realtà. Non a caso, il narratore aggiunge: «Ma, a gran fortuna, tai
giuramenti rimati si mantèngono rado». In seguito, un secondo amore, Camilla di-
Negro, «soda e fresca come la dea Salute», interviene a solleticare la vena poetica di
Alberto, nonché il suo amor proprio: «Camilla ascoltava con molto piacere le poesìe
di Alberto (il che gli è giulebbe a un poeta)»100. La realtà disillude presto anche queste
aspirazioni d’amore e di poesia.
Ad uno stile e ad una certa letteratura corrispondono, per Dossi, prese di posi-
zione di carattere morale; più volte, nelle Note azzurre, si torna su questo pun
to:
Una musica brutta è quindi necessariamente immorale101.
Quanto all'onestà artistica, il concetto è il seguente. Non falsificare il proprio tempo.
L'artista è destinato a scrivere la storia degli uomini e delle nazioni e la narrazione egli
la deve trovare sincera e spontanea nel proprio cuore, inspirato dalla contemporanei-
tà. - Ora, falsifica, il letterato che narra la guerra dell'indipendenza italiana, coi modi
di Giovanni Boccaccio, falsifica chi la pingesse nella maniera di Leonardo, etc. etc.102
La mendacità di uno stile inadeguato alle cose, simboleggiato dalle esercitazioni del
giovane Alberto, non può che finire in parodia, com’è provato, fin dal primo capitolo
(il IV), dalla famosa maniglia che, invece di preludere a una diafana apparizione
femminile, annuncia, più prosaicamente, l’arrivo del servo Paolino. È interessante
sottolineare come la dissacrazione sia diretta prima di tutto allo stile, che è punto
centrale, grazie al quale autorizzare o meno una resa dei fatti che è sempre letteraria,
e perciò, in un certo senso, ingannevole:
il fondo e il campo sia dei letterati che dei medici è la bugia, la quale non può avere
spaccio se non sotto una bella forma103.
99 Ivi, p. 112.
100 Ivi, p. 113.
101 NA 1877, in Id., Note azzurre, cit., p. 124.
102 NA 2826, ivi, p. 320.
103 NA 4837, ivi, p. 682.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 53
Crescendo, Alberto non abbandona la ricerca del proprio talento e, chiuso nelle
proprie fantasticherie, fatica a trovarlo: «Ed egli? Avea sì la gobba sul naso, l’ingenii
mons della fisiognomìa; ma, in verità, leggendo, egli stentava a capire […]»104. Si trat-
ta forse di una parodia della folta schiera di “maledetti” che, fin dal Romanticismo, si
celebrano come tali, da Byron, che si sente bollato del marchio del masnadiere, ai fa-
tali segni, per spostarsi in tempi e luoghi più vicini, di Praga, che nell’Anima del vino
afferma di sentirsi con il «marchio alla fronte»105 e, in Rivolta, avverte «qui sul cranio
come un serto acuto…»106.
Eppure, come seconda attitudine nei confronti dell’arte, troviamo, trasferendoci
al finale della Vita, proprio la figura dell’artista maledetto di ambito scapigliato, sog-
giogato dalla forza di eros e thanatos. L’ultimo capitolo è condotto sulla falsariga di
Amore nell’arte di Tarchetti, con una mimesi così scoperta da generare forti dubbi
nell’interpretazione. Su questo strano finale ci si soffermerà più avanti, limitandoci
per il momento a registrare l’emergere della figura del maudit, o del folle, che si offre
come “via d’uscita” della narrazione, ma è anche dichiarata estranea (se non addirit-
tura parodiata, come sostiene qualcuno) proprio nell’adesione esagerata al modello
tarchettiano. Si tratta di un’arte dunque impraticabile, proprio alla stregua dell’arte
“aulica”, inadeguata a illuminare sotto una nuova luce la realtà. L’«estremismo» del
personaggio, «chiarito nella sua genesi»107, come afferma Bigazzi, fin dai primi capito-
li, ha prodotto una concezione dell’arte come possibile conquista di una posizione
(quella del “poeta”) nel mondo (seguendo il miraggio di un’accettazione affettiva de-
gli altri); di fronte all’impossibilità di quel percorso, si è prodotta una sovrapposizio-
ne tra arte e vita che conduce direttamente all’autodistruzione.
La terza posizione nei confronti della letteratura e dello scrittore si fa strada nel
corso del romanzo e rappresenta una possibile via d’uscita rispetto alle due direzioni
esaminate. Essa si basa su una presa di coscienza dell’inettitudine, dell’asocialità e del
destino d’infelicità dello scrittore, espressi, con un sorriso amaro, tramite gli stru-
menti dell’ironia. Tale consapevolezza emerge tramite una prosa moralistico-ironica
praticata a due livelli, ossia dal narratore della Vita e da Alberto scrittore nei lacerti
delle Due morali. Infatti, l’opera Le due morali non è oggetto di parodia ma di inter-
scambio fruttuoso: il narratore della Vita lascia la parola ad Alberto per non annoiare
104 Id., Vita di Alberto Pisani, cit., p. 121.
105 Praga, Poesie, cit., p. 134.
106 Ivi, p. 203.
107 Bigazzi, I colori del vero, cit., p. 187.
54 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
i lettori e completa, a beneficio del pubblico, uno dei raccontini, riguardante la porti-
neria108.
L’impulso verso la scrittura nasce, ancora, dal miraggio amoroso: Alberto pensa
di mettersi a scrivere per conquistare l’amore, per «giùgnersi a lei [Claudia] in ispìri-
to»109. La «goccia» stavolta non gli è d’aiuto: «gocciò a mezzo del foglio una macchia»,
a cui Alberto dà la forma di un «cagnolo»110. Ancora, cibo e lavoro si sovrappongono:
«una colazione abbondante impaccia ad Alberto la virtù volitiva»111. Eppure Alberto-
scrittore, uomo tra gli uomini, si propone di osservare l’individuo e la sua società
dall’interno, sottoponendo se stesso e il mondo alla satira. I modelli dell’«umorismo»
sono autori quali Sterne, Thackeray e Jean Paul, come lui stesso dichiara, tra il serio e
il faceto, nella Vita112. Questa “prosa dell’umorismo” è anche alternativa alla scrittura
lirico-memoriale che rende unico l’Altrieri (soprattutto nella sperimentazione testi-
moniata nella prima edizione) e che, certo, rappresentava una via diversa verso il
“frammento” novecentesco.
2.4 «Una ventina di razzi - imàgine della più desiderèvole vita, corta e splendente»
Quattordici “frammenti” sono inseriti come “corpi estranei”, con titolo proprio, nella
narrazione della Vita di Alberto Pisani; vista l’importanza degli scampoli come primo
segnale di un possibile «romanzo» parallelo, costruito attraverso un collage di brevi
prose, conviene ripercorrerne contesti di inserimento e caratteri, in modo da appro-
fondire gli assi tematico-stilistici sui quali si muove il frammentismo dossiano.
Chi decida di lasciare un attimo da parte un fatto sottolineato, forse fin troppo,
da Isella (la scelta di riunire, in anni posteriori, i raccontini della Vita in Goccie
d’inchiostro, riconsiderandoli come prose autonome), potrà meglio domandarsi le
ragioni degli inserimenti collaterali che interrompono e arricchiscono la narrazione.
108 Nel cap. X, dopo aver presentato ai lettori il raccontino Il lotto, il narratore aggiunge: «Così, Alberto
conchiude; ma io soggiungo, che nel bozzetto di lui, d'altra parte bellino, màncano due personaggi; i due
frequentatori della portinarìa. Il primo, era un antico soldato, col faccione a grattugia, rosso come un sa-
lame […]» (Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 179). Nel cap. XI, il narratore lascia la parola a Alberto:
«Quì toccherebbe la volta di dire intorno alla vita di Alberto negli otto mesi che stette nella casina del ma-
go, e di che dire ci sarebbe dovizia; tuttavìa, a scrìverne io, troppo mi annojerei per riuscire a piacervi.
Dùnque, chi vuol saperne alcunchè, procuri di avere il libro del nostro amico, quello ch’e’ scrisse negli
otto mesi sudetti e che per tìtolo ha “le due morali”» (ivi, p. 182).
109 Ivi, p. 151.
110 Ivi, pp. 152-53.
111 Ivi, p. 153.
112 Cfr. cap. VIII: «E si lasciò andare sdrajato nella poltrona (tra noi, più che còmoda) in maledendo e il
poco ingegno di lui, ed il caràttere brutto; disse che la imaginazione èragli imbozzacchita; chiamò in soc-
corso i suoi favoriti... Sterne, Thackeray, Porta... E Porta, Thackeray, Sterne, tènnero mano alla poltrona-
rìa di lui» (ivi, p. 153).
Il primo Dossi: in direzione del frammento 55
Secondo Bigazzi i raccontini assolvono essenzialmente tre tipi di funzione: in un pri-
mo caso il raccontino ha «un valore di storia nella storia», espediente adottato dallo
scrittore per non «disturbare, con peripezie collaterali», l’analisi dell’«anima del pro-
tagonista»; in un secondo, esso racchiude un’«anamnesi di Alberto», sempre con
l’intento di «non straripare dal concentrato alveo del racconto»; in un terzo caso, ov-
vero soprattutto per le prose tratte dalle Due morali, si registrerà «la funzione di far
comprendere per altra via qualche lato della sua personalità»113. In tutti i casi, dun-
que, «i “raccontini” appartengono di diritto all’ossatura narrativa del libro».
La notazione è condivisibile, anche se occorre non dimenticare che la sensazione
che il lettore avverte nel ramificarsi delle modalità narrative non è tanto quella di una
più chiara analisi del protagonista, quanto quella di una dispersione e sovrapposizio-
ne di piani narrativi piuttosto disarmante. Partendo da una semplice lettura, andrà
forse notato, per cominciare, che i quattordici “frammenti” inseriti, con titolo pro-
prio, nella narrazione della Vita sono riconducibili a due modalità: da una parte vi
sono i “raccontini” intercalati al testo con svariata motivazione; dall’altra ci sono le
pièces estrapolate, per quanto ci informa il narratore, dal volume di Alberto Le due
morali.
Le prose brevi della Vita sono particolarmente degne di interesse perché costitui-
scono il luogo privilegiato della varietas e della sperimentazione. Inoltre, alla base di
quegli scampoli sembra essere un concetto assai innovativo di “romanzo” come “nar-
razione” costruita attraverso un collage di brevi prose, ognuna in sé conchiusa. Pro-
prio a proposito delle Due morali di Alberto, si apre, in difesa del «libro del nostro
amico», una riflessione significativa:
Al diavolo le autobiografìe! in esse, lui che si pinge è troppo occupato a porre in rilie-
vo le sue virtù, i suoi nei, e, poniamo anche, i vizi, per dimostrarsi qual’è; in un ro-
manzo, invece, egli si apre ingenuamente a ogni frase. Ben sott'inteso, che chi si ha
una pàgina innanzi, abbia acùta la vista, legga nelle interlìnee, facoltà di pochissimi114.
La narrativa ideale ha dunque le fattezze di un «romanzo» intessuto di autobiografia,
ma tale che solo i «pochissimi» vi sappiano leggere i caratteri dello scrittore. È poi pa-
lese come il termine «romanzo», riferito alle Due morali, sia utilizzato in senso molto
ampio, quasi forzato: il libro di Alberto si presenta infatti, a leggerne gli «scampoli»,
come un volume di prose brevi, incorniciate da una riflessione generale sulla morale,
ma non come una narrazione in senso stretto.
113 Bigazzi, I colori del vero, cit., p. 188.
114 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 182.
56 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Il significato del titolo del libro di Alberto si svela quando, a caccia di errori di
stampa, egli rilegge, con noi, «dal sommo»:
Inquantochè, sul teatro del mondo, le morali son due (tutto è doppio del resto). Ed
una è l’officiale, in guardinfante e parrucca, a tiro-a-sei, coi battistrada e i lacchè, an-
nunziata da tutti i tamburi e gli zùfoli della città; l’altra è… ma, in verità, non tien
nome… è una morale pedina, in gonnelluccia di tela alla quale ben pochi làscian la
dritta»115.
La seconda morale, che riceve l’approvazione di Alberto, è guidata dal «nudo e puro
buonsenso» e, in base ad essa, azioni in sé riprovevoli quali l’adulterio, il suicidio e
l’omicidio possono trovare giustificazione. I raccontini tratti dal libro sono, in effetti,
in linea con questa riflessione; per contro la vita di Alberto Pisani, come ci viene nar-
rata, sembra piuttosto condizionata e impacciata dalla morale officiale116. Infatti,
com’è spesso sottolineato, il servo Paolino ragiona con più buonsenso di Alberto, che
si trova invece imbarazzato in ogni contesto sociale, e, segnatamente, nelle relazioni
con il mondo femminile, sottilmente guastate da eccessivo pudore e senso di colpa: il
sogno della semi-diafana amante, comparato con l’episodio di necrofilia che chiude il
libro, è fin troppo rivelatore.
Le prime prose a prendere una posizione autonoma nel testo portano come titoli
Il codino e Isolina e l’occasione del loro inserimento è interna al testo: dopo il trasfe-
rimento in città, Alberto si abbandona in pieno al «vizio del lèggere»117, ma, per non
sforzare troppo gli occhi «infiammati», chiede alla nonna di raccontargli delle storie.
L’affabulazione favolistica, nella quale il personaggio diventa ascoltatore, è dunque il
tratto caratterizzante delle pièces: come ha ben rilevato Saccone, Dossi era affascinato,
fin dall’Altrieri, dai «moduli dell’enunciato fiabesco»118. Del potere del racconto fan-
tastico, simboleggiato dalla pulsione affabulatoria della bambinaia, Alberto era rima-
sto vittima fin da piccolo, prima del trasferimento in città: «Alberto pigliava sonno a
fatica. Bolliva sempre nel suo pìccol cervello qualche panzana della bambinaja... car-
rozze che ribaltàvano, ladri di sorrisi e di làgrime, streghe, sgranocchiaputtini...»119.
Nonostante la sfumatura favolistica, le storie sono presentate, però, come reali eventi
115 Ivi, p. 217.
116 La riflessione moralistica sui comportamenti umani non è peraltro tema estraneo a Dossi: si può anzi
dire che diventi oggetto di trattazione quasi sistematica con il progetto, realizzato solo in parte, dei Ritrat-
ti umani; Le due morali è dunque una prefigurazione di progetti dossiani futuri. Anche l’utopia (si pensi
alla Colonia felice) nasce da un moralismo che cerca, pars construens, una sua realizzazione positiva.
117 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 95.
118 Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine, cit., p. 11.
119 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 94.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 57
del passato della nonna; ancora, dunque, il ricordo è matrice prima del narrare: «[mio
fratello] me la contava sovente, e come, nel ricordarla, si rischiarava il suo viso!»120. Il
racconto presuppone infine una stretta interazione affettiva tra narratore e narrata-
rio, tant’è che il piccolo Berto interrompe spesso per commentare.
Le prime prose non sono dunque totalmente estranee all’intreccio, presentandosi
come ricordi e componenti del percorso di formazione di Berto. In realtà si rileva, già
in esse, il gusto metanarrativo di Dossi: i due racconti permettono di mostrare, in at-
to, le dinamiche tra l’adulto narratore e il bambino ascoltatore; inoltre, l’“umorismo”
ha modo di fare le sue prove, con l’esplosione espressivistica del dettato linguistico,
volta a sottolineare o parodiare le idee della nonna o dei “rivoluzionari”:
Infatti, i reverendi sequestràvano spesso ai loro scolari imàgini sediziose, libri guasta-
cervelli, e allorchè poi, a castigare, mettèvan mano alla sferza, gli zuffettini pappagal-
làvano su certe ideone intorno alla dignità umana, e che so io!121
Oltre ai «libri guasta-cervelli», si potrebbero citare i «lùridi fogli scritti da quei pieni-
di-pulci di repubblicani», «l’ex-tiraspaghi» (ovvero il ciabattino), il «sedicente conte
della Roche-Surville, smoccolato a Parigi»122. Nel secondo racconto spira invece
un’aria più gotica: nella calma notturna, sotto il chiaro di luna, «il tonfo di cosa mor-
ta», ovvero la mano inanellata tagliata dai repubblicani alla contessa Isolina, diventa
oggetto degli incubi di Berto.
La prosa successiva, incastonata nel capitolo secondo, rappresenta una parodia
rivolta al genere epistolare e, in particolare, alla lettera d’amore: ci troviamo nel pieno
della formazione poetica di Alberto, che dalla casuale poesia nata per virtù di una
«goccia d’inchiostro» è passato ormai alla fervida imitazione, tra Ariosto (ispiratore
di «un poema zeppo di paladini dalla fatata e sguizzasole armatura»), Alfieri (modello
di una tragedia, «atti cinque, e personaggi quattro in artìculo mortis») e pure Leopar-
di («Giù allora canzoni che puzzàvano di fràcido, giù sonetti sbattuti in chiaro di lu-
na…»)123. Si accorge, infine, di aver bisogno della somma materia poetabile, l’amore,
e trova così una fanciulla degna della sua passione, o meglio trasfigurazione: «messi i
poètici occhiali, ecco l’ex militare diventargli un tiranno […] ecco la giovinetta can-
giàrsegli in una creatura del cielo»124. Ne è frutto una manierata lettera d’amore («me-
120 Ivi, p. 96.
121 Ibid.
122 Ivi, pp. 97-99.
123 Ivi, pp. 104-05.
124 Ivi, p. 106.
58 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
ravigliatevi! In prosa»), altro testo nel testo, dove la goccia non è più d’inchiostro, ma
di sudore («gli fece sudare una goccia ogni capello»)125.
Il padre adirato dell’angelica creatura, venuto in possesso del «viglietto», ne dà
lettura alla «nòbil signora Pisani»; la lettera, riportata in corsivo, è dunque intervalla-
ta dai commenti del padre della giovane, che diventa lettore (non destinato) e com-
mentatore (inferocito) delle tornite frasi di Alberto.
E, m'hai alcuna volta avvertito? Sovente le tue luci belle incontràron le mie, sovente tu
sfavillasti, guardàndomi, d'un celestiale sorriso. Quel riso, quell'angèlico sguardo èra-
no essi d'amore? e, se d'amore, per me? (Gesuita!).
[…]
Ah! l'inimico fato dièdeti a genitore un sospettoso tiranno (io!) un geloso (io!) il qua-
le... Ma no, non voglio risovvenire le tue bàrbare pene. Coraggio, o sfortunata donzel-
la! c'è chi veglia su te. (altro! il lupo fà l'occhiolino all'agnello)126.
La lettera è il frammento di uno stile impraticabile, simbolo di una letteratura intesa
come trasfigurazione e finzione, che ha appunto il potere di intorbidare la realtà, cre-
ando assoluta confusione tra i ruoli di autore, lettore e destinatario, ricoperti da sog-
getti inadeguati: un ragazzo di dodici anni è lo scrittore, una bambina è la destinataria
e il padre (con a fianco la nonna di Alberto) è il ricevente e lettore. Tanto è il caos da
confondere i vivi con i morti:
– Suo figlio! – vociò il capitano.
– Il mio ùnico figlio è morto – oppose donna Giacinta.
– Eh? – chiese l’altro interdetto – Ma e allora… questo Alberto Pisani? –127.
La successiva pièce, inserita nel corso del capitolo V, interrompe il racconto delle
traversie di Alberto a teatro, o meglio al «cìrcolo equestre», dove egli si è recato in
cerca d’ispirazione; quasi a voler prendere una pausa da questo ambiente sociale (e,
perciò, ostile), il narratore inserisce un raccontino, La cassierina, che ha per oggetto
un ricordo dello stesso Alberto («dieci anni di meno, in campagna»). La prosa è scan-
dita da preziosi giochi di luce, nell’opposizione tra oscurità e bagliore improvviso:
Poco innanzi, una ventina di razzi - imàgine della più desiderèvole vita, corta e splen-
dente - avea, per annunciare la chiusa di una festa paesana, stracciato l'àere, e appa-
recchiato tabacco di naso agli uccelli. Il cielo, nero-fulìgine. Tratto tratto, una lusnàta
125 Ivi, pp. 106-07.
126 Ivi, p. 110.
127 Ivi, p. 111.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 59
vi abbarbagliava per un battipalpèbra, facendo brillare, vetri, gronde ed ardesie: poi,
tutto rintenebriva; e rispiccàvano le illuminate finestre. Ancor più nero dell'àere, il
villaggio pareva allora un ammasso di spenti carboni128.
L’immagine fulgida della “brevità felice” della vita del «razzo» nel nero della notte po-
trebbe nascondere una dichiarazione di poetica, essendo inserita, tra l’altro, proprio
all’interno di una delle prose brevi e raffinate che illuminano «l’àere» della Vita di Al-
berto Pisani («una ventina di razzi -imàgine della più desiderèvole vita, corta e splen-
dente-»).
All’inizio del capitolo successivo (VI), il narratore elabora una spiegazione ri-
guardo al ricordo “involontario” di Alberto: egli non si è accorto degli sguardi di ri-
conoscenza della «pallidotta fanciulla» che «si era levata a mirarlo», ma deve averli
percepiti, in modo inconscio, e riallacciati al ricordo:
Bisogna crèdere dùnque ci sia qualch'altro senso oltre i sòliti cìnque... sarebbe il pre-
sentimento? E, nel caso di Alberto, una prova, era il ricordo della infelice bambina129.
La riflessione testimonia l’interesse persistente, dopo l’Altrieri, riguardo ai meccani-
smi della memoria e al ritorno intermittente dei ricordi. Inoltre è ancora il ricordo,
recuperando la poetica dell’Altrieri, a esigere, per la sua brevità fulminea e illuminan-
te, un inserimento extradiegetico, nonché una prosa breve e limata.
La tendenza all’estraniamento dalla realtà e al rifugio nella fantasticheria sembra
però essere anche oggetto di un’ironia implicita del narratore: in effetti, La cassierina
interrompe il racconto delle sventure di Alberto a teatro, salvandolo dai risvolti co-
mici e imbarazzanti delle sue uscite in pubblico. La breve fantasticheria, spazio “dia-
fano” che ha per oggetto un ricordo (ovvero una rielaborazione personale e lirica del-
la realtà) permette ad Alberto di allontanarsi da una situazione ostile, rimovendo la
propria immagine di incurabile disadattato130.
Oltre che per il ricordo, l’Altrieri è qui rievocato per il protagonismo
dell’infanzia, nei panni di una «tosuccia di circa otto anni» costretta a lavorare nel
circo, in cui Alberto legge l’immagine di una puerizia già invecchiata («avvizziti put-
128 Ivi, pp. 129-30.
129 Ivi, p. 133.
130 A ragione Isella afferma, a proposito delle Goccie d’inchiostro, che una coerenza d’ispirazione, a livello
tematico, può essere cercata proprio nella svalutazione della realtà, «una realtà limite che, ai fini della
propria eudemonologia, occorre respingere, evadendo nella fantasia o nella memoria, nel sogno o co-
munque, sempre, nella segreta inviolabilità del proprio io accartocciato in se stesso» (D. Isella, Per la ri-
stampa di «Goccie d’inchiostro», in C. Dossi, Goccie d’inchiostro, Adelphi, Milano 1979, p. 228).
60 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
tini […] pìccoli vecchi»)131. Altrove, il narratore piega la prosa ad un dettato espressi-
vista, come nei ritratti del «donnone» e dei suoi compagni:
In cui, a mezzo di una folla di rùstici e in pie’ su ‘na panca, illuminata da fiàccole,
era un toccone di carne fèmina, con i capelli a vaso di maggiorana, le guancie a pane
buffetto, e la pappagorgia; sua veste, una petturina di raso non-bianco, e una gonnella
di garza; sotto, due colonnette da balaustrato. Il che maledettamente stonava con la
vocina di lei. Ma ella ricorreva spesso al tamburo. Allora, un uomo alla destra, in ma-
glie, con una ghigna da pignatta bruciata ed i capelli alla ciabattina, strideva una
tromba; e intanto, un pagliaccio a sinistra, abbigliato da Meneghino, sganzèrla di uno
a ventre di contrabasso e a muso biacca-e-mattone, gestiva, e, in ràuca voce quasi an-
negata nell'aquavite, gridava132.
Quando si tratta della bambina, invece, il vocabolario si normalizza e la prosa s’inarca
verso un dettato lirico:
Si fe’ coraggio, e, camminato vèr la baracca - là ove si stava a cassiere una tosuccia di
circa otto anni, in bianco, con un visino stregato, gli occhi nerìssimi, lùcidi lùcidi for-
se dal lagrimare contìnuo, ed i braccetti nudi, che ricordàvano i bastoncini del tè -
buttò una moneta sul tondo133.
Il quinto “frammento” è inserito nel capitolo settimo e condivide con il preceden-
te il carattere, stavolta esplicitato, di interruzione di una situazione di stallo: Alberto,
che ha scorto a teatro una bella giovane, Claudia Bareggi (in Salis), e se n’è innamora-
to, ha vagato per la città nell’ora in cui «il mercato di Prìapo affolla»134 e, finalmente a
casa, si è addormentato.
Era inebriato d'amore, ma più ancora di sonno «no, io non debbo dormire, io non
voglio dormire, non dormirò più mai» diceva a fiore di labbro; e ci rimase, come còl-
to dall'oppio!135
Il narratore finge di voler intrattenere il pubblico, mentre Alberto dorme, con
l’inserimento di un raccontino: «Lettori miei; conterò intanto una storia». La prosa
131 Id., Vita di Alberto Pisani, cit., pp. 130-31.
132 Ivi, p. 130.
133 Ibid.
134 Ivi, p. 141.
135 Ivi, p. 143.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 61
intitolata La Provvidenza offre “una versione” delle vicende di Claudia136 diversa da
quella esposta nel capitolo sesto, con parole poco lusinghiere, dal marchese Andalò:
la giovane, diciottenne, si era innamorata del «lava-piatti e pela-capponi e menarrosti
di casa»137 ed era fuggita con lui. Secondo il “nostro” narratore, invece, Claudia e
Guido sono due giovani dal cuore puro, sinceramente innamorati, che riescono infi-
ne a maritarsi grazie ad una “provvidenziale” eredità ricevuta dal giovane (nienteme-
no che da «un morto pentito a Betlemme», che intende risarcire, in punto di morte,
«una grossissima somma, truffata, anni già molti, al babbo di lui»)138.
Il procedimento messo in atto richiama alla mente, in ambito scapigliato, la tec-
nica narrativa delle Memorie del presbiterio di Praga, dove, come sottolinea Tellini,
«la “storia” è unica e lineare, ma è raccontata in modi diversi e obliqui da testimoni
discordi»139. All’interno della stessa Provvidenza, c’è spazio per più punti di vista: la
portinaia, il cugino di Claudia, il narratore stesso («io sostengo il contrario») e Clau-
dia. Ad ulteriore complicazione, occorre notare che la storia-digressione non è poi
volta, in primis, a chiarire le vicende di Claudia; come il titolo rivela, si tratta di una
prosa sul tema della provvidenza, a evidente citazione dei Promessi sposi, laddove
Manzoni ironizza sull’uso insensato che i semplici fanno del termine “Provvidenza”.
In questo caso, l’ironia si appunta su una “provvidenza economicamente sostenuta”,
che ha permesso a due giovani (novelli Renzo e Lucia) di maritarsi: «- Penso che la
Provvidenza è pur buona!… con l’ajutarla un tantino-»140. Citazione, digressione e
gusto d’ingarbugliare i punti di vista sono dunque i tratti fondanti del raccontino, che
indaga umoristicamente la consistenza della provvidenza nel mondo utilitaristico
piccolo-borghese141.
136 Saccone commenta: «Nel capitolo settimo è offerta un’altra versione della storia di Claudia […] con la
quale il narratore esplicita ciò che vuole realizzare: una pausa digressiva e la messa in scena […] del pro-
prio ruolo di io-narrante» (Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine, cit., p. 52).
137 Ivi, p. 137.
138 Ivi, p. 149.
139 Praga, Sacchetti, Memorie del presbiterio, cit., p. 15. Per inciso, un effettivo contatto tra Dossi e le Me-
morie del presbiterio, all’altezza della Vita di Alberto Pisani, non è dimostrabile; il romanzo di Praga è sta-
to pubblicato per intero, una volta terminato da Sacchetti, nel 1877; Sacchetti stesso dà notizia di una re-
dazione a stampa del 1867 («nell’appendice della “Platea”»), che risulta però ad oggi non rintracciata (cfr.
ivi, p. 30).
140 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 149.
141 Il narratore non manca poi, con un antifrastico «il che era bene possibile» e con la notazione che «la
conclusione par da comedia», di insinuare il dubbio sui fatti del «prete Armeno (chi dice Greco, ma ciò
nulla importa)» apparso «Deus-ex-màchina» per comunicare quella strana eredità: «Il che era bene possi-
bile. La vecchia casa dei Sàlis, disordinata che mai, vincea per ladri il nuovo regno d’Italia; poi, l’Armeno
produsse una filatèra di scritti; infine, prova senza risposta, era il pagamento sonante» (ibid.).
62 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Il sesto “frammento”, intitolato Il mago, compare nel capitolo IX ed è una digres-
sione generata dal trasferimento di Alberto nella casa del prozio; la vicenda sembra
destinata a rimanere una parentesi di gusto gotico-scapigliato, salvo poi essere recu-
perata, inaspettatamente, per il finale, dove il lettore si accorge di non poter mai pre-
vedere se le divagazioni, introdotte ad intercalare la narrazione, saranno o meno mes-
se a servizio dell’intreccio. Si tratta della storia di un uomo che, tormentato fin da
bambino «dalla parola “morte”», era divenuto medico: comprendendo «su quale fra-
gile trama fosse l’uomo tessuto, quanta folla di casi potèvala ròmpere», si consacrava
al folle proposito di trovare il segreto dell’immortalità.
Io me lo vedo, banfando a fatica, mezzo seduto su di un cadàver spaccato, a interro-
gare «morte, che sei?» a rovistarvi le traccie di vita, la quale vita è... Cosa?142
Conscio del proprio fallimento, Martino vive ritirato in casa in preda a continui at-
tacchi di necrofobìa, finché un giorno, terrorizzato di essere in punto di morte, muo-
re:
Ma il prete fe’ per pigliargli una mano. Martino addietrò, con terrore, come tôcca
una biscia; diede nel letto, cadde entro la stretta...
E in quella, per paura di morte, morì143.
Certe tonalità da racconto gotico permettono di accostare Il mago alla successiva
vicenda di Adelina (vittima di «una di quelle infermità di languore, sottili, lente, in-
stancabili»)144, che Alberto immagina assistendo al funerale di una giovane. La vicen-
da di Adelina, che pur parrebbe destinata alle Due morali (il narratore afferma ap-
punto: «Alberto si tartassava il cervello a conto del libro suo»), è inserita nella Vita
senza il corpo minore che caratterizza le prose avulse dalla narrazione, creando un
senso di interscambio continuo.
L’intreccio con il libro di Alberto continua: il capitolo X prosegue con il rientro a
casa, che offre l’occasione per affidare la «descrizione della portinarìa» al Lotto, setti-
mo “frammento” della Vita, primo ad essere tratto dalle Due morali. Il lotto presenta
uno schema destinato a riproporsi nei “bozzetti” successivi: scelta dell’argomento a
partire da ambienti di un cauto realismo “borghese”, descrizione condotta su toni e-
spressivisti, dimostrazione dei vantaggi di una morale “pratica”, da preferirsi a morali
142 Ivi, p. 162.
143 Ivi, p. 163.
144 Ivi, p. 175.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 63
astratte, rigide e dannose. Troviamo dunque nel Lotto il godibile schizzo della «porti-
narìa classica» e delle sue «vecchie padrone»:
Le quali, son due; una, che ha nome la Pinciroli, è piccolina, è osso-e-buco, e pensa
alla provvista temporale dei cibi; l'altra, cioè madama Ciriminaghi, vera madre abba-
dessa, sempre su ‘n poltronone, provvede allo spirituale, spaternostrando, snoccio-
lando rosari, dicendo male del pròssimo145.
Il narratore della Vita ritiene poi opportuno aggiungere un approfondimento alla de-
scrizione di Alberto («i due frequentatori della portinarìa»); così l’interscambio tra i
due complica e approfondisce il quadro.
Il capitolo XI è ampiamente dedicato agli scampoli delle Due morali, che il narra-
tore immette, per non annoiarsi («troppo mi annojerei per riuscire a piacervi»), in
luogo del racconto degli «otto mesi» trascorsi «nella casina del mago». Questa serie di
prose segue, a livello tematico, il fil rouge di una riflessione sull’amore; per meglio
specificare, si tratta di exempla riguardanti l’“amor proprio mal diretto” e “ben diret-
to”, prendendo in prestito i termini in cui si poneva, secondo Leopardi, la questione
dell’egoismo, «inseparabile dall’uomo», e della sua ricaduta sulla società146.
La riflessione dossiana prende le mosse, a differenza di quella leopardiana,
dall’accettazione di una società ormai divisa «per teste»147, ovvero caratterizzata da un
145 Ivi, p. 178.
146 «L’egoismo è inseparabile dall’uomo, cioè l’amor proprio, ma per egoismo, s’intende più propriamente
un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano
dall’eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall’onore, dall’amicizia ec. Quando dunque questo egoismo è giun-
to al colmo, per intensità, e per universalità; e quando a motivo e dell’intensità, e massime
dell’universalità si è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo, e per-
chè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del commercio sociale (sia relativo alla
conversazione, [672] sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando per
se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa più, e perchè il bene di cia-
scheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l’uno toglie la preda dalla bocca e dalle un-
ghie dell’altro; gl’individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con
ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsi-
voglia cosa, o per creanza, o per virtù, onore ec. è inutile, dannoso e pazzo, perchè gli altri non ti son gra-
ti, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano
in loro vantaggio solamente, e quindi in danno tuo» Leopardi, Zib. 671-72, 17 febbraio 1821). Si veda
anche Zib. 3291: «Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie del se-
condo. L’egoismo è quando l’uomo ripone il suo amor proprio in non pensare che a se stesso, non opera-
re che per se stesso immediatamente, rigettando l’operare per altrui con intenzione lontana e non ben
distinta dall’operante, ma reale, saldissima e continua, d’indirizzare quelle medesime operazioni a se stes-
so come ad ultimo ed unico vero fine, il che l’amor proprio può ben fare, e fa».
147 «L’egoismo spoglio d’illusioni, estingue lo spirito nazionale, la virtù ec. e divide le nazioni per teste,
vale a dire in tante parti quanti sono gl’individui. Divide et impera» (Zib. 161, 8 luglio 1820).
64 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
diffuso individualismo che ha, secondo Dossi, conseguenze non del tutto negative:
l’uomo, abbandonando gli «interessi composti», può concentrarsi su una felicità in-
dividuale e semplice. La rinuncia all’aspirazione al cambiamento, temuta e talvolta
denunciata dai primi Scapigliati (il noto Tarchetti di Una nobile follia, il Praga di Ta-
volozza), è, per il narratore delle Due morali, auspicabile. Si torni, un attimo, al Lotto:
la prosa intende dimostrare che le due donne sono «riccone sfondate» e «felici» grazie
al gioco del lotto, che permette loro di sognare «tutti i piaceri della ricchezza senza i
fastidi». Questa morale piccolo-borghese, all’insegna dell’individualismo, viene difesa
contro l’esortazione dei «filantropi», che consiglierebbero piuttosto: «operai; ammuc-
chiate. Volete vincere il terno? mettete al lotto degli interessi composti»148. Ma il nar-
ratore scambia volentieri l’«ammucchiare» e gli «interessi composti», allusione alla
lotta collettiva per i diritti delle classi sociali più basse, con una «speme» da «cinquan-
ta centèsimi». «Il faut cultiver notre jardin» sembra suggerire, alla stregua di Candide,
questa morale pratica basata sul buonsenso.
Uniche forme di “interesse sociale” degne di studio sono la «compassione» e la
«beneficenza», frutto di considerazioni sulla propria infelicità e sulla possibilità di le-
nire il dolore altrui; così, nello scampolo intitolato La maestria d’inglese, il narratore
riflette sui diversi modi di indirizzare l’amor proprio o «suìsmo»:
Per verità, tutti siamo egoisti. La differenza stà solo nei mezzi di soddisfare a tale
suìsmo, i quali, chi ha lunga veduta, trova nella beneficenza; non sentendo, vo' dire,
felicità seco, fà in modo che quella, ch'egli procura agli altri, lo illùmini di riflesso; chi,
breve, crede cavare dal male fomentato in altrui, un lenimento al suo; dal che, tòcca-
no via quelle due razze di uòmini; una, gaja, ridente, che dispicca le rose coltivate da
lei; l'altra, immusonita, instizzita, la quale si punge alle ortiche che seminò149.
La corba, invece, a partire dal racconto di un gesto gentile, si propone di dimostrare i
vantaggi di un amor proprio “ben diretto”:
Ogni òpera buona, frutta e al beneficato e al benefattore. […] Ma, insieme, ricordavo
con compassione que’ ricchi aggrondati che non san dove comprare un'oncia di cuo-
re-contento, mi chiedevo stupito, come mai lo stesso egoismo non li tirasse a fare del
bene150.
148 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 179.
149 Ivi, p. 189.
150 Ivi, p. 200.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 65
D’altra parte, Fanciulla che muore opera una critica della «troppa compassione» verso
chi è malato, non senza ironia («Chèh! Amore vuol ciccia»)151.
Accettata, come immutabile, la «barbarie» della società moderna152, Alberto-
narratore si volge dunque ad indagare il mondo degli affetti individuali, che è infatti
ampiamente rappresentato nelle prose, nelle forme dei rapporti genitori-figli e delle
relazioni amorose. L’amore dei genitori è raffigurato, spesso, come il frutto di un a-
mor proprio “mal diretto”: nel caso della Maestrina, ad esempio, l’amore del padre
rischia di impedire alla figlia di realizzare la propria unione matrimoniale; allo stesso
modo, le aspettative dei genitori sembrano destinate a danneggiare la neonata di Pri-
ma e dopo.
La varietà tematica offre occasione per diversificazioni stilistiche, con l’alternarsi,
in particolare, di lirismo e ironia. In Prima e dopo, l’avvicinamento dei coniugi al
mondo dei bambini provoca il recupero di quel linguaggio infantile sperimentato
nell’Altrieri:
- Come farei più volentieri un cuffino! -
Giulio, allora, si avvicinava a lei con la sedia, e baciàvala in fronte. E cominciàvano
a dire di que’ bailotelli color mela poppina, cioccianti alle mamme di un'ampia nutri-
ce. Eccome tenersi dal vezzeggiarli? dal mangiottarli di baci?... Ma, st! il bimbo ha di-
staccato la bocca dalla sua credenza e allenta le cicciose manine... Il sonno lo acco-
glie153.
La nascitura, contro le aspettative dei genitori, porta però le stigmate della Saffo leo-
pardiana: brutta, «di un colore ulivigno», con già «le rughe della vecchiaia», pare de-
stinata ad una vita infelice e al fallimento, sia nell’affetto dei genitori che nell’amore
di un compagno; le si augura, infine, una «pietosa» morte precoce. Il tono tragico non
rinuncia però, a piccoli tratti, ad un’esagerazione che sfocia nella parodia, con
l’impronta personale dell’umorismo dossiano («E tu diventi una vecchia tontonòna e
stizzosa, che fà morir gli augelletti con il sistema Filadelfiano»)154.
L’esplorazione delle varie tipologie d’amore prosegue con Insoddisfazione, dove
un sentimento gentile, non consumato, si accompagna per lo più ad una prosa lirica.
Il tema adusato della passione appena sbocciata e forse impossibile tra l’«ostina» e il
giovane ricco si riscatta in un raffinato gioco di luci e ombre, che mima le scherma-
glie amorose dei giovani:
151 Ivi, p. 201.
152 «Ogni così detta società dominata dall’egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior barba-
rie» (Zib. 674).
153 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 183.
154 Ivi, p. 185.
66 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Gli ùltimi raggi di sole avèano arroventato una rastrelliera di casserole di rame, e si
èran rinfranti in una di majòliche e vetri, e fatto brillare una fila di guantiere e cuc-
chiai di ottone, dùnque, è una cucina la scena; ed io aggiungo, cucina di un'osterìa
mezzo perduta tra i monti.
[…] Guido ora pasceva la vista nella fanciulla, aggruppata al camino, e illuminata, a
tratti, dal chiaror di uno stizzo155.
L’amore come desiderio carnale si presenta invece sotto il segno della devianza in
Odio amoroso, dove il legame di sangue impedisce la liaison tra fratello e sorella. Que-
sto amore sensuale e “malato” si accompagna a lagrime, smanie e notturni al chiaro
di luna; Ines si consuma in un amore impossibile, Leopoldo, da romantico eroe impe-
tuoso, cerca conforto nelle cavalcate «alla pazza»:
Era notte; e, nelle càmere d'Ines, niun lume, ma le finestre aperte, sì che il raggio
lunare e la brezza entràvano a loro piacere. Leopoldo passò le due prime. E, nella se-
guente, era Ines, sur il poggiolo che rispondeva al giardino, seduta, e reclinando la te-
sta all'indietro contro della persiana, gli occhi velati, semichiuse le labbra, in quell'ab-
bandono di quasi-delìquio, che inonda chi pianse molto e molto si disperò. Piovèn-
dole attorno, la luna ora piangeva per lei.
[…] Leopoldo cominciò a star lungi da casa le settimane, or cavalcando alla pazza, al-
lorchè lo pigliava una fumana furiosa, or lungo disteso su 'n prato, quando la spossa-
tezza vincea l'esaltamento: Ines, gittàtasi per indisposta, più non usciva di càmera156.
A fronte di questo romanticismo gotico, l’originalità dossiana è racchiusa, piuttosto,
nei ritratti umoristici che scatenano la fantasia dell’implacabile osservatore, nonché il
solito «stile particolarissimo». Si tratta, nella prosa in questione, degli schizzi dedicati
al signor Camoletti, il «quattro-parole-un-complimento-e-un-inchino», alla stanza
della direttrice del collegio, adornata di emblemi di un’«adulazione pelosa», e all’albo
di «“Note sulle ragazze del P. A. C.” (Pensionnat Anglais Catholique)»:
E, nella mattina, venne a trovarlo il signor Camoletti, procurator suo in patria. Era
egli una miseria di uomo, dal viso color formaggio-di-Olanda, con due occhiucci ne-
rìssimi, da faìna; neri, i capelli cimati; nero, un pizzo da capra; nera, la cravattona (e
non un sìntomo di una camicia); nero, il vestito impiccato e le brache; sì che parea
ch’e’ uscisse da un calamajo in quel punto e gottasse l'inchiostro. Il corpicciolo di lui,
inquieto, le palpignenti palpèbre, le mani che non requiàvano mai, dicèvano chiaro il
155 Ivi, pp. 186-87.
156 Ivi, pp. 210-12.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 67
caràttere suo, rabattino e margniffo. Quando parlava, colui che avèssene udita sola-
mente la voce, dovea pensare «oh pappagallo d'ingegno!»157.
Leopoldo girandolava la sala. Sulle pareti di cui, oltre il ritratto del rè, muso beata-
mente intontito, gonfio dalla lussuria, era una mostra (proprio una mostra) di ada-
querelli e disegni, di prove di bella scrittura, pantòfole ricamate, ghirlande di fiori,
quadri a margheritine, iscrizioni (evviva la direttrice! viva il suo onomàstico!) tutto
disotto al vetro e in cornice; e, sopra i tavoli e i tavolini, programmi dell'istituto, maz-
zi di fiori di carta, un cestino a viglietti da vìsita, in cui stàvano a galla quelli con la co-
rona; poi, dentro uno stipo, un lucichìo di oro e d'argento... pese, coppe, un nùvolo di
tabacchiere una sull'altra come le scatolette delle sardine, e campanelli e penne e po-
sate... doni ed omaggi. Oh quanti segni di amore!... diciamo meglio... oh quanta adu-
lazione pelosa!158
«ALDIFREDI baronessina VITTORIA - diciasett'anni; naso all'in su; capelli da
Barba-Jovis; colorito di fuoco.
«Da che reggo il collegio, non mi è mai capitata una fanciulla più ghiotta. Va in se-
conda a ogni cibo. E sì che tra i pasti non fà che spazzare scàtole di canditi, e pastic-
che, e cioccolatte, e mentini! Jeri di là, ad esempio, mi ha furato e vuotato il mastellet-
to della mostarda159.
Nel capitolo XII, oltre al lacerto che commenta il titolo delle Due morali, Alberto
legge qualche altra prosa dal proprio volume, il quale vanta «non l’eleganza del ricco,
ma del signore»160. Per descrivere il gusto con cui Alberto schiude il volume, compa-
re, al solito, una metafora di ambito gastronomico: «la carta era una pànera doppia e
in essa affondavan le lèttere, come i cialdoni nella neve-di-latte»161. Il «ventre» conti-
nua a ridicolizzare «il nostro bimbo-in-cilindro», che si adira per gli errori di stampa
e protesta di non voler più mangiare, salvo poi farsi vincere dalle «note di un’armonìa
allarga-stòmaco-e-cuore» che spirano dalla lettura di una prosa dal “dolce” titolo Le
caramelle; protagonista è ancora l’infanzia, insieme ad un gesto di generosità, proget-
tato ma fallito.
In conclusione, i “frammenti” dell’Alberto Pisani rivelano il gusto per la divaga-
zione tematico-stilistica, un uso della digressione volto non all’articolazione, ma alla
disarticolazione del racconto, allo sconcerto e non all’agevolazione del lettore. Inoltre,
il progetto che assorbirà in futuro le energie di Dossi vi è già, in un certo senso ab-
bozzato: si tratta della prosa breve come esercitazione e indagine in direzione morali-
stica, destinato ad espandersi negli interminabili Ritratti umani.
157 Ivi, p. 203.
158 Ivi, pp. 204-05.
159 Ivi, p. 205.
160 Ivi, p. 215.
161 Ivi, p. 216.
68 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
2.5 Parabola discendente e incontro con la femme fatale
Prima di soffermarsi sull’interpretazione del finale della Vita di Alberto Pisani, assai
controversa, vale la pena di riassumere gli avvenimenti degli ultimi capitoli, per sot-
tolineare la brusca virata della fabula. Durante una passeggiata notturna, Alberto in-
contra Enrico Fiorelli ed è informato che Claudia Salis è in città; si ritrova così a va-
gare fino al mattino, primo segno di serio sconvolgimento. Dopo la notte, Alberto, in
preda a inquietudine e senso d’inanità, che si trasformano in un dantesco «desìo di
morte tanto soave»162, decide di partire. La preparazione dei bagagli provoca
un’esplosione centrifuga di storie, che mettono alla berlina i vecchi proprietari dei
bauli163. Al contrappunto ironico segue la ripresa delle vicende: Alberto scopre per
bocca di Fiorelli che Claudia ha letto e apprezzato il suo libro, riconoscendolo sotto lo
pseudonimo di Guido Etelrèdi. Decide dunque di far visita a Claudia, vincendo le
proprie goffe ritrosie, ma si verifica la tragedia: «Donna Claudia è morta».
Il capitolo successivo e conclusivo, si serve dunque di una rappresentazione della
donna diffusasi a partire da Praga e Tarchetti; una volta privato di vita, il personaggio
femminile innesta un processo di rituali macabri che si concludono con il suicidio del
protagonista. La svolta implica il recupero della “storia del mago”, uno dei tanti fili
tracciati; come lui e in suo nome, Alberto chiede il corpo di Claudia al becchino. Il
suicidio e, forse, l’omicidio di Claudia (l’affermazione «Un battìto! ...vive!» lascerebbe
pensare che la donna non fosse davvero morta; ma è più che lecito dubitare)164 si
compiono sull’onda della violenza generata dalla gelosia, provocata dal medaglione di
lei, probabilmente donato dal marito.
Fin troppo facile è rintracciare la letteratura che ispira tale finale: Penombre di
Praga, l’atmosfera del Re Orso di Arrigo Boito e, soprattutto, il Tarchetti di Amore
nell’arte. La follia di Alberto è accostabile a quella di Lorenzo Alviati, esito del passag-
gio di Tarchetti dalla «nobile follia» del romanzo a tesi antimilitarista a un’idea di
pazzia come risultante estrema del connubio di amore e morte165. Alberto e Lorenzo
condividono anche i tratti che delineano l’insorgere della passione artistica e, insie-
me, di una nevrosi: «Essa [l’arte] ha resa la mia fibra sì irritabile, la mia immagina-
162 Ivi, p. 232.
163 Si veda, ad esempio, il baule del canonico: «E, dietro a costoro, uno corto, a volta, peloso, mangiato
mezzo dai topi. Esso avea servito il canònico Sisto, prozìo paterno di Alberto. Puzzava ancor di caprino.
E, più di una volta e di due, avea fatto il viaggio di Roma (per ordir qualche male, s'intende) a triplo fondo
e a segreti, come il padrone» (ivi, p. 233).
164 Bigazzi si afferma convinto dell’inesistenza dell’omicidio compiuto da Alberto: «è chiaro, data la sua
gotica fantasia e data la tara fatta di continuo da Dossi alle polveri di Pimpirimpina, che si tratta solo di
un’illusione» (Bigazzi, I colori del vero, cit., p. 190).
165 Cfr. Ghidetti, Malattia, coscienza e destino, cit., p. 3.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 69
zione sì feconda, la mia sensitività sì sofferente e sì viva […]»166. Sovrapponibili sono i
corpi delle donne “adorate”, immobilizzate dalla morte nello sguardo dei loro “aman-
ti”; si guardino, in Bouvard e nella Vita, queste immagini di una bellezza non svanita:
«Bianca del muto bianco della camelia, finamente aperte le labbra, gli occhi velati, si
dormìa tranquilla, come se in luogo fuor dalle nubi del mondo. Parea sfinita d'amore.
Morte, avèala fatta sua con un bacio lievissimo»167; «un abito bianco, leggiero, quasi
vaporoso, ricopre le modeste sue forme; i suoi capelli neri e disciolti […], le sue mani
bianchissime le cadono dai fianchi coll’abbandono soave del sonno […]»168. Alla sce-
na di Bouvard Dossi sembra ispirarsi perfino nei più piccoli particolari: «ma egli non
ha ancora osato sollevare il velo che nasconde il suo volto»169; «Sotto quel fazzoletto,
era lo spasimato sembiante; avrebb'egli avuto coraggio di discoprirlo?»170.
Lo sconfinamento dell’eros nella violenza («Strappa di tasca una terzetta a due
colpi, e gliela scàrica contro»)171 poteva trovare ampia esemplificazione nelle Penom-
bre di Praga: ad esempio, ripercorrendo la sinfonia in crescendo delle Dame eleganti,
l’ultimo componimento vede affiancarsi l’aggressività («come un aratro sul suo sen
giocondo / vorrei passare / e nell’ansia vederla agonizzare»)172 alla volontà di trasci-
nare la donna nel terribile stato di disinganno del poeta, invischiandola nella noia («E
poi narrarle l’immensa amarezza / dei disinganni; / dirle la noia che precede gli an-
ni»). Chiaro è il tributo pagato alle Fleurs du Mal: «Ainsi je voudrais, une nuit, / […]
comme un lâche, ramper sans bruit / Pour châtier ta chair joyeuse […] T’infuser mon
venin, ma soeur!» (À celle qui est trop gaie; Les épaves, V).
L’interpretazione del finale della Vita è ancora aperta e, soprattutto, i critici si
domandano se la conclusione sia stata concepita come seria o parodica. Bigazzi so-
stiene che il finale della della Vita rappresenta il punto di massimo distacco tra il nar-
ratore e il suo personaggio: «Carlo registra volentieri con Alberto il male, l’assurdo, la
contraddizione, il marciume imperante, ma dà torto al suo “puntiglio” donchisciotte-
sco di stare in mezzo ai “cavalloni di legno”»173.
166 I. U. Tarchetti, Lorenzo Alviati, in Id., Tutte le opere, cit., I, p. 569.
167 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 241.
168 I. U. Tarchetti, Bouvard, in Id., Tutte le opere, cit., I, pp. 654-55.
169 Ivi, p. 655.
170 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 241. Ancora un’altra citazione, che peraltro non esaurisce le somi-
glianze: «Ah!... egli ha scorto, tra le socchiuse palpèbre, rianimàrsele l'occhio. E le apre, o meglio, le strac-
cia, in sul petto, la veste; e le preme la mano sopra il nudo del cuore... » (ivi, p. 242); «Nel suo atto violento
egli ha scoperto una parte del seno della donna: essa gli appare come una statua rovesciata di Fidia, come
una di quelle immagini di vergine greca che il turbine ha divelte dalla loro base» (Tarchetti, Bouvard, cit.,
p. 658).
171 Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. 242.
172 Praga, Poesie, cit., p. 146.
173 Bigazzi, I colori del vero, cit., p. 190.
70 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Secondo Spera, il finale si inscrive nella parabola dell’artista e, insieme, nella «pa-
rodia del demoniaco»: l’artista si sente colpevole perché ha abbandonato il corpo so-
ciale per legarsi all’illusione dell’arte, ma, allo stesso tempo, si dichiara vittima e, tra-
scurato dal genitore e dalla società, opera la scelta dell’arte fino all’autodistruzione
come riscatto e sfida. La tematica di amore-morte è investita però, secondo Spera,
dalla parodia, evidente sintomo di dissacrazione: il dramma di Alberto Pisani è di vo-
ler vivere nella e per la letteratura, andando incontro non solo alla sconfitta, ma an-
che al ridicolo174.
Saccone osserva il suicidio di Alberto sullo sfondo del gesto eroico “alla Ortis” e
della «tarchettiana “nobile follia”», notando poi la significativa assenza della «voce
esplicita dell’autore» e la presenza del corsivo come marca della citazione, ultimo se-
gnale di un «risvolto parodico-grottesco»175. Luigi Sasso, reimpostando i termini del
problema, sostiene che la maschera dell’artista maudit è uno dei topoi narrativi intra-
presi e poi abbandonati dal narratore: il finale, come i raccontini, si iscrive in
quell’urgenza dossiana di percorrere diversi temi e generi di scrittura, per poi lasciar-
seli alle spalle (racconto nero, ossessione, amore incestuoso, necrofilia); secondo Sas-
so tutto contribuisce, nella Vita, a ribadire «che la letteratura è una menzogna, ma
proprio per questo rivelatrice, che la finzione ci mostra il senso e la profondità delle
cose»176.
A queste interpretazioni si può aggiungere forse un altro elemento, sottolineando
l’evento che produce, nell’intreccio, un simile cambiamento di rotta: l’avvicinamento
di un personaggio femminile. Sembrerebbe quasi che il narratore sia stato preso dalla
stessa riluttanza del protagonista di fronte all’idea di un incontro risolutivo con
l’amata, che adesso conosce Alberto, come egli si augurava, tramite i suoi scritti e for-
se prova per lui una particolare simpatia (la sua difesa dell’autore di fronte a estranei
è un dato di fatto). Così, se Alberto si è deciso a disfare i bauli per incontrarla, il nar-
ratore prende invece la via della fuga «in China». «Alberto pensò […], che, presen-
tandosi a lei, perderebbe a un tratto quel fil sottile di amore, che con sì grande fatica
avea giunto, e dopo tanto desìo»177; allo stesso modo, il narratore sembra non sentirsi
in grado di mettere in scena l’incontro tanto sospirato con Claudia, temendo di per-
dere il «fil» che ha intessuto con il lettore.
174 Cfr. F. Spera, Il principio dell’antiletteratura: Dossi - Faldella - Imbriani, Liguori, Napoli 1976. Spera
aggiunge che il distacco dal demoniaco è solo apparentemente compiuto, perché, se fosse il contrario, la
parodia non esisterebbe.
175 A. Saccone, «Lettori miei; conterò intanto una storia». Dossi e la disseminazione dell’intrigo. In margine
alla “Vita di Alberto Pisani”, in Effetto Sterne, cit., p. 291.
176 L. Sasso, Prefazione, in Dossi, Vita di Alberto Pisani, cit., p. XXV.
177 Id., Vita di Alberto Pisani, cit., p. 236.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 71
Il romanzo-autobiografia finisce qua, né avrebbe potuto continuare con la messa
in scena di un incontro felice con il mondo femminile, a cui il narratore stesso sem-
brava guardare con preoccupazione, rischiando di compromettere quell’idea iniziale
di «romanzo-autobiografia». È raro, peraltro, vedere agire personaggi femminili negli
scritti dossiani di questi anni e dei precedenti, a meno che non si tratti della madre o
di Lisa dell’Altrieri: le figure femminili rimangono eteree e lontane, e tanto meno so-
no dotate di pensiero e di parola; hanno vita finché il protagonista le osserva da una
poltrona lontana, in teatro. Così, in vista di un incontro con l’universo femminile, il
narratore prende in prestito una ben nota modalità macabra scapigliata, introducen-
done gli elementi tematico-stilistici. La comparsa della figura dell’artista maudit, e il
conseguente finale, potrebbe essere dunque legata alla necessità di affrontare il mon-
do della donna, desiderio e fine ultimo della parabola di Alberto Pisani, dagli amori
infantili all’infatuazione, ben più seria, per Claudia Salis, musa, destinataria e lettrice
delle Due morali.
In una nota azzurra scritta sicuramente dopo l’esperienza del romanzo, Dossi, da
buon “frammentista”, pone in risalto, aforisticamente, la difficoltà di conchiudere la
narrazione;
Fortunato quello scrittor di romanzi, che, come Manzoni, ha lì sottomano sulla fine
del suo libro, una buona peste che lo sbarazza de’ suoi personaggi! La solita fine d'o-
gni romanzo e d'ogni vita è la morte, o quanto torna lo stesso, il matrimonio178.
Sotto questa luce la conclusione macabro-scapigliata appare, dunque, come una sorta
di «peste», che «sbarazza» il narratore «de’ suoi personaggi» mettendo in scena «la
solita fine d’ogni romanzo e d’ogni vita»: «la morte».
Si potrebbe aggiungere che, al contrario di Alberto Pisani e, soprattutto, diversa-
mente dagli Scapigliati della prima generazione, che vissero fino in fondo la loro tra-
gedia, Dossi avrebbe sostenuto, più cautamente: «ben mi stava di vivere s’anco avessi
perduto l’amore»179, come affermava il Carlino nieviano. Quest’ultimo però si riferiva
alle rinnovate speranze per l’unità d’Italia; l’affermazione di Dossi fa perno invece,
piuttosto, sulla “seconda morale” enunciata nella Vita, guidata dal «buonsenso» ed
estranea, nel bene e nel male, ad ogni estremismo.
178 NA 3119, in Id., Note azzurre, cit., p. 349.
179 Cfr. il cap. decimosesto in Nievo, Le confessioni d’un Italiano, cit., pp. 709-10 (si veda anche M. Gorra,
Introduzione, ivi, pp. XXI-XXII).
72 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
2.6 Dossi e la narrativa umoristica: alcune idee e modelli
Nel suo “zibaldone di pensieri”, redatto a partire dal 1870180, Dossi afferma insisten-
temente di ritenersi un autore umorista, nell’intento di immettersi in una tradizione
italiana ed europea che legittimi le sue «bizzarrie», quali una lingua incline al pastiche
(soprattutto per la prima produzione), una sintassi che tende ad esplodere nella di-
gressione ingiustificata e una predilezione per la prosa breve, piuttosto che per strut-
ture narrative di ampio respiro.
Il filone della narrativa umoristica, «aureo ma discontinuo», attraversa l’intero
Ottocento italiano, ed i suoi tratti sono ben compendiati da Gino Tellini: «erede della
saggistica settecentesca e della lezione di Sterne, dunque prossimo al Foscolo didimeo
e al suo vagheggiato romanzo “impossibile”» il racconto umoristico è legato
all’attualità e all’esperienza dell’io, «riflessivo e divagante, decentrato e frammenta-
to»181. La programmatica «distruzione del limite» che caratterizza l’«umore» secondo
Francesco De Sanctis182 e il modo (sconveniente, secondo Paride Zajotti) in cui, con
l’umorismo, «si allenta alla imaginazione ogni freno»183 producono una varietà di
sperimentazioni, che esplorano ambiti letterari e ideologici anche distanti tra loro.
Due sono però le direzioni, a ricercare una classificazione, in cui si volge la narrativa
umoristica: da una parte ci si muove sulla traccia dell’«originaria matrice etico-
riflessiva di origine settecentesca», con uno sviluppo che potrebbe annoverare
l’esempio grande e isolato delle Operette morali di Leopardi; dall’altra si tende a privi-
legiare il gusto dell’«eccentrico» e del «pittoresco»184. Dossi combina, nell’ambito del-
180 Ripercorrendo le Note azzurre, si deve tener conto che esse non seguono un ordine cronologico rigoro-
so. La loro stesura comincia nel 1870 e finisce nel 1907; secondo Isella «in linea di massima, si può asseri-
re che il numero più cospicuo di note, fino grosso modo alla n. 4250, sia da attribuire al periodo 1870-1877
[…]; le milleduecento successive, circa, agli anni romani 1878-1890; le rimanenti, poco più di trecento, al
periodo più tardo» (D. Isella, Nota al testo, in Dossi, Note azzurre, cit., pp. XXX-XXXI).
181 G. Tellini, Il romanzo italiano dell’Ottocento e del Novecento, Mondadori, Milano 1998, p. 82; per un
approfondimento, si veda Id., Appunti sulla prosa italiana dell’Ottocento, in L’arte della prosa. Alfieri, Le-
opardi, Tommaseo e altri, La Nuova Italia, Firenze 1995, pp. 1-39.
182 F. De Sanctis, Il «Giornale di un viaggio nella Svizzera durante l’agosto del 1854» per Girolamo Bonami-
ci (1856), in Id., Opere. Saggi critici, a c. di L. Russo, I, Laterza, Bari 1952, p. 248; per le definizioni di De
Sanctis e di Zajotti cfr. Tellini, Il romanzo italiano dell’Ottocento e del Novecento, cit., pp. 82-83.
183 P. Zajotti, Del romanzo in generale ed anche dei Promessi Sposi, romanzo di Alessandro Manzoni
(1827), in Id., Polemiche letterarie, a c. di R. Turchi, Liviana, Padova 1982, pp. 196-97. Roberta Turchi
sottolinea, nell’Introduzione, la «solida cultura europea» dello Zajotti, che, forte di una «conoscenza diret-
ta della produzione romantica in lingua tedesca», introduceva, «a proposito dei romanzi umoristici, il
nome addirittura ignorato di Jean Paul», individuandone le opere fondamentali (cfr. ivi, p. XXIV).
184 Tellini, Il romanzo italiano dell’Ottocento e del Novecento, cit., p. 87.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 73
la sua produzione, entrambi i caratteri, riflessione ed eccentricità, anche se è la se-
conda ratio che maggiormente lo caratterizza e lo guida185.
Preoccupandosi di dare una definizione dell’umorismo, Dossi sottolinea ripetu-
tamente come esso racchiuda in sé «satira» e «insegnamento»:
A costituire l'umorismo che è a un tempo satira e insegnamento, l'apparente giulleria
deve basare su un fondo della più incrollabile e severa verità. - Il poeta umorista è ai
popoli, ciò che i fous erano una volta ai re - il dicitore della verità - Piglia la veste di
pazzo per poter dire cose saggie186.
La definizione di “satira” è utilizzata in modo leggermente scorretto, considerando
che essa ha fin dall’antichità, per antonomasia, un fine morale, e che
l’«insegnamento» non è da essa disgiunto. La separazione dei due concetti è degna di
essere rimarcata; sembra che Dossi l’abbia operata proprio per mettere in risalto il
carattere morale del proprio umorismo, che si traduce, in ultima analisi, in una pro-
testa di autenticità e di schiettezza: la maschera del poeta umorista permette di di-
chiarare, sotto «la veste del pazzo», la verità.
Un’altra nota esemplifica un’ulteriore distinzione tra satira e umorismo, stavolta
più sottile:
Nella Satira si trova è vero una delle fonti dell’Umorismo odierno, ma l’Umorismo
non è tutto satira: esso trae anche le sue origini da quella parte di letteratura semi-
conosciuta dagli antichi, benché corrispondesse ad un affetto che naturalmente dove-
vano anch’essi sentire, il πάΘος -187.
Nell’umorismo si uniscono dunque due componenti, il riso della satira e il pathos,
che sarà da intendere come sofferenza, intensità di sentimento. L’incontro tra pathos
e satira, che, secondo Dossi, l’antichità non conosceva, è alla base dell’umorismo mo-
derno; tale commistione tra tristitia e hilaritas viene messa in risalto anche attraverso
il motto di Giordano Bruno, il quale è ricordato, per le sentenze celebri, tra gli umori-
sti:
185 Sulla narrativa umoristica fondamentale anche il vol. Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia
da Foscolo a Pirandello, cit.; cfr. in particolare, A. Saccone, «Lettori miei; conterò intanto una storia». Dos-
si e la disseminazione dell’intrigo: in margine alla «Vita di Alberto Pisani», ivi, pp. 264-93.
186 NA 1590, in Dossi, Note azzurre, cit., pp. 96-97.
187 NA 2434, ivi, p. 220.
74 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Il motto di Bruno era, «in tristitia hilaris, in hilaritate tristis» che potrebbe essere il
motto dell'Umorismo - Per la lingua da lui usata diceva «chi m’insegnò a parlare fu la
balia»188.
Di questa commistione proficua, nell’umorismo, tra riso e lacrime aveva già fatto
cenno lo steso Tarchetti, che l’aveva d’altronde praticata, come si è visto, ad esempio
con l’Innamorato della montagna.
L’umorismo risponde, per Dossi, ad una ben precisa visione del mondo: l’uomo
ha perso l’«entusiasmo» della conoscenza intesa come dominio (razionale o metafisi-
co) sulla realtà e deve abituarsi, sempre più, allo «scetticismo».
Ogni giorno la Scienza strappa qualche penna all'entusiasmo. È necessaria quindi una
nuova letteratura, che possa vivere senza questo entusiasmo, poichè l’antica fondava
tutta su di esso. La nuova letteratura non può che essere la umoristica. - La scienza
dubita, e così l'umorismo -189
I progressi della scienza si devono allo scetticismo. La scienza dell'oggidì basa tutta su
lui - e però, anche la letteratura per essere contemporanea deve corrispondere alla
scienza e quindi essere scettica, che è quanto dire umorista190.
L'umorismo è la letteratura dello scetticismo. L'uomo andò sempre più allontanando-
si dalla fede. Il bimbo, nato oggi, è incredulo. Lo scetticismo nell'antichità era una po-
sa, una ingegnosità, una classe academica: oggi è un sentimento: è la sola spontaneità
che ci sia rimasta191.
L’umorismo non poteva sorger completo che in un epoca di scetticismo192.
Già Praga e Tarchetti avevano posto il «dubbio» alla base della condizione
dell’uomo moderno. In Nox193 di Praga, l’io poetico si rappresenta, in seguito a una
leopardiana perdita dell’infanzia («e il mesto cuore interrogo dei tante larve amante, /
su tante care imagini / nei dì perduti errante»), in preda al «dubbio torvo e altiero»,
«in manto nero», rappresentato con fattezze demoniache («coll’ugna rea mi spre-
me»)194. Perfino nella più tarda Manzoni (Trasparenze, poesia datata «22 maggio
188 NA 2416, ivi, p. 217.
189 NA 1255, ivi, p. 79.
190 NA 1758, ivi, p. 113.
191 NA 2267, ivi, p. 162.
192 NA 2172, ivi, p. 148.
193 Praga, Poesie, cit., pp. 126-28.
194 È interessante soffermarsi sul proseguimento della poesia. I cattolici dormono, per meglio immaginare
Dio, nel sonno della ragione («Dormi: la notte è fertile / di sante apparizioni»); la loro definizione, «pro-
Il primo Dossi: in direzione del frammento 75
1873»)195, tra palinodia e riaffermazione della propria esperienza scapigliata, la dia-
gnosi del male di fine secolo non è cambiata:
Noi vaghiam nell’Ignoto. I figli siamo
Del Dubbio (oh i grandi estinti!),
siamo i reietti, i fuggiti da Adamo,
dal ciel, dal fango vinti!
La forza del dubbio e la fine della fede tormentano in egual misura il narratore in Ric-
cardo Waitzen di Tarchetti: «la fede è finita […] il dubbio solo è grande, sconfinato
come l’universo, incommensurabile come l’oceano, profondo e tenebroso come gli
abissi dell’anima umana: […] una sola fede esiste, quella del dubbio»196.
Del resto proprio Tarchetti, nel suo lato “sterniano”, «doveva essere identificato
dall’énclave letteraria di cui faceva parte», afferma Muscariello, «come un illustre epi-
gono dello scrittore irlandese»197. Nonostante non risulti una sola nota azzurra dedi-
cata a Tarchetti, il tributo di Dossi, soprattutto agli esordi, pagato al recente scompar-
so è quasi esplicito, e si trova ad essere confermato, come afferma Ghidetti, da una
lettera in cui Dossi gli attribuisce il ruolo di maestro198.
Chi si è occupato di Tarchetti umorista si è trovato di fronte indizi molteplici di
una narrativa “sterniana”, ma ha anche dovuto mettere in luce i «contorni» della
«mappa delle deroghe al patto umoristico»199. L’umorismo offre invece a Dossi una
genie d’Abele», spinge al paragone con Abel et Caïn (Fleurs du Mal, CXIX: «Race d’Abel, dors, bois et
mange» corrisponde «Dormi nei letti tiepidi, o progenie d’Abele»). Il poeta si riconosce invece nella razza
di Caino e, in contrapposizione ai credenti, si rinchiude nel buio e nel silenzio, rivolgendosi in direzione
dell’inconscio, pur senza arrivare ad abbracciarne il fondo: «io veglio, col mio negro compagno […]. Poi-
ché il silenzio è un angelo, / e un sacerdote anch’esso, / e contemplar le tenebre / è contemplar se stesso».
195 Praga, Poesie, cit., pp. 307-10. Per la storia del testo, comprese le sue pubblicazioni su rivista, si veda
Paccagnini, Emilio Praga: versi italiani e francesi dispersi, cit., pp. 90-91.
196 Tarchetti, Tutte le opere, cit., I, p. 604-05.
197 Muscariello, L’umorismo di Iginio Ugo Tarchetti ovvero la passione delle opinioni, cit., p. 241. Già Ghi-
detti affermava: «non sarà inutile ricordare […] che in ambiente scapigliato la lezione sterniana sarebbe
stata ripresa attraverso la mediazione di Tarchetti» (Ghidetti, Tarchetti e la Scapigliatura lombarda, cit.,
pp. 72-73).
198 La lettera è citata da Ghidetti: «Ma a proposito dell’educazione intellettuale del Dossi si potrebbe ob-
biettare che le prime opere di lui si situano in quella zona di decadenza romantica che era stata il punto
d’arrivo (sia pure con aperture decadentistiche) di uno scrittore come il Tarchetti, al quale, fra l’altro, nel
’69, come risulta da un breve documento epistolare ai più ignoto, il giovane si rivolgeva come ad un mae-
stro» (E. Ghidetti, Rec. a C. Dossi, Le Note azzurre, «La Rassegna della letteratura italiana», LXX (serie
VII), 1, gennaio-aprile 1966, p. 190).
199 Muscariello, L’umorismo di Iginio Ugo Tarchetti, cit., p. 261. Secondo l’autore, «Tarchetti […] non rie-
sce a fare in modo che le sue passioni, per quanto miniaturizzate, deformate, occultate e rovesciate, ab-
76 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
possibile via d’uscita da una condizione di impasse tipicamente scapigliata, in quanto,
come afferma Saccone, si tratta dell’«unica prospettiva di conoscenza (nonché risorsa
espressiva) praticabile nella trama del moderno»200.
C’è una riflessione sull’incidenza storica dell’umorismo che rivela la sensazione,
da Dossi condivisa con la Scapigliatura, di vivere in un’epoca di profonda transizione:
La letteratura Umoristica non dà fuori, che in quelle epoche nelle quali tutte le regole
della vita antecedente sembrano andare a fascio. Nota l’U[morismo] all’epoca della
Riforma – della Rivoluzione francese – della Riv. Umana201.
Il progetto, ripetuto quasi in modo ossessivo, di ricostruire una «storia
dell’umorismo» nella quale inserire se stesso sembra porsi al culmine di un percorso
di morte dei padri (si dichiara grande ammirazione per Manzoni, ma si rovescia la
sua poetica) e di faticosa ricerca di una nuova tradizione. A proposito dell’evoluzione
italiana dell’umorismo, Dossi afferma:
L'umorismo in Italia ebbe assai pena a manifestarsi. Le tradizioni gloriose di una fa-
miglia traggono spesso la famiglia in rovina. L'Italia credette sempre e troppo in Gre-
cia ed in Roma, e ne abbiamo le prove nelle opere fin dei più illustri esprimitori del
proprio tempo e dei più propensi alla moderna letteratura, come nel «Giulio» di Giu-
seppe Rovani. - Per contro l'Umorismo, non inceppato da questa esagerata venera-
zione al passato procedette più svelto negli altri paesi e specialmente in quelli che sta-
vano fuori dalle tradizioni del genio greco-latino202.
Dei generi dell’Umorismo, nell’inglese domina la vena sentimentale (Sterne) – nel
francese, la scettica (Rabelais) – nel tedesco, la vena della bizzarria (Richter) – mentre
l’italiano conserva finora in tutto sobrietà – forse perché inceppato dalla tradizione
classica203.
L’Italia dunque mancherebbe di una salda tradizione di umoristi liberi da «sobrietà»,
per un’esagerata venerazione del passato, per il supremo classicismo che “comprime”
biano, nel corpus “didimeo”, “il calore di fiamma lontana”» (ivi, p. 262). Ghidetti notava, a proposito della
differenza tra Giovanni Rajberti e Tarchetti, che «gli intenti polemici» di quest’ultimo «non si risolvono
mai nell’esercizio di un controllato umorismo, ma decantano piuttosto la loro urgenza autobiografica
attraverso il filo dell’ironia sull’esempio del Didimo foscoliano» (Ghidetti, Tarchetti e la Scapigliatura
lombarda, cit., p. 73).
200 Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine, cit., p. 34.
201 NA 1886a, in Dossi, Note azzurre, cit., p. 125.
202 NA 2269, ivi, p. 163.
203 NA 1749, ivi, p. 111.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 77
«l’inquietudine della ricerca»204 nonché, come si accenna altrove, per l’immobilismo
legato alla forte tradizione cattolica («L'Umorismo in Italia. Perchè l'Italia appaja per
l'ultima. In Italia, col papato la sede della immobilità, e delle tradiz. Romane»)205. Se le
lingue antiche stentano a piegarsi all’umorismo, l’interesse dossiano è diretto, con si-
curezza, verso gli autori della tarda latinità («epoca di decadenza di lingua - come di-
cono i pedanti -»), dove dominano l’impasto linguistico, la commistione tra i registri
e il gusto per l’invenzione iperbolica; ecco dunque i nomi di Giovenale, Apuleio e Pe-
tronio:
Apulei metamorphoseon <favola milesia> - (epoca di Antonino Pio). Apulejo è un
mezzo umorista - Nato in epoca di decadenza di lingua - come dicono i pedanti - in-
venta anche lui parole etc., ma l’apparente trascurataggine del suo sermone è frutto
invece di lunghi studi. - Il suo stile somiglia a quello di Petronio. <Come la gravità del
sermone latino mal s’attagliasse alla elasticità umoristica. Per quanto Apulejo e Pe-
tronio cerchino di galanteggiare colla lor lingua - questa lor non accorda che una
mezza confidenza.>206
Anche nell’Europa moderna, però, si stenta a riconoscere il valore degli umoristi,
com’è testimoniato dalle vicende di Jean Paul:
204 NA 2269, cit.
205 NA 2068, ivi, p. 140. La NA 2068 propone, schematicamente, tutte le tappe di una possibile storia
dell’umorismo in Italia: «Nelle prime pagine di una storia dell'umorismo in Italia, ancora in mente Dei et
Dossi - la materia potrebbe essere divisa come segue. - Libro I°.1°. Che cosa sia l'umorismo. Falsi giudizi. -
2°. Distinzione tra comicità e umorismo. - 3°. Traccie d'umorismo nell'antichità, perchè spec. nei comici -
attico sale, urbanità, naso. Roma meno adatta della Grecia all'atteggiamento umoristico. 4°. Come e per-
chè nell'antichità non ci fosse letteratura umoristica nel vero senso della parola. 5°. Come la letteratura
debba informarsi allo spirito dei tempi. 6°. Del nessun valore che hanno quelle opere letterarie inutili alla
storia, essendo scopo eterno dell'umanità l'allungarsi la vita, mercè la memoria. - 7°. Non vivere se non
quelli artisti che colle loro opere fanno storia. - Libro II°. 8°. Quale sia lo spirito dominante nel tempo
presente. Scetticismo. Se lo scetticismo sia indizio di decadenza o no. Scett. odierno diverso dall'antico. -
9°. Come l'umorismo sia la sua unica manifestazione letteraria. - 10°. Degli addentellati fra tempo e tem-
po. - 11°. Influenza della Riforma religiosa sull'Umorismo. - 12°. Perchè del suo principale allargarsi in
Germania e in Inghilterra, trionfante poi in Francia. - 13°. Tentativi repressi in Francia e in Ispagna,
trionfanti poi in Francia - Libro III°. 14°. L'Umorismo in Italia. Perchè l'Italia appaja per l'ultima. In Italia,
col papato la sede della immobilità, e delle tradiz. Romane - 15°. Germi di umorismo negli antichi scritto-
ri - soffocati dal rinascimento neogrecolatino. - 16°. L'umorismo latente nei poeti dialettali. - 17°. Tarda
appare l'Italia nel campo dell'umorismo, ma abbastanza a tempo per porsi innanzi a tutte le altre nazioni.
E' il re che appare ultimo in scena. - 18°. Manzoni il primo umorista completo d'Italia. - 19°. Rovani. - 20°.
Dossi. - Conclusione» (ivi, pp. 139-40).
206 NA 2985, ivi, p. 339.
78 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Per le stesse ragioni, penò assai anche in Francia. Rabelais e Montaigne rimasero per
lungo tempo senza figli. La notte di S. Bartolomeo e la revoca dell’Editto di Nantes,
soffocando il libero esame ecc., stroppiarono in fascie l’humour, comprimendo l'in-
quietudine della ricerca. Fino a Voltaire non possiamo contare di lui che poche grida
dì piazza (Fronda ecc.), fiocamente echeggiate nelle mute pareti della Academia fran-
cese, la gelosa guardiana del classicismo di seconda mano207.
Goethe e Schiller avevano ripugnanza per Richter. Difatti i primi erano i rappresen-
tanti di letterature che si chiudevano, e Richter quello di una che si apriva208.
L’humour è dunque riportato anche uno spirito di tipo “protestante”, che favorisce «il
libero esame» delle Scritture e, per estensione, di se stessi; all’umorismo pertiene in-
fatti un’«inquietudine della ricerca», nei termini della già citata esibizione di verità
dei fous.
In generale, la mancanza di «humour», è ravvisata e criticata come tratto ricor-
rente nel “canone” degli autori più letti e studiati, che tende a obliterare le opere in
«stile minchionatorio». È interessante che, tra gli autori “umoristi”, Dossi indichi a
più riprese Dante, Manzoni, Shakespeare e Richter209. I riferimenti a Dante, oggi
spesso citato a capostipite della linea “espressionistica” continiana, e al principio della
varietas tonale shakespeariana bastano, da soli, a far intuire come il concetto dossiano
di umorismo fosse legato ad un atteggiamento gnoseologico e, insieme, ad una mae-
stranza stilistica all’insegna della commistione di generi e toni.
Più volte Dossi sottolinea, poi, l’umorismo di Manzoni, con il fine di legittimarsi
all’interno della tradizione lombarda (pur sapendo bene di costituirne «la grappa»);
ma l’autore dei Promessi sposi è anche, più volte, citato e ripreso proprio scegliendo
gli episodi in cui l’«humour» aveva raggiunto le soluzioni stilistiche più felici, come la
biblioteca di Don Ferrante o l’uso semplicistico del termine “Provvidenza”. La cita-
zione di Manzoni accanto al Dante “plurilinguista” e la predilezione di certi episodi
del romanzo rivelano una lettura acuta e innovativa dei Promessi Sposi, che mette in
luce un aspetto trascurato nella vulgata allora dominante. Dossi avrebbe potuto con-
cordare con la rilettura del romanzo in chiave “espressivistica” che propone Vittore
Branca, il quale, non a caso, fa poi riferimento all’“ironia”:
207 NA 2269, cit., p. 163.
208 NA 3047, ivi, p. 343.
209 Cfr. NA 2171, ivi, p. 148: «In lett. e credo anche in musica – è tra i caratteri del genio lo stile, a volte,
minchionatorio. Chi sta sempre serio – e non sa ridere mai o ride male, è un genio incompleto, come A-
leardi, come Foscolo, come Verdi. La vera sojatura l'hanno invece Dante, Manzoni, Rossini, Shakespeare,
Richter ecc. -».
Il primo Dossi: in direzione del frammento 79
le deformazioni falso-seicentesche e gli interventi di meneghino intellettualizzato
all’estremo, gli spagnolismi in chiave grottesca, sono fatti brillare persino nel tessuto
razionalizzato e studiatissimo dei Promessi Sposi, e ne lievitano i sottintesi ironici210.
Un altro carattere che accomuna il romanzo manzoniano alle opere dei grandi
umoristi è per Dossi l’“universalità”, intesa come capacità di mettere in gioco svariati
temi e tonalità: «Manzoni, libro universale: tutti vi possono imparare, dalla portinaia
all'astronomo»211. Né Dossi rinuncia a rintracciare nell’autore dei Promessi Sposi una
qualità essenziale degli autori umoristi, ovvero il presentare, sotto le spoglie di una
storia, se stessi: «Manzoni, ne’ suoi libri, presenta lui stesso»212. Per comprendere co-
me Dossi si rivolgesse al “suo” Manzoni, si noti ad esempio come, proprio in lui, cer-
casse una parziale autorizzazione per la mise en valeur del dialetto:
Dei dialetti. - Nè etimolog[icamen]te nè razional[ment]e differiscono dalle lingue. -
Manzoni che sapeva quel che si faceva, in una sua lettera, parlando del milanese, dice
lingua, non dialetto -213
Talvolta Dossi sembra addirittura attribuire a Manzoni un modo di procedere
che, in realtà, svela piuttosto una tecnica della propria fucina letteraria, ovvero la fa-
coltà di costruire una prosa a partire dal fascino di motti arguti e «imagini ardite» (al-
trove, infatti, Dossi afferma che suggestioni linguistiche lo hanno condotto alla Colo-
nia felice):
Prov. spagnoli «A juezes Gallicianos, con los pies en las manos» andate cioè a trovare
i giudici di Galizia con dei polli in mano. E parebbe che Manzoni avesse dinanzi que-
sto proverbio descrivendo la magnifica scena di Renzo coi pollastri, in casa del dottor
Azzeccagarbugli214.
Guerrazzi è criticato, in opposizione a Manzoni, per ragioni ideologiche, che si
accompagnano a forti riserve riguardo allo stile e alla mancanza di umorismo:
210 V. Branca, Prime parole, in Atti del Convegno sul tema: L'espressivismo linguistico nella letteratura ita-
liana, cit., p. 14.
211 NA 1671, in Dossi, Note azzurre, cit., p. 101.
212 Ivi, p. 102.
213 NA 2337, ivi, p. 180.
214 La nota prosegue: «- Vino de una oreja - ossia buon vino, perchè chi scuote la testa mostrando così le
due orecchie dà segno che il vino che beve non gli piace, al contrario di chi soddisfatto di quanto beve,
china la testa verso il bicchiere e così mostra una orecchia sola. E poi si dice che le imagini ardite non
hanno popolarità! <Altra frase ardita e pittorica è quella che si usa in Borgogna per indicare taluno che
mangia male per vestir bene “ha budella di velluto e di seta”.>» (NA 4245, ivi, pp. 564-65).
80 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Che mi diventa lo sproloquio guerrazziano a fronte la manzoniana sobrietà?... Guer-
razzi scrisse libri (e troppi), Manzoni li meditò. - Guerrazzi, come Verdi, non seppe
mai ridere! Manzoni, come Rossini e Shakspeare, rise e pianse in modo insuperabi-
le215.
Per la totale mancanza, secondo la lettura dossiana, di humour, Leopardi è condanna-
to e Foscolo fortemente ridimensionato:
Foscolo e Leopardi non sono umoristi... Due creazioni incomplete perchè incapaci al
riso. V. ad es. la Palinodia dell'uno - e le lettere giocose di Foscolo al Giovio, oltre alla
sua pessima traduzione di Sterne216.
Foscolo non umorista. - Il suo «Gazzettino del bel mondo» scritto senza pre-
meditazione, tolto dal calamajo man mano; è anch'esso tutto impedantito da citazioni
etc. - è il galanteggiare di un elefante. - La splendida bile di Foscolo, già preannuncia-
ta dal suo nome, φῶς, luce e χόλος, bile217.
Né la traduzione del Viaggio sentimentale né il Gazzettino del bel mondo (nella ver-
sione, evidentemente, dell’Orlandini)218 sono degni di stima e la produzione che do-
vrebbe contribuire a promuovere Foscolo in una prospettiva umorista (com’era stato,
invece, per Tarchetti)219 è liquidata in poche battute. Eppure Didimo è citato, in una
maniera leggermente polemica, che pur è indizio d’interesse: «Nessun frizzo se non
una volta, e per non ricaderci lesse i quattro evangeli (id.) [vita di Didimo Chierico di
Foscolo] (eppure nell’Ev. c'è il famoso frizzo del Pietro su questa pietra ecc.)»220. In
un altro caso, ad essere citata è la prefazione di Didimo Chierico che accompagna la
traduzione sterniana: «Comune a tutti gli umoristi è l’odio contro i falsi dotti (V. pref.
215 NA 1672, ivi, p. 102.
216 NA 2311, ivi, p. 172.
217 NA 3094, ivi, p. 346.
218 Cfr. a proposito M. Fubini, Introduzione, in U. Foscolo, Opere, V, Prose varie d’arte, Le Monnier, Fi-
renze 1951, pp. LXIV-IX.
219 Tarchetti apprezzava appunto di Foscolo, come ricordava già Nardi, I Sepolcri, Jacopo Ortis, e la tradu-
zione del Viaggio Sentimentale (cfr. P. Nardi, Scapigliatura. Da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, Zanichelli,
Bologna 1924, p. 61).
220 NA 4341, in Dossi, Note azzurre, cit., p. 576; la citazione, tratta dalla Notizia intorno a Didimo Chierico,
contiene una scorrettezza («evangeli»>«evangelisti»; cfr. Foscolo, Prose varie d’arte, cit., p. 183). Altrove,
Foscolo è citato, positivamente, a sostegno delle idee dossiane sulla lingua: «Tutte le lingue, e la italiana
più ch'altre, s'arrendono ad ogni trasformazione a chiunque può e sa far obbedire la lingua al genio (id.
[Foscolo], id. [art. ingl.]) - E ciò può contrapporsi alla frase di Giuseppe Ferrari, «la lingua italiana è lin-
gua reazionaria» forse perchè non la sapeva adoprare (NA 3938, in Dossi, Note azzurre, cit., pp. 526-27).
Il primo Dossi: in direzione del frammento 81
di Didimo Chierico al Viaggio Sentimentale dello Sterne) e contro i camminatori per
le vie trite»221. È possibile ipotizzare che Dossi fosse piuttosto restio a riconoscere al
Foscolo sterniano, e al suo ammiratore Tarchetti, il giusto peso che avevano avuto
nella sua stessa formazione.
D’altro lato, Dossi imputava probabilmente a Foscolo traduttore («pessima tra-
duzione») il difetto che quest’ultimo stesso paventava: «per l’obbligo di provvedere di
frasi e d’idiotismi gentili il mio gracile testo, temo di essere incorso nell’affettazione
cruschevole»222. Di Foscolo si apprezza e si cita, semmai, l’epistolario:
Paolo Mamezio frequentemente spendeva un mese a scrivere una sola lettera. Conf. i
fabb[ricati] epistolari di Cicerone e di Plinio - e di Giusti - e lo spontaneo di Fosco-
lo223.
Dall’epistolario è tratta, ad esempio, la definizione di Milano come «Paneropoli», che
secondo Dossi è «umoristica lezione di Poneropoli» del Rabelais224.
Tanto è apprezzata, dunque, una lingua media impreziosita da invenzioni in di-
rezione espressivista, quanto è invece distanziata, in un’ideale piramide di modelli,
una scrittura «impedantita» da citazioni: quella «matrice etico-riflessiva» di origine
settecentesca, quel procedere per argomentazioni e citazioni che frenano
l’espressione “spontanea” e controllano il divenire della prosa disturbano, secondo
Dossi, l’umorismo moderno. In una distinzione tra “leggerezza” e “pesantezza” ante
Italo Calvino, Dossi si pone senza esitazioni sulla prima sponda (con l’ausilio dello
stile), tacciando di “mole elefantesca” la prosa di Foscolo e di Leopardi: il tentativo
221 NA 958, ivi, p. 54. Il riferimento è in realtà piuttosto generico; forse Dossi aveva in mente
l’avvertimento di Didimo, secondo cui «l’autore era d’animo libero» e contrario alla «servilità magistrale
degli uomini letterati» (Sterne, Viaggio sentimentale, cit., p. 3). Più probabile, però, che si riferisse (nono-
stante l’indicazione «pref.») non alla prefazione indirizzata da Didimo ai lettori, ma alla Notizia intorno a
Didimo Chierico, che si apre appunto con una considerazione sul «comporre libri utili per chi non è dot-
to» (cfr. Foscolo, Prose varie d’arte, cit., p. 173).
222 Così scriveva Foscolo a Camillo Ugoni il 28 ottobre 1813, in seguito all’uscita della traduzione ulte-
riormente rivista (U. Foscolo, Opere, XVII, Epistolario, IV (1812-1813), a c. di P. Carli, Le Monnier, Fi-
renze 1954, p. 411); sul finale della lettera, ribadiva: «dopo tutto questo sdottrinamento sul bello scrivere,
a me importa moltissimo di sapere se lo stile di Didimo nella versione vi ha fatto alla prima lettura sentire
un pochino d’affettazione» (ivi, p. 413).
223 NA 3356, in Dossi, Note azzurre, cit., p. 364.
224 NA 2750, ivi, p. 301. Sulla Paneropoli foscoliana, si ricordi anche NA 2802: «Foscolo chiamò Milano
“la sonnolenta Paneropoli” (ivi, p. 313). Cfr. quel che Dossi poteva leggere nella lettera Alla stessa, Mila-
no, 11 agosto 1813, in U. Foscolo, Opere, VI, Epistolario, raccolto e ordinato da F. S. Orlandini e E. Mayer,
Le Monnier, Firenze 1852, I, p. 487: «L’affare per cui venni in Paneropoli sonnolenta fu spicciato poche
ore dopo il mio arrivo […]».
82 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
umorista dell’uno «è il galanteggiare di un elefante»; il secondo tentò di fare «dello
spirito e ci riuscì svelto ed elegante come un elefante che balli».
L’epistolario foscoliano ha invece il dono di essere «spontaneo», di portare un
minore schermo erudito e letterario; Dossi, che non conosceva lo Zibaldone leopar-
diano, avrebbe forse finalmente apprezzato e in parte riconsiderato i propri giudizi di
fronte a quella scrittura che, tra i suoi tanti caratteri, ne possedeva forse alcuni per lui
degni d’interesse. Eventuali contatti tra Dossi e Leopardi, di così dubbia e difficile ri-
costruzione, avrebbero potuto comunque passare attraverso i Pensieri, che peraltro si
incentravano su di un’indagine poi ampiamente esercitata da Dossi, «sur les caractè-
res des hommes et sur leur conduite dans la Société»225, nonché su una pratica di tipo
aforistico.
A partire dalla predilezione per i versanti “plurilinguisti”, è chiaro come
l’umorismo condizioni la forma letteraria, volgendola in direzione di uno sperimen-
talismo nei generi:
Lo scrittore umorista deve mediocremente rendere interessante l'intreccio, affinchè
per la smania di divorare il libro il lettore non sorvoli a tutte quelle minute e acute os-
servazioni che costituiscono appunto l'humour226.
Questa nota è chiaramente volta a sostenere la necessità di una scrittura frammenta-
ria; la teoria dell’umorismo si incontra, dunque, con la dimensione di scrittura predi-
letta da Dossi. L’idea stessa di un’opera può nascere, piuttosto che da una tramatura
complessa di idee, da un’osservazione di natura linguistica:
La prima idea della «Colonia Felice» mi venne leggendo il glossario (Alphabet de
l’auteur français) aggiunto alle «Oeuvres de Rabelais» (ed. 1783, Jean François Bastien
Londres et Paris 2° vol.) dove alla parola Poneropole < (La Paneropoli delle lettere di
Foscolo, sua umoristica lezione di Poneropoli) > sta scritto «ville des mauvais garne-
ments. Philippe, roi de Macédoine, bâtit - en la Thrace une ville ainsi nommée, en la-
quelle il transporta tous les méchants et scélérats qui se rencontrerent, liv. 4. chap.
66»227.
Se l’interesse dello scrittore non si concentra sull’intreccio, ma su «minute e acute
osservazioni che costituiscono appunto l’humour», la dimensione del pensiero e
dell’aforisma diventa, per lui, fondamentale. Jean Paul si pone, in tal senso, come
225 Così scriveva Leopardi a Louis De Sinner, da Napoli, il 2 marzo 1837 (cfr. S. Orlando, Introduzione, in
G. Leopardi, Pensieri, Rizzoli, Milano 2000, p. 11).
226 NA 2174, in Dossi, Note azzurre, cit., pp. 148-49.
227 NA 2750, ivi, p. 301.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 83
modello basilare, e, per la ricchezza di riflessione, è citato accanto ai grandi moralisti
come fonte di celebri massime e di pensieri:
Ci sono scrittori che sono magazzini, cave di pensieri, come per es. Plutarco – Mon-
taigne – Richter228.
Jean Paul Richter, più che un appartamento, è un magazzino di pensieri; come del
rimanente lo sono altri insigni autori quali il Montaigne, Seneca etc. Le loro opere
sono l’effetto e insieme la causa di migliaja di opere229.
Di Jean Paul Richter può dirsi che le parole sono altrettanti pensieri, i pensieri altret-
tanti libri – e ogni libro una biblioteca - 230.
Proprio attraverso l’esempio di Jean Paul l’umorismo viene ricondotto all’impegno
stilistico:
«Difficile est satiram non scribere». Io scrivo satire, dicea Jean Paul per migliorare,
non gli altri, ma me stesso – almeno nello stile231.
Lo sguardo “satirico” facilita l’elaborazione di uno stile più originale; attraverso
l’Espero ricompare, così, la necessità della brevitas e della frammentarietà, capaci di
mettere in risalto il lato moralistico («massime filosofiche», «insegnamenti») e quello
inventivo-stilistico («capricci», «imagini ingegnose») della scrittura:
Richter è frammentario, come lo sono spesso gli Umoristi. L’Espero p. es. non è che
una raccolta di massime filosofiche e di capricci, incorniciata in un romanzo. Del re-
sto, il troppo interesse della favola nuocerebbe alla stoffa umoristica del libro: esso fa-
rebbe sorvolare senza attenzione a tanti utili insegnamenti, a tante imagini ingegnose
etc.232
Insistendo sul versante moralistico, con l’ausilio di Jean Paul si afferma che la scrittu-
ra frammentaria umoristica è più vicina alla filosofia che non alla narrazione:
228 NA 685, ivi, p. 43.
229 NA 3562, ivi, p. 385.
230 NA 3927, ivi, p. 525.
231 NA 3203, ivi, p. 357.
232 NA 3246, ivi, p. 358.
84 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Ora però la poesia tende da grafica a diventar filosofica. Il pittore Omero deve cedere
al pensatore Richter233.
L’arte moderna sarà, secondo Dossi, una poesia di pensiero piuttosto che di «pittura»,
nella necessità di rielaborare i termini della locuzione oraziana «ut pictura poësis».
In nome di un binomio filosofia morale-letteratura, opposto a un’idea di produ-
zione letteraria come invenzione e intrattenimento, l’idea dossiana di poesia-pensiero
si porrebbe su una direttrice che, fatti i relativi distinguo, appare più vicina al Leopar-
di delle Operette morali che non al Manzoni dei Promessi Sposi. Le Operette morali
sono l’emblema della ricerca ottocentesca di una scrittura alternativa alla prosa di
romanzo, per la brevitas, per lo stile e per la modalità del racconto-riflessione. Né si
dimenticherà che Dossi, similmente a Leopardi, ha steso nel corso degli anni un am-
plissimo zibaldone di pensieri, che dialoga proficuamente con le opere. Ma Leopardi
è accusato per la mancanza di ironia, per la rappresentazione di un’«aurea», quanto
artificiale, classicità e per l’eccesso di sentimentalismo, con un ripetuto accostamento
con l’Aleardi:
Il vezzo dei poeti è di starsi in arretrato un buon mezzo secolo dai loro tempi: parlo
dei mediocri poeti come Aleardi e Leopardi. Quest'ultimo specialmente ha scritto una
Palinodia - che è tutto uno sproposito. Leopardi vi deride ad es. le ferrovie; poi mot-
teggia agli zigari e ai pasticcini (egli ghiottissimo dei gelati ecc.), come se ai beati tem-
pi e di Roma e di Grecia il mondo fosse affatto innocente di simili peccatuzzi veniali,
e dico veniali anche in rispetto di certi altri peccati, molto frequenti nell'aurea anti-
chità. Nè ci si dica che Leopardi fece dell’Ironia. L'Ironia è il sommo dell'Arte - e Leo-
pardi non era da tanto. Leopardi credette far dello spirito e ci riuscì svelto ed elegante
come un elefante che balli234.
Aleardi e Leopardi sono due serbatoi di perpetua infelicità235.
Eppure Dossi condivide con Leopardi almeno un modello tratto dall’antichità,
ossia Luciano di Samosata, esempio, soprattutto per i Dialoghi, di una prosa alterna-
tiva al romanzo e al di là della semplice satira (si tratta, com’è noto, di satire menip-
pee). Alcune opere di Luciano, lette in edizione Teubneriana, sono menzionate a più
riprese nelle Note azzurre, con chiare valutazioni: «Luciano va citato fra i precursori
dell'odierno umorismo»236; «Da citarsi nella Storia dell'Umorismo gl'Inferorum, Deo-
233 NA 3261, ivi, p. 360.
234 NA 2259, ivi, pp. 159-60.
235 NA 3163, ivi, p. 353.
236 NA 1145, ivi, p. 69.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 85
rum, e Meretrici, dialoghi di Luciano come pure il Lucius Asinus, e la Vera histo-
ria»237. Nonostante ciò la lettura di Leopardi come poeta del classicismo e del senti-
mentalismo sembra precludere, almeno per quanto risulta dalle Note azzurre, un ap-
profondimento dossiano di questo grande intellettuale isolato dell’Ottocento. Se au-
tori come Tarchetti o Praga potevano riecheggiare almeno qualche stilema leopardia-
no nell’esprimere il senso di decadimento dell’uomo, la fine delle speranze giovanili e,
in conclusione, una laica denuncia della presenza del male nel mondo, Dossi, alla ri-
cerca dell’umorismo, non riconosce alcun merito al poeta di Recanati, che pur poteva
vantare, perlomeno, un testo come le Operette morali, intessuto di grande ironia de-
mistificatoria, nonché di innovazioni stilistiche in direzione di una prosa breve e filo-
sofica.
Infine, un altro poeta dell’Ottocento presente nelle Note azzurre è Giuseppe Giu-
sti238 che si era proposto, appunto, di reinventare il genere satirico: «Nel Sec. XIX
Giusti fu l'unico poeta italiano veramente moderno - e quindi il solo umorista»239.
Senza dubbio, Giusti, benché eminentemente poeta, potrebbe essere accostato a Dossi
per lo sperimentalismo espressivo e per il consapevole plurilinguismo antilirico. Una
comune riflessione sull’individualismo dello scrittore “umorista” li avvicina ideal-
mente: Dossi comincia il proprio percorso di scrittore con una narrazione di ricordi
seguita da una pseudo-autobiografia; Giusti afferma scherzosamente, nel frammento
d’introduzione alla Cronaca dei fatti di Toscana, come la scrittura parta sempre dal sé
(«Ma ho detto di parlare di cose importanti, e invece parlo di me stesso, Scusami:
prima della parola ho voluto dirti l'uomo; e poi devi sapere che l’Io è come le mosche:
più lo scacci e più ti ronza d’intorno»)240. D’altra parte, però, non si dimenticherà che
per Giusti la parodia è qualcosa di molto serio e, come è stato spesso ripetuto, si trat-
237 NA 1171, ivi, p. 71. Si veda anche, ad esempio, l’accento sul finale di «Lucio asino»: «4516. Umoristicis-
simo è il finale del Lucio Asino attribuito a Luciano - quando una donna libidinosa s'innamora di lui, che
è ancora asino, e giacegli insieme provandone sommo diletto... - Ma al dì dopo Lucio, mangiate le rose,
ridiventa uomo. Si presenta tutto lieto all'innamorata, pensando «se tanto le piacevo da asino chissà quan-
to le piacerò ora com'uomo...». Pranzano insieme. Egli si toglie le vesti, e accorre a lei colle braccia aperte.
Ma ella lo respinge»
238 La circolazione milanese del Giusti è ampiamente attestata; tra l’altro, Giusti era noto per aver curato
un’edizione di versi e prose di Parini (Versi e prose di Giuseppe Parini, con un discorso di G. Giusti intor-
no alla vita e alle opere di lui, Le Monnier, Firenze 1840) e poteva vantare Manzoni come illustre amico
lombardo.
239 NA 2304, in Dossi, Note azzurre, cit., p. 170.
240 G. Giusti, Cronaca dei fatti di Toscana (1845-1849), a c. di P. Pancrazi, Rist. anast. dell'ed. Le Monnier,
Firenze 1948, Introduzione di E. Ghidetti, Polistampa, Firenze 2009, pp. 35-36. In questa apparizione non
richiesta dell’Io giocava evidentemente, in questo caso, l’esigenza di «autodifesa» per essersi schierato con
i moderati di Gino Capponi (cfr. E. Ghidetti, Introduzione, ivi, pp. XV-XVI). Si ricorda che la Cronaca fu
edita solo nel 1890, per le cure di Ferdinando Martini, quindi Dossi poteva leggerla ma dopo quella data.
86 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
tava di innestare, nella satira, la lirica e l’etica. In Dossi non si è ancora arrivati, è cer-
to, alla rivoluzionaria immoralità futurista, al credo blasfemo di «Lacerba»; inizia pe-
rò, già con lui, a vacillare l’idea che un mondo migliore sia possibile, auspicabile e
dunque evocabile, in controluce, tra i motti mordaci.
2.7 La forme brève dossiana: tra bozzetto e poème en prose
Umoristi di fama europea come Sterne e Jean Paul, meno noto in Italia, tendevano a
scombinare le forme e la trama del romanzo tradizionale e Dossi, di ciò ben consape-
vole, ricercava in quella narrativa i propri spunti e modelli; l’aforisma offriva un mo-
dello di scrittura e di pensiero, da praticare, prima di tutto, nelle Note azzurre241; inol-
tre, in Francia, si andava sperimentando una nuova “forme brève” di scrittura, il petit
poème en prose.
Dossi conobbe i petits poèmes di Baudelaire, e lasciò a riguardo un noto commen-
to:
Ma tanto sono infelici e vecchie le poesie di Baudelaire, quanto i suoi petits poèmes en
prose sono meravigliosamente belli e nuovi. La mia ammirazione per lo scrittore è pe-
rò mista al dolore, dirò meglio all’odio di vedere che una parte de’ miei letterari pro-
getti fu già compiuta da Baudelaire in modo inarrivabilmente splendido242.
Quest’affermazione dossiana, che ricorda l’omaggio fatto da Baudelaire a Bertrand
(«mysterieux et brillant modèle»), ha permesso di ipotizzare un’ideale fratellanza tra
la “goccia d’inchiostro” e il “poemetto in prosa”243. Si potrebbe aggiungere che la No-
ta permette di riflettere sulla stessa interpretazione dossiana dei Poèmes: affiancando
le “brevi prose” di Baudelaire a «una parte» dei propri «letterari progetti», Dossi pro-
pende per una lettura che accentua l’aspetto prosastico del poemetto in prosa (del fa-
stidio dossiano per la poesia si è già fatto cenno; né per Les Fleurs du Mal spende pa-
241 Sull’argomento si veda R. Bruni, La scrittura breve di Carlo Dossi, in M. A. Rigoni (a cura di), con la
coll. di R. Bruni, La brevità felice. Contributi alla teoria e alla storia dell'aforisma, Marsilio, Venezia 2006,
pp. 329-43.
242 NA 4648, in Dossi, Note azzurre, cit., p. 633.
243 Secondo Isella, nel ’70 Dossi sceglie di «contrabbandare le sue “goccie” sotto la copertura del romanzo
autobiografico», la Vita di Alberto Pisani; ma nell’80, complice il clima della Roma “bizantina”, restituisce
«alla loro autonomia i raccontini che vi aveva imprigionati», «subito, si direbbe, dopo l’incontro illumi-
nante con i petits poèmes di Baudelaire: la nota azzurra che lo registra non porta date, ma è del ‘79» (Isella,
Note ai testi, cit., p. 1436).
Il primo Dossi: in direzione del frammento 87
role gentili)244, in una chiave non diversa da quella di Ragusa Moleti, di cui si tratterà
in seguito, e di altri contemporanei.
È utile tener presente che la ricezione dei petits poèmes en prose in Italia, in questi
anni, si caratterizza proprio per una difficoltà di classificazione, vista l’assenza di spe-
rimentazioni ad esso direttamente riconducibili; si fa strada, allora, l’ipotesi di un
trait d’union con il bozzetto:
Les petits poèmes en prose sono ispirati quasi dagli stessi sentimenti che animano Les
Fleurs du mal […]. I piccoli poemi in prosa appartengono a quel genere che suolsi
chiamar oggigiorno bozzetto. Sono pensieri fugaci, sono sentenze, sono immagini,
sono impressioni raccolte alla ventura e chiuse armonicamente e leggiadramente in
pochi e ben torniti periodi245.
Così scrive, sulla «Gazzetta letteraria di Torino» del 1877, per rimanere in ambito set-
tentrionale, Innocente Demaria, il cui nome figura a più riprese nella rubrica di «Let-
teratura straniera» della rivista; si noterà anche che, in mancanza di altri modelli, egli
faceva cenno a Luciano e al suo “imitatore” moderno, Leopardi246.
Con il riferimento al bozzetto, il senso di ossimoro e di frizione tra poesia e prosa,
implicito nel termine francese e legato ad un obiettivo “decadente” di travalicamento
o fusione dei generi letterari, si è perduto; si ha l’impressione, come ha rilevato Giu-
sti247, di un tentativo “al ribasso” per una collocazione dei poèmes en prose nel pano-
244 In riferimento delle Fleurs du Mal, Dossi afferma: «Baudelaire cerca di disporsi intorno artisticamente i
suoi panni stracciati. Si direbbe l’orgoglio in cenci» (NA 4648, cit.).
245 I. Demaria, Letteratura straniera. Charles Baudelaire. Seguito e fine, «Gazzetta letteraria», I, n. 50, 15-21
dicembre 1877, pp. 343-44. Si tratta della seconda parte di un articolo pubblicato sul numero precedente
(Id., Letteratura straniera. Charles Baudelaire (Les fleurs du mal – Petits poèmes en prose – Traduction des
contes extraordinaires, grotesques; des aventures de Gordon Pym et d’Eureka d’Edgar Allan Poe, etc.), ivi, I,
49, 8-14 dicembre 1877, pp. 337-338). Si ricordi che l’anno I (1877) della «Gazzetta letteraria» corrispon-
de ad una ristampa della «Gazzetta Piemontese Letteraria» (supplemento della «Gazzetta piemontese»),
con diversa impaginazione dello stesso materiale (cfr. A. Briganti, C. Cattarulla, F. D'Intino, I periodici
letterari dell'Ottocento. Indice ragionato (collaboratori e testate), Angeli, Milano 1990).
246 Così prosegue Demaria: «Alcuni di questi bozzetti sono veramente graziosi, tra i quali piacemi citare:
La disperazione della vecchia; La camera doppia; Ciascuno ha la sua chimera, che par tolto di sana pianta
da quell’arguto e carissimo e spiritosissimo scrittore che era Luciano samosatense; Il cane e l’ampolla, che
vorrei vederlo scritto a lettere cubitali sopra i teatri, le accademie, le biblioteche ed i negozi dei librai; Le
vedove; Il vecchio saltinbanco; Le tentazioni, ed infine Le vocazioni, che voglio tradurre […]. Ora quasi le
medesime impressioni produce la lettura delle poesie e delle prose del Baudelaire. Basta una frase, una
parola sola – singolarmente e bizzarramente scelta e collocata – per evocare tutto un mondo di figure e di
immagini dimenticate e pure amiche, per dare la vita alle ricordanze di un tempo anteriore, per ripetere
col poeta: “Vaghe stelle dell’Orsa […] Dalla rana rimota alla campagna!”» (ibid.).
247 Cfr. Giusti, L’instaurazione del poemetto in prosa (1879-1898), cit., p. 19.
88 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
rama letterario italiano, laddove la traduzione inesatta, “bozzetto”, è simbolo di
un’interpretazione. Del resto, se, ancora nel 1884, un recensore d’eccezione, Italo
Svevo, assimilava le poesie in prosa di Turgenev al bozzetto248, la questione merita
una qualche attenzione.
Occorre allora chiedersi quali fossero, in termini generali, i caratteri del “bozzet-
to”, per meglio comprendere questo tipo di ricezione. Innanzi tutto occorrerà notare
che, mentre il petit poème en prose francese si pone, linguisticamente, in un’ambigua
dimensione tra poesia e prosa, il termine “bozzetto” solleva un altro tipo di commi-
stione e ambiguità, quella tra letteratura e pittura, più praticata in Italia (tra i primi,
gli Scapigliati si interessarono ampiamente di pittura; si pensi alle tele di Praga, al
Camerana ossessionato da Böcklin e Piranesi, a Faldella)249.
Il bozzetto contiene già in sé, come il racconto ottocentesco, con cui condivide
diversi caratteri e spesso viene assimilato, una parvenza di “frammento”250: afferma
Francesco Spera che, a differenza della novella dei primi secoli della nostra letteratu-
ra, «genere narrativo per eccellenza», «dall’Ottocento in poi scegliere la dimensione
breve del racconto significa rinunciare alle ampie architetture del romanzo e quindi
all’ambiziosa rappresentazione della totalità»251. Eppure, la novella sopravvive e si tra-
sforma: «dalla fine degli anni Sessanta si assiste a una decisa ripresa del genere», che
coinvolge in particolare i centri settentrionali “scapigliati”252. Contemporaneo allo
sviluppo del racconto si registra, in ambito scapigliato, la proliferazione di “bozzetti”,
“schizzi”, “impressioni”, “figurine”, “macchiette”, dove, oltre che sulla brevità, si pun-
ta sull’incompletezza di un “abbozzo”, di una sensazione estemporanea, di un mo-
mentaneo “idillio”.
Così Roberto Fedi descrive “nascita e morte” del bozzetto, «genere “minore” per
universale ammissione»:
248 «Sono allegorie, racconti e bozzetti che non hanno di comune che la forma alquanto lirica» (I. Svevo,
Poesie in prosa di Iwan Turgenjeff, in Id., Saggi e pagine sparse, Mondadori, Milano 1954, p. 989); cfr. più
avanti il paragrafo 2.3.2.
249 L’incontro tra le arti ipotizzato in ambito scapigliato era una proposta destinata a rimanere però in
gran parte teorica; tardava a produrre una pratica sinestetica di tipo simbolista, mentre si manteneva in
vari autori al livello della “teoria delle arti sorelle” di Rovani, il quale propendeva per una «visione unita-
ria dell’arte nella storia» piuttosto che per un abbattimento delle frontiere tra gli stili (cfr. Bigazzi, I colori
del vero, cit., pp. 175-76).
250 A partire da questa considerazione Francesco Spera intitola un proprio intervento, che ricostruisce i
caratteri del «racconto moderno» dagli anni Sessanta ai primi anni Novanta dell’Ottocento, Il racconto
come frammento, in G. Bàrberi Squarotti (a cura di), Metamorfosi della novella, Bastogi, Foggia 1985, pp.
231-45.
251 Ivi, p. 231.
252 Spera fa riferimento in particolare all’«impulso» dato da Tarchetti, «notevole innovatore e sperimenta-
tore di forme letterarie» (ibid.).
Il primo Dossi: in direzione del frammento 89
Almeno fino al suo declino, dopo un diluvio di circa tre decenni fra verismo e deca-
dentismo, il «bozzetto» non esibisce una sua dignità autonoma; la sua nascita è nel
segno della sperimentazione, a metà – anche nel nome – con le arti figurative, e la sua
esistenza è normalmente accettata solo nella sua funzione di crisalide, dalla quale do-
vrà poi librarsi la non più precaria e anzi distesa scrittura del «racconto», della «no-
vella» o talvolta, caso fortunatissimo, del «romanzo»253.
Genere laterale, luogo di sperimentazione e “di passaggio”, ampiamente praticato ma
scarsamente definito e riconosciuto254, il bozzetto trova il suo apice nel «ventennio
del dopo Unità»255 e si diffonde a partire da due centri d’elezione, ricchi di pubblica-
zioni periodiche: da un lato la Toscana, che si avvia a diventare “macchiaiola”,
dall’altro il «versante settentrionale», sulla linea Milano-Torino tracciata dalla Scapi-
gliatura. In Toscana è De Amicis a “fondare” un vero e proprio genere, a partire dai
Bozzetti (come recita il sottotitolo) della Vita militare, pubblicati nel 1868 presso
Treves di Milano256 e diffusi anche in ambito settentrionale, dove suscitarono le inevi-
tabili polemiche con il Tarchetti “antimilitarista”. A Milano e dintorni, però, il genere
si andava già sviluppando con caratteri propri; Emilio Praga ne aveva dato prova con
gli Schizzi a penna, legati a quella propensione allo “schizzo” che proveniva dal tipico
viaggio del “poeta-pittore”: «impressioni genuine di paesi, d’uomini e di casi», essi
furono pubblicati sulla «Rivista minima» di Ghislanzoni tra il febbraio e il marzo del
1865257.
Nonostante le differenze tra uno scrittore e l’altro, e i diversi modelli operanti tra
il Nord e il Centro, i caratteri fondamentali che Fedi enuclea per il bozzetto sono so-
stanzialmente condivisibili ed utili alla presente analisi: «osservazione diretta e atten-
ta della realtà, e senza una vera e propria trama che non sia quella, apparentemente
253 R. Fedi, Bozzetto e racconto nel secondo Ottocento, in E. Malato (a cura di), La novella italiana. Atti del
Convegno di Caprarola (19-24 settembre 1988), I, Salerno, Roma 1989, p. 587.
254 Si consideri, con Fedi, l’assenza di definizioni nei dizionari del tempo (cfr. ivi, p. 589).
255 Ivi, p. 590.
256 La seconda edizione uscì a Firenze (Successori Le Monnier, 1869); la terza di nuovo a Milano (Treves,
1880). Cfr. R. Fedi, Il romanzo impossibile: De Amicis novelliere, in Id., Cultura letteraria e società civile
nell’Italia unita, Nistri-Lischi, Pisa 1984.
257 L’esperienza di Praga, giovane in formazione, sembra segnata da molte esitazioni, e la sua attenzione si
rivolge ancora a vari e numerosi stimoli: lo attraggono i paesi costieri e montani da una parte, il fermento
culturale della città dall’altra; si dedica alla pittura, ma anche alla poesia. Il viaggio di Praga corrisponde in
parte, come argomenta Paccagnini, a «quello che per i pittori milanesi costituiva un percorso classico»
(Introduzione, in Praga, Schizzi a penna, cit., p. 9); a sostegno di quest’ipotesi, sta il fatto che, in seguito al
viaggio, Praga presentò quattro dipinti a olio all’esposizione di Brera del ’59, «due impressioni di riviera
ligure e due rapidi ricordi di un viaggio in Normandia» (Nardi, Scapigliatura: da Giuseppe Rovani a Carlo
Dossi, cit., p. 89).
90 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
casuale e incidentale, della scena còlta al volo dal quotidiano, o dalla personale espe-
rienza, o dal ricordo»258; rapporto «confidenziale» con il pubblico, richiamato alla
complicità di un «intrattenimento garbato»259, attraverso un dialogo continuo; diffusa
«finalità morale»260.
Il bozzetto mette in campo, di fondo, un «“realismo temperato”»261, basato sui i
primi otto capitoli dei Promessi Sposi, e una figura di «narratore-autore che privilegia,
su tutti, il suo punto di vista», spesso giustificato tramite la rievocazione di esperienze
vissute. Questo tipo di «narrativa “media”»262 si pone «a mezzo fra un realismo anco-
ra “d’autore” e una prosa tendenzialmente “impersonale”», tra Manzoni e l’incipiente
verismo, che realizza il «passaggio dal bozzetto alla novella» con la «rinuncia alla fun-
zione mediatrice e coinvolgente del personaggio-autore»263. Ma, luogo di rifugio per
chi, volutamente, cerca una realtà minore («non epico-risorgimentale ma nemmeno
“scientifica” in senso europeo e positivista»)264, esso finisce per essere «una piccola
appendice colorata in cui rubricare il bizzarro, l’inutile, il gratuito, l’eccezionale»265.
Trattando del bozzetto come di un ricettacolo per «il bizzarro» e «il gratuito» si
comprende subito per quale motivo il termine ricorra, in Dossi stesso, per caratteriz-
zare le proprie prose brevi. Già nella Vita di Alberto Pisani si fa riferimento ad un
frammento delle Due morali di Alberto come ad un «bozzetto» (si tratta del Lotto).
Con lo stesso termine Luigi Perelli presenta, in limine, le Goccie d’inchiostro: «bozzetti
spannati, per così dire, dagli scritti del Dossi»266. Inoltre, la possibilità di mantenere,
nel bozzetto, il punto di vista del “narratore-autore” permette a Dossi di sviluppare
tale ingerenza in modo molto particolare, con uno sguardo alla realtà così definito da
Roberto Bigazzi: «quando Dossi guarda al mondo com’è, il suo crivello, cioè lo stile,
non intende trasferire nella realtà i propri sentimenti ma far esplodere l’evidenza di
258 Fedi, Bozzetto e racconto nel secondo Ottocento, cit., pp. 593-94.
259 Ivi, p. 594.
260 Ivi, p. 596.
261 Ibid.
262 Ivi, p. 597.
263 Ibid. Questa la parabola discendente del bozzetto secondo Fedi: «Il secondo tempo, ed il fatale declino,
del bozzettismo di fine Ottocento coincide quindi con un transito necessario, e con la sparizione (in senso
narratologico) della persona dello scrittore dalla pagina […]. Ed in seguito, quando con D’Annunzio e i
narratori decadenti lo scrittore-artista si sarebbe di nuovo appropriato del suo ruolo, altre esigenze e d
altro stile avrebbero sospinto e rivestito la sua pagina – ed allora, il bozzetto avrebbe versato il sangue ed il
sudore delle prose compiaciute, estetizzanti, prive di ogni scopo “educativo” o moraleggiante, e anche
iperbolicamente folkloriche delle Novelle della Pescara» (ivi, pp. 598-99).
264 Ivi, p. 605.
265 Ivi, p. 606.
266 Dossi, Opere, cit., p. 279.
Il primo Dossi: in direzione del frammento 91
oggetti e figure per mezzo del termine linguistico adoperato, per mezzo quindi della
carica affettiva o giudicante dell’artista»267.
Forma “minore” e “di consumo”, il bozzetto diventa, nelle mani di Dossi, forma
d’arte, linguisticamente elaborata fino all’eccesso, e frequentazione “d’élite”, vista la
programmatica non-diffusione delle proprie prose, che erano pensate in una dimen-
sione di brevitas per decisa scelta autoriale, non perché destinate al mercato delle
pubblicazioni periodiche. Allo stesso tempo Dossi mantiene e accentua a dismisura
una delle possibilità insite al bozzetto stesso: la presenza forte dell’autore, spesso lega-
ta a quel rapporto di fiducia e frequentazione periodica dovuto al mezzo-rivista, e-
spressa da valutazioni personali di tipo moralistico e dal riferimento a esperienze pri-
vate, è portata ai massimi livelli. Per questa ragione, dunque, il bozzetto si presta, ina-
spettatamente, ad incontrare il “poemetto in prosa” di origine francese: l’incrocio di
due realtà apparentemente così distanti è legata all’estrema disponibilità del bozzetto
e a quel particolare «subiettivismo» (per citare un capo d’accusa rivolto a Dossi), im-
praticabile nelle dimensioni della novella verista268, all’insegna di un rapporto stretto
e continuo (più o meno conflittuale) con il lettore.
Un recensore e amico di Dossi, Luigi Primo Levi, già nel 1872 spiegava la Vita di
Alberto Pisani con la formula dell’«eccezione», poi destinata a diventare, per mano di
Vittorio Pica, vera e propria categoria: ambientata in un’epoca di «transizione», «ec-
cezionale», la vita del protagonista rappresenta una di quelle «esistenze originalissi-
me, […] che hanno forse in sé i germi confusi delle epoche future»269. Sulla via
dell’«eccezione» si incontrano, per l’appunto, i poèmes en prose baudelairiani, modali-
tà innovativa, antilirica (ma in quel caso assai legata alla poesia) di raccontare
un’«esistenza originalissima». A questo proposito, si ricordi come, nell’ambito della
produzione letteraria dossiana, e soprattutto nei primi due libri, operi una spinta alla
«confessione», per usare ancora un termine di Levi, al disvelamento spietato di sé:
267 Bigazzi, I colori del vero, cit., p. 177.
268 Anche i bozzetti Collodi, peraltro autore assai distante da Dossi, nascondono in realtà, se si concorda
con Fedi, una «evidente contrapposizione» ad una «tecnica che lo espropri, in toto, del suo fondamentale
ruolo di mediatore; manzonianamente, si riserba il diritto al suo angolo» (Fedi, Bozzetto e racconto nel
secondo Ottocento, cit., pp. 604-05).
269 Si cita da Bigazzi, I colori del vero, cit., p. 179; Bigazzi riporta il contenuto di un opuscolo di Levi com-
posto da due articoli (L. Luigi Primo [P. Levi], Carlo Dossi e i suoi libri, Garbini, Milano 1873); per
l’intervento sulla Vita vi è indicata la pubblicazione su «Il Diritto» del 15-16 aprile 1872. L’opuscolo è ci-
tato da Lucini nell’Ora topica di Carlo Dossi. Saggio di critica integrale (Nicola & C., Varese 1911, pp. 45-
46). Lo stesso Levi ricorda il suo «primo libro» dedicato a Dossi nel Preludio all’edizione delle Opere («io
posso ripresentare questi al pubblico con un’ammirazione più cosciente di quella che mi dettava il primo
mio libro, ma non meno viva, e con assai più speranza di essere seguito»; Levi, Preludio, cit., pp. VIII-IX).
92 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Artificioso sempre verso di sé, nessuno fu mai più del Dossi sincero e vero col lettore,
col pubblico. Autobiografici nella psicologia dei personaggi assai più che nelle loro
azioni, sono spesso questi libri un auto-atto d’accusa, ma atto così onesto nella rivela-
zione del suo egoismo, dei suoi convenzionalismi, delle sue paure, dei suoi dolori ima-
ginarii, del suo pianto forzato, delle sue transazioni, dei suoi avvilimenti, della sua in-
sensibilità di fronte alle sventure vere, che la maggior patente di nobiltà spirituale esce
da tutto questo insieme così contraddittorio270.
È dunque possibile che la frammentarietà, appoggiata al bozzetto-poemetto in prosa,
avesse un legame, come notavano i primissimi amici-lettori, anche con la necessità di
raccontare se stessi, di fare un punto sulla propria giovinezza così ordinaria, a livello
materiale, eppure così idealmente sbandata, nell’assenza di punti di riferimento, da
non potersi raccontare che per “frammenti”.
270 Ivi, p. XX.
3. Aforisma, frammento e prosa lirica nell’opera di Ambrogio Bazzero
3.1 Lagrime e sorrisi: scrittura aforistica e autobiografia lirica
Nato a Milano il 15 ottobre 1851, Ambrogio Bazzero divise la sua breve esistenza1 tra
la cura archeologica e la passione per la scrittura, coltivata ampiamente come corri-
spondenza giornalistica, novella, bozzetto, racconto lungo o semplice cronaca. «Biso-
gnoso di vita, di vita, di vita» e desideroso di scrivere «come Tarchetti, con analisi,
con cuore, coll’ideale», Bazzero si trova «stretto d’attorno» dalle «cose antiche»2:
chiuso in uno «studiolo freddo, polveroso, abbandonato, tristo»3, “attraversa” gli au-
tori prediletti (quali Praga, Tarchetti e Dossi) per elaborare un linguaggio e un reper-
torio di temi più congeniali alla sua ossessione e al suo fascino per le cose passate e
perdute4.
Una significativa presentazione di sé, nel diario intimo, è condotta sulla scorta di
uno scapigliata dualità tra le ambizioni eteree dello studioso, appassionato di un pas-
sato lontano e ossessionato dal demone di un’«immensa solitudine», e la necessaria
adesione alla realtà materiale:
1 Bazzero morì di tifo il 7 agosto 1882 e alcuni suoi scritti vennero pubblicati da Emilio De Marchi con il
titolo Storia di un’anima (Treves, Milano 1885). Ad oggi, parte dell’opera di Bazzero si legge nelle Prose
scelte curate da G. Frasso ed E. Paccagnini (Otto/Novecento, Milano 2009; il vol. era già stato pubblicato,
con il titolo di Prose selette, nel 1997); dall’attenta raccolta delle opere, ben più ampia dell’edizione di De
Marchi, rimane però esclusa Anima, quella parte del diario intimo, stesa tra il 1876 e il 1882, pubblicata
invece dal primo curatore (quanto alla prima parte del diario, relativa al triennio 1873-76, gli anni
dell’amore per Laura, cfr. E. Paccagnini, Introduzione, in Bazzero, Prose scelte, cit., p. XI: «finisce nella
tomba con lo stesso Ambrogio, restando a noi nota solo per la copia predisposta dal fratello»).
2 «Queste cose antiche che mi stringono d'attorno sono polverose» (cfr. il pensiero datato 19 marzo 1881,
in A. Bazzero, Storia di un’anima, Treves, Milano 1885; ora in rist. anast., Lampi di stampa, Milano 2003,
p. 131).
3 Pensiero datato «Milano, Mercoledì, 21 novembre 1877», ivi, p. 14.
4 Cfr. Genova: «Poh! Questa mancherebbe: che voi mi pigliaste sul serio. No! No! Sono chi sono: un pove-
raccio faticato dagli studi sui codici, un esule volontario dalle dotte e morte biblioteche, un antiquario,
che lavandosi la faccia nell’acqua limpidissima e scacciando la polveraglia dei morti, incomincia a vederci
meglio» (A. Bazzero, Genova, in Id., Prose scelte, cit., p. 475).
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
94 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Oh sì, compiangendo, ma non irridendo le mie poesie di un dì, diventerei un uomo
che vive, che sa fare le addizioni e le moltipliche, che sa comperare, sa risparmiare, sa
provvedere ai bisogni più prosaici, e vorrei avere uno scrittoio dinnanzi, non un'im-
mensa solitudine, non uno spettacolo di varie civiltà, e da quello vedere il mio oriz-
zonte, cioè i guadagni che potrei fare per la mia famigliuola5.
La citazione di questo pensiero, tratto da Anima, cade in taglio per ricordare che
la componente diaristica e aforismatica si svilupparono probabilmente, nella scrittura
di Bazzero, a partire dalla pratica del diario (coltivata almeno a partire dal 1873),
all’insegna della quale De Marchi presentò l’autore precocemente scomparso.
Lagrime e sorrisi, libro di pensieri pubblicato, presso la tipografia Lombardi di
Milano, nel novembre 1873, oltre ad essere una delle prime prove dello scrittore, rap-
presenta l’emergere di questa vena poetico-riflessiva di carattere autobiografico. No-
nostante l’immaturità di alcune elaborazioni tematico-formali, rimase caro all’autore
per molto tempo, come testimoniano due note del diario, risalenti al ’75 e al ‘78:
Giorni tristissimi, vuoti, senza speranza d’avvenire […] Lagrime e sorrisi è diventato il
prediletto compagno della mia vita. Quante volte nell’ora della disperazione mi fa
l’effetto dell’arpa di Davidde, e cangia il mio dolore in una soave mestizia che non ha
nulla di terreno!6
Oh come mi erano cari quest'inverno i miei studi di tedesco su nel mio studiolo,
quando tentavo di tradurre Lagrime e Sorrisi […]7.
L’attenzione riservata al libretto è confermata dal continuo ricomparire di suoi
lacerti, ripubblicati nella sezione Pensieri del «Monitore della moda» e della «Moda
italiana», e in parte riutilizzati in altri scritti8.
Meditai, cercando la solitudine, e scrissi, appoggiandomi al muro di un cimitero.
Guardando il cielo fra i neri boschi e sorridendo nell’azzurro alle larve della fantasia,
io credetti d’aver pensato a qualcosa: contemplando le croci del tristissimo campo,
5 Bazzero, Storia di un’anima, cit., pp. 6-7; il pensiero è datato Limbiate, 23 ottobre 1876.
6 Il pensiero, da attribuire al 29 agosto 1875, è riportato nel Commento, in Id., Prose scelte, cit., p. 696.
7 Id., Storia di un’anima, cit., p. 32. Il pensiero data al 22 maggio 1878; Bazzero si riferisce dunque, per la
traduzione, all’inverno 1877-78. Scarsissima è la bibliografia critica su Bazzero. Giovanna Rosa, autrice
del recente studio su La narrativa degli Scapigliati (Laterza, Roma-Bari 1997), non dimentica Bazzero, ma
accenna appena a Lagrime e sorrisi («la pagina s’intorbida cedendo […] al lamentio vittimistico (Lagrime
e sorrisi)»; ivi, p. 153).
8 Cfr. Nota ai testi, in Bazzero, Prose scelte, cit., p. 631. Nell’Introduzione, Paccagnini pone, giustamente,
l’accento sulla plaquette come «messa a punto di una poetica e di un linguaggio» (ivi, p. XXV).
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 95
m’accorsi che i miei pensieri furono deliri di mente malata. Tutto finisce! E che reste-
rà di queste pagine?9
Questo pensiero introduce e conclude Lagrime e sorrisi, come a darne la misura e
la definizione. Il libro è frutto di una meditazione solitaria, di pensiero piuttosto che
di esperienza; la società appare per pallide immagini, per lo più riflesse dai prediletti
autori scapigliati: esortazioni a non curvarsi di fronte al «disprezzo» dei più, consta-
tazione di vivere in una «comedia» in cui sarebbe consigliabile portare una «masche-
ra», rivolta esasperata di chi drizza «la cresta possente»10. «Io credetti d’aver pesato a
qualcosa»: la vanità delle umane costruzioni di senso è amaramente palesata, con
l’impossibilità di formulare idee e concetti capaci di contrastare la labilità di ogni vi-
cenda umana («le croci del tristissimo campo»). Da una «mente malata» non deriva
una facoltà di pensiero come logos, ma un «delirio» o, come riporta l’autografo, un
«vaneggiamento»11. Di tali fantasticherie e vaniloqui Lagrime e sorrisi sono appunto
testimonianza.
La lettura dei pensieri rivela un’incertezza di fondo, un’oscillazione continua che
segnala un irrisolto dualismo: l’attrazione verso una consolazione di tipo religioso si
accompagna a destabilizzanti riflessioni sul dolore, che incrinano ogni possibilità di
riscatto. Al primo polo appartengono i frammenti, caratterizzati da un campo seman-
tico intessuto di fede, speranza, carità, bontà e amore. Un atteggiamento simile, con
una lieve variazione, è quella “religiosità della natura”, che rinnega la dottrina ufficia-
le: «Quando verrà il giorno in cui troverai insufficiente agli sfoghi dell’anima tua la
formula di preghiera che t’insegnò tua madre, t’accorgerai d’avere nel cuore la poesia
stupenda che ti avrà versato l’amore, come torrente di lava»12.
Al regno dell’incertezza e del dubbio appartiene invece, innanzitutto, l’incrinarsi
della speranza: «La speranza fu data al cuore dell’uomo, come ai giardini il fiore. Ma
qual è il fiore che sempre mantenga la sua freschezza e il suo profumo?»13. Sconforto
e «desolazione» si sostituiscono alla fede: «Io parlerò parole di desolazione […]; per-
ché la carità è la livrea ufficiale dell’usura che dà cinque in questa vita e spera cento
9 A. Bazzero, Lagrime e sorrisi, in Id., Prose scelte, cit., p. 153.
10 Pens. 16, 17 e 11, ivi, pp. 154-55. Si ricordi che anche Praga rappresenta la società borghese come ma-
scherata: in Tutti in maschera (Tavolozza, 17) si sostiene che «sarebbe orribile l’anima messa in mostra»,
tanto che mascherarla è perfino opportuno (Praga, Poesie, cit., pp. 42-43).
11 Cfr. Bazzero, Prose scelte, cit., p. 697.
12 Pens. 82, ivi, p. 167. Si veda anche, ad esempio, il Pens. 19: «[…] il teologo notomizzò l’anima e credette
trovare i peccati capitali e le virtù […]. Quanto è più potente l’amore!» (ivi, pp. 155-56). Una “religione
della natura” si troverà anche in Praga; cfr., ad esempio, Adorazione (Tavolozza): «- A messa mi volete
alle sett’ore? / No, guardate lassù che amena vetta! / Domani io sarò là sul primo albore, / a cogliere per
voi timo e violetta» (Praga, Poesie, cit., p. 80).
13 Pens. 7, in Bazzero, Lagrime e sorrisi, cit., p. 154.
96 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
nell’altra»14. La crescita non è che progressione nel dolore e l’ossessione della caduci-
tà, racchiusa dalla ripetizione continua del sintagma «Tutto finisce!», coinvolge il do-
lore stesso: «Tutto finisce! Anche il dolore»15; «il tempo, il quale raschia le iscrizioni
sulle croci di cimitero, cala e cala le sue nebbie nell’anima nostra!»16.
A testimoniare tale dualismo concorre anche l’utilizzo del repertorio linguistico
scapigliato, per lo più macabro-cimiteriale. A tratti esso viene utilizzato per negarne
la sostanza: «Se la stella dell'amore brilla sopra un cranio, io credo che anche le ma-
scelle, che paiono spolpate per ghignare all'uomo col cinismo del materialista, posso-
no sorridere a Dio col sorriso della fede»17. Altrove invece, proprio in pensieri domi-
nati dallo scoramento, il registro macabro è segnale di una dissacrante parodia della
fiducia nel mondo: «pongano una croce di legno: è l’imagine più vera del dolore: essa
perde il nome, si tarla, si sfianca, cade, e serve a cuocere la cena alla famiglia del bec-
chino…»18; «E pei tristi? Tutto è uno sghignazzo che scroscia colle rughe schifose
dell’anima decrepita»19.
Tra tali tensioni, alcuni pensieri si distinguono per un primo emergere di ele-
menti caratterizzanti della poetica di Bazzero; la memoria, ad esempio, si prospetta
come prima ragione poetica: «Il poeta solitario è come la lampada che arde innanzi le
tombe: si consuma, gettando i suoi raggi sulle morte memorie»20. Il ricordo appare
talvolta accennare alla poetica leopardiana della lontananza, che porta a comparare
«il suono soavissimo delle campanelle lontane» all’«armonia» dei «ricordi»21, oppure
«le squille di una campana lontana» alle «voci venerande di chi non è più»22. Anche
“l’ora melanconica” si affaccia sovente nelle pagine dei pensieri, creando una connes-
sione di segno positivo tra sera, malinconia e speranza che si riprodurrà in Riflesso
azzurro. «Sai tu che cosa sia la melanconia? Molte volte il fondersi di due crepuscoli,
14 Pens. 35, ivi, p. 159.
15 Pens. 14, ivi, p. 155.
16 Pens. 26, ivi, p. 157.
17 Pens. 23, ivi, p. 156.
18 Pens. 26, ivi, p. 158.
19 Pens. 35, ivi, p. 159. Gli stessi termini del macabro sono utilizzati in Anima in corrispondenza con at-
teggiamenti di maledettismo o dualismo di gusto praghiano: «Consento ad amare poco la mia famiglia, ad
essere misantropo […] Quante volte oggi satanicamente ghignai alla canna del mio fucile, dicendo: -
Dentro c'è la morte!- e guardandone la nera bocca, e invidiando la suprema voluttà della morte...» (Lim-
biate, 15 ottobre 1876; in Bazzero, Anima, cit., p. 4).
20 Pens. 72, in Id., Lagrime e sorrisi, cit., p. 166.
21 Pens. 8, ivi, p. 154.
22 Pens. 55, ivi, p. 162.
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 97
quello dell’amore con quello del dolore»23: il legame tra melanconia e crepuscolo è già
tratteggiato in un sentimento di rassegnata accettazione del presente.
Degna di rilievo è anche la forma: Lagrime e sorrisi costituisce un libro di pensie-
ri, aforismi e prose liriche. Gli aforismi risentono a volte, nella perentorietà che appa-
re quasi didascalica, di una sentenziosità di tradizione biblica. Alcuni morceaux, più
lunghi e sviluppati, assumono la forma della prosa lirica24, ma le due tipologie riman-
gono strettamente vincolate: la prosa lirica nasce da un pensiero/aforisma, per poi
svilupparsi in una breve narrazione o in un ricordo. La prosa 56, ad esempio, colloca-
ta in maniera significativa al centro della raccolta, ha come inizio il pensiero che apre
e chiude Lagrime («Meditai, cercando la solitudine […]. E che resterà di queste pagi-
ne?»), per poi spostarsi sul ricordo della «povera Maria».
L’intero libro è caratterizzato da una prosa ritmica, i cui procedimenti più vistosi
sono le figure della ripetizione, che strutturano il pensiero singolo e la raccolta, trami-
te la reiterazione dell’incipit, di tutto l’aforisma o dei termini chiave. Molte prose, ad
esempio, recano lo stesso attacco, magari con lieve variatio, come i pensieri 10 e 11:
«Se l’anima tua è un tranquillissimo ruscello […]», «Se l’anima tua è un’onda tempe-
stosa […]»25. Il pensiero 14 riprende l’esclamazione «Tutto finisce!» ponendola in a-
pertura e in chiusura della prosa, a costruire una struttura ad anello. Nella prosa 26 le
figure iterative sono volte a mimare lo scorrere del tempo e, invece di rafforzare la
memoria, simboleggiano l’erosione inarrestabile delle impronte lasciate nel ricordo,
che culmina nell’immagine annullante della neve:
Venne nella casa la coltre del cataletto? Venne, come è destino, e si partì. Tutto si
partì? Ecco il vuoto: ecco la religione soccorritrice. […] « È finito?» È finito: il morto
viaggia al cimitero. All’indomani tutto sarà come prima, come un mese fa, come un
anno fa, ognuno ripiglierà il suo posto: pare impossibile che possa essere altrimenti.
Fede abbiamo ogni giorno: ma quando sommeremo gli anni agli anni, tristissima de-
solazione sarà quella di accorgerci che ricordiamo un nome ai figli, o ai figli dei figli,
che la vicenda della vita fu varia, che il tempo, il quale raschia le iscrizioni sulle croci
di cimitero, cala e cala le sue nebbie nell’anima nostra! […] Nevicò tanti inverni in
camposanto! […] Nevicherà tanti inverni in camposanto! […] Nevicherà tanti inver-
ni in camposanto!26.
23 Pens. 43, ivi, p. 160. La simbologia del crepuscolo non è del tutto positiva, sembra implicare una rinun-
cia alle emozioni; in effetti, nei pensieri si trova anche scritto che «il sorriso è il raggio d’alba nel crepu-
scolo della meditazione» (cfr. Pens. 5).
24 Si tratta dei pensieri 26, 56, 85, 86 e 104.
25 Ivi, p. 154. altri incipit ricorrono: «Ama», «Che cosa è», «E se la vita è» (17 e 18), «Sai tu che cosa
sia»/«Sai tu che voglia dire» (41, 43 e 51), «Vedesti […]? Ricordati che» (49, 50).
26 Ivi, p. 157-58.
98 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Procedimenti simili, con una maggiore intenzione fonosimbolica, si trovano nella
prosa lirica dedicata all’«onda» (pens. 104); come i reiterati «tanti inverni», «le mille
ondine», «i mille gorgogli e i mille sospiri» passano senza lasciare tracce:
Oh se io ti rivedessi! In te mi affisavo, onda, nelle ore fantastiche della mia contem-
plazione. Rammento i tuoi grigi pennacchi che venivano sulla varia superficie del ma-
re, venivano incalzandosi e sfioccandosi; rammento il tuo gonfiore […]; rammento la
furia del voltolarti, la spuma bollente e il fragore del muggito, il torrente bianco che
s’allargava sulla ghiaia […].
Rammento il torrente bianco che rompeva sui capi degli scogli, rimbalzando con
pioggia sulle punte più alte, e il suo travolgersi, l’urtarsi, il frangersi, il ritornare tume-
scente, e le mille ondine e le cascatelle e le crespe; rammento il rombare dell’onda, poi
il flagellare guazzoso, i mille gorgogli e i mille sospiri gravissimi; rammento i begli oc-
chi iridei della spuma che scoppiavano come tanti occhi di fantasime…
Vanavano come le speranze27.
3.2 Riflesso azzurro: frammenti «d’affetto e di rimpianto»
Restare giovani è la memoria che via via si
spoglia da sé dell’ombra, non ritiene che
attimi di luce: una fiammata di rosolacci,
l’assolo d’una cicala… Restare giovani è
scordare.
C. Sbarbaro
«Dopo sett’anni io volli rivedere Boscate»: i temi dell’infanzia e della memoria sono
all’origine di Riflesso azzurro, essendo Boscate, come Praverde, sede delle rimem-
branze28. Riflesso azzurro, racconto lungo pubblicato, come Lagrime, nel 187329 ma
27 Ivi, p. 172.
28 Scrive Mariani che Bazzero appare volto ad una «rappresentazione della vita fissata ormai in immagini
di morte ma resa attuale proprio attraverso il velo del sepolcro» (cfr. G. Mariani, Storia della Scapigliatu-
ra, Sciascia Editore, Caltanisetta-Roma 1967, p. 563).
29 Scarsi sono gli interventi critici su Riflesso azzurro, complice il mancato restauro dell’opera, almeno
fino al volume Prose selette: il racconto lungo è stato recuperato («È un libretto di 94 pagine, edito a Mila-
no nel 1873, ma scritto nel 1871, quando l’Autore aveva appena vent’anni, ormai rarissimo e non raccolto
dal De Marchi in Storia di un’anima», ivi, p. 837) e citato da Mariani come l’«indicazione più convincente
dell’esperienza dossiana di Bazzero in una linea di assoluto dogmatismo espressivo» (ivi, p. 837); Aurora
Puglisi Allegra ne ha analizzato gli aspetti “precrepuscolari” (A. Puglisi Allegra, Presagi novecenteschi nelle
novelle di A. Bazzero, «Critica letteraria», VII, 25, 1979, pp. 652-74); G. Rosa ha rilevato «le consonanze
con il libro dossiano» (Rosa, La narrativa degli Scapigliati, cit., p. 152).
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 99
escluso da Storia di un’anima, è un testo di autobiografia anomala, dall’orditura
quantomeno irregolare: le due parti portano lo stesso titolo («Lina») e sono interval-
late da frequenti interruzioni tipografiche30, traccia di una interna frammentazione;
l’io-protagonista viene interpellato dagli altri con il nome di Rigo o Righetto. Del re-
sto Bazzero stesso si riferisce a Riflesso azzurro parlando di «bozzetti» scritti nel 1871
e di «frammenti» del 187231: tali testimonianze significano innanzitutto che, tra il
1871 e il 1872, l’autore aveva già “abbozzato” alcune parti del libro; visto, però,
l’aspetto frammentario della versione finale, si potrebbe ipotizzare che Riflesso azzur-
ro fosse nato come un collage di «frammenti» e poi rimasto tale. La struttura tempo-
rale è ancor meno lineare che nell’Altrieri: la seconda parte, dedicata al collegio, tende
a collassare, attraverso continue digressioni, sullo spazio temporale della prima,
l’infanzia.
La prima evidente “eversione alla norma” è rilevabile nelle tensioni che inarcano
la sintassi e avvicinano la prosa ai modi della poesia:
Lina da sett’anni non sospira più: «La mia nonna è andata in paradiso» e da sett’anni
non chiede a babbo, di primavera, «un cespo di quelle rose, di quelle di Boscate» per-
ché da sett’anni ha ribaciato la nonna, ed al sorriso d’Iddio s’inghirlanda dei fiori
dall’eterna freschezza e dall’eterno profumo32.
Il prologo si presenta infatti nella forma di una prosa lirica in sé conchiusa, co-
struita “ad anello” ed intessuta di precise rispondenze, a creare un ritmo interno den-
so di significati. La prosa è incorniciata dai termini «piangere» e «ricordare» («In oggi
io sono solo a piangere e a ricordare!»; «Dopo sett’anni io volli rivedere Boscate per
piangere e per ricordare!») e, secondo una modalità che caratterizzerà l’intero Riflesso
30 Nel primo capitolo (pp. 98-111) si contano tre interruzioni, non equamente ripartite per quanto ri-
guarda il numero di paragrafi; nel secondo (pp. 111-149) sono dieci, con la stessa distribuzione irregolare.
31 Le notazioni sono riportate in Appendice II, in Bazzero, Prose scelte, cit., pp. 611-12. Per quanto riguar-
da la datazione, l’affermazione di Mariani («scritto nel 1871») è parzialmente surrogata dalla prima nota
(«Bozzetti scritti a Limbiate nelle vacanze 1871»; ivi, p. 611; cfr. anche Commento, ivi, p. 681). Altre note,
però, che sembrano doversi riferire sempre a Riflesso azzurro, fanno pensare almeno ad una prima idea-
zione nel 1871, una rielaborazione, se non proprio alla stesura di alcune parti, nel 1872: «Due stelle (pri-
ma idea) - Riflesso azzurro (prima idea) – Il primo giorno de’ Morti. Lavori fatti a Limbiate nelle vacanze
1871» (ivi, p. 610); «Frammenti pel Riflesso azzurro 1872» (ivi, p. 612); «C’è la maniera dossiana, ma il
cuore mio, e melanconicamente. Mi ricorda mia sorella Sofia. Questa memoria, nata in me nell’anno
1872, mi confortò molto […]» (ivi, pp. 612-13; mancano riferimenti diretti al vol., ma quelli indiretti
sembrano indicare Rifl. azz.).
32 Bazzero, Riflesso azzurro, cit., p. 97. A. Pugliesi Allegra ha sottolineato per prima questo aspetto di Ri-
flesso azzurro, notando come esso «si sviluppi in un progressivo allargamento lirico» e specificando: «La
prosa non è più serrata e fitta, ma si scioglie abolendo i nessi sintattici ed anticipando così la prosa lirica
del novecento» (Puglisi Allegra, Presagi novecenteschi nelle novelle di A. Bazzero, cit., p. 662).
100 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
azzurro, i termini chiave tendono a diventare clausole ritmiche della prosa («In oggi
io sono solo […] Solo!... […] Solo!...»)33.
Come suggerisce la ripetizione del termine «eterno», è un’immagine di pace ad
avvolgere, inizialmente, i ricordi («fiori dall’eterna freschezza e dall’eterno profu-
mo»); poi, con il calare di una notte senza luna e la minaccia del temporale («il bosco
s’annegra»), il cimitero cambia aspetto, assumendo i tratti del macabro scapigliato
(«l’immonda ala del pipistrello che osceno svolazza, sorradendo le zolle consacrate
[…] gavazzando tra i turbati avanzi della dissoluzione»)34. Come in Lagrime e sorrisi,
il linguaggio di matrice praghiana è indizio palese di un dualismo irriducibile nei
confronti della morte e della memoria: la volontà di credere nel ricordo e in una
promessa di vita ultraterrena (l’«eterna freschezza») si scontra con l’ossessione del
disfacimento materiale e con la vanità del dolore e della memoria35.
Il primo capitolo, dedicato all’infanzia del protagonista, a Lina e alla balia Teresa,
presenta, oltre che elementi di prosa ritmica, una sperimentazione linguistica simile a
quella dell’Altrieri. La descrizione dei giochi e dei possedimenti dei bambini è con-
dotta attraverso uno stile caratterizzato da voci deformate, spesso volte a ricreare
l’universo infantile, e da una sintassi nervosa e sbilanciata, con profusione di interro-
gazioni ed esclamazioni36:
Che tanagliate al mio cuore quando la Teresa, lì proprio al bivio sì temuto, si aggrop-
pava in capo il fazzoletto e dentro e dentro e dentro nascondeva la manaccia, dentro
la saccoccia! Che fatica la sua, vi so dire, a frugare e rifrugare in quella bolgia! Cordi-
celle che io le davo da riporre, nocciuole da spartirsi tra me e la Lina, soldi e soldini
messi a frutto, chiovi, avanzi della rocca di nonna Berta la fattoressa, scatolini di quelli
con la scritta «Pillole di Brera» rubacchiati al cassettone della mamma e ripieni di
sabbia e di sassetti… Cioè, scusatemi, fino ai soldi e soldoni l'affare non va zoppo: poi
errata-corrige, di grazia corrige per amore di quel prestigio militare. Oh, non sape-
te?37.
33 Bazzero, Riflesso azzurro, cit., pp. 97-98.
34 Ivi, p. 97. Cfr., ad esempio, il noto Preludio di Praga: «svolazziam muti, attoniti, affamati, / sull’agonia
di un nume».
35 Scrive Bazzero in Anima, cit., p. 20 (27 gennaio 1878): «amo la mia memoria abbandonata, solitaria: mi
sento sotterra, sento l'oblio, lo sfacimento...».
36 Non è un caso che questa sezione contenga una citazione diretta del libro di Dossi: «quella creaturina
degna del bacio della tua Gìa, o Guido di Praverde, e come Gìa…!» (Bazzero, Riflesso azzurro, cit., p. 101).
37 Ivi, pp. 98-99. Si noti la somiglianza con un passo dell’Altrieri: «Néncia, nell’aggropparsi un fazzoletto,
venívane con volto affilato, le occhiaje morelle, ingarbugliati i capegli» (Cfr. Dossi, L’Altrieri. Nero su
bianco, cit., p. 26). Si rintracceranno facilmente, nel passo precedente e nei successivi, alcuni degli ele-
menti dell’espressionismo di Bazzero, così individuati e classificati nel Commento alle Prose scelte: lom-
bardismi, forme poco comuni, forme personali, forme latine o straniere, forme suffissate e prefissate, le-
gate o meno a un colorito lombardo, forme del parlato (cfr. Bazzero, Prose scelte, cit., pp. 683-87).
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 101
Il capitolo secondo è dedicato al periodo trascorso dal bambino in collegio, che
corrisponderebbe a Panche di scuola dell’Altrieri; una parte racconta in effetti, con
punte di espressivismo, alcuni episodi di vita collegiale:
Ero già ingabbiato da sette mesi lungacci, già salato con un po’ di storia patria e un
po’ di catechismo, già spoglio de’ miei modi bersaglieri: collegialino insomma: imbi-
sacciato in un certo giubbone grigio piombo a bottoni di peltro: il sinistro nell’ottava
coppia dei trottolini, quando dalla portaccia della prigione s’inviava la filatera per la
città…38.
Ma, al posto di episodi reali, prendono presto campo i ricordi del bambino; se
Guido, scolaro, sente già i morsi di una malinconia nevrotica, Rigo si rifugia nella
memoria. I frammenti di ricordi generano una serie di prose autonome, legate da te-
nui rispondenze ritmiche piuttosto che da vincoli logico-diacronici, ovvero da un
«nastro» che «passava», «passava», «tremerellava», «serpeggiava»39, a guisa di una pel-
licola cinematografica avant lettre; alcuni segmenti, espressivisti per ironia o per gu-
sto di ricercatezza, sono ancora comparabili all’Altrieri: «Qua ecco uno zio col tabar-
ro a breve sarrocchino, con cappa di frate, col gran bavero abbambagiato: qua
un’altra zia di cuore plusquamperfetto...»40. Accanto ai ricordi si snodano poi visioni
allucinatorie notturne, dominate da una sorta di “espressivismo macabro”, rinnovato
segnale della presenza del pensiero ossessivo della morte di derivazione praghiana:
«quella [croce] schiodata, sghignazza truce […] quella, sfiancata, spia coi mille occhi
fattile dal tarlo e aspetta di scoppiettare sul garrulo fuoco del becchino o di gemere
colle note del cigolìo e del crepito, colla sera e il vento dell’uracano»41.
L’ultima parte illustra chiaramente l’affermazione di Bazzero a proposito di Ri-
flesso azzurro: «influenza dossiana nello stile, non nelle idee»42; qui l’“antiquario”
sembra elaborare, infatti, un percorso conoscitivo e stilistico personale e non privo di
38 Id., Riflesso azzurro, cit., p. 111.
39 Ivi, pp. 121-134.
40 Ivi, p. 127; oppure si veda, ad esempio: «Ecco Betto, quel tale che si lasciò cogliere colle mani fuori di
saccoccia, quando nel cortile della zia marchesa quella pallottola di neve – l’ho sulla coscienza – andò sfo-
cacciata sui quarti di certa livrea colore tabaccato. Miserere! Mo che rammento: signora zia di Betto, la
non fu quella una giustizia da goti e d’ostrogoti?» (ivi, p. 128).
41 Ivi, p. 117. Un tormento simile nasce dal pensiero dei morti («Dio! i morti! Mi strozzano col lenzuolo»)
e nell’incubo le teste dei defunti prendono vita: «questa bianca e col berretto polveroso e stracciato, cadu-
to di traverso su un’occhiaia; l’altra ingiallita e fessa in sulla fronte: quella colle mascelle spostate, che pa-
reva ci ghignasse: la quarta minacciosa» (ivi, p. 118).
42 Questa osservazione si legge tra i «Giudizi, osservazioni, pensieri posti da Ambrogio a suoi lavori quali
si rinvennero» (cfr. Appendice II, in Bazzero, Prose scelte, cit., p. 611).
102 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
originalità. Bazzero abbandona la rievocazione degli episodi d’infanzia, svincolandosi
dallo stile dossiano, e si sforza parimenti di uscire dall’impasse del dualismo scapiglia-
to, contestando l’immaginario macabro di Praga e Tarchetti43. Compaiono segnali
stilistici che indicano una novità rispetto alla prosa dossiana; si tratta, ad esempio, del
gusto, già precrepuscolare, per l’elencazione nostalgica delle cose perdute, compara-
bile all’afflato realistico di certa lirica memoriale di Praga44:
Lasciatevi vedere, lasciatevi, o per sempre perduti!... Trottole poderose invidiate agli
spazzacamini: pacchi di soldi lucenti, a colonne dei più arditi disegni: lucernette nelle
botteghe dei confettieri, sospirate nei pranzucci degli sposini: palloni dai balzi oltre le
nubi e oltre: vanghe, rastrelli e zappe per coltivare sette fili di miglio […]45.
Rigo, bambino e adulto46, cerca una pacificazione provvisoria della propria sensi-
bilità esasperata nell’abbandonarsi alla «blanda luce del crepuscolo», al «suono delle
campane», all’«amorosissimo mistero d’armonia fra le cose e l’animo», all’«azzurra
danza dei rimpianti e delle speranze»47. La soluzione al dualismo tormentato è conte-
nuta nella simbologia del crepuscolo, che rappresenta l’abbandono a una mestizia
calma:
Immalinconisce il crepuscolo vespertino. L’ora fantastica in cui la nottola ha il volo
verso i cimiteri; l’ora stanca nella quale, dopo le solitarie passeggiate e gli insidiosi va-
neggiamenti, io cerco la chiesuola che più affannoso dà il gemito dell’avemmaria, che
43 Scrive Bazzero, allontanando da sé termini del macabro scapigliato (corsivi nostri): «O sera […] ti salu-
to, perché tu mi trovi col sorriso della fede sulle labbra, non col sogghigno del dubbio: ti amo, perché nel
cuore ho la invocata speranza confortatrice, non il cinismo desolante dello scettico […]» (Id., Riflesso az-
zurro, cit., p. 137).
44 Si veda, ad esempio, il tono crepuscolare di Piccole miserie di Praga (Tavolozza, 39), incentrata sul tema
dell’infanzia, nella tecnica enumerativa e nell’attenzione per le «piccole cose»: «Primi rancori, puerili
pianti, / capitomboli miei sul pavimento, […] giocatoli calpesti, e vetri infranti, / alfabeto del mio labro
tormento, / schiaffi delle maestre, e pensi erranti / sui scartafacci, ancora io vi rammento» (Praga, Poesie,
cit., pp. 72-73). Su Bazzero “precrepuscolare”, si ricordino le parole di Mariani (Storia della Scapigliatura,
cit., p. 560): «Voglio dire che le note macabre del Bazzero svelano una venatura che è già precrepuscolare:
non tanto Praga o Camerana segnano a nostro parere l’ingresso al grigio mondo della lirica del primo
Novecento, quanto piuttosto il dimenticato e minore Bazzero che, almeno per questa interpretazione di
una natura silenziosa e immalinconita, per il chiaroscurato disegno degli interni di sonnolente ville pie-
montesi, per l’immagine, tenacemente perseguita, di un grigio volto di fanciullo invecchiato, sembra tal-
volta intensamente anticipare certe note gozzaniane e corazziniane».
45 Bazzero, Riflesso azzurro, cit., p. 124.
46 Il narratore propone anche per sé stesso questa soluzione, provvisoria e mai definitiva (visto il continuo
affacciarsi di un dualismo irrisolto in scritti successivi), come rivela il passaggio da tempi verbali del pas-
sato al presente.
47 Ivi, p. 135.
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 103
più lamentevoli lascia sfuggire i canti della sera, che più mesti fonde nei vetri i riflessi
del cielo e i riflessi dei lumi sugli altari. In quest’ora ho una vita nascosta, tutta mia,
gelosa e confidente, tormentatrice ed implorata, vasta ed a visioni, tra le nebbie e gli
azzurri […] fremo, guardando quei riflessi, perché mi danno le trasparenze di quegli
sfondi incantati in cui folleggia la mente mia con lusinghe melanconiche d’affetto e di
rimpianto48.
Il «riflesso» del titolo, dunque, appare come la concreta rifrazione di luce del cielo
e dei lumi, per poi assumere i connotati di una condizione esistenziale, essendo latore
di «trasparenze», ovvero diafanità, «sfondi incantati» che la mente può popolare di
«lusinghe melanconiche d’affetto e di rimpianto»: ricordi, oggetti collezionati dalla
memoria dell’antiquario e così salvati, anche se per un tempo effimero, dall’oblio49.
Questa percezione della realtà, che Mariani ben definisce «ansia crepuscolare di
attenuare la vita filtrandola attraverso le cose morte»50, porta Bazzero ad allontanarsi
dalla scrittura di tipo espressivista che aveva derivato, per esigenza di mimare
l’infanzia e per un gusto “antiquario” del raro e dell’inedito, dall’esempio dossiano.
Ciò che rimane costante, in tutto Riflesso azzurro, è la predilezione per il frammento,
che spesso si allontana dal bozzetto impressionistico51, optando per una prosa tesa e
cadenzata dal ritmo di ripetizioni e consonanze. È a questo tipo di sperimentazioni
che Bazzero affida la propria poetica, abbandonando l’idea di scrittura come pastiche
e risolvendo l’“estetica del brutto” e l’ossessione del disfacimento in una “trasparen-
za” opaca e umbratile che prelude a soluzioni crepuscolari.
Il tema del ricordo-trasparenza ricorre anche nelle liriche dell’ultimo Praga, rac-
colte postume in Trasparenze (1878), con una consonanza sorprendente con il Bazze-
ro di Riflesso azzurro52. Non è dato sapere se i due abbiano elaborato autonomamente
48 Ivi, pp. 137-38.
49 Questo atteggiamento ricorrerà in molte prose di Bazzero; ad esempio, in Genova (Acquerelli) tra le
descrizioni della città si legge: «Passi nella galleria dei quadri […]. La semiluce è triste: è triste la memoria
dei morti: è tristissimo l’insaziabile desiderio per coloro che non sono più» (Id., Genova, in Prose scelte,
cit., p. 478).
50 Mariani, Storia della Scapigliatura, cit., p. 563-64.
51 Si noti anche, ad esempio nella descrizione del «nastro» della memoria, che vige un uso non impressio-
nistico del colore e della luce: «Un capo si sbiadiva e si perdeva in un crepuscolo lontano, l’altro a poco a
poco si incolorava, ascendeva verso l’azzurro, poi sfavillava alle più vivide luci della fantasia, si faceva in-
candescente, confondendosi agli splendori di un meriggio abbagliante […]» (Bazzero, Riflesso azzurro,
cit., p. 121).
52 Il modello praghiano è stato riconosciuto come fondamentale per Bazzero fin da Mariani, che rintraccia
una “duplice” influenza di Praga su Bazzero: «Praga è l’esemplare più vistoso del suo sentimento e del suo
linguaggio: e qui alludo proprio al più esteriore Praga, ai peggiori ingredienti del suo sentimentalismo
macabro, al gusto della bestemmia […], anche se – uscendo dai limiti di una tematica fissa – i riflessi pra-
ghiani in Bazzero sono reperibili proprio nell’area di un Praga più pacificato e sereno» (Mariani, Storia
104 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
una simile percezione della realtà, o se si sia verificata un’influenza dell’uno sull’altro
(a livello strettamente diacronico, anche quella di Bazzero su Praga sarebbe possibi-
le). Trasparenze, infatti, uscì nel 1878, a cura del Molineri, il quale assicura che Praga
era intenzionato a raccogliere poesie «sparse nelle strenne, nei giornali […] in un vo-
lume sotto il titolo di Trasparenze». Oltre alla sua parola, abbiamo un’importante te-
stimonianza della «Gazzetta piemontese» del 26 dicembre 1873, riportata da Nardi,
che attribuisce alla raccolta tale denominazione53; Petrucciani adduce per il titolo
un’altra giustificazione plausibile, interna al testo: «l’origine della scelta […] potrebbe
trovarsi nella str. VII della ricordata Febbraio: “la stanzetta s’empie di trasparenze”».
Si può aggiungere che il titolo si pone in contrasto con Penombre, recuperando piut-
tosto un certo colorismo di Tavolozza, non senza aggiungervi l’attributo di una sfug-
gente immaterialità. La raccolta contiene componimenti relativi ad anni molto di-
stanti tra loro, dal 1860 al 1873, rimasti manoscritti o pubblicati in rivista prima di
confluire appunto in Trasparenze54.
Un contatto di Bazzero con Praga, per l’immagine delle «trasparenze», non na-
scerebbe dunque da una sua lettura completa della «silloge» postuma Trasparenze,
pubblicata cinque anni dopo l’edizione di Riflesso azzurro. I dati in nostro possesso
non permettono nemmeno di supporre ragionevolmente che Bazzero conoscesse
l’intestazione della raccolta a cui Praga andava lavorando, se l’indicazione del titolo
comparve in prima istanza nella sovracitata «Gazzetta piemontese» del 26 dicembre
1873 (ricordiamo che il terminus ad quem per la pubblicazione di Riflesso è il 1 set-
della Scapigliatura, cit., pp. 557-58). Gioanola riaffermava, in termini simili, il rapporto privilegiato Baz-
zero-Praga: «Bazzero appartiene psicologicamente all’ambito isterico-sentimentale rappresentato da Pra-
ga, con le tipiche tendenze alla regressione, il gusto della memoria, la nostalgia della beata infanzia,
l’amore della natura, gli attaccamenti materni-orali; con in meno tutto il maledettismo, l’orgia, l’alcova
ecc., nell’ipertrofia della “bontà”, dell’angelismo, dell’infantile» (E. Gioanola, Scrittura del pathos e pathos
della scrittura nell'esperienza scapigliata, «Otto/Novecento», IV, n.5/6, settembre-dicembre 1980, p. 27).
Non si trovano però, nella critica, riferimenti specifici ad un rapporto con Trasparenze.
53 «Gazzetta piemontese», 26 dicembre 1873. Tale testimonianza è stranamente mancante dall’edizione
critica del Petrucciani, mentre era riportata da Nardi: «Ma la “Gazzetta piemontese” del 26 dicembre
1873, annunziando il primo numero delle “Serate italiane”, stampava già che Emilio Praga avrebbe dato a
questo periodico “le primizie di un volume in versi – Trasparenze –” che teneva “in pronto per la stam-
pa”» (Nardi, Scapigliatura: da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, cit., p. 133).
54 Per comprendere la genesi e il senso della raccolta, è ancora fondamentale un breve studio di Rosanna
Bettarini, che individua, come criteri seguiti dal Molineri, la volontà di silloge e l’intenzione di recupero
(è suo proposito esaurire la produzione di Praga, ricercando anche quanto il poeta aveva escluso dalle
raccolte, dal ’60 in avanti). Molineri dunque, editore «meritoriamente preoccupato d’elargire documenti»,
ha deciso quali poesie presentare e in che ordine (senza escludere, pare, nulla di ciò che aveva rintraccia-
to) (R. Bettarini, “Penombre” editoriali ed un’ipotesi di lavoro, «Paragone», XV, 170, febbraio 1964, pp. 91-
100).
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 105
tembre 1873)55; se Praga avesse diffuso la notizia oralmente o restasse traccia, non re-
perita, di un’anticipazione precedente sulla stampa periodica, non è dato sapere.
Si può invece supporre che Bazzero avesse letto Fiabe e leggende (1869), cono-
scesse le liriche praghiane pubblicate in rivista tra il 1869 e il 1875 e vi trovasse ispira-
zione per Riflesso, che stava ideando, come si è visto, già nel 1871. La poesia Febbraio,
ad esempio, pubblicata sulla «Rivista contemporanea» nel febbraio 186856, potrebbe
riassumere la poetica che sottostà a Riflesso azzurro, rappresentando il lato “idillico”
di Praga, volto al recupero di memorie passate, in cui Bazzero preferiva riconoscersi.
Beato l’uom che in queste si ricetta
Sante demenze!
Esausta all’alba la sua lucernetta
Tremola e impallidisce, la stanzetta
S’empie di trasparenze,
di visioni e di memorie pie
al suon delle lontane avemarie57.
Le «Sante demenze» fanno riferimento all’immagine di un amore che porta calma
e oblio; il suono dell’«avemaria» ricorda «la chiesuola che più affannoso dà il gemito
dell’avemmaria» di Bazzero58. La nostalgia per un mondo passato che ormai può tor-
nare solo tramite immagini è un tema ricorrente nell’ultimo Praga: «di trasparenze, di
visioni e di memorie pie» si riempie la stanza all’alba; nei giochi della prima luce del
mattino il poeta ricerca figure immateriali, visioni incorporee, memorie.
Un tono sfumato ed evanescente caratterizzava già certi paesaggi di Fiabe e leg-
gende; proprio il primo dei Paesaggi si apre su «un parco antico e squallido, da
molt’anni abbandonato»; la vegetazione è mostruosa, malata e intricata in modo spa-
ventoso.
55 «In MI [La Moda italiana], a. 2, n. 17, 1 settembre 1873, p. 8, uno stelloncino pubblicitario permette di
fissare il terminus ad quem della pubblicazione del libro: “Riflesso azzurro è il titolo di un nuovo libro
scritto e pubblicato da Ambrogio Bazzero”» (cfr. Commento, in Bazzero, Prose scelte, cit., p. 681).
56 Cfr. M. Petrucciani, Nota filologica, in Praga, Poesie, cit., p. 374. La lirica compare poi nelle «Serate ita-
liane» (22 marzo 1874) e infine in Calendario di Trasparenze.
57 Praga, Poesie, cit., p. 331.
58 Notiamo, come differenze, che per Praga è l’alba ad apportare memorie pie, mentre il tramonto è «opa-
co», laddove per Bazzero è il crepuscolo, ben più consono al suo mondo poetico, a diventare centrale. I-
noltre l’io poetico praghiano sta descrivendo uno stato che non gli appartiene totalmente; infatti la poesia
continua enunciando la condizione di «altri» che, invece, più si avvicina alla sua: «Altri di bianche nudità,
di note, / di profumi briaco, / pallido il core e pallide le gote, / il selciato di ratte orme percote / nel crepu-
scolo opaco, / mentre le belle si tolgon di testa / gl’estinti fiori dell’estinta festa» (ibid.).
106 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Querce ed olmi e abeti e frassini,
in ferace abbracciamento […]
e, con gesti di cadaveri,
tronche fracidi riversi,
e cospersi - d’alghe e fior.
Eran templi d’erba e d’ellera,
gallerie di clematiti,
foschi siti;
trasparenze glauche ed umide,
d’ombre tremule rabeschi,
toni freschi – e toni d’or59.
Qui però le trasparenze indicano un paesaggio che diventa diafano ed assume la
consistenza dell’ombra, senza ancora legarsi al tema del ricordo.
Tra le poesie di Praga successive al 1873, si trova invece un’elaborazione che ten-
de ad incontrare quella di Bazzero; pressoché esclusa, in tal caso, un’influenza diretta,
è interessante notare la consonanza dell’atteggiamento precrepuscolare, che viene ad
indicare una direzione comune destinata a futura maturazione. In uno degli ultimi
componimenti scritti dal poeta, A Enrico Junk (26)60, si troverà un esempio della rap-
presentazione del paesaggio, umano e naturale, dell’ultimo Praga. In effetti,
nell’allegra contrada di campagna, il poeta incontra immagini immateriali, “traspa-
renze”, quasi fossero ricordi generati nella «mestizia solitaria» che si respira insieme
all’aria salubre. I suoni sono ovattati e addolciti da una lontananza di leopardiana
memoria: «e da lontan già senti il brulichio / di una allegra borgata!». I volti di una
fanciulla e di una vecchia sono immagini riflesse nell’acqua: «a un po’ d’acqua cor-
rente in cui si specchia / la ricciuta fanciulla, oppur la vecchia / che ti guarda ridente».
Le immagini semplici e idilliche della vita di paese, come i riflessi del fiume, hanno
l’inconsistenza di una fila di ombre: «una borgata allegra e faccendiera […] / dove a
ogni angol di muro il sol rischiara / o ombreggia qualche imaginetta cara: / o bimbi, o
cenci, o rose».
59 Paesaggi, I, ivi, p. 262. Sulla “trasparenza” si sofferma ampiamente Bettini, come «attributo delle cose
naturali» ma anche «connotazione essenziale dell’arte stessa»; ricorda anche che «l’aspetto di “trasparen-
za” nel mondo della natura» ricorre nella poetica del decadentismo italiano, in particolare in D’Annunzio.
Cfr. F. Bettini, E. Praga: dalla dissoluzione bozzettistica dell’idillio all’utopia “perversa” di un’arte , intesa
come “malattia” e come “trasparenza”, «La rassegna della letteratura italiana», 1-2, 1976, pp. 146-47.
60 Praga, Poesie, cit., p. 331, pp. 344-45. Porta in calce: «Agosto 1875». È stata pubblicata in «Serate italia-
ne», 12 settembre 1875.
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 107
Lo stato d’animo del poeta è compendiato entro i Versi scritti in un giorno buio61,
in una formula significativa: «veggo tutto attraverso a un velo bruno». La campagna,
con i villici in festa per la vendemmia, è simile ad un certo idillio vissuto in Tavoloz-
za, ma il poeta vive nel ricordo di se stesso: «Dio! come i canti miei rammento me-
sto!»; «[…] mi sdraio nell’inedia mia / senz’ira e senza pianto».
Perfino la simbologia legata al crepuscolo subisce, in Trasparenze, variazioni che
permettono di avvicinare Bazzero all’ultimo Praga, coniugandosi con la «malinconi-
a». L’ora del vespro, che nella sezione ad essa dedicata di Penombre (Vespri) rappre-
sentava il momento della perdizione e della discesa nell’inferno, diventa in De pro-
fundis clamavi62 un’«ora solenne», dove l’uomo si avvicina al mistero, incantato dalle
«parvenze» create dall’«agonia dell’universa luce»: «Così dell’uomo; la flebile calma /
sull’agonia dell’universa luce / alle parvenze del mister lo impalma, / e a un altar ma-
linconico lo adduce».
3.3 Le prose in rivista: tra «fantasmagoria» e avanzare del «deserto»
La mano in ombra la clessidra volse,
E, di sabbia, il nonnulla che trascorre
Silente, è unica cosa c’ormai s’oda
E, essendo udita, in buio non scompaia.
G. Ungaretti
Tra il 1873 e il 1876, anni di intenso lavoro letterario, la produzione di Bazzero è di
vario tipo: favorito dal suo interesse antiquario, si dedica al dramma storico,
all’ombra di Rovani e Guerrazzi; contemporaneamente, pratica però una prosa breve,
destinata all’estemporaneità della pubblicazione periodica, adatta ad un maggiore
sperimentalismo e, in particolare, ad una dimensione poetica e frammentaria. Tali
prose, che costituivano la seconda e la quarta sezione di Storia di un’anima (Schizzi
dal mare, Acquerelli; Corrispondenze), sono giudicate da Croce63 simili al diario per
quanto concerne l’«intima disposizione psicologica di attesa» e il «tono sentimentale,
affannoso e querulo», ma difformi per la «notazione meno autobiografica», «certa in-
dustria di oggettivazione artistica» e la «molta cura realistica». Croce rileva la costante
61 Ivi, pp. 324-26. In calce: «Cereda, 5 ottobre 1871»; la poesia non è mai uscita in rivista, a quanto risulta,
ma è stata inclusa in Trasparenze.
62 Ivi, pp. 319-20. La data di composizione (in calce) è «Adro, settembre 1874»; si tratta dei mesi in cui
Praga era ospite presso la contessa Ermellina Dandolo. De profundis clamavi è stata pubblicata in «Serate
italiane», 3 gennaio 1875.
63 Cfr. B. Croce, Ambrogio Bazzero, in Id., La letteratura della nuova Italia, V, Laterza, Roma-Bari 1974,
pp. 309-313.
108 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
presenza della «donna» e del «suo fascino», nonché un tentativo di comporre le pro-
prie impressioni «in ritmo di poesia»; apprezza, infine, «la bella rievocazione» di Ge-
nova.
Leggendo Schizzi dal mare, Acquerelli e Corrispondenze Croce rintracciava, prin-
cipalmente, «cose viste, reminescenze storiche, effusioni e riflessioni»; tale osserva-
zione, anche ampliando la lettura delle pubblicazioni periodiche grazie al volume
Frasso-Paccagnini, mantiene una certa validità. Una parte degli scritti per periodici si
basa appunto su una commistione tra «cose viste» e «reminiscenze», siano esse lette-
rarie o storiche: si vedano le corrispondenze pubblicate sul «Monitore della moda»
nel 1874 (in rubriche quali il «Corriere dei bagni», «Bagni ed acque», «Sui monti»),
gli Schizzi a penna (pubblicati nel «Monitore della moda» o nella «Rivista illustrata»
tra il 1874 il 1876), dove si assiste a una vera e propria citazione e rielaborazione di
passi manzoniani, le prose pubblicate sulla «Vita nuova» nel 1876 e gli interventi, più
tardi, sul «Corriere della sera»64. Un’altra parte, forse più difficilmente individuabile
da Croce attraverso le selezioni operate dal De Marchi, presenta invece una dominan-
te narrativa: si vedano, oltre ai racconti pubblicati sulla «Palestra letteraria» nel 1870,
le più tarde Melanconie di un antiquario. Più isolata, nel complesso, è l’esperienza
delle Confidenze («Il monitore della moda», 1874-76), sotto forma di lettere, che Pac-
cagnini definisce «un ibrido quanto anomalo racconto di formazione e di educazione
sentimentale»65.
Infine, un gruppo ampio di prose è ascrivibile alle «effusioni e riflessioni»; si ag-
giungerà però che, pur partendo dalle «cose viste», non vi dominano il bozzettismo e
la «cura realistica», ma il pensiero e, stilisticamente, il «ritmo di poesia». Questi mor-
ceaux sono, ça va sans dire, i più interessanti nell’ambito del nostro percorso: si tratta
delle prose pubblicate sulla «Moda italiana» nel 1873 e degli Acquerelli del 1876, a cui
si aggiungerà un cenno alle più tarde Melanconie di un antiquario, a metà strada tra
narrazione e riflessione.
Partendo dal solito, centrale, 1873, tra il marzo e il luglio Bazzero pubblica otto
prose sulla «Moda italiana» del Politti, nucleo primo di un progetto mai portato a
termine dedicato ai Bagni di mare: «schizzi dal mare», dunque, come indica il sottoti-
tolo66. Contesto di pubblicazione e destinatario femminile favoriscono l’elaborazione
64 In questa categoria si porranno, a margine, anche le tre prose pubblicate sulla «Rivista illustrata» tra il
gennaio e il marzo 1876, divagazioni sul tema della moda.
65 Paccagnini, Introduzione, cit., p. XXXI. Nel Commento viene specificato che si tratta di una «forma nar-
rativa ibrida, che mescida bozzetto, figurina, romanzo epistolare, prosa didascalica e memoriale (Com-
mento, cit., p. 708); la fanciulla che scrive porta per lo più il nome di Lina, la sorella, e le lettere vengono
da Boscate, luogo della memoria.
66 Si veda la sezione Da «La moda italiana», in Bazzero, Prose scelte, cit., pp. 177- 184. Cfr. poi Commento,
p. 702 e sgg.
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 109
di prose brevi ed eleganti, abbastanza lontane dal realismo bozzettistico e volte piut-
tosto a melanconiche riflessioni. Il dualismo inquieto dell’antiquario fa qualche spo-
radica comparsa, ma l’autore sembra smussare gli angoli più pessimisti in invocazioni
all’amore, notturni stellati o estenuati addii alla speranza. A tratti compaiono imma-
gini di decadimento: il tramonto, i fiori appassiti («E perché di quei fiorellini io colgo
e bacio l’appassito?»)67 e la breve persistenza del ricordo («E nessuno domanderà di
me!»)68. È interessante notare che, nella forma, queste prose si avvicinano ai Canti del
cuore di Tarchetti e, inoltre, preludono a quella produzione in rivista degli anni ’80-
’90 che andò assumendo l’etichetta di “poemetto in prosa”. All’insegna della brevitas,
le prose si riducono spesso a pochi paragrafi, incorniciati da una struttura ad anello
(Notte stellata, A vele azzurre)69 e da figure della ripetizione; come già accennato, il
fatto non sfugge all’attenzione di Croce: «Talvolta, queste impressioni provano a
comporsi quasi in ritmo di poesia»70.
Aspetteremo una notte senza luna e senza stelle, a mare cupo, a pace di cimitero.
Ti metteremo remi neri, vele nere, in prora corona di fiori funerari, o barca che
t’apparecchi al viaggio per là, da dove non si torna. La notte sarà un immenso tempio
parato a lutto, la spuma dell’onda sarà l’argento della coltre, la pace sarà la desolazio-
ne… O Signore! Né alla spiaggia venga fanciulla che pianga, né lungo il viaggio batta
seguace ala d’alcione. Solitudine vastissima!71
Si incontrano poi brevi “narrazioni liriche” intessute di ripetizioni, esclamazioni e in-
terrogazioni, come Un saluto72.
Passando al 1876, Bazzero pubblicò in quell’anno diversi testi, denominati Ac-
querelli, sulla «Vita nuova»73. Più vicini agli schizzi e ai bozzetti assai diffusi tra gli
67 Ivi, p. 183.
68 Ivi, p. 178.
69 Si veda Notte stellata: «Quella notte al lido tacevamo… “Il vasto libro dell’astronomia è aperto sopra il
nostro capo. Leggavi il sapiente e l’idiota, il felice e lìinfelice”. Quella notte al lido tacevamo» (ivi, p. 181).
70 Croce fa riferimento a Notte stellata e a Barca nera; aggiunge poi: «E nondimeno poesia, poesia vera e
propria, queste cose non diventano mai. Perché si richiederebbe a ciò una energia, una virilità creatrice
della forma, che all’autore mancava». Cfr. Croce, Ambrogio Bazzero, cit., p. 312.
71 Barcanera, in Bazzero, Prose scelte, cit., pp. 183-84.
72 «O sposini, io vidi i vostri giuocucci. Quando chinati facevate la scelta dei ciottolini bianchi! Quando
lesti scavavate le pozzette nella sabbia dell’ultima spiaggia, e lestissimi scappavate al rovesciarsi dell’onda
sommovente!» (Un saluto, ivi, pp. 177-78).
73 La sezione omonima del volume di Frasso e Paccagnini contiene, in più, le prose pubblicate sotto tale
categoria dal De Marchi. Si veda la Nota ai testi, cit., p. 643 e sg. Riguardo alla datazione, accanto a prose
del 1876 figurano rielaborazioni di pezzi pubblicati tra 1873 e 1874 sul Monitore della moda, nonché
qualche ripresa da Lagrime e sorrisi.
110 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
autori della Scapigliatura (si pensi al modello degli Schizzi a penna di Praga), gli Ac-
querelli vengono definiti dall’autore tramite qualche indizio autoironico:
Benedetti tempi! Perché non sono nato io allora? Allora non c’era questo vezzo ribal-
do di schizzare degli acquerelli fuggi-fatica: così, e così, quattro pennellate, senza fon-
do, senza un contorno deciso, magari spropositati di disegno, su un brandello di carta
qualunque, per far ridere una marinara che non ci capisca un ette, per far sorridere
una marchesa, la quale indovina la sua silhouette elegantissima nei tratti del pennello
tinto d’azzurro74.
Con inguaribile nostalgia per un passato di grandezze, l’antiquario dà così la misura
delle proprie prose: indefinitezza, assenza di proporzioni, frammentarietà e scelta di
un destinatario “minore”.
In Carta sciupata la definizione degli «schizzi», fogli di «cartaccia» di un «gramis-
simo albo», si accompagna ad indicazioni che suggeriscono le modalità di lavoro
dell’autore. Si comincia da «roba rubata», ovvero notizie storico-geografiche di varia
fonte, per poi chiudere il «dotto foglio» e guardarsi attorno: «E pensavo, pensavo. Al
mio occhio scappavano i pratelli, scappavano i vigneti, scappavano i colti rapidamen-
te» (il periodo è ripetuto più volte). Il ritmo scandito dal ripetersi del termine «desi-
deravo» e il riferimento all’«imaginazione» tratteggiano il dispiegarsi della fantasia:
La villa mi invitava ai giardini, ai prati, ai sedili, alle aiuole, alle scalee di marmo. E
quanto belle erano le bianche anticamere, le fresche sale, i terrazzi innondati di luce!
E dappertutto mi giungeva una fragranza di rose e di donna, e un lontano murmure
di poesia, triste nella dolcezza, come la memoria o il presentimento di un sogno75.
Infine, il rumore del treno riporta il viaggiatore sognante alla realtà e gli consiglia di
riprendere «il foglio della descrizione, roba rubata», per «cercare un rifugio a quelle
fantasmagorie, che mi rendevano il capo leggiero, come una bolla di sapone, vuoto e
iridescente». Si tratta dunque di «fantasmagorie» più che di bozzetti realistici, in
quanto la realtà, più immaginata che vista («alla mia imaginazione la chiesicciuola mi
schiudeva le porte»)76, è, principalmente, sfondo di riflessioni sulla natura e
sull’uomo.
Individuata la forte componente riflessiva, poetica e immaginativa che Bazzero
pone alla radice di questi schizzi, si può precisare che tra gli Acquerelli si trovano vari
tipi di prose: in alcune la componente realistica è del tutto elusa, privilegiando la ri-
flessione che si accompagna ad una prosa ritmica e al ritorno di temi e parole-chiave;
74 Ivi, p. 474.
75 Ivi, p. 416.
76 Ivi, p. 415.
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 111
in altre, il realismo ha maggiore spazio, con un en plein air che include
l’avvicinamento al dialetto. Questa seconda tipologia, entro cui potremmo includere,
ad esempio, Omnibus, Marinai e Marinare, ricorda certi “idilli sociali” di Tavolozza
di Praga, con la sottrazione dell’intento “sociale”. Perfino l’accento posto
sull’innocenza/incoscienza dei popolani, che permette loro di vivere pacificamente, in
contrasto con l’inquietudine dell’artista, ricorda Praga: «s’io fossi un pescatore […]
andrei alla spiaggia, cantando la canzone gaia e spensierata» (Pace)77.
In molte prose, però, la descrizione della realtà tende a sfumarsi nel pensiero e
nella prosa lirica; anche il mare di Pace, oltre che suggerire l’immagine della «barca
impeciata», si svolge poi nella rappresentazione di un deserto senza traccia umana:
Nessuna vela, nessun uccello, alla spiaggia nessun uomo. La vastissima acqua dava
tante e tante crespature curve sorridenti, che si succedevano soavi e venivano a mori-
re sulla spiaggia: sembravano ciglia e ciglia aperte alla prima luce da un dormente
stanco d’amore78.
Una leopardiana poetica della lontananza compare in Carta sciupata, nelle vesti di un
«lontano murmure di poesia, triste nella dolcezza, come la memoria o il presentimen-
to di un sogno»; lo sguardo si dirige al di là della campagna ligure: «e su e su, a ritroso
della corrente, io volevo andare alle scaturigini»79. Attraverso la figura dell’acqua, la
natura si rivela nella sua dimensione temporale, nel suo trascorrere travolgente: «Ma
l’acque fragorose dicevano: “Che sono le tue lacrime per il nostro corso? Noi andia-
mo al mare”». La villana, che «cantava allegra, allegra racconciando il grembiulino del
figlio morto per il figlio che le nascerà», è immersa, senza tristezze o sensi di colpa,
nel passare del tempo che cancella anche il dolore, inserendosi in un crudele mondo
naturale che il sognatore percepisce, invece, con terrore.
Lo scorrere del tempo, che vanifica la dimensione umana della vita, prende forma
in diversi acquerelli, recuperando anche formulazioni precedenti (L’onda riprende e
amplia un pensiero di Lagrime e sorrisi) e incrociandosi con il tema del crepuscolo
(«questa vita discende e non ha fiori: questo crepuscolo infosca ed è silente»)80. La
morte e l’inseguimento delle cose scomparse si ripresentano, seppur appena celati
dietro la descrizione delle antichità: «Passi nella galleria dei quadri, delle statue, delle
77 Ivi, p. 427. Sull’idillio sociale in Praga mi sia consentito richiamare un commento di chi scrive,
nell’articolo Sotto «il velo del quietismo»: “Tavolozza” di Emilio Praga, «La Rassegna della letteratura ita-
liana», IX, 1, gennaio-giugno 2010, pp. 86-107.
78 Bazzero, Prose scelte, cit., p. 415.
79 Ivi, p. 416.
80 Fanciulle mestissime, ivi, p. 439-40.
112 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
incisioni, delle conchiglie, in altre sale, in altre…. La semiluce è triste: è triste la me-
moria dei morti: è tristissimo l’insaziabile desiderio per coloro che non sono più»81.
La sensazione di disfacimento, già presagita nelle pubblicazioni del 1873, si pre-
senta negli Acquerelli tramite un nuovo “correlativo oggettivo”, il deserto che, insie-
me al mare, diventa la concreta immagine del «nulla», come in Sera, Deserto e Lonta-
no lontano.
Pace, pace: nulla sul mare, nulla in cielo […] Nulla sul mare: nulla vi è in cielo.
Vorrei morire…82.
Deserto è il mare: deserto è il cielo: deserta l’anima mia. Il navigante ha la sua map-
pa in quel deserto: l’astronomo la sua tavola nera: la donna nell’anima il suo prospet-
to della dote, controdate, posto in teatro e posto in paradiso.
Deserto solo vi è dove vi ha la noia della vita83.
Lontano, lontano andiamo, dove non ci sia più fondo, e il concavo dell’onda è tur-
chino come solfato di rame, dove si vegga cielo ed acqua, la torma dei fiotti che non
posa mai, la estensione aerea che non dà pace mai.. Andiamo innanzi ancora: ancora
lo stesso squallore portentoso dell’infinito84.
La corrispondenza tra nulla e infinito, la simmetria tra deserto e vita infettata dal-
la «noia», l’infinito come «squallore portentoso», «il nulla, il deserto, l’infecondità»85:
a differenza dei bozzetti realistici, queste immagini, che delineano più specificamente
la poetica bazzeriana, si snodano in una prosa franta (si noti l’uso continuo dei due
punti).
Un approfondimento delle figure del “deserto dell’anima” è carattere dominante
dei quattro testi raggruppati, già dal De Marchi, nella sezione intitolata Melanconie di
un antiquario, pubblicati tra il dicembre 1881 e il febbraio 1882 sull’«Eco dello sport»
e sul «Pungolo»86. Si tratta di quattro «fantasie», per utilizzare l’etichetta assegnata a
Natale, che mescolano componenti narrative, divagazioni erudite e riflessioni “me-
lanconiche”, riprendendo temi e forme elaborati tra il 1873-76.
81 Genova, ivi, p. 478,.
82 Sera, ivi, p. 447.
83 Deserto, ivi, p. 456.
84 Lontano lontano, ivi, p. 457.
85 Fiaba, ivi, p. 458.
86 Cfr. Nota ai testi, cit., pp. 657-58.
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 113
In Natale in famiglia87 Bazzero concretizza in ambienti e personaggi, situati in un
passato «remoto» e ormai scomparsi, le sue ossessioni di morte, oblio e degenerazio-
ne. Nebbia e pietra «fradicia di pioggia» attorniano dall’esterno la «villa barocca»;
l’interno è caratterizzato da «squallore», «freddo» e «silenzio»:
[…] v’è un abbandono che scolora tutto cogli strati di polvere e di muffa, e che dà a
tutto un aspetto di remoto, di sconfinato, di sepolto, colle tristi simmetrie
dell’immobilità e del sonno. Un sala s’apre nell’altra, l’altra nell’altra, l’altra nell’altra,
via, via…88.
La ripetizione («nell’altra, l’altra nell’altra […]») viene ancora utilizzata per co-
municare il senso dello scorrere del tempo che non lasciar traccia, apertamente de-
nunciato: «Oh come i morti s’oblíano nello squallore, giù nei saloni del vasto appar-
tamento!».
Simile al nastro che in Riflesso azzurro fungeva da tenue legame tra i frammenti
di ricordi, un «rampichino» capitato nella villa conduce le varie scene (si alternano a
inizio paragrafo, in ripetizione, i sintagmi «E il rampichino salticchia» e «Lì, o uccel-
lino»). Il «rampichino» sembra rappresentare, da testimone di ciò che è rimasto, il
valore della memoria e, insieme, la sua fragilità: non a caso, l’indomani, il pievano
«trovava sulla pietra un uccelletto morto di freddo»89. Ma, a ben vedere, mentre in
Riflesso azzurro la memoria comunicava, nelle immagini della fanciullezza, una certa
serenità, qua la decadenza aveva già corrotto in vita i tre abitanti della villa, ricordati
attraverso immagini di malattia e di morte: «La marchesa vedova […] vi giaceva am-
malata fradicia da sett’anni […] quella squallida ammalata, moriva rassegnatissi-
ma»90; sintetizzando, «lì, o uccellino, in mezzo secolo non è mai sonata una parola di
vita»91. Tant’è che, in conclusione, nemmeno il ricordo è più consigliabile: «non rac-
contare le istorie delle sale barocche abbandonate»92.
87 In «Eco dello sport», I, 36, 24 dicembre 1881, pp. 305-06, con sottotitolo Melanconie di un antiquario;
ora in Prose scelte, cit., pp. 545-53.
88 Ivi, p. 546. Scrive a proposito Mariani: «è indubbio che la villa barocca di Natale in famiglia, ove il Baz-
zero dà vita al fantasma della vecchia marchesa sepolta, costituisce l’evidente esemplare sul quale Gozza-
no ha disegnato le linee della Villa Amarena non soltanto per i palesi richiami esteriori ma anche e so-
prattutto per l’aria antica e desolata che circola nelle due vecchie ville, pel silenzio e la fuga delle stanze
morte che le accomuna entrambe nella nostra fantasia» (Mariani, Storia della Scapigliatura, cit., p. 562).
89 Bazzero, Prose scelte, cit., p. 553.
90 Ivi, pp. 547-48. Si noti che il termine “fradicio” è utilizzato per la villa in decadenza come per la mar-
chesa ammalata.
91 Ivi, p. 547.
92 Ivi, p. 553.
114 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Natale93, che si finge frammento reperito nel breviario di un «compianto curato»,
si apre sull’immagine della morte della natura: colti «aggelati», «lividi nebbionacci»,
«campanili, nudi e soli, che guardano cogli occhi abbacinati nelle nebbie»: «E su tut-
to, sui campi infiniti e sui paeselli perduti, un umido intenso, una tristezza plumbea,
una distesa persa, che non chiamiamo cielo, ma chiamiamo oblío». Ancora uccelli,
stavolta di vario tipo, sono le uniche presenze invocate ad animare un paesaggio de-
serto ma, come il «rampichino», hanno perduto la facoltà di comunicare senso di gio-
ia e libertà e si inseriscono, piuttosto, in un quadro di dolore universale:
[…] o miei amici, amici della mia casta infanzia e della mia trepida giovinezza, gentili
poeti dei voli e dei sussurri, poveri uccelli che avete sete, che avete fame, che avete
freddo, che avete le nebbie nell’animuccia, venite alla mia finestra in quest’alba sì me-
sta, venite ai miei vasi di fiori, venite alla mia stanzetta94.
Il «casto sogno»95 del curato, che sente incombere la morte su di sé e avverte il
peso della propria stanza «senza una culla, senza un ritratto di donna, senza un ricor-
do»96, è occupato dalle immagini di un idillio familiare. Ma, in chiusura, è ancora «un
nebbione rosso» a ripresentarsi, «un grigio pesante e un silenzio di morte»97, in
un’immagine di infecondità e desolazione.
Immagini di deserto e sterilità concludono anche La stella dei Re Magi98. Qui il
gusto antiquario si fonde con l’evocazione poetica, veicolo di un possibile recupero
memoriale della fanciullezza, età della «fantasia»:
E proprio mi pare… Mi pare, in questo crepuscolo della fantasia che si fonde colle
memorie del cuore, in questa tranquilla ora di sonno per i mortali e per gli immortali,
in questo soave oblio dei dolori e delle religioni, mi pare di vedervi ancora…99.
La ripetizione che intesse la prosa sembra poter veicolare un’idea di continuità
(«Non rispondete nulla e tacete e camminate: così, sempre così, o viatori di una not-
te»: l’incipit ricorre due volte, poi variato in «E camminate, e camminate…»), ma, in-
fine, l’io rimane escluso dalla durata: «Oh i Magi non si fermeranno mai a un davan-
93 In «Il Pungolo», XXIII, 354, 24-25 dicembre 1881, pp. 1-2, con il sottotitolo Fantasie; ora in Prose scelte,
cit., pp. 554-62.
94 Ivi, pp. 555-56.
95 Ivi, p. 561.
96 Ivi, p. 556.
97 Ivi, p. 561.
98 In «Il Pungolo», XXIV, 6, 6-7 gennaio 1882, pp. 2-3, con il sottotitolo Melanconie di un antiquario; ora
in Prose scelte, cit., pp. 562-69.
99 Ivi, p. 565.
Aforisma, frammento e prosa lirica in Bazzero 115
zale tanto deserto!». Quaresima100 non offre una diversa panoramica: «Oh morto mi
sentivo io! Perché nell’anima avevo il gran gelo dell’oblio!»101. L’ebbrezza, stato di al-
terata e più profonda coscienza per il Praga maudit, non è, ormai, che figurazione del
dolore: «È una grande ubbriachezza il dolore!»102.
100 In «Il Pungolo», XXIV, 57, 26-28 febbraio 1882, p. 1, con il sottotitolo Melanconie di un antiquario; ora
in Prose scelte, cit., pp. 569-75.
101 Ivi, p. 574.
102 Ivi, p. 575.
Parte seconda
Il poemetto in prosa tra il 1878 e il 1898
1. Girolamo Ragusa Moleti: dalla traduzione alla pratica del poemet-
to in prosa
1.1 La prima formazione e l’attività su periodici del «rompicollo» (1876-1878)
Girolamo Ragusa Moleti, protagonista della cultura meridionale tra fine Ottocento e
inizio Novecento, appartiene alle vittime di quel salto temporale che porta solitamen-
te ad obliterare, all’ombra dei grandi, i protagonisti minori della cultura italiana fin de
siècle. La questione riguarda ancor di più la cultura meridionale, che è laboratorio
fondamentale per il verismo ma si distingue anche, negli anni in questione, per la
precoce attenzione alla poesia francese, in particolare attraverso la pratica della tra-
duzione, come accenna Bernardelli occupandosi di Baudelaire nelle traduzioni italia-
ne1. «Cultore degli studî sul popolo siciliano, fu copioso d’armonie liriche e desidero-
so di allargarne e variarne gli effetto con prose ritmiche»2: così Guido Mazzoni ac-
cenna alla figura poliedrica del siciliano, non dimenticando di mettere in luce, tra le
poche parole designate a tratteggiare la figura di Ragusa Moleti, l’esercizio della «pro-
sa ritmica».
Dieci anni più vecchio di un Verga o di un Capuana, Ragusa Moleti ben rappre-
senta la situazione del letterato siciliano che si affacci al panorama artistico negli anni
’70 dell’Ottocento: l’interesse per il “realismo”, che rappresenta la novità assoluta nel
campo della narrativa e della poesia, consiglia di volgere lo sguardo alla Lombardia
scapigliata, «porta d’accesso» del naturalismo in Italia, inteso come «scelta coerente
1 «Quello di Ragusa Moleti non è un caso isolato: buona parte dei traduttori e delle traduzioni di Baude-
laire, almeno fino al 1930, è meridionale: Alfredo Libertini, autore di un Saggio di traduzioni poetiche e di
versi originali nel 1910 e nel 1931 di una traduzione metrica di tutte le Fleurs du Mal; Biagio Chiara, che
traduce per l’editore Barabba i Paradisi artificiali nel 1912; Giosafatte Tedeschi, che dà nel 1913 la “prima
traduzione in versi italiani […] accompagnata in corrispondenza dal testo francese”; Antonio e Maria
d’Albavilla [Antonio e Maria Bruno], che traducono I più bei poemi dei Fiori del Male di “Carlo di Parigi”,
ecc. Baudelaire diventa addirittura, in qualche caso, un fatto di costume» (G. Bernardelli, Baudelaire nelle
traduzioni italiane, in Contributi dell’Istituto di filologia moderna. Serie francese, Vita e pensiero, VII, Mi-
lano 1972, p. 356); Bernardelli si limita volutamente alla «segnalazione del fenomeno».
2 G. Mazzoni, L’Ottocento, Vallardi, Milano 1964, II, p. 581.
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
120 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
con il clima di antagonismo e avanguardismo instaurato dalla Scapigliatura»3. Com’è
noto, a partire dal 1876, anno della prima traduzione in volume di un romanzo della
saga Rougon-Macquart, la fortuna editoriale italiana di Zola, Milano in testa, «non
conosce soste fino ai primi anni del Novecento»4. Dunque non risulterà strano che la
formazione di Ragusa Moleti, nato nel 1851 a Palermo, sia legata, a dispetto della di-
stanza geografica, a quella koiné artistico-letteraria che si era andata formando in
Lombardia e, soprattutto, a Milano, ovvero la Scapigliatura. Si ricordi anche quanto
afferma Santangelo occupandosi della produzione lirica di Pirandello: «Palermo fu,
nel decennio 1880-90, centro di cultura nazionale ed europea. Negli anni palermitani
di Pirandello […] operava l’asse culturale Milano-Palermo con l’Onufrio e Ragusa
Moleti, primo traduttore in Italia dei poemetti in prosa di Baudelaire»5.
Sebbene sia più giovane degli scapigliati storici e viva le vicende del Risorgimento
da un punto d’osservazione ben diverso, Ragusa Moleti condivide con quei «lombar-
di in rivolta» l’esperienza dell’infatuazione patriottica e, probabilmente, della conse-
guente disillusione. Lo troviamo, in un ritratto del «Giornale d’Italia», al seguito di
Garibaldi tra i volontari di Mentana: «a 16 anni, nel 1867, ardente di patriottismo e di
libertà, era corso ad arruolarsi tra i volontari di Garibaldi in quella gesta eroica che
finì nella gloriosa disfatta di Mentana»6. Nel primo canzoniere di Ragusa (Prime ar-
mi, 1878) non mancano riferimenti all’esperienza patriottica: «[…] una divina e
grande fiamma / d’amor per la mia patria superare / mi fece monti e monti […]; per
questa mia scappata, m’hanno dato / del rompicollo»7. Sempre nelle Prime armi, pe-
rò, egli pubblicava una lirica All’Italia volta a parodiare i topoi delle canzoni patriotti-
che, criticando aspramente la deludente Italia “bottegaia” («E t’ama il bottegaio / […]
3 E. Ghidetti, L’ipotesi del realismo. Storia e geografia del naturalismo italiano, Sansoni, Milano 2000, p.
11.
4 Ivi, p. 13.
5 G. Santangelo, Influenze della poesia dell’800 sulla produzione lirica pirandelliana, in P. D. Giovanelli (a
cura di), Pirandello poeta (Atti del Convegno internazionale organizzato dal Centro nazionale di studi
pirandelliani di Agrigento, 1980), Vallecchi, Firenze 1981, p. 35.
6 A. Corsaro, Ragusa Moleti, «Giornale d’Italia», XVII, 206, 29 luglio 1917; l’articolo è citato in P. Rocchi,
Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti (Premières traductions ita-
liennes de Baudelaire, Mallarmé, Corbière, Huysmans, Rimbaud, Moréas, Kahn, Laforgue, Maeterlinck),
Libreria Commissionaria Sansoni, Firenze; Librairie Marcel Didier, Paris 1976, p. 24. Si ricordi che Ragu-
sa Moleti scrisse poi, in occasione della morte di Garibaldi, un opuscolo di 47 pagine intitolato Caprera
(Tipografia del «Tempo», Palermo 1882); come per il profilo di Baudelaire, una copia dell’opera è conser-
vata presso Casa Carducci. Per il patriottismo di Ragusa Moleti, Rocchi rimanda anche, giustamente, a La
Sicilia e l’unita di patria (lettura al Politeama di Palermo), 12 gennaio 1908 (tipografia Sicula, Palermo
1908); cfr. Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 24.
7 G. Ragusa Moleti, Prime armi. Canzoniere, Virzì, Palermo 1878, p. 32.
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 121
perché in Italia, da mattina a sera, / c’è chi compra e chi vende, / e si vive in faccen-
de»)8. Si trova traccia, contestualmente, di idee protosocialiste:
Fradicio di sudor, sotto dei duri
luglieti, o montanar, zappa, concima;
zappa, chè il padroncin se la lussuri
colla sua mima.
Gli epuloni ti fan la carità,
vile operaio, se ti dan lavoro
e pagarlo metà della metà
è dritto loro9.
Con gli scapigliati lombardi, dunque, egli condivideva frustrazione e volontà di rival-
sa, tradotte in una simpatia per le idee protosocialiste, seppur più moderata a fronte
della passione militante di alcuni milanesi: come sottolinea Patrizia Rocchi, in testa a
questo movimento si sarebbe trovato, per Ragusa, un Murger, «humanitaire et ane-
cdotique», piuttosto che uno Zola, «engagé directement dans la bataille politique»10.
La giovinezza del siciliano viene raccontata dall’amico Filipponi nei termini di un
ribellismo alle forme convenzionali dell’istruzione:
La prima volta che incontrai Girolamo Ragusa Moleti, fu sul banco della scuola Tec-
nica […]. Egli era tutto scatti, tutto fuoco, tutto fantasie, robusto, manesco; io esile,
piccolo, vivace: egli ribelle coraggioso; io ribelle timido, perché non seppi rompere le
pastoie nelle quali stetti per lunghi anni serrato; io seguitai a frequentare la scuola, e-
gli veniva a riprese, poi diradò e non si vide più11.
Giuseppe Pipitone Federico ricorda la formazione del Ragusa Moleti in termini simi-
li, ma non senza accennare alla coerenza con cui i disordinati e vari studi dell’amico
si erano comunque svolti:
Il Ragusa studiò, e studiò con vero furore, e forse – malgrado la sua stessa confessione
– non senza metodo. Studiò grammatica e lingua italiana su’ migliori trattatisti, sui
8 Ivi, pp. 140-41.
9 Ivi, p. 35. C’è un cenno anche alle rivendicazioni femminili: «[…] E, se la donna rïalza / la testa, io gride-
rò, siccome è l’uso, che son lesi i diritti della calza, e quei del fuso» (ivi, p. 34).
10 Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 44. Cfr. anche P. Falcio-
la, La littérature française dans la presse vériste italienne, Libreria commissionaria Sansoni, Firenze; Li-
braire Marcel Didier, Paris 1977, p. 38: «Il resta sourd aux exigences sociales du Naturalisme».
11 G. Filipponi, Girolamo Ragusa Moleti, «Psiche», VI, 7, 2 marzo 1890.
122 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
classici, sui vocabolari, facendo uno spoglio accurato di voci e di frasi; studiò storia,
filosofia, e diè ancora una capatina nel vasto regno delle arti e delle scienze. Del si-
stema filosofico di Simone Corleo - il maestro di tutti noi – trasse egli quella nota di
scetticismo kantiano che temperatasi colle idee di due altri immortali metafisici,
l’Hegel e lo Schopenhauer – il patriarca del moderno pessimismo12.
Anche il Ragusa Moleti parla dei suoi studi nell’ambito delle Conversazioni13, ri-
cordando in particolare la propria formazione filosofica legata a Simone Corleo, figu-
ra poliedrica di non facile inquadramento14; ciò che interessa, in particolare, è il fatto
che Pipitone Federico riconduca l’insegnamento del Corleo allo «scetticismo», termi-
ne più volte utilizzato, in senso lato, dal Ragusa Moleti stesso, e al «pessimismo» (per
cui si rimanda a «Schopenhauer»), individuando così le due linee guida del pensiero
dell’amico.
Nell’ambito della formazione e dell’attività di Ragusa Moleti andrà ricordata an-
che la passione per le tradizioni popolari, che si traduce nelle produzioni «demopsi-
cologiche», nell’attenzione alle leggende popolari e alla realtà del popolo siciliano15.
L’interesse per le tradizioni popolari è connesso, come nota giustamente Rocchi, alle
simpatie socialiste, che si concretizzano, ad esempio, nella polemica verso i latifondi-
sti («M’assale una gran tristezza, una gran collera a vedere tanta opulenza di terra da
ignoranti, avari ed egoisti padroni abbandonata ad una cultura spolatrice, che dà
scarsi prodotti ai padroni e miseria ai contadini»)16. Un risvolto interessante della
passione per la cultura popolare è costituito dalla convinzione che, nella letteratura
12 G. Pipitone Federico, G. Ragusa Moleti, «La Scena Illustrata» (Firenze-Roma), XXV, 15, 1 agosto 1889.
13 G. Ragusa Moleti, Conversazioni della domenica. Nella torre d’avorio, «Il Corriere dell’Isola», 9-10 mag-
gio 1897 (cfr. Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 25).
14 Alla base del pensiero si Simone Corleo sta il «principio di identità», attraverso il quale egli intendereb-
be definire il ruolo della filosofia come sintesi logica di ogni forma di conoscenza: la filosofia «comprende
entro di sé tutte le altre scienze, insieme le coordina, le dirige nel loro scopo, nel loro metodo, nei loro
oggetti, ed armonizza tutto ciò che potrebbe apparire diverso tra i vari rami del sapere» (S. Corleo, Filoso-
fia universale, I, Lo Bianco, Palermo 1860, p. 4). Per un profilo del Corleo (1823-1891), si può consultare
utilmente G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, II. I positivisti, Principato, Messina
1921, pp. 211-40: Gentile annovera il Corleo tra i positivisti, anche se «positivista egli non credé mai di
essere», ritenendo di trovarsi di fronte ad un «positivista in tempo di positivisti ma con tutto un bagaglio
addosso di vecchia metafisica» (ivi, p. 215). Cfr. anche G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Le
Lettere, Firenze 2003, p. 149 e sgg.
15 Fin dal 1876, con La poesia dei popoli selvaggi, si era occupato dell’argomento, ma la sua bibliografia è
ricca di opere di interesse folkloristico, fino agli ultimi anni di vita (Giuseppe Pitré e le tradizioni popolari,
1884; Poesie dei popoli selvaggi o poco civili, 1891; I proverbi dei popoli barbari, 1893; Il paganesimo popo-
lare, 1894; Leggende del mio Nord, 1905; sono solo alcuni titoli). Cfr. C. Gallo, Nota bibliografica, in Lette-
re di Girolamo Ragusa Moleti, a c. di C. Gallo, Bonanno, Acireale 2000, pp. 101-02.
16 G. Ragusa Moleti, Nei feudi delle Petralie, «Psiche», XVI, 10, 16 maggio 1899; cfr. Rocchi, Les «Conver-
sazioni della domenica» de Girolamo Ragusa Moleti, cit., pp. 26-27.
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 123
del popolo, si trovi ancora una «sincerità» che manca, ormai, nei «poeti laureati»;
scrive infatti, per spiegare il suo lavoro di raccolta di canti popolari:
questa raccolta non l’ho fatta per eccentricità o per capriccio di uomo di lettere, ma
perché e i canti di amore, e gli inni di guerra, e le preghiere devote, e le gentili ninne
nanne, e le favole e i racconti epici degli analfabeti, tanto dei paesi civili che dei paesi
selvaggi, hanno, non foss’altro, il gran pregio della sincerità, la quale spessissimo
manca alla bugiarda arte dei poeti laureati17.
Questa virtù di autenticità non è secondaria, se si considera che Ragusa Moleti ne farà
poi un vessillo per la difesa di Baudelaire in confronto con «i suoi imitatori»18; la
«sincerità» fornisce la barriera più forte contro il manierismo: «Di detestabile in arte
non v’è che la menzogna, la rea madre, cioè a dire del manierismo».
La riflessione di Ragusa Moleti sulla letteratura popolare interessa anche perché
rappresenta, come per il Tarchetti dei Canti del cuore e per il Capuana dei Semiritmi,
un terreno fecondo su cui innestare una rottura della tradizionale distinzione tra poe-
sia e prosa, in nome di una genuina «vitalità» («vitale nutrimento»)19. Attraverso la
letteratura popolare, egli arriva anche a rivalutare positivamente un innesto dei dia-
letti nell’italiano letterario: «Fu detto che la nostra lingua si dovrebbe rinsanguare nei
dialetti. Aggiungerei che sarebbe una vera grazia di Dio, se tutta la letteratura potesse
ricevere vitale nutrimento dal buon sangue della schietta arte del popolo»20.
A partire dal 1876, Ragusa Moleti comincia a pubblicare su vari periodici, sicilia-
ni e non solo, entrando nell’ambiente letterario con il passaporto di novelliere (Solite
storie, Palermo, Gaudiano, 1876) e folklorista (La poesia dei popoli selvaggi, Palermo,
Biondo, 1876). Collabora alla «Farfalla»21, dove pubblica sonetti e novelle, oltre a se-
17 Id., Della poesia. Conversazione co’ miei allievi, «Scuola e famiglia», XVI, 3, 1 febbraio 1889; ora in Pa-
gine sparse di Girolamo Ragusa Moleti, a c. di C. Gallo, Catania, Boemi, 1998, pp. 66-71.
18 Scrive su Baudelaire: «passioni che saranno perverse quanto volete, ma son vita sinceramente vissuta da
un uomo che non v’inganna mai, né con bugiarda prosa, né con bugiarda poesia» (G. Ragusa Moleti,
Conversazioni della domenica. Nella Torre d’avorio, «Corriere dell’Isola», 9-10 aprile 1897).
19 Id., Della poesia. Conversazione co’ miei allievi, cit.
20 Ibid.
21 Si dà un ragguaglio degli scritti pubblicati sulla «Farfalla» tra il 1876 e il 1878, che ne comprende diversi
sfuggiti alla Gallo (cfr. Gallo, Nota bibliografica, cit., p. 107): Fortunio (G. R. Moleti), Fra un canchero e
l’altro. Bozzetto, «La Farfalla», II, 14, 31 dic. 1876; Id., Palermo, ivi, III, 5, 11 marzo 1877; Id., Mea culpa,
ivi, III, 7, 8 aprile 1877; Id., Certo il Signore […], ivi, III, 8, 15 aprile 1877; Id., Il mare, ivi, III, 11, 12 mag-
gio 1877; Id., Un’Ora di Fede. A Maria, ivi, III, 12, 3 giugno 1877; Id., Fuori di chiave. A Gerolamo di Ma-
io, ivi, III, 1, 17 giugno 1877; Id., In Paradiso (all’amico Angelo Sommaruga), ivi, III, 2, 1 luglio 1877; Id.,
A Gigia, ivi, III, 4, 15 luglio 1877; Id., Sgombero, ibid.; G. Ragusa Moleti, Scirocco. Schizzo, ivi, III, 5, 29
luglio 1877; Fortunio, Mi ricordo…; A una buona creatura, ibid.; Id., La favorita. Paesaggio, ivi, III, 8, 9
settembre 1877; G. Ragusa Moleti, A proposito di Lorenzo Stecchetti, III, 1, 30 settembre 1877; Fortunio,
124 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
guire e recensire i prodotti letterari più recenti. In particolare, prende posizione deci-
sa sui libri poetici che, come si legge in una nota redazionale della «Farfalla», erano i
più commentati in ambito “realista-scapigliato”: «Le Odi Barbare di Carducci, il Libro
dei versi di Arrigo Boito, le Postume d’un poeta che ama celarsi sotto lo pseudonimo
di Lorenzo Stecchetti ci han fatto tornare ai tempi della letteratura. Si legge poesia, si
parla di poesia, se ne discute; il fine è conseguito; l’arte rivive nei cuori degl’italiani»22.
Non c’è una recensione di Ragusa Moleti che riguardi le Odi barbare, ma è nota
la sua ammirazione per il Carducci, imitato apertamente nella raccolta Intermezzo
barbaro23. Con un articolo pubblicato nel settembre 1877, Ragusa si inseriva invece
attivamente nella polemica suscitata dalla pubblicazione di Postuma di Lorenzo Stec-
chetti, pseudonimo di Olindo Guerrini, che, com’è noto, fingeva di pubblicare le poe-
sie del cugino, amico e compagno di studi bolognesi, vittima di una morte precoce
divenuta, da «scherzo», «profezia»24. Riguardo a Postuma, si ricordi soltanto, con
Ghidetti, che si tratta di «uno dei libri che hanno segnato la storia della poesia italiana
e del gusto letterario fin-de-siècle più profondamente di quanto non sia di solito am-
messo»25.
La prima parte dell’articolo di Ragusa è dedicata ad una definizione della poesia:
Fare della poesia è facile come bere un uovo, quando il poeta non deve far altro che
guardare nel mondo esteriore e dirci l’ora che è, il tempo che fa, quando non si fa al-
Primavera, ivi, III, 6, 12 agosto 1877; G. Ragusa Moleti, A Satana. Quartine, ivi, III, 2, 7 ottobre 1877; Id.,
Povera Lillì. Schizzo, ivi, III, 3, 14 ottobre 1877; Id., Maddalena. Novella, ivi, III, 4, 21 ottobre 1877; Id.,
Samuel. Schizzo, ivi, III, 11, 8 dicembre 1877; Id., Don Fedele. Novella, ivi, III, 12, 16 dicembre 1877; Id.,
845 lire. Racconto, ivi, IV, 3, 13 gennaio 1878; 5, 27 gennaio 1878; 7, 10 febbraio 1878; Id., Noterelle sul
libro dei versi di Arrigo Boito, ivi, IV, 16, 14 aprile 1878, 21 aprile 1878; Id., A Darwin. Sestine di ottonari,
ivi, IV, 5, 26 maggio 1878; Id., Commiato. Sonetto, C’era una volta…. Schizzo, ivi, IV, 8, 16 giugno 1878;
Id., Memento, ivi, IV, 10, 29-30 giugno 1878; Id., A una tisica, ivi, IV, 14, 28 luglio 1878; Id., I Bohèmes,
ibid; Id., Impertinenze, ivi, IV, 15, 4 agosto 1878.
22 Rec. a G. Carducci, Preludio; A. Boito, Poesia e prosa; L. Stecchetti, Il canto dell’odio, «La Farfalla», 7, 26
agosto 1877.
23 Cfr. anche G. Ragusa Moleti, Giosuè Carducci, Palermo, Sandron, 1907. Rocchi rileva anche due Con-
versazioni della domenica, «la Conversazione du 21 mars 1897 consacrée a Carducci et la Conversazione
du 11-12 juillet 1897, où Carducci est cité a côté de Dante, Pétrarque, Foscolo et Leopardi» (Rocchi, Les
«Conversazioni della domenica» de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 16).
24 «Nella sua cameretta di via Zamboni, egli mi leggeva qualcuno dei canti che ora si trovano in questa
raccolta, e, poiché io lo confortavo a pubblicarli, mi rispose scherzando che il farlo sarebbe stata mia cura
quando egli fosse morto» (L. Stecchetti [O. Guerrini], Le rime, Zanichelli, Bologna 19052, p. 4).
25 Ghidetti, L’ipotesi del realismo, cit., p. 55. Ghidetti continua: «non solo e non tanto per aver inaugurato
la effimera voga delle “stecchettiane” che dettero voce al maledettismo di provinciali flaneurs, ma per es-
sere arrivato a lambire, ben oltre la soglia del Novecento la sponda crepuscolare (fino al 1916 si contano
trentadue edizioni del “canzoniere”)» (cfr. ivi, pp. 55-56).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 125
tro che descrivere […]. Basta volgere lo sguardo nel proprio dentro; basta guardare in
sé medesimo per scorgere però un mondo più largo, più grande, più vario, più vivo
del mondo esteriore. È il mondo della coscienza […]. Non ci facciamo illusione. Ad
esser poeti davvero bisogna avere una grande coscienza; bisogna guardare dentro di
sé, non mica nel mondo di fuori26.
Da questa concezione della poesia intesa come scandaglio nell’interiorità, di banale
provenienza romantica, Ragusa passa dunque al giudizio su Stecchetti:
Lorenzo Stecchetti è un poeta lirico – egli vive nel mondo della sua coscienza; quando
ha da dirmi qualcosa del mondo esteriore, me la dice in ragione dell’impressione che
produce sopra i suoi nervi e dentro il suo cervello. – Il signor Stecchetti è quindi in
perfetta regola con l’estetica – […] ci dice i suoi crucci, le sue invidie, le sue gelosie; ci
narra la storia delle sue passioni – è un lirico. Ma il suo mondo è un mondaccio27.
Dello Stecchetti si apprezzano «la forma pulita», «la musica», «il ritmo e la proso-
dia», ma, in conclusione, «la gente non ha tempo da perdere ad occuparsi degli amori
d’un libertino e d’una baldracca, mentre i campi dell’arte sono vasti ed interminati»28.
Non siamo di fronte ad una presa di distanza eccessivamente moralistica; Stecchetti
non è accusato di praticare un’arte corruttrice dei boni mores, ma, piuttosto, di sce-
gliere male i propri soggetti, tra gli «amori d’un libertino e d’una baldracca». Consi-
derato che, poco dopo, Ragusa stesso pubblicherà sulla rivista una poesia dal titolo A
Satana29, si deve probabilmente dedurre che la critica sui temi di Stecchetti provenga
essenzialmente da una disapprovazione verso la triviale quotidianità dei soggetti trat-
tati, che non conducono ad una riflessione profonda sulla natura dell’uomo. Il Satana
del Ragusa, ad esempio, ha il carattere provocatorio delle figure diaboliche di Stec-
chetti, ma si propone in fondo a campione di un “progresso” danneggiato dagli oscu-
rantisti.
Nemmeno il Libro dei versi lo convince; il giudizio sul libro di Boito, caratterizza-
to secondo Ragusa da «tetraggine» e «confusione», è sostanzialmente negativo: «Boito
mi pare […] lo scarafaggio nella stoppa; egli è incerto non perché dubiti, ma perché
ignora»30. Ragusa si scaglia, soprattutto, contro lo «stato psicologico» duale che im-
pregna la lirica di Boito, ritenendo che un stato d’animo contrario alla «logica» non
26 G. Ragusa Moleti, A proposito di Lorenzo Stecchetti, «La Farfalla», 1, 30 settembre 1877.
27 Ibid.
28 Ibid.
29 Id., A Satana, ivi, 2, 7 ottobre 1877.
30 Id., Noterelle sul libro dei versi di Arrigo Boito (Recensione a A. Boito, Il libro dei versi), ivi, 16, 14 aprile
1878, 21 aprile 1878.
126 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
possa che essere frutto di pazzia (ma «la buona creanza mi vieterebbe di dar del pazzo
a un galantuomo») o, con più probabilità, di ostentata «originalità». Sembra dunque
che Ragusa Moleti riconosca, essendone disturbato, un carattere essenziale che diffe-
renzia la poesia del canzoniere boitiano dalle raccolte di Praga (o di Camerana): Boito
si esercita su una serie di temi, il dualismo in testa, rendendoli esteriori, trattandoli
alla stregua di soggetti letterari piuttosto che come demoni esistenziali.
Non a caso, dunque, il nostro recensore accusa la poesia di Boito di artificio e in-
sincerità, laddove lo «stato d’animo» del poeta rimane, in fin dei conti, celato e in-
sondato: «Ei guarda sempre fuori di sé, mai dentro»; questo differenzia Boito, agli oc-
chi di Ragusa, dal compagno di strada Emilio Praga31. L’articolo rivela dunque
l’attenzione di Ragusa verso la letteratura scapigliata e sembrerebbe testimoniare una
predilezione per la poesia “autentica” di Praga; si vedrà, come già accennato, che la
«sincerità» è una delle qualità e dei punti di difesa dell’opera di Baudelaire.
La conoscenza della Scapigliatura è rivelata anche dall’articolo I Bohèmes, nel
quale Ragusa, con un indicativo «noi», si pone tra gli eredi del movimento inaugurato
a Milano nei primi anni Sessanta. Pubblicato sulla «Farfalla» nel 187832, l’articolo si
inserisce nella polemica nata da un intervento di pochi mesi prima, a firma di Io Far-
falla (Sommaruga), riguardo alla bohème33, a cui aveva fatto seguito una risposta criti-
ca da parte di Torelli Viollier sulle colonne del «Corriere della Sera»34. Sommaruga
lamentava i pochi amici rimasti tra i veri e propri bohèmes, rivendicandone però la
sincerità e la nobiltà («O cara e simpatica bohème delle Scènes de la Vie e dei Buveurs
d’eau, di Murger; o valorosa e santa bohème dei Refractaires di Vallés, esistete voi
davvero nella realtà della società moderna, - o siete puri ideali di quelle elettissime
menti?»); Torelli Viollier, dal «Corriere della Sera», sosteneva, non del tutto a torto, a
partire da una lunga digressione sulla letteratura francese e sul realismo/verismo, che
la bohème italiana riprendeva una moda francese già vecchia e si affidava a tanti mo-
delli fraintendendoli. Le sue accuse, però, tradivano una poco neutra affiliazione al
classicismo restauratore carducciano35.
31 «Il signor Boito, in questa poesia [A Emilio Praga], ha il torto di credere che la sua arte abbia qualcosa
di comune con quella di Praga – crede di essere correo con il Praga nel delitto di lesa rettorica. No, no,
signor Boito. Ella è innocente di questa colpa […]» (ibid.).
32 G. Ragusa Moleti, I Bohèmes, «La Farfalla», IV, 14, 28 luglio 1878; poi in «Gazzetta di Palermo», X, 212,
6 agosto 1878; ora in Pagine sparse di Girolamo Ragusa Moleti, cit., pp. 25-27.
33 Io Farfalla [A. Sommaruga], Spleen, «La Farfalla», IV, 16, 14 aprile 1878; parz. in La pubblicistica nel
periodo della Scapigliatura, cit., p. 359.
34 E. Torelli Viollier, La Bohème, «Corriere della Sera», 5-6 maggio, 13-14 maggio 1878.
35 «Oltre Murger, i bohèmes nominano, come loro capiscuola, Musset e Zola. Abbiamo già provato come
il nome di Murger sia leggermente invocato: proveremo, non più tardi di domani, come i bohèmes non
possano raccomandarsi nemmeno ai nomi di Musset e di Zola, ché ne’ loro scritti non c’è né l’arte ro-
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 127
Tra gli interventi in difesa della Bohème36 si inserisce quello di Ragusa Moleti, che
si differenzia leggermente dagli altri per l’intento di definire la bohème come stato
psicologico e materiale giovanile, destinato ad esaurirsi quando la fortuna, finalmen-
te, si decida a premiare il faticoso tirocinio in campo artistico dell’esordiente37. Si po-
trebbe obiettare che, in realtà, questa difesa smentisce almeno una delle affermazioni
di Io Farfalla, che criticava proprio chi, in seguito a fortunate vicende personali, ab-
bandona le fila della bohème (magari «un artista, che un subito sorriso della sorte, ha
strappato dalle strette della miseria»)38.
D’altro lato, l’articolo di Ragusa rivela chiaramente il legame dell’autore con
l’ambiente della Scapigliatura e del nascente realismo; l’esistenza dei bohèmes è de-
scritta come evento salutare per «il mondo dell’arte», che trae leggerezza e spensiera-
tezza da questa gioventù, assai più viva degli «uomini gravi», dipinti con pennellate
giustiane e scapigliate:
Sì, senza questi capi ameni il mondo dell’arte sarebbe, addirittura, un formicolaio di
uomini gravi nel pensare, gravi nel caminare, gravi nel giocare a briscola, gravi nel far
la corte anche alle serve di casa, gravi al circolo, nel salotto, per tutto, sempre. Li han
chiamati eccentrici e, difatto, i bohèmes non pensano, non amano, non vogliono tutto
quello che suole gravemente pensare, amare e volere tutta la ciurma dei codini, dei
gingillini, dei commendatori, dei panciuti, degli uomini seri di cui son pieni i caffè, le
redazioni dei giornali, le scuole, e il cui ideale della vita è un bel piatto di maccheroni
con la brava salsa di pomidoro, le petronciane fritte ed il basilico. Null’altro39.
Il termine bohème non è altro, in mano ai “pedanti”, che un’arma puntata contro tutti
i giovani che, avvicinandosi all’arte, vivono inizialmente condizioni di disagio, so-
prattutto economico40. Ragusa Moleti tenta dunque di riportare il termine bohème a
mantica del primo, né l’arte realistica del secondo, non essendoci, per servirci d’un’espressione del Car-
ducci, che “la porcheria pura e semplice”» (ibid.).
36 Ancora dalla «Farfalla», Faust (F. Giarelli) risponde indignato, in quanto il «Corriere» «attacca lettera-
riamente la Bohème» (cfr. «La Farfalla», IV, 3, 12 maggio 1878).
37 L’articolo di Ragusa discute il concetto di bohème e la sua validità nell’uso diffamatorio che, solitamen-
te, i critici letterari ne fanno; d’altra parte, non si intende difendere la vita bohèmienne come esistenza
autentica tout court, ma come periodo destinato, fortunatamente, ad esaurirsi: «appena un ingegno è ri-
conosciuto e i prodotti di codesto ingegno saran cercati, e della vita bohème non se ne parla più» (G. Ra-
gusa Moleti, I Bohèmes, in Pagine sparse di Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 26).
38 Io Farfalla [A. Sommaruga], Spleen, cit.
39 Ragusa Moleti, I Bohèmes, cit., p. 25.
40 «Or è appunto nel tempo che corre (mi si passi la figura) tra i primo ed incerto corruscare d’un grande
ingegno e fra primi momenti del suo completo splendore e della sua gloria che sta la via crucis della bo-
hème. […] Il noviziato di qualunque carriera è sempre scarso a quattrini, ed è appunto questo noviziato
che si chiama bohèmismo» (ivi, p. 26). Sembra trattarsi di una personale interpretazione delle parole
128 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
un significato prima di tutto anagrafico, per svincolarlo da quella giovane “corrente
artistica” a cui tale definizione sembra essersi legata indissolubilmente, ovvero il “rea-
lismo”.
Il termine “realisti” non compare affatto nell’articolo, ma lo si evince (lo fa, giu-
stamente, anche Cinzia Gallo) per opposizione agli «idealisti»41; questo “realismo”
assimilato alla «bohème» deriva direttamente da quella concezione, abbastanza varia e
fluida, che si era formata in ambito scapigliato per designare, appunto, l’opposizione
a poetiche più tradizionali. Per fare un esempio, nello stesso 1878, sempre sulla «Far-
falla», un articolo dedicato alle postume Trasparenze ripercorre la carriera di Emilio
Praga e rivendica, in opposizione a chi intende «dimezzare il poeta» (leggi: Molineri,
curatore della raccolta), entrambe le «anime» di Praga, «orgia» e «affetti», in nome
del “realismo”; proprio per questo, si sostiene che Praga è il «capo orchestra della po-
esia realista in Italia», affermando che «lo Stecchetti e il Fontana, benché spesso ori-
ginali nel pensiero, derivano da lui»42. Lo stesso «realismo» era il termine utilizzato
dai denigratori del Praga maudit: Paravicini, su «Il Mondo Artistico», riprendeva
un’accusa scontata demonizzando l’“antiprogressismo” e il pessimismo di Praga e
della «scuola realistica»43.
Tenendo presente tale panorama, si possono meglio comprendere i caratteri dei
bohèmes secondo Ragusa, artisti che riconoscono, come predecessori, i più grandi
uomini del passato, si rispecchiano, in politica, nei rivoluzionari, e sono «scettici» in
filosofia:
si sa che gli artisti della bohème sono Omero, Ovidio, Orazio, Dante, tutti i trovadori,
Musset, Heine, Murger, Balzac, Hugo; che gli uomini politici della bohème furono
quelli dell’89, del 93, del 30 e del 48; quando si sa che in filosofia i bohèmes, la mag-
dell’Arrighi riguardo all’età degli scapigliati: «una certa quantità d’individui di ambo i sessi fra i venti e i
trentacinque anni, non più; pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro tempo; pronti al bene
quanto al male; irrequieti, travagliati, …turbolenti […]» (C. Arrighi [C. Righetti], La Scapigliatura e il 6
febbrajo, a c. di R. Fedi, Mursia, Milano 1988, p. 27).
41 Cfr. ibid.: «Chi ragiona, per esempio, così: - Fra i bohèmes vi sono dei ciuchi, ergo tutti i bohème sono
ciuchi; dovrebbe dare il permesso a un bohème di ragionare a questo modo: - Fra gli idealisti vi son uomi-
ni i quali invece di aver teste, hanno zucche sopra le spalle ergo tutti gli idealisti sono zucconi».
42 Armando, Emilio Praga. A proposito delle sue “Trasparenze” (Rec. a E. Praga, Trasparenze), «La Farfal-
la», IV, 3 marzo 1878; parz. in La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura, cit., pp. 355-56.
43 «Il Praga appartiene a quella scuola realistica, che ha per bandiera un drappo da morto, nella quale tutto
è sconforto, è sfiducia e fa capo a un baratro bujo e profondo, nella quale non suona più che l’ultima be-
stemmia del disperato» (R. Paravicini, Emilio Praga. Fiabe e leggende, «Il Mondo Artistico», 29 agosto
1869; parz. in La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura, cit., p. 782).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 129
gior parte, sono scettici e lo scetticismo, almeno, è sistema filosofico quanto un al-
tro44.
Come accennato, Ragusa Moleti pone se stesso in questa schiera45 che nasce, e in
buona parte ancora si identifica, con la Scapigliatura, assumendo, nei confronti della
critica ottusa, la posa scapigliata dell’ironia scanzonata e dello scherno:
In tempi di bagni, io che non so nuotare, e galleggio solo con le zucche, ne avrei biso-
gno due da legarmele sotto le ascelle. Perdio! Con due teste di critici sotto le ascelle,
sarei sicuro di non potere annegare nemmeno nel Grande oceano46.
È interessante notare inoltre, a latere, che anche Vittorio Pica esordì, secondo le re-
centi ricerche di D’Antuono, con un articolo che trattava di Bohème: il titolo era Al-
berto Glatigny, e Pica vi aggiunse in calce, raccogliendolo in All’Avanguardia (1890),
l’indicazione «Un vero Bohème». La definizione di Bohème è simile a quella di Ragu-
sa, oltre a richiamare la matrice comune dell’Arrighi:
La bohème non è una scuola artistica, come pare che credano alcuni critici e pseudo-
critici italiani, ma è l’insieme di quegli individui, i quali debbono, per soddisfare le lo-
ro ispirazioni artistiche, lottare incessantemente con le esigenze della vita quotidiana
e con la società, che o li schernisce o li disprezza47.
Tra il 1876 e il 187848, Ragusa collabora anche ad altre testate, siciliane e non,
quali la «Gazzetta di Palermo»49, il «Giornale di Sicilia»50, «Il Paese»51, «La Vedetta»52,
44 Ragusa Moleti, I Bohèmes, cit., p. 27.
45 «Se i nostri critici, per il piacere di chiamare noi insipienti […]» (ibid.).
46 Ivi, p. 26.
47 V. Pica, Alberto Glatigny, in All’Avanguardia (1890), con introduzione di T. Iermano, Vecchiarelli,
Roma 1993, p. 341. Come fa notare D’Antuono, Pica poi cambiò idea, già nel 1887, definendo la Scapi-
gliatura «un cenacolo di letterati e di artisti lombardi capitanati dal Rovani, la maggior parte dei quali
rimasero vittime di una stolta imitazione della vita scapigliata e piena di stravizi dei bohèmiens parigini»
(cfr. N. D’Antuono, La Chimera e la Sfinge nel Des Esseintes italiano, in V. Pica, «Arte aristocratica» e altri
scritti su naturalismo, sibaritismo e giapponismo (1881-1892), a c. di N. D'Antuono, Edizioni scientifiche
italiane, Napoli 1995, p. 17).
48 Tale ricerca è stata compiuta con l’ausilio della bibliografia fornita dalla Gallo nella Lettere, che pur si
dichiara parziale, e attraverso riscontri compiuti personalmente.
49 Ragusa pubblica sulla «Gazzetta di Palermo» i seguenti scritti, segnalati anche dalla Gallo, tra il 1876 e il
1878: Sua eccellenza Gustavo Colline. Da E. Murger (ivi, 27 giugno 1876); Solite storie (ivi, 7 settembre
1876); Mentre russava (ivi, 20 luglio 1877); Il primo gemito. Da G. Droz (ivi, 7 agosto 1877); I Bohèmes
(ivi, 6 agosto 1878).
130 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
«La Plebe»53 e la «Rivista minima»54. Il suo nome cominciava a circolare in relazione
alla prima raccolta poetica, Prime armi, che gli provocava gli appellativi, di segno ne-
gativo, di realista e imitatore di Stecchetti. Nel «Gazzettino rosa» dell’agosto 187855,
ad esempio, si legge: «In uno degli ultimi numeri della Farfalla, che è forse il giornale
realista più diffuso in Italia, troviamo una poesia del signor G. Ragusa Moleti, intito-
lata: Ad una tisica, che è quanto mai di più… disonesto – per esser indulgenti la
chiameremo così – si possa scrivere». Come altrove56, si accusa l’autore di essere ca-
duto in contraddizione, essendosi accostato allo stesso «cinismo» che deplorava in
Stecchetti.
1.2 Prime armi: un canzoniere tardo-scapigliato
Una lettura della prima raccolta poetica di Ragusa Moleti, Prime armi, pubblicata a
Palermo da Virzì nel 187857, può contribuire alla ricostruzione dell’immaginario cul-
turale su cui si fonda la sua lettura dello Spleen de Paris. Innanzitutto, essa offre la
conferma di una formazione non estranea alla poesia di Guerrini-Stecchetti, il quale a
50 La Gallo segnala i seguenti scritti per il «Giornale di Sicilia» (cfr. Gallo, Nota bibliografica, in Lettere di
Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 107), registrando un’occorrenza già nel 1875: Rassegna bibliografica. «La
vita di Nino Bixio» narrata da Giuseppe Guerzoni con lettere e documenti, Firenze, Barbera, 1875 (Recen-
sione; 18 gennaio 1875); Scirocco (30 giugno-1 luglio 1877).
51 Sul «Paese» si trovano: Samuel (9-10 gennaio 1878); Povera Lillì (17, 18, 20 gennaio 1878); Maddalena
(23, 24, 25 gennaio 1878) (cfr. Gallo, Nota bibliografica, cit., p. 109).
52 Sulla «Vedetta» vengono pubblicati lacerti dei due studi del Ragusa del 1878: Il realismo (ivi, 29-30 ago-
sto 1878); Carlo Baudelaire (5 settembre 1878).
53 Sulla «Plebe», testata non censita dalla Gallo, Ragusa Moleti pubblica Il Mare (ivi, X, 12, 20 agosto 1877)
e Mea culpa (ivi, X, 14, 4 settembre 1877). In questo periodo «La Plebe», a Milano dal novembre 1875,
usciva con cadenza settimanale (cfr. Giornalismo italiano (1860-1901), a c. e con un saggio introduttivo di
F. Contorbia, Mondadori, Milano 2007, p. 1693)
54 Sulla «Rivista minima», anch’essa non censita dalla Gallo, vengono pubblicati: A Maria, ivi, VIII, 12, 30
giugno 1878; Palermo («All’amico Giovanni Verga»), ibid.; Ad una straniera, ivi, VIII, 15, 11 agosto 1878;
In campagna, VIII, 21, 10 novembre 1878. Nel 1878 Salvatore Farina era già associato alla direzione di
Antonio Ghislanzoni (direttore dal 1865) e nel gennaio 1879 diventerà unico responsabile della testata (il
titolo mutava in «Rivista minima di scienze, lettere ed arti»); cfr. Giornalismo italiano (1860-1901), cit., p.
1695.
55 Filibus, Realismo!?, «Gazzettino rosa», II, 49, 10-11 agosto 1878.
56 Si veda anche, ad esempio, Asper, Verseggiatori, «Illustrazione italiana», VI, 43, 27 ottobre 1878; vi si
recensiscono le Prime armi di Ragusa Moleti, biasimandolo come imitatore dello Stecchetti. Si legge poi
nella «Rivista minima» a proposito dell’altra raccolta di poesie di Ragusa, L’Eterno romanzo: «quelle cento
quindici pagine di poesia che non può dirsi sublime né originale, nemmeno in Italia ove fu preceduta da
versi fin completamente uguali dello Stecchetti, leggonsi con curiosità» (Libri nuovi, «Rivista minima di
scienze, lettere ed arti», XII, 3, marzo 1882).
57 Ragusa Moleti, Prime armi, cit.; vi si legge: «Finito di stampare il giorno 10 agosto 1878 nella tipografia
Bernardo Virzì in Palermo».
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 131
sua volta si era modellato sulle orme di Baudelaire e Praga, come ricordava anche il
saggio crociano del 190458 che, se prendeva le mosse dalla ricerca di un fondo di «se-
renità» nelle poesie e della «natura di goditore silenzioso e sorridente»59 nel poeta (se-
condo un meccanismo messo in moto anche, e in maggior misura, per Praga), aveva
pure il merito di riproporre l’opera di Stecchetti, nella convinzione che essa, «dopo
essere stata troppo lodata, ora è con palese ingiustizia tenuta a vile»60.
Da una sorta di prefazione alle Prime armi, intitolata Patti chiari, emerge un ge-
nerico ribellismo rivolto contro il lettore e il critico tradizionalisti:
Se Ella, quando aveva 18 anni, non era un diavoletto e, ora, fatto uomo, non sente il
bisogno di scaraventare un pugno sulla faccia a un codino e pigliare a calci là… capi-
sce dove? qualche noioso, antipatico e pesante imbecille, diamoci un addio; Ella vada
per la sua strada e lasci che questo libro se ne vada per la sua61.
Ragusa sembra anzi volutamente esagerare la propria posizione anticonvenzionale,
più radicale rispetto a quanto aveva espresso nell’articolo I Bohèmes: qui non si tratta
di difendere un ribellismo giovanile, ma di dichiarare un intramontabile atteggia-
mento combattivo.
Il Prologo, diretto «all’amico Arcangelo Ghisleri», mazziniano, già noto fondatore
dell’Associazione del Libero Pensiero e iscritto nelle file della Scapigliatura democra-
tica, illustra la materia poetica dell’autore, a partire dal sogno di una rinata umanità
(«degli uomini la prole/ […] non più ciuca, né matta; / tutta a nuovo rifatta»)62: nella
visione onirica, «il progresso era serio!»63, afferma il poeta, mettendo in gioco il pro-
gressismo fasullo dell’era contemporanea, tema già leopardiano e scapigliato. In una
58 B. Croce, Olindo Guerrini (1905), in Id., La letteratura della nuova Italia, II, Laterza, Bari 1948, pp. 131-
49. A proposito di Praga e Baudelaire si legge: «rifà quel Remords posthume del Baudelaire (che già il Pra-
ga aveva imitato) nel Canto dell’odio: un canto, in cui si sente il falso da cima a fondo […]» (ivi, p. 137);
«si risolve burlescamente ad esporre le cose più scabrose in latino, un latino tra goliardico e maccheronico
(anche qui, del resto, la mossa gliela dà il Baudelaire)» (ivi, p. 139).
59 Ivi, p. 132.
60 Ivi, p. 134. Scrive poi Croce: «Dico la mia impressione: io credo che il Guerrini sia, nel suo fondo, un
bonario canzonatore; e peggio per chi non se ne avvede o lo dimentica, perché corre il rischio di diventar
vittima della canzonatura: vittima, sia che si faccia ad elogiare lo scrittore dei Postuma quale poeta di pas-
sione e di pensiero, sia che severamente lo censuri sotto questi rispetti. In quasi tutte le manifestazioni
dell’ingegno del Guerrini si mesce quel rivolo di buon umore che sgorga incessante dal suo petto; quando
addirittura non ne formi il chiaro contenuto, come è il caso delle moltissime poesie giocose e delle paro-
die da lui congegnate» (ibid.).
61 Ragusa Moleti, Prime armi, cit., p. 8.
62 Ivi, p. 13.
63 Ivi, p. 15.
132 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
realtà rinnovata, non servirebbe più l’«ironia», «più guai, fremiti d’ira»64, e gli stilemi
negativi del XIX secolo scomparirebbero: «Non più dolor, più noja»65; il poeta, aduso
alla bassezza del mondo, è però costernato da tanta perfezione, che minaccia di met-
tere a tacere la sua ispirazione di poeta moderno, ormai legato indissolubilmente ad
una visione pessimistica. Fortunatamente, il sogno finisce, e la «gialla musa» può re-
stare, facendosi madrina delle Prime armi, in una dichiarazione di poetica degna di
Giovenale:
Non andartene via,
ho ancor di te bisogno,
o gialla musa mia.
La riforma fu un sogno!
Ho girato, ho gran bile:
preparami uno stile66.
Contro i paludamenti della realtà, in opposizione al «ver che mi sconforta», re-
stano al poeta, deboli baluardi, l’«illusione» e la «smania» del viaggio, che dà almeno
l’impressione di poter vincere la noia; certo, si tratta solo di rimedi temporanei, invo-
cati nel Mare (II)67 che poi termina sull’immagine dei «gorghi», soluzione estrema ad
una «noia» pervasiva.
Non importa! sia nuova – e, quando poi
m’annoierà coi suoi
baci questa beltade, ed il selvaggio
m’annoierà d’un maggio
affricano, orientale e tutta noia
sarà la prima gioia;
ai tuoi gorghi una volta anco tornare
e dir: Salvami, o mare!68.
Si noterà, nell’impianto semplicistico della lirica, l’utilizzo di un lessico leopardiano,
ricomparso nella lirica del secondo Ottocento attraverso i poeti scapigliati, che ave-
vano recuperato tale immaginario passando per Baudelaire. Il tema del viaggio e
64 Ivi, p. 14.
65 Ivi, p. 17.
66 Ivi, p. 19.
67 Ivi, pp. 21-26.
68 «Non importa! sia nuova – e, quando poi / m’annoierà coi suoi / baci questa beltade, ed il selvaggio /
m’annoierà d’un maggio / affricano, orientale e tutta noia / sarà la prima gioia; / ai tuoi gorghi una volta
anco tornare / e dir: Salvami, o mare!» (ivi, p. 26).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 133
dell’impossibilità di vincere la noia si ripresenterà nello studio dedicato a Baudelaire,
come l’esperienza chiave della giovinezza; la sua presenza nelle Prime armi conferma
l’ipotesi che si tratti di topos biografico-letterario, destinato a supportare un paralleli-
smo con Leopardi, l’italiano cantore ottocentesco dell’ennui.
La cornice in cui si inserisce la poesia del giovane Ragusa emerge chiaramente da
Confidenze (XX)69, una sorta di epistola rivolta «all’amico Girolamo Di Maio», che
confronta la visione del mondo dei “padri”, gli eroi d’Italia (con iterazione del termi-
ne «mille»), con quella dei “figli”:
Noi, ultimi venuti,
sicura abbiam la vita,
da carceri e patiboli;
abbiam riposi ed ozî,
e ci godiamo il bel cielo d’Italia,
e le belle sue figlie, lusingati
gli orecchi da favella armoniosa;
ma già il tedio ci rode,
e abbiamo i cor gelati…70.
Tra le righe dell’inquieta insoddisfazione che emerge da questo passo si riconoscerà la
violenta denuncia che aveva avuto il suo battesimo, dieci anni prima, con le Penom-
bre di Praga; è questo il vissuto delle nuove generazioni, dei giovani cresciuti ad unità
d’Italia pressoché compiuta: «troppo tardi alla vita / noi nascemmo […]»71. Chi è na-
to per l’“ideale” è destinato alla solitudine e all’opposizione continua contro una
«turba che, devota in viso, ha freddo il cuore»; inoltre, lo scetticismo del tempo non
può che contagiare il poeta stesso, il quale finirà per cantare non la «fede» a cui aspi-
ra, ma il dubbio pervadente:
Sortito a dì migliori,
d’una recente fede
apostolo, se avessi anch’io potuto
ad una turba immensa
d’umanità dubbiosa
dare un vangel, gridare:
sorgi dai dubbi ed osa,
avrei tutto sfidato, ed ironia
parso non mi sarebbe
69 Ivi, pp. 117-132.
70 Ivi, p. 128.
71 Ivi, p. 118.
134 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
versare il sangue per la fede mia.
Però, nato in etade
Quando tutto vacilla;
tutto rovina e cade,
in un mondo leggero, indifferente;
triste e scettico anch’io, compio un delitto
ogni volta, che il bieco estro i cattivi
pensier mi desta e mi comanda: scrivi;
scrivi che amor non credi;
scrivi che l’odio stesso
ormai t’è una fatica […].
Nell’espressione di questa poetica gioca l’influenza della prima scapigliatura72,
soprattutto di Praga e Tarchetti, colpiti personalmente e fino in fondo da rovina e de-
cadenza, mentre Boito, che pubblicava proprio allora il Libro dei versi, scontava per
Ragusa un difetto di inautenticità. Tale pessimistica concezione della realtà («E con-
dannato è il cuore / al dubbio eterno, all’eterno dolore»)73 si incontra inoltre per Ra-
gusa, con Leopardi e, per l’estero, con la maestria di Baudelaire: ecco che il pensiero
va alle «perdute illusïoni» (siano esse la religione cristiana delle origini, o, più avanti,
l’amor di patria), indubbiamente benefiche («E l’illusion fu fede, / e sua mercè, mi-
gliori / furon gli umani e più giocondi i cuori»)74, scalzate dal pervasivo effetto ini-
bente del tedio («amor non credi»). «L’odio stesso / ormai t’è una fatica»: Guerrini
invece, seppur condizionato dal dubbio («ma quando il dubbio mi risveglia, quando /
via per la nebbia del mattin tranquille / sfuman le larve che seguii sognando, // colle
man mi fo velo alle pupille / e mi guardo nel core e mi domando: / sono un poeta o
sono un imbecille?»), era ancora capace di fare dell’odio materia di poesia, costruen-
do un personale universo di topoi; ed in parte ha ragione Croce a mettere in guardia
chi volesse considerare l’autore dei Postuma come «poeta di passione e di pensiero»,
ché rimarrebbe «vittima» della «canzonatura» del Guerrini75.
72 All’immaginario scapigliato è accostabile anche la figura del «cercatore di scienza»: «ei seguita a ficcar
tra i palpitanti / visceri sanguinanti, / impaziente di trovar l’enigma / del pensier, della vita, e sempre mai
/ deluso nelle prove» (ivi, pp. 124-25).
73 Ivi, p. 124.
74 Ivi, p. 118; si legge anche, sul potere benefico dell’illusione (sia essa la religione cristiana delle origini, o,
più avanti, l’amor di patria): «E l’illusion fu fede, / e sua mercè, migliori / furon gli umani e più giocondi i
cuori» (ivi, p. 125).
75 Croce, Olindo Guerrini, cit., p. 134: «Dico la mia impressione: io credo che il Guerrini sia, nel suo fon-
do, un bonario canzonatore; e peggio per chi non se ne avvede o lo dimentica, perché corre il rischio di
diventar vittima della canzonatura: vittima, sia che si faccia ad elogiare lo scrittore dei Postuma quale poe-
ta di passione e di pensiero, sia che severamente lo censuri sotto questi rispetti».
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 135
L’amor di patria è un’illusione ormai smembrata nella logica del profitto, come
recita All’Italia (XXIII)76: «chi la vorrebbe amare / codesta Italia mia? / L’uomo è
sempre un mercante, / e non ama, se pria / non abbia fatto i conti». Fuori di chiave
(XXVI)77, come afferma il titolo, vuol essere una palinodia della propria filosofia del
«dubbio», ma non manca di suonare antifrastica: «[…] e, se nel cuore / non trovi che
rancore, / dici pur la menzogna / di sentir l’allegria». Desiderio (XIII)78, dedicata «a
Pier Enea Guarnerio», esprime la sofferenza del poeta che affronta la vita con solitaria
serietà («Sono stufo di volger le pupille / del mio pensiero in fondo»), e l’aspirazione
ad «essere birba, ed essere un po’ scaltro, / prosone, farabutto».
Si arriva dunque all’accennato componimento A Satana (XXV)79, dove il potente
diabolico viene invocato come ribelle indomito, che permette di godere di «quanto è
umano» senza il tormento continuo del «peccato»:
Fra quei che teco, sotterra e nei fondi
boschi o in remote celle,
cuori sdegnosi, scontenti, iracondi,
sognano età più belle,
e congiurano teco, o grande vinto,
per la grande riscossa,
potessi anch’io venire! […]80
Satana permetterebbe dunque, a differenza di Dio, di affidarsi alle gioie che alleviano
il «fastidio» dell’anima, perché può comprendere meglio il dolore umano:
Se, a scansare il fastidio che m’assale,
l’anima, io chieggo al biondo
vino un po’ di vigor, l’artificiale
gioia e l’oblio del mondo,
76 Ragusa Moleti, Prime armi, cit., pp. 139-43. La poesia è dedicata «all’amico Luigi Lodi»; Lodi (Crevalco-
re, 1856 – Roma, 1933) si era formato accanto a Carducci (entrambi collaboravano a «La Voce del popo-
lo» di Bologna, diretto dal garibaldino F. Pais), di cui divenne grande amico; nel 1877 Lodi cominciò a
collaborare a «Pagine sparse» (dal 1878: «Preludio»). Per una prima informazione sul personaggio, cfr. la
voce di F. Cordova nel Dizionario biografico degli italiani, vol. 65, Istituto della Enciclopedia italiana,
Roma 2005, pp. 383-86.
77 Ragusa Moleti, Prime armi, cit., pp. 157-163.
78 Ivi, pp. 89-92.
79 Ivi, pp. 149-156.
80 Ivi, p. 149.
136 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
egli mi grida: «Astinenza, astinenza!»
e vuol che la mia vita
passi di sofferenza in sofferenza,
sempre mesta, avvilita81.
La richiesta dell’«artificiale gioia» e dell’«oblio» contro la noia echeggia certe liriche di
Praga dedicate al vino e, tramite i fiori del male milanesi, quelli parigini, visto poi che
L’âme du vin è anche ricordata e tradotta da Ragusa nello studio su Baudelaire.
Satana è poi protagonista della lirica intitolata In Paradiso (VIII, dedicata
«All’amico Angelo Sommaruga»)82: il «Padre Eterno», «noiato», chiama Satana affin-
ché lo diverta con una storia; il diavolo allora inventa una parabola rovesciata, che
testimonia come «non è giovato nulla l’amare / tutta la vita, manco a Gesù». In A Ma-
ria (VI)83, invece, il carattere di demiurgo malvagio è attribuito direttamente a Dio: il
poeta si augura che «il gran nemico» sia all’oscuro del suo felice amore, altrimenti la
sua amata, il cui nome accentua la blasfemia della lirica, morirà. Dio può essere anche
invocato a fin di male, ed è pregato nell’intento di vendicarsi di un’amante traditrice,
come in Memento (XI)84. Anche Pater noster (XVI)85 mette in scena una preghiera,
basata su inconsuete richieste («e chiedo un altro biondo / capo di donna da baciare,
un poco / di danar, di salute»), fino ad esprimere un desiderio di pace, da ottenere
tramite la riduzione a un’ignara bestialità («fa rimaner la bestia; // la bestia che non
pensa e non diffida»).
Trovandosi, in sogno, di fronte a Dio, il poeta può accusarlo apertamente (non-
ché chiedergli, ad esempio, «perché egli abbia deciso / di crëare la pulce e la zanza-
ra»), ma ottiene un’eloquente risposta: «Crollò il capo e riprese: “Un umorista / io
son, brutto zuccone”»86. Anche Rea Silvia (XXIV)87 si presenta come scherzo anticle-
ricale, a danno dell’Annunciazione. Com’è ricorrente nella poesia scapigliata, Un’ora
81 Ivi, p. 152. Si prosegue più avanti, rivolgendosi al «dolce Satana mio»: «[…] Tu sai cosa è dolore, / tu la
miseria mia / comprender puoi, commiserar… […]» (ivi, p. 154).
82 Ivi, , pp. 55-61.
83 Ivi, pp. 51-52.
84 Ivi, pp. 69-81: «io che ancor ti vo’ ben, con infinita / fede piego il ginocchio e prego Iddio / che ti tolga
la vita».
85 Ivi, pp. 99-101.
86 Lavata di capo (XXII), ivi, pp. 135-38. La poesia è dedicata «a Felice Cameroni».
87 Ivi, pp. 145-48: «e, confusa all’imprevvisto / mio ritorno, mi dicesse: / “Sto sgravandomi d’un Cristo”; se
un tal caso mi si dèsse, / sarei tanto furibondo / da lasciar pagano il mondo». Si ricordi anche Annuncia-
zione di Guerrini: «Apri le braccia, dònati / alle carezze dell’amor, Maria… / Noi leviamo al Signor
l’osanna, o popolo: / tra nove mesi nascerà il Messia» (cfr. L. Stecchetti [O. Guerrini], Le rime, cit., p. 287).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 137
di fede (XVII)88 può derivare solo da una religione dell’amore e della natura, a cui pe-
rò il poeta del «decimonono secolo» non può abbandonarsi completamente89.
Ad una tisica (IX, pp. 63-64) rielabora un tema di ascendenza tarchettiana («la
febbre d’ogni sera, i lucidi occhi, / l’esile collo e quelle macchie rosa»), ma vi appone
un finale dissacratorio: «Meglio così! Morrai pria d’annoiarmi! / Che monta? anch’io
morrò. La vita è un gioco». Talvolta toni misogini, già presenti nella poesia scapiglia-
ta, prendono il sopravvento, come nelle liriche Per album (VII)90, Memento (XI), Ad
una (XV)91 e Impertinenze (XXI)92, che si rivolgono ad amanti insulse, corrotte o va-
nitose, o nell’ammonizione rivolta Ad un giovine poeta (XIV)93, affinché abbandoni la
poesia, moneta poco stimata dalle donne («al tempo che noi siam ci vuol danaro»);
altrove è il poeta, consumato dallo studio, a dichiararsi incapace d’amare, come in
Giacinta (XVIII)94.
Se Leopardi è maestro di un pessimismo disperato, e un “Baudelaire scapigliato”
istruisce a un’irriverente blasfemia, Giusti è il modello di un’ironia sferzante
sull’uomo e sulla società. Alcune poesie sono condotte apertamente sui toni degli
Scherzi giustiani, come A Darwin (X)95, che dichiara di fornire al grande scienziato le
prove tangibili della discendenza dell’uomo dall’«urango».
Io non so capir, perdio!
Come mai non si ritrova,
nel suo libro, signor mio,
la più intera e bella prova
che gli umani son del rango
dell’urango.
Ecco qua la prova: è piana.
Son parecchi milioncini
Di gorille in pelle umana,
che dall’Alpe agli Appennini,
88 Ragusa Moleti, Prime armi, cit., pp. 103-08. La poesia è dedicata «a Maria»: «Su venite, venite, / desideri
fugaci, / e tutta m’istruïte / la voluttà dei baci; al grande innalzamento / è propizio il momento».
89 Cfr. Canto di primavera (XIX), ivi, pp. 111-15: «Ed io, davver, lo canterei; paura / però mi vien dal mio
decimonono / secolo, e lascio, dov’è, la natura, / la primavera e quanto ci ha di buono».
90 Ivi, pp. 53-54: «Tu soffrire non sai, cara fanciulla, / il menomo nonnulla. […] T’amo, fanciulla mia; ma
questo affetto / vien dopo il sigaretto, dopo la ceralacca».
91 Ivi, pp. 97-98.
92 Ivi, pp. 133-34; ciò che commuove la donna, «meglio che i canti, che i madrigali», è «l’eloquenza […]
d’assai quattrini sonanti e ballanti».
93 Ivi, pp. 93-96.
94 Ivi, pp. 109-10.
95 Ivi, pp. 65-68.
138 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
e pei piani, notte e giorno,
vanno attorno.
Per le logge e per le sale,
per le chiese e tutti i buchi
di quest’umile stivale,
van ciarlando, e sono ciuchi,
onorevoli, eccellenze,
quintessenze
d’un’insipida nidiata
di pigmei, di gingillini,
che ricevon l’imbeccata,
dalla scienza ai figurini,
dalla danza al desinare,
da oltremare.
Sul rapporto Ragusa-Giusti si era già pronunciato Onufrio nel 1877 sulla «Farfal-
la», presentando così l’autore: «Fra i poeti francesi preferisce Musset – tra gli inglesi
Byron – fra i tedeschi Heine – tra gli italiani, dopo Dante, preferisce Giusti, che porta
sempre in tasca»96. Né Filipponi, nel 1890, ricordando la giovinezza di Ragusa, di-
mentica un accenno al Giusti: «Un giorno (erano le vacanze d’autunno) io era alla
Biblioteca comunale a leggere […] quando mi veggo accanto Ragusa. Era invasato su
d’una poesia del Giusti – forse la Terra dei morti»97. Anche se Ragusa tenderà, in fu-
turo, ad allontanare la propria immagine dagli eccessi di questa prima raccolta, il
fondo di amaro pessimismo, condiviso con Giusti, non scompare, e in Caleidoscopio
(Catania, Giannotta, 1900) riemerge un’immagine della creazione dell’uomo simile a
quella appena citata, sempre incentrata sull’«urango»:
I primi schizzi che Iddio fece dell’uomo non furono, conveniamone, niente felici, vo-
leva creare un animale ragionevole, che potesse lodarlo dell’opera sua, e non gli uscì
di mano che un urango. Quando Satana lo vide, e disse: «È troppo peloso; ha la fronte
assai stretta e depressa, i denti molto grossi, la coda soverchiamente lunga e non mi
piace», non aveva poi torto. Togli di qua, aggiungi di là, Iddio pervenne finalmente, a
96 E. Onufrio, Acquerelli di pubblicismo. Girolamo Ragusa Moleti, «La Farfalla», III, 12, 3 giugno 1877.
97 Filipponi, Girolamo Ragusa Moleti, cit.. Sempre Filipponi cita una lettera «al Francesconi in Verona»,
nella quale Ragusa scriveva, a proposito del proprio umorismo: «È il sorriso da cui Giusti e Leopardi tras-
sero la loro diversa satira» (ibid.).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 139
furia di correzioni, a comporr quell’essere debole, presuntuoso, maligno che è
l’uomo98.
La corda giustiana domina quando la satira sociale prende il sopravvento, come
nell’antifrastico Mea culpa (IV)99, dove si elencano i vantaggi della conversione del
poeta ad un moderatismo conservatore, dopo gli errori di gioventù (il patriottismo,
l’impegno a fianco dei lavoratori e dei più deboli):
Avrò titoli a josa e distintivi,
risalirò, col voler dell’Altissimo,
tutta la scala dei superlativi
dall’one all’issimo.
Tutto andrà bene; oggi farò un acquisto,
domani un altro, e via di trama in trama.
Se il briccon lo so fare, avrò provvisto
anche alla fama!100
Palermo (V)101, che è dedicata, sia in rivista che in volume, «all’amico Giovanni
Verga» affresca ironicamente la vita del «cittadone», esemplificazione delle regole del
consorzio umano:
Palermo? … è un cittadone…
Non fo per dir, ma, via,
si regge al paragone
di paese che sia.
Qui si giuoca, si perde,
quei si riduce al verde,
quell’altro sale e sale…
Il mondo è fatto a scale102.
Perfino la zanzara si merita una lirica, perché, se comparata all’amico che «s’avvicina
col sorriso» per poi tradire, «è più leale»103.
98 G. Ragusa Moleti, Caleidoscopio, a c. di C. Gallo, Romeo, Siracusa-Trieste 1997, pp. 180-81 (prima edi-
zione: Giannotta, Catania 1900).
99 Ragusa Moleti, Prime armi, cit., pp. 31-41.
100 Ivi, p. 41.
101 Ivi, pp. 43-49.
102 Ivi, p. 48.
103 La zanzara (XXVII), ivi, pp. 165-66.
140 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Per concludere, nel Commiato (XXVIII)104 Ragusa ribadisce la propria colloca-
zione di «rompicollo», che al momento si consuma «nel dubbio, e gioca a scacchi e
beve vino», ma è pronto, un giorno, a farsi «scannar […] sulla barricata». La raccolta
verrà distanziata e confinata dallo stesso Ragusa nell’ambito della produzione giova-
nile e dell’influsso heiniano, come ci informa Filipponi su «Psiche» nel 1890:
Ciò difficilmente vi accadrà in Ragusa; un solo autore vi farà capolino quasi a ogni
pagina; un poeta lontano che ha fatto più male all’Italia che bene alla Germania, la
quale forse lo loda meno di noi: l’autore dei Reisebilder e dell’Atta Troll. […] Allora in
quelle opere c’era tutto il tuo merito, e l’invidia da cui il merito è sempre accompa-
gnato, non ne vide, o finse di non vederne, che i difetti; ora però che tu hai fatto me-
glio e veramente bene; non saprebbero negare i pregi che tu stesso, innamorato
dell’arte, non vedi, per odio dei difetti che ti s’ingrandiscono di fronte all’ideale che
hai della poesia105.
Nell’esigenza di allontanare un ribellismo che lo accostava a Stecchetti, Ragusa rinne-
ga in buona parte la prima raccolta poetica, in nome di mutamenti tematici che, in
effetti, sono già riscontrabili nelle Miniature e Filigrane. Essa permette però di gettare
un primo sguardo sulle coordinate culturali del giovane siciliano, che si appresta ad
un’impresa certo superiore alle sue forze, destinata però a condizionare la produzione
letteraria propria e altrui, oltre che a simboleggiare una ricezione, piuttosto limitativa,
dei Petits poèmes en prose.
1.3 Un maestro frainteso e mai abbandonato: Carlo Baudelaire. Studio
L’interesse per Baudelaire appartiene alla formazione giovanile di Ragusa Moleti, ma
lo accompagnerà poi per molti anni, nel corso dei quali il critico fustigatore dei poeti
decadenti non mancherà mai di difendere il proprio antico “maestro”. Filipponi, ri-
costruendo l’apprendistato letterario dell’amico, ricorda l’importanza assunta dal po-
eta francese, inserito in coordinate che oggi potrebbero apparire alquanto bizzarre,
tra i Parnassiani, Zola e Boito:
Tra i Parnassiani che cercano di cavare i più singolari effetti dai contrasti, e che nel
quadretto di genere, ora simpatico, ora, come dice De Gubernatis – schifoso – tanto si
dilettano, spiccano Soulary, Murger e Baudelaire. Di questi precursori del realismo di
Zola, che pretende riportare in letteratura la fisiologia di Claudio Bernard; il Baude-
laire fu quello che colpì il giovane Ragusa: lo studiò amorosamente, se ne fece un a-
104 Ivi, pp. 167-68.
105 Filipponi, Girolamo Ragusa Moleti, cit..
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 141
mico ideale: convengono nello scetticismo, nel frizzo Heiniano e in un certo sorriso
mefistofelico, che agghiaccia più del fischio, fischio, fischio, di Boito106.
Eppure, la confusione non manca di rivelare alcune linee interpretative dell’epoca, di
cui doveva patire gli effetti lo stesso Ragusa: Baudelaire veniva letto, dai detrattori e
dagli appassionati, come «realista», se si indica, con questo termine, ogni autore che
immetta il “brutto” nella letteratura; a caratterizzarlo, erano lo «scetticismo» e il «sor-
riso mefistofelico», secondo un maledettismo che trovava in Italia, come immediato
termine di confronto, gli autori della Scapigliatura. Erede di Praga in poesia, e vessillo
della poesia realista, si considerava Stecchetti, successivo termine di paragone citato
(con il fine di allontanarlo) dal Filipponi107; si afferma infine che Ragusa aveva inten-
zione di tradurre anche Bertrand108.
A Baudelaire Ragusa dedica uno studio, pubblicato nel 1878, lo stesso anno delle
Prime armi e del saggio sul Realismo, che esprime una posizione mediana tra
l’idealismo e il materialismo109; Carlo Baudelaire non è molto facile da rintracciare,
ma è conservato, non a caso, nella casa del poeta che il siciliano aveva sempre consi-
derato come un maestro, Giosuè Carducci. Tale monografia, più citata che letta110, o
106 Ibid. Si fa riferimento al Mefistofele di Arrigo Boito (rappresentato a Milano nel 1868, poi, con varia-
zioni, a Bologna nel 1875); cfr. I, 2: «Son lo Spirito / Che nega sempre, tutto; / L'astro, il fior. / Il mio ghi-
gno e la mia bega / Turbano gli ozi al Creator. / Voglio il Nulla e del Creato / La ruina universal, / E' at-
mosfera mia, / E' atmosfera mia vital, / Ciò che chiamasi, / Ciò che chiamasi peccato, / Morte e Mal. / Ri-
do e avvento questa sillaba: /"No!" / Struggo, tento, ruggo, sibilo: / "No!" / Mordo, invischio, / Struggo,
tento, ruggo, sibilo: / Fischio! Fischio! Fischio! / Eh!».
107 Dice ancora Filipponi: «L’amore per Baudelaire si spiega con l’amore al Heine, coll’aculeo della satira
che vuole mordere il vecchio, e che si compendia in questo ibrido accoppiamento di lirico e di grottesco
dell’autore della Lorelei: - Eterno sospiro d’ogni cuore ben fatto è la patria: amo anche molto le uova al
burro e le aringhe affumicate -. O in questi versi: A Venezia di Lorenzo Stecchetti: “V’amo trofei rapiti al
Mussulmano, / di Candia e di Morea, v’amo, vi adoro / sogliole fritte e vin di Conegliano”. Ma per fortu-
na queste accozzaglie di nessun gusto non fecero gola al Ragusa, avendone egli preso soltanto incorag-
giamento a manifestare la tendenza erotica, piuttosto che a guastare il gusto proprio» (Filipponi, Girola-
mo Ragusa Moleti, cit.).
108 «E tanto piacque al Ragusa il bizzarro Parnassien [Baudelaire] che volle studiarlo per fino nel maestro
Aloisio Bertraud [Bertrand]; e tra breve di lui il Ragusa ci darà la traduzione delle piccole prose dal titolo
Gaspard de La Nuit e i Paradisi artificiali del Baudelaire, di cui ha già pronta la versione» (ibid.).
109 G. Ragusa Moleti, Il Realismo. Studio critico, Gaudiano, Palermo 1878; si tratta di un pamphlet di 35
pp. Cfr. P. Arrighi, Le vérisme dans la prose narrative italienne, Boivin, Paris 1937, pp. XIV e 418.
110 Guido Mazzoni, nella voce dedicata a Ragusa nell’Enciclopedia italiana, ricorda lo studio ma afferma
sinteticamente: «discorrendo di Pitré e le tradizioni popolari (Palermo 1878) e di Carlo Baudelaire (Pa-
lermo 1878), ecc., diede prova di cultura, ma non di adeguata preparazione» (G. Mazzoni, Gerolamo Ra-
gusa Moleti, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, vol. XXVIII, Istituto della Enciclopedia ita-
liana, Roma (1935) 1949, p. 785). Bernardelli, autore di uno studio sulle prime traduzioni italiane di Bau-
delaire (Bernardelli, Baudelaire nelle traduzioni italiane, in Contributi dell’Istituto di filologia moderna.
142 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
sbrigativamente classificata come lavoro che «doit beaucoup à la Préface de Théophile
Gautier»111, presenta in realtà chiavi di lettura interessanti per comprendere l’attività
di Ragusa lettore e traduttore di Baudelaire, ed è tanto più degna di attenzione quan-
do si discosta, dopo averla preso a modello e quasi ricalcata (in diversi incipit di para-
grafo), dalla Notice di Gautier premessa alle Fleurs du Mal del 1868 (Paris, Lévy frè-
res).
In apertura dello studio, Ragusa riprende le prime parole di Gautier: «Verso il
1849, in un modesto quartiere dell’albergo Pimodan abitava Carlo Baudelaire»112. Ma,
al posto del primo «rencontre» Gautier-Baudelaire e della descrizione del «plus grand
salon du plus pur style Louis XIV», luogo d’incontro del «club des haschichins», tro-
viamo il quadro di una desolata solitudine, di sapore leopardiano, tratta direttamente,
pur senza avvertire, da À une heure du matin: «Poi chiudeva a chiave la porta, ché gli
parea quel doppio giro alla toppa aumentasse la sua solitudine, e fortificasse le barri-
cate che lo separavano dal mondo»113. Ed infatti, la concezione della realtà del giova-
ne Baudelaire è apertamente comparata, ad uso del lettore italiano, a quella di Leo-
pardi:
Guardando la natura, la trovava bella, ma fredda; e tutto il concatenamento di forze
fatali, necessarie, gli facea provare nel cuore quello stesso dolore che provava il nostro
Leopardi, quando pensava che a codesta bella natura importa poco del nostro bene e
del nostro male, e, quando ci nuoce o ci fa bene, non ci mette coscienza o volere114.
Serie francese, cit., pp. 345-97) cita lo studio ma afferma, in nota, di non averlo potuto reperire, e si limita
a riportare a proposito il giudizio di Mazzoni (ivi, p. 355).
111 Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 36. Per un panorama
sulle letture baudelairiane nell’ambito dei periodici “veristi” italiani si veda Falciola, La littérature françai-
se dans la presse vériste italienne, cit., pp. 68-74. Il quadro che emerge è abbastanza chiaro: Baudelaire era
spesso citato come precursore del realismo o come «champion» della Bohème, ma poco o superficialmen-
te letto. Se si legge ad esempio il giudizio di Muscogiuri, autore di un profilo di Baudelaire, si comprende-
rà da quale interpretazione Ragusa intenda allontanarsi: «il vizio, l’insurrezione, la libidine, la esaltazione
della materia inverminata […]. Su un coro di cortigiane e di corruzione regna Baudelaire» (cfr. F. Musco-
giuri, Il Cenacolo. Profili e simpatie, Tipografia del Senato, Roma 1878, pp. 160 e 167).
112 G. Ragusa Moleti, C. Baudelaire. Studio, Gaudiano editore, Palermo 1878, p. 5. Cfr. Th. Gautier,
Charles Baudelaire, in Ch. Baudelaire, Les Fleurs du Mal, Lévy, Paris 1868, p. 1 : «La première fois que
nous rencontrâmes Baudelaire, ce fut vers le milieu du 1849, à l’hôtel Pimodan […]».
113 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 5. Cfr. All’una dopo mezzanotte (C. Baudelaire, Poemetti in prosa,
traduzione di G. Ragusa Moleti, Sonzogno, Milano 18842, X, pp. 18-19): «Ma, prima di tutto, un doppio
giro alla serratura. Mi pare che quel giro di chiave aumenterà la mia solitudine, e fortificherà le barricate
che oramai mi separano dal mondo».
114 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 6.
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 143
Il pessimismo universale di Leopardi è dunque punto di riferimento immediato
per raccontare la baudelairiana concezione del mondo. Segue una descrizione dello
stato psicologico del giovane artista, che non trova la sua materia d’ispirazione; ricor-
re il termine «dubbio» proveniente, più che da Gautier, dall’interpretazione scapiglia-
ta della posizione gnoseologica di Baudelaire: «sentì tutta l’amarezza del dubbio, vide
che, in fatto di scienza, si va tentoni come gli ubbriachi, e rise della sapienza»115. Dal
«dubbio» nascerebbe, secondo Ragusa, il Baudelaire bestemmiatore e teorico di un
potenziale suicidio, risolto poi nel riso sprezzante, sempre secondo
un’interpretazione di tipo scapigliato:
Eppure, dopo di aver provato il cruccio di certe giornate in cui il cervello è vuoto, do-
po di avere in queste giornate almanaccato una fine violenta, rise della rettitudine di-
vina, rise della Provvidenza, si mise a tu per tu con Dio, e, prima di negarlo, gli buttò
in faccia una villania e una bestemmia, e gli disse: Cattivo, passan elleno le tue ore
come quelle degli uomini, che tu devi andar indagando un modo qualunque di diver-
tirti, anche facendo delle cattive azioni, come, per esempio, quella d’aver creato
l’uomo?116
Il cenno al suicidio («una fine violenta»), assente in Gautier, sembra rimandare anco-
ra, implicitamente, all’autore del Bruto minore o dell’Ultimo canto di Saffo; inoltre, la
rappresentazione di Dio come demiurgo malvagio poteva incontrarsi, per il lettore
italiano, con certe immagini dell’ultimo Leopardi (si ricordi A se stesso, vv. 14-15:
«[…] il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera»)117, autore, peraltro, di un
Inno ad Arimane, all’epoca però ignoto («Io non so se tua mi le lodi o le bestemmie
[…]. Pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome
maledetto sarà»)118. D’altra parte, il lessico è tipicamente scapigliato, tra il riso sprez-
zante di sfida, la villania e la bestemmia.
115 Ivi, p. 7. Si ricordi, a confronto, l’incipit praghiano «O nemico lettor, canto la Noia, / l’eredità del dub-
bio e dell’ignoto».
116 Ivi, p. 8.
117 Cfr. Leopardi, Canti, cit., p. 263; l’interpretazione del passo, com’è noto, si modifica nel caso in cui si
consideri la frase come apposizione di «natura» («[…] Omai disprezza / te, la natura, il brutto / poter che,
ascoso, a comun danno impera). Sull’esemplarità dell’Inno ad Arimane per le ultime tappe dell’itinerario
leopardiano, cfr. E. Ghidetti, Introduzione, in Leopardi, Canti, cit., pp. XV-XVIII: esso «costituisce infatti
il miglior punto di vista da cui traguardare la produzione di Leopardi a partire dalla stagione dei canti
pisano-recanatesi» (ivi, p. XVI).
118 L’Inno ad Arimane venne probabilmente abbozzato nella primavera-estate del 1833 a Firenze, prima
del trasferimento a Napoli (cfr. Ghidetti, Introduzione, cit., p. XLVIII); apparve per la prima volta nel sag-
gio di Carducci Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi (Zanichelli, Bologna 1898);
Ragusa quindi, probabilmente, non lo conosceva ancora (cfr. Leopardi, Tutte le opere, a c. di Binni, cit., I,
p. 1445). Scriveva Papini, non del tutto a torto: «Il vero “cantore di Satana” non è, in Italia, il Carducci, il
144 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Comincia poi una nuova parte che, come in Gautier, si apre con i dati anagrafi-
ci119, ai quali subentra subito, però, la rappresentazione di un destino di dolore:
Quel giovine era nato il 21 aprile del 1821; allora aveva 28 anni. Era ricco, perciò
era libero, era bello, perciò era amato; pure visse infelice tutta la vita, per la buona ra-
gione che le sensazioni e il sentimento possono accrescere la contentezza quando il
cervello non si dibatte fra le spine dello scetticismo; ma non arrivano mai a spianare
una ruga d’una fronte sotto cui passano dei cattivi pensieri, dove il dubbio tesse, fila e
fa il padrone120.
Si accenna molto sommariamente ai viaggi, che Gautier invece, pur mettendo in luce
la renitenza di Baudelaire ad occuparsi del «placement de sa pacotille», ritiene impor-
tanti per comprendere un certo immaginario poetico delle Fleurs, dalla «mer bleue de
l’Inde», alla «Vénus noire»121. Su tale questione Ragusa, invece, afferma unicamente
che i viaggi non modificano lo stato di «noia» vissuto dal poeta:
quale vede in Satana, sotto l'influenza di Michelet, il simbolo della libertà, della scienza, del progresso,
cioè un nume benefico, contrapposto al “Geova dei sacerdoti”, insomma redentore, divinità buona, pro-
pizia, provvida e simpatica. Quello di Carducci non ha nulla a che fare, dunque, col vero Lucifero della
tradizione e della teologia cristiana. Il vero “cantore di Satana”, inteso come principio e sovranità del Ma-
le, è invece Giacomo Leopardi» (G. Papini, Il Diavolo. Appunti per una futura diabologia, Vallecchi, Fi-
renze 1953, pp. 237-41). Rigoni, confrontando Leopardi a Sade, afferma: «con Sade e con Leopardi, forse
per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, il principio negativo cessa di avere una funzione
dialettica e subordinata rispetto al principio positivo e diventa il solo che determina e spiega il reale: il dio
malvagio di Saint-Fond non incontra nessun avversario che contrasti il suo trionfo, come l’Arimane leo-
pardiano non conosce l’opposizione vittoriosa di alcun Ormuzd» (cfr. M. A. Rigoni, Il pensiero di Leopar-
di, Bompiani, Milano 1997, poi Aragno, Torino 20102).
119 «Charles Baudelaire est né à Paris le 21 avril 1821, rue Hautefeuille, dans une de ces vieilles maisons
qui portaient à leur angle une tourelle en poivrière, qu’une édilité trop amoureuse de la ligne droite et, des
larges voies a sans doute fait disparaître. Il était fils de M. Baudelaire, ancien ami de Condorcet et de Ca-
banis [...]» (Gautier, Charles Baudelaire, cit., pp. 10-11).
120 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 9.
121 «Il admira ce ciel où brillent des constellations inconnues en Europe, cette magnifique et gigantesque
végétation aux parfums pénétrants, ces pagodes élégamment bizarres, ces figures brunes aux blanches
draperies, toute cette nature exotique si chaude, si puissante et si colorée, et dans ses vers de fréquentes
récurrences le ramènent des brouillards et des fanges de Paris vers ces contrées de lumière, d’azur et de
parfums. Au fond de la poésie la plus sombre souvent s’ouvre une fenêtre par où l’on voit, au lieu des
cheminées noires et des toits fumeux, la mer bleue de l’Inde, ou quelque rivage d’or que parcourt légère-
ment une svelte figure de Malabaraise demi-nue, portant une amphore sur la tête» (Gautier, Charles Bau-
delaire, cit., pp. 13-14).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 145
ma dalla camerella d’un albergo di Londra, di Baltimora, di Filadelfia o di Canton,
tornando a casa sua, a Parigi, era sempre lo stesso uomo, mesto, pallido, annoiato.
Dentro il suo cervello c’era il dubbio che lavorava122.
Di nuovo, l’affermazione che nemmeno il viaggio è in grado di sconfiggere veramente
il tedio è profondamente leopardiana. L’uso del lemma «noia», termine chiave, peral-
tro, per Leopardi, come poi per Praga, è significativo e la sua mancanza nell’analisi di
Gautier conferma l’ipotesi che si tratti di un’interpretazione di Ragusa, influenzata
dai prelievi baudelairiani dei poeti scapigliati e volutamente incardinata su un acco-
stamento con il recanatese. Del resto il “pallido poeta”123 con tendenze suicide sembra
essere il ritratto del poeta moderno per eccellenza, fin dal tempo del «Figaro» 1864:
scriveva Praga che «in Francia si conquistava palmo a palmo il terreno della giovane
arte, e una intera famiglia di pallidi poeti cantava e moriva»124; Boito, da parte sua,
rappresentava sé e gli amici come una «pallida giostra di poeti suicidi»125. I «cattivi
pensieri» causati dal «dubbio» sembrano tradurre, all’italiana, la sensibilità esacerbata
descritta da Gautier nei termini di, termine tabù, «nevrosi»126. Sorge però, da Ragusa,
una necessità di chiarimento: «Dalle medesime premesse si possono tirare diverse
conseguenze»127; ovvero, a partire da una filosofia scettica, si potrebbe diventare
«monaco» tanto quanto «rompicollo»128; invece, «Baudelaire, scettico, fu però sempre
mite, pacifico, buono»129.
Si passa poi, recuperando Gautier, a dare informazioni sull’infanzia di Baudelaire,
funestata dalla morte del padre e dal secondo matrimonio della madre (con un sur-
plus di misoginia: «il ruzzo della concupiscenza serpeggia ancora nelle reni d’una
donna molto matura»)130, e sulla vocazione osteggiata; l’atteggiamento del poeta è
tradotto in un breve dialogo, come accadrà anche più avanti. È curiosa, a fronte dei
122 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 9.
123 Gli aggettivi «mesto, pallido e annoiato» potrebbero caratterizzare, per restare in ambito scapigliato,
l’immagine (oscuro presagio) del poeta suicida di Camerana, che scrive in Taedium vitae: «[…] mesto
vivevo e solo. / Lasciate pur che pianga a testa china / la pallida candela / e nel destarvi l’indoman mattina
/ gittate il mio ricordo nell’oblio / nel buco di latrina» (Camerana, Poesie, cit., p. 253).
124 E. Praga, Pubblicazioni italiane (Rec. a A. Gazzoletti, Umberto Biancamano. Leggenda; R. Paravicini, Il
negriero), «Figaro», 14 gennaio 1864; parzialmente in La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura, cit.,
p. 406.
125 A. Boito, A Giovanni Camerana, in Id., Tutti gli scritti, cit., pp. 34-36.
126 Scrive Gautier: «la névrose arrive avec ses inquiétudes bizarres, ses insomnies hallucinées, ses souf-
frances indéfinissables [...]» (Gautier, Charles Baudelaire, cit., p. 12).
127 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 10.
128 Ivi, p. 11.
129 Ibid.
130 Ivi, p. 13.
146 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
molti tagli rispetto all’ampio saggio di Gautier, la volontà con cui Ragusa insiste, a
favore del «povero Baudelaire», contro i «professori che lo tenevano in conto d’idiota,
di cretino»131: le due paginette contro i «signori professori laureati»132 sembrano deri-
vare direttamente da certi toni scapigliati di polemica contro le autorità e dalla stessa
esperienza giovanile del Ragusa, com’è rievocata da Filipponi («era stato giudicato, se
non inetto, svogliato, dai suoi maestri e dai suoi compagni»)133.
L’idea del bello di Baudelaire è introdotta tramite una piccola “dissertazione di
estetica”. Ragusa si oppone a coloro che sostengono che «ogni uomo possiede natu-
ralmente, come possiede un naso, una lingua e talora due orecchie lunghe lunghe ed
una coda invisibile o rientrata, un certo tipo di bello»134; contro l’idea di un’estetica
universale e secondo natura, per Ragusa occorre considerare i vari fattori che com-
pongono la personale concezione estetica:
Nell’idea del bello, come in ogni idea astratta, bisogna sempre vedere quanto mette
l’ambiente, quanto gli organi, quanto la mente. E il dire che l’idea del bello vien dalla
mente, dagli organi o dai fatti, è lo stesso che volere attribuire a solo un fattore il me-
rito d’aver fatto un risultato135.
Se «coloro che han dato delle definizioni del bello, non han fatto che dirci il loro pa-
rere personale»136, è più che lecito chiedersi, senza pregiudizi, quale sia la concezione
estetica di Baudelaire, partendo dalle «sensazioni, i sentimenti, le fantasie, le idee, la
cognizione del cui essere cagionò […] delle cognizioni dilettevoli»137.
Baudelaire era un uomo sui generis; egli godeva di certe sensazioni che fan soffrire
la maggior parte degli uomini; anzi s’era formata l’abitudine di stillare da queste acri
sensazioni il suo godimento, la sua maggiore voluttà, il suo paradiso artificiale138.
Subito dopo, viene tradotto l’inno dell’anima del vino dalle Fleurs du Mal (L’âme du
vin), che, per l’appunto, in Italia era stato apertamente ripreso da Praga nelle Penom-
bre139. Ragusa descrive poi gli effetti dell’hashish, dicendo di aver, lui stesso, «man-
131 Ibid.
132 Ivi, p. 14.
133 Filipponi, Girolamo Ragusa Moleti, cit.
134 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 17.
135 Ivi, p. 21.
136 Ivi, pp. 21-22.
137 Ivi, p. 22.
138 Ivi, p. 23.
139 Cfr. E. Praga, L’anima del vino (22, Penombre), in Id., Poesie, cit., pp. 132-34. Questa poesia deve il suo
titolo a L’Âme du vin (Le Vin, CIV), da cui Praga riprende un concetto importante: «avec son âme», il
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 147
giato haschich», sperimentando che «le sensazioni d’un uomo sveglio, le sue fantasie
sono una povera cosa rispetto alle sensazioni vive, intense, alle fantasie varie, vertigi-
nose dell’estatico»140. Ecco dunque spiegate, secondo Ragusa, «quali possono essere le
sensazioni, le fantasie, i sentimenti di Baudelaire»:
Baudelaire si annoia di tutte quelle idee che hanno molto dell’esatto, del definito, del
matematico; e si lascia andar dietro a tutte quelle idee vaporose, illimitate, immense,
che il cervello può vagamente pensare; ma che la parola, neppur vagamente, può si-
gnificare intere; […] quelle idee vaghe e sottili, la cui parte più bella la si può fare in-
tuire, non mica rivelare, perché, noi per primi, non possiamo impadronircene141.
L’arte di Baudelaire consta dunque in una scelta di alcune sensazioni a scapito di
altre ai fini della propria rappresentazione artistica:
Se gli passano per la testa delle belle fantasie, un’immagine splendida, primaverile,
egli le lascerà passare senza dedicar loro neppure un sonetto. Lo stesso dicasi delle i-
dee142.
A riprova di quanto detto, viene riportata la traduzione del «confiteor dell’artista» (Le
Confiteor de l’artiste, Fleurs du Mal), chiosando poi: «Insomma, Baudelaire mette la
sua felicità non già nelle sensazioni del mondo esteriore, ma nel fantasticare »; «Ora,
questo bisogno di sognare, son le sole anime grandi che lo sentono, perché esse sole
sono incontentabili»143.
«L’uomo, che si eleva sino a tal grado di astrazione, guarderà con disdegno le pic-
cole miserie della vita»; per questo motivo, spiega Ragusa, di fronte alla “bassezza”
femminile («in contatto con la realtà in forma di donna»), «si vendicherà scrivendo le
poesie: una Carogna e il Rimorso postumo»144. Ragusa preferisce non presentare la
traduzione delle due poesie (Une Carogne e Remords posthume), ritenendole legate ad
una subitanea ira, viziate dal non aver potuto «padroneggiare le passioni»145: si tratta
vino regala all’uomo «un chant plein de fraternité, un chant plein de joie, de lumière et d’espérance». Il
vino significa possibilità di ribellione, per quanto fatua e momentanea («se, ubbriacandomi / come un
idiota, / conquisto i meriti / di un’arma vuota») e il suo potere permette d’innalzarsi al di sopra del desti-
no, cacciando «l’anima cieca, e abbietta, e dolorosa»: «se ubbriacandomi, / mi ribello al destin che me la
diede, / e posso credermi / senza marchio alla fronte, e ceppi al piede…».
140 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 29.
141 Ivi, pp. 29-30.
142 Ivi, p. 34.
143 Ivi, p. 36.
144 Ivi, p. 37.
145 Ivi, p. 38.
148 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
di «poesie incoscienti»146, poco interessanti per un critico («possono dare poca luce
alla critica»)147.
In confronto con queste, viene lodato e tradotto Les Yeux des Pauvres, che però
non fa parte delle Fleurs; è interessante notare che Ragusa passa così, indifferente-
mente, dalle poesie ai petits poèmes en prose, senza nemmeno segnalare al lettore la
diversa provenienza e la differenza metro/prosa degli originali; la traslazione è per-
messa dalla regola di Ragusa, secondo cui anche la poesia va tradotta in prosa. Il suo
punto di riferimento, Gautier, distingueva chiaramente le poesie dai petits poèmes en
prose, tentando poi di descrivere «cette forme hybride, flottant entre le vers et la pro-
se»148; la scelta di Ragusa, volta a considerare l’opera poetica di Baudelaire senza di-
stinzione tra poesie e poemetti in prosa, è dunque da rimarcare. Essa è legata
all’impostazione generale del profilo, che si propone innanzitutto di presentare la
personalità, la filosofia e l’estetica di Baudelaire attraverso le sue opere, e non, in pri-
mis, queste ultime. Ma un breve paragrafo, nelle ultime pagine, accenna alla forma e
al problema della traduzione; la mancanza, anche in quella sede, di un riferimento
alla fisionomia del poemetto in prosa, rivela una scarsa attenzione ed una difficoltà di
riflessione, in ambito italiano, su tali novità.
Negli Occhi dei poveri, Ragusa rintraccia segni di «dolore» e grande «melanco-
nia»149: si tratta dei toni che ricorrono, secondo il critico, nelle migliori poesie di
Baudelaire. L’operazione di Ragusa è dunque volta, prima di tutto, a spiegare Baude-
laire attraverso concetti ben comprensibili al lettore italiano (se stesso incluso), anco-
ra più o meno invischiato, a fine secolo, in vaghi paludamenti moralistici. Viene poi
tradotto, ancora senza avvertire da quale raccolta provenga, il poemetto in prosa de-
dicato alle Fenêtres, che confermerebbe la teoria estetica di Baudelaire: «rifare la real-
tà a modo proprio, tanto che da questa nuova creazione se ne abbia quel che si dice
un godimento estetico»150.
Il sensibile, come tale, a Baudelaire non basta, perché Baudelaire è artista e quindi
sa che lì è vera poesia dove c’è attività spirituale, e l’oggetto, come oggetto, è inesteti-
co, perché, diavolo! l’arte non è descrizione, né inventario; onde bisogna scartare, in
arte, tutti quegli oggetti che agiscono semplicemente come sensazioni, per occuparsi
invece delle sensazioni che s’innalzano fino a diventare sentimenti, e sa anche il Bau-
delaire che non bisogna fermarsi qui, perché come il sensibile, come sensibile, non ha
nessun valore in arte, anche l’immagine o l’idea, come tali, sono inestetiche, e allora
146 Ibid.
147 Ivi, p. 37.
148 Gautier, Charles Baudelaire, cit., p. 71.
149 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 41.
150 Ivi, p. 42.
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 149
possono servire come contenuto poetico quando l’artista non coglie il loro freddo es-
sere; ma il loro sentimento, l’idea pura e semplice […]151.
Per facilitare la comprensione in ambito italiano del grande francese, e per rendere
omaggio a un poeta che Ragusa stima grandemente, si ricorre al maestro bolognese,
che incrocerebbe Baudelaire proprio nell’importanza data al pensiero del poeta, con
la sua «forza pura», al di sopra della realtà152.
Ragusa cita dunque, in traduzione, alcuni passi del poemetto in prosa Le vedove.
La commozione è individuata come il sentimento principale che spira dalle poesie di
Baudelaire, con un’interpretazione che influenzerà grandemente anche la traduzione
stessa dei Poemetti in prosa:
Baudelaire era scettico, non era però cattivo; nelle sue poesie c’è una nota mesta,
cara, la quale non fa piangere, perché, a questi chiari di luna, ci vuol altro per piange-
re che delle poesie; ma però commuove153.
Contro il dolore, il poeta francese consiglia agli «uomini addolorati» di inebriarsi;
viene quindi tradotto il poème en prose Enivrez-vous, insistendo ancora sul concetto
di commozione, a conferma che, seppur scettico, «Baudelaire aveva un fondo di buo-
no»154.
Ragusa si impegna infine per difendere Baudelaire dalle accuse dei critici. Si im-
puta a Baudelaire di aver imitato Poe, perché suo traduttore, ma con Poe ha solo al-
cuni tratti in comune; in più, Ragusa si toglie d’imbarazzo con una citazione dal
«cardinale Huet»: «Tutto ciò che è scritto, da che mondo è mondo, potrebbe rinchiu-
dersi in nove o dieci in folio»155. La seconda accusa rivolta al poeta francese riguarda
l’immoralità, e ad essa così si risponde: «È vero che il Baudelaire, come Poe, credeva
151 Ivi, pp. 42-43.
152 Cfr. ivi, pp. 43-44, dove Ragusa fa riferimento a Idillio di Maggio di Carducci (Rime nuove): «Baudelai-
re, se fosse vivo, a questo punto canterebbe i versi del Carducci:
Oh, come solo il mio pensiero è bello
Nella sua forza pura!
Oh, come scolorisce in faccia a quello
Questa vecchia natura!
Oh, come è gretta questa mascherata
Di rose e di vïole!
Questa volta di ciel come è serrata!
Come sei morto, o sole!».
153 Ivi, p. 48.
154 Ivi, p. 50.
155 Ivi, p. 51.
150 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
esservi nell’uomo qualcosa che, fatalmente, lo spinga alla malvagità»156, ma questa
teoria nasceva dall’osservazione degli istinti dell’uomo, non da una bassezza morale
dell’autore. In terza battuta, si difende ancora la concezione dell’arte di Baudelaire
(per lui, «è bello tutto quello che fa sognare, almanaccare, pensare»)157. La quarta ac-
cusa riguarda il realismo: «E dire che alcuni critici, in Italia, danno del realista a Bau-
delaire»158; su questo punto, l’argomentazione di Ragusa è particolarmente manche-
vole, limitandosi solo a negare un’affiliazione di Baudelaire alla scuola del realismo,
senza approfondire tale concetto, a differenza di Gautier che dedica diverse righe al
rapporto con «cette bande»159. Sembra che Ragusa desideri allontanare, nel giro di
poche parole, il proprio poeta d’elezione dal termine “realismo”, che troppo spesso
nascondeva accuse di oscenità, immoralità e bruttezza. Infine, riguardo alla forma,
Ragusa si limita a dire che essa è perfetta in relazione al contenuto, nelle poesie come
nei poemetti in prosa, e che tradurli sarebbe compito difficilissimo: «È per questo che
le sue poesie e le sue prose è impossibile tradurle bene; ci vorrebbe un altro artista del
valore presso a poco di Baudelaire»160.
Tirando le somme, dalla lettura del profilo che Ragusa Moleti dedica all’autore
francese, si scopre un Baudelaire letto attraverso la Scapigliatura (Praga innanzitutto,
Stecchetti come ultimo epigono), avvicinato ai lettori italiani attraverso l’auctoritas
contemporanea di Carducci e il magistero isolato (ma recuperato, in una certa misu-
ra, proprio dagli Scapigliati) di Leopardi, il poeta ottocentesco più vicino al Romanti-
cismo europeo. La posizione gnoseologica di Baudelaire rimanda, nella sua stessa de-
finizione, alla visione del mondo dei primi scapigliati, uno «scetticismo» unito ad uno
strenuo pessimismo “progressista” («Il pessimismo è l’angolo acuto
dell’intelletto»)161, che Ragusa si affretta a separare da ogni immoralità. Un poeta, an-
cor più se proposto all’estero, ha bisogno di una patente di legittimità e, ad esempio,
Leopardi era stato presentato attraverso la fama di Byron, in nome di un «“archetipo
spirituale”, le cui caratteristiche precipue sono la malinconia e il vigore intellettua-
156 Ivi, p. 50.
157 Ivi, p. 52.
158 Ivi, p. 54.
159 «Un instant, l’école réaliste crut pouvoir accaparer Baudelaire. Certains tableaux des Fleurs du mal,
d’une vérité outrageusement crue et dans lesquels le poëte n’avait reculé devant aucune laideur, pouvaient
faire croire à des esprits superficiels qu’il penchait vers cette doctrine. On ne faisait pas attention que ces
tableaux, soi-disant réels, étaient toujours relevés par le caractère, l’effet ou la couleur, et, d’ailleurs, ser-
vaient de contraste à des peintures idéales et suaves» (Gautier, Charles Baudelaire, cit., pp. 52-53).
160 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 56.
161 La Direzione, Polemica letteraria, «Figaro», 4 febbraio 1864; parzialmente in La pubblicistica nel perio-
do della Scapigliatura, cit., pp. 409-10.
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 151
le»162; così la personalità di Baudelaire è descritta con gli stilemi che il lettore italiano
poteva ricondurre al grande recanatese: la solitudine, il male del mondo, la noia.
1.4 Tradurre i Petits poèmes en prose
L’attività di traduttore ha inizio per Ragusa Moleti in concomitanza con la stesura
dello studio dedicato a Baudelaire, che contiene, come accennato, versioni complete o
parziali di poesie e poemetti in prosa. L’impegno di traduzione si volge poi decisa-
mente verso i Petits poèmes en prose, le cui prime versioni vengono pubblicate, a par-
tire dal 9 marzo 1879 e fino al 9 novembre dello stesso anno, sul «Crepuscolo»163 di
Genova («giornale di lotta, di battaglia artistica» a strenuo sostegno del «Vero»164, al
secondo anno della sua breve vita) e, dal 21 luglio 1879 al 26 aprile 1880, sul «Tem-
po»165. Quindici poemetti sul «Crepuscolo» e diciotto, diversi, sul «Tempo»: Ragusa
aveva pubblicato in periodico una parte consistente delle traduzioni che formano poi
il volume.
162 C. Veronese, Diversi allo specchio: il parallelismo Leopardi-Byron nel Risorgimento, «La Rassegna della
Letteratura italiana», IX-113, 2, luglio-dicembre 2009, pp. 448-463.
163 Riportiamo le traduzioni di Ragusa Moleti dai Petits poèmes en prose di Baudelaire, con il titolo italiano
che avevano in rivista: C. Baudelaire, La camera doppia, «Crepuscolo», II, 10, 9 marzo 1879; Id., Il pazzo e
la Venere, ivi, II, 11, 16 marzo 1879; Id., Qual è la vera?, ivi, II, 13, 30 marzo 1879; Id., L’orologio, ivi, II,
17, 27 aprile 1879; Id., Ognuno la sua chimera, ivi, II, 19, 11 maggio 1879; Id., Le Vedove, ivi, II, 21, 25
maggio 1879; Id., Un buffone, ivi, II, 25, 25 giugno 1879; Id., Il porto e Lo Straniero, ivi, II, 28, 13 luglio
1879; Confiteor dell’artista, ivi, II, 29, 20 luglio 1879; Id., La disperazione della vecchia, ivi, II, 30, 27 luglio
1879; Id., Un cavallo di razza, ivi, II, 33, 17 agosto 1879; Id., Gli occhi dei poveri, ivi, II, 35, 31 agosto 1879;
Id., Le tentazioni o Eros, Pluto e la Gloria, ivi, II, 43, 26 ottobre 1879; Così presto?, ivi, II, 45, 9 novembre
1879. Queste pubblicazioni sono state segnalate da Pia Falciola (Falciola, La littérature française dans la
presse vériste italienne, cit., p. 97) (lo studio è stato pubblicato poco dopo quello della Rocchi, ma è in re-
altà precedente e quest’ultima vi rimanda; cfr. Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» de Girolamo
Ragusa Moleti, cit., p. 30). Sul «Crepuscolo» si annuncia agli inizi del 1880 la pubblicazione dei «Poemuc-
ci in prosa» (ancora il titolo è oscillante) presso David di Ravenna (cfr. «Crepuscolo», III, 5, 4 febbraio
1880).
164 I Cirri del Crepuscolo, Atto di fede, «Crepuscolo», I, 1, 17 novembre 1878.
165 Questa la serie dei poemetti pubblicati sul «Tempo» da Ragusa Moleti, con l’indicazione «dai Poemucci
in prosa di C. Baudelaire»: La signorina Bistori, ivi, 21 luglio 1879; I benefizi della luna, 4 agosto 1879; La
donna selvaggia e la civettuola, ivi, 11 agosto 1879; Il dono delle fate, ivi, 25 agosto 1879; Il pasticcio, ivi, 1
settembre 1879; Le folle, ivi, 15 settembre 1879; A Franz Litsz, Un emisfero in una capigliatura, ivi, 22 set-
tembre 1879; L’invito al viaggio, ivi, 29 settembre 1879; Il venditore di vetrame, ivi, 13 ottobre 1879; Il cre-
puscolo della sera, ivi, 3 novembre 1879; Ritratti d’innamorata, ivi, 10 novembre 1879; Le vocazioni, La
falsa moneta, ivi, 24 novembre 1879; Una morte eroica, ivi, 8 dicembre 1879; Il giocatore generoso, ivi, 12
gennaio 1880; La corda, ivi, 2 febbraio 1880; I buoni cani, ivi, 26 aprile 1880. Queste pubblicazioni sono
sfuggite a tutti meno che a Cinzia Gallo, che le inserisce nella bibliografia degli scritti di Ragusa Moleti
pubblicati in rivista (cfr. Gallo, Nota bibliografica, cit., pp. 113-114).
152 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Nel 1880 viene edita la traduzione completa dei Poemetti in prosa in volume,
presso Fratelli David Editori di Ravenna166, e il libro verrà riproposto da Sonzogno
nel 1884, 116o volume della «Biblioteca Universale», una serie di larga divulgazione -
«periodico postale» che «esce ogni mese», «centesimi 25», come recita la copertina167;
il volume vede, nel tempo, quattro ristampe, precisamente nel 1897, 1902, 1905, 1910,
sempre per i tipi di Sonzogno, nella forma di volumetto divulgativo168. Pur conside-
rando che molti leggono il testo direttamente in francese, si registrerà che questa è
l’unica traduzione italiana disponibile, in volume, dello Spleen de Paris, almeno fino
al 1921, anno della versione di Decio Cinti per Modernissima di Milano169. Si noterà
inoltre che nella traduzione di Ragusa manca la Dédicace, come poi in quella di Cinti,
inaugurando una tradizione che si inverte solo a partire dal 1955170.
Al volume del 1884 Ragusa premette, com’è uso della collana171, un profilo dedi-
cato all’autore172 e si concentra, al contrario di quel che ci si aspetterebbe, sui Fiori del
male, «poesie strane» destinate a suscitare umori discordanti. L’opinione dell’autore è
che, nonostante «certi soggetti» e «certe immagini troppo ardite», le poesie possono
essere lette «senza bisogno di turarsi il naso», considerando la commistione tra le «te-
tre, orribili immagini» e i «versi squisiti sui profumi»173. Il libro ha subìto i danni,
166 C. Baudelaire, Poemetti in prosa, traduzione di G. Ragusa Moleti, Fratelli David Editori, Ravenna 1880.
167 Si legge nella quarta di copertina di questa edizione del 1884: «Biblioteca Universale Antica e Moderna.
Raccolta di lavori letterari dei migliori autori di tutti i tempi e di tutti i paesi. Si pubblica per volumi di
circa 100 pagine in accuratissima edizione stereotipa, i quali non costano che 25 centesimi cadauno. – Ne
esce uno al mese. – A ciascun volume è premessa una biografia od un breve studio critico sull’autore e
sull’opera». Per avere una prima idea dei volumetti pubblicati, tra essi figurano: Anacreonte, Aristofane,
Catullo, Cicerone, Epitteto, Esopo, Byron, Camoens, Dumas, Gautier, Hoffman, Heine, Hölderlin, Ber-
chet, Gozzi, Grossi, Guerrazzi.
168 C. Baudelaire, Poemetti in prosa, traduzione di G. Ragusa Moleti, Sonzogno, Milano 18842, poi 1897,
1902, 1905, 1910; le nostre sono tratte dall’edizione del 1884. Si noti che Bernardelli non sembra aver rin-
tracciato le ristampe, che mancano nella sua Appendice bibliografica (cfr. Bernardelli, Baudelaire nelle
traduzioni italiane, cit., pp. 385-97).
169 C. Baudelaire, Poemetti in prosa, trad. di D. Cinti, Modernissima, Casa Editrice Italiana, Milano 1921.
170 La mancanza della Dédicace è curiosamente ricorrente e Bernardelli la registra anche per l’edizione
Poemetti in prosa, traduzione di O. Nemi, con prefazione di H. Furst, Longanesi, Milano 1951; essa è pre-
sente invece in Lo Spleen de Paris, traduzione di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1955 (cfr. Bernardelli, Bau-
delaire nelle traduzioni italiane, cit., pp. 392-93).
171 Si ricordi la presentazione della Biblioteca Universale sovra citata: «A ciascun volume è premessa una
biografia od un breve studio critico sull’autore e sull’opera».
172 G. Ragusa Moleti, Carlo Baudelaire, in Baudelaire, Poemetti in prosa, cit., pp. 3-6.
173 Ivi, p. 4. Si ripete che questo breve profilo, Carlo Baudelaire, appartiene all’edizione 1884. Non è dun-
que del tutto esatto attribuirlo ad un mutamento nell’interpretazione del «Simbolismo» in Italia nel primo
decennio del Novecento, come faceva invece Gianni Nicoletti nel 1959, essendo probabilmente a cono-
scenza dell’edizione 1910 dei Poemetti in prosa del Ragusa Moleti: «qualcosa stava sì cambiando: con fer-
mezza, nel 1910, G. Ragusa Moleti avvertiva che si può leggere Baudelaire “senza bisogno di turarsi il na-
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 153
nell’opinione di Ragusa Moleti, di una lettura parziale ed episodica; si invita dunque a
leggere, prima di tutto, il volume nel suo «complesso» e nella «giusta disposizione»,
per seguire «lo sviluppo del pensiero principale»174.
Nell’esigenza di giustificare il “satanismo” delle Fleurs, ovvero la presenza di
«soggetti orribili e ripugnanti», Ragusa Moleti cita le parole di Gautier, che dovevano
suonare, ad un pubblico italiano, non dissimili dai termini della «eterna questione»
realismo-immoralità, che campeggiava già nelle prime pubblicazioni scapigliate (dal
«Figaro» 1864, diretto da Praga e Boito, alla feroce battaglia di Cameroni)175. Come «i
realisti non sono altro che gli statisti, i rivelatori, i diagnostici del male»176, questo
Baudelaire «ha professato […] altero disdegno contro le turpitudini dello spirito e le
brutture della materia»: «Se il suo mazzo di fiori si compone di fiori strani», continua
Ragusa Moleti citando Gautier, «egli può rispondere che non ne attecchiscono altri
nel terriccio nero e saturo di putridume, come un terreno di cimitero, delle civiltà de-
crepite»177. “Degenerata”, insomma, è la civiltà moderna, e non il suo cantore: concet-
to, negli anni di Lombroso, e ben presto, di Nordau, utile a chi (e non è il caso di Ra-
gusa Moleti) volesse poi difendere non solo Baudelaire ma anche tutta l’arte “deca-
dente”178. Tale difesa era diffusa negli ambienti letterariamente più progressisti; come
si è già accennato, Dossi stesso prendeva le distanze da chi avversava certi autori in
nome di un bieco perbenismo. Non a caso, la prefazione di Gautier all’edizione Levy
del 1868 era stata letta e apprezzata anche dall’autore delle Note azzurre, che non si
mostrava affatto tenero con Baudelaire ma affermava: «E splendida è pure la prefa-
zione di Th. Gautier ai “Fleurs du mal”»179. Il breve ragguaglio sull’autore si chiude
so”; Padovani, in un manuale Hoepli, cercava di essere misurato; Soffici, nel 1911, faceva conoscere Rim-
baud […]» (G. Nicoletti, Max Nordau e i primi critici del «Simbolismo» in Italia, in Id., Saggi e idee di let-
teratura francese, Adriatica, Bari 19672, pp. 372-74; il saggio era apparso in precedenza in «Studi francesi»,
III, 9, settembre-dicembre 1959, pp. 433-38).
174 Ivi, p. 5.
175 Come già accennato, a Cameroni è dedicata una poesia di Prime armi, intitolata Lavata di capo (Id.,
Prime armi, cit., XXII, pp. 135-38).
176 Si veda, ad esempio, l’articolo redazionale [Cletto Arrighi], La eterna questione del realismo, «Cronaca
grigia», 12-13 settembre 1880: «I realisti non sono altro che gli statisti, i rivelatori, i diagnostici del male».
177 Ragusa Moleti, Carlo Baudelaire, cit., p. 5.
178 Si ricordi anche, ad esempio, il giudizio di Federico De Roberto nell’articolo Poeti francesi contempo-
ranei, «Fanfulla della Domenica», X, 17, 22 aprile 1888: «È vero: Baudelaire è un ammalato, la sua natura
è irrequieta, eccessiva e contraddittoria […]. È un ammalato; ma del suo male chi è di noi che più o meno
non soffra o non abbia sofferto? È il male stesso dei nostri tempi, di questa civiltà troppo vecchia, di que-
sto progresso che finisce per essere una decadenza. Come ogni albero porta il proprio frutto, ciascuna età
ha la propria arte». L’articolo è citato in F. Finotti, Sistema letterario e diffusione del decadentismo nell'Ita-
lia di fine '800. Il carteggio Vittorio Pica - Neera, Olschki, Firenze 1988, pp. 84-85.
179 C. Dossi, NA 4648, in Id., Note azzurre, cit., p. 576.
154 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
con un accenno alle traduzioni da Poe, che dovrebbe far risaltare ulteriormente il va-
lore della fatica intellettuale di Baudelaire: «Devesi a Baudelaire anche la migliore
traduzione in lingua francese delle opere dell’americano Edgardo Poe»180.
Baudelaire, autore discusso soprattutto per la produzione poetica, ha dunque bi-
sogno di una presentazione che ne difenda la personalità, in nome di una separazione
tra moralità dell’artista e contenuto dell’opera. Siamo di fronte ad una questione non
secondaria che riguarda la storia della poesia italiana tra gli anni Settanta e Ottanta
dell’Ottocento, ed è stata messa a fuoco da Ghidetti a proposito delle «vicende del ve-
rismo in versi»:
Si direbbe che nello spazio consacrato alla poesia, più facilmente che in quello riser-
vato alla narrativa, la discussione possa tracimare dall’alveo della critica letteraria e
sul terreno dell’etica e addirittura della salute pubblica; quello che è se non permesso,
tollerato nel genere di consumo del romanzo, provoca una violenta reazione nei sa-
cerdoti della poesia appartenenti tutti, in questo caso, al coté più fieramente laico e
carducciano, a dimostrazione della perdurante arretratezza di uno stile intellettuale
sul quale, ormai alle soglie della contemporaneità, l’ipoteca della difesa del costume
nazionale e delle virtù della stirpe si somma paradossalmente alla crociata in difesa
delle anime dell’antirisorgimento clericale181.
Il profilo di Baudelaire si presenta come una excusatio preventiva, una difesa
dell’autore in relazione alle Fleurs du Mal, il libro che, per il genere “alto” che vi è fre-
quentato (una poesia che si confronta con le forme più tradizionali), sfidava più aper-
tamente la letteratura coeva e precedente, almeno agli occhi dei lettori italiani, e per
questo era stato aspramente criticato. Si ricordino le parole con cui Dossi, ammirato-
re dei Petits poèmes en prose, rifiuta categoricamente le poesie: «Baudelaire cerca di
disporsi intorno artisticamente i suoi panni stracciati. Si direbbe l’orgoglio in cen-
ci»182; insomma, non c’è peggior peccato d’orgoglio che voler presentare i propri
«panni stracciati» sistemandoli «artisticamente», ovvero nella forma aulica della liri-
ca. La scelta di Ragusa di presentare in traduzione i poemetti in prosa, inoltre, elimi-
na un’altra questione non secondaria, che riguarda la difficoltà di tradurre, in genera-
le, la poesia; su questo Ragusa Moleti si interrogò più volte, arrivando a sostenere
fermamente che i poeti stranieri vanno tradotti in prosa183.
180 Ragusa Moleti, Carlo Baudelaire, cit., p. 6.
181 Ghidetti, L’ipotesi del realismo, cit., p. 59.
182 Dossi, NA 4648, cit.
183 Ragusa scriveva chiaramente nel 1890 su «Psiche», a proposito di alcune traduzioni da Poe:
«L’anonimo traduttore ha avuto il buon senso di volgere in prosa le poesie di Poe. Alla vanità, che è in-
sieme grande sciocchezza, di tradurre i poeti in versi, qui in Italia son pochi coloro che hanno il coraggio
di rinunziare. Gli è quindi che abbiamo le traduzioni più traditore del mondo» (G. Ragusa Moleti, Le poe-
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 155
Come si è visto, Ragusa non faceva distinzione tra poesie e poemetti in prosa
nemmeno nello studio Carlo Baudelaire, dove riportava citazioni dalle une e dagli al-
tri senza avvertire il lettore. Già nello studio, però, accadeva un fatto curioso: alle
Fleurs appartenevano citazioni in positivo (Le Confiteor de l’artiste) e in negativo (U-
ne Carogne e Remords posthume), mentre dai Petits poèmes en prose non provenivano
che notazioni positive, legate ad un umanesimo pronto alla pietà e alla commozione
(in particolare, Les Yeux des Pauvres e Les veuves). Si potrebbe dunque ipotizzare che,
nel periodo della stesura dello studio, Ragusa avesse già accordato la propria prefe-
renza alla seconda fatica baudelairiana, trovandola più vicina ad un certo gusto italia-
no, oltre che relativamente più facile da vertere perché già in prosa.
Questa “facile ricezione” tardo-ottocentesca, accennata, seppur in senso legger-
mente diverso, anche da Bernardelli184, fa perno su almeno due grossi fraintesi: il
primo riguarda la forma, e consiste nella convinzione che il poemetto in prosa non
rappresenti una novità, ma faccia più o meno parte di quei generi minori di prosa
(dalle novelle, agli schizzi, ai bozzetti) frequentati in Italia nell’ambito delle riviste; il
secondo, che procede dal primo, concerne il contenuto e si nutre dell’idea che,
nell’ambito della prosa minore, la varietas sia concessa e in fondo innocua, confinata
in qualche tema più strano e in qualche immagine bizzarra185. Siamo di fronte, in-
somma, ad una incomprensione dei Petits poèmes en prose nei loro tratti più rivolu-
zionari, nella commistione inedita tra poesia e prosa quanto nello sguardo, tra disin-
cantato e allucinato, sulla vita e sulla coscienza moderne.
sie di Edgar Poe, «Psiche», VI, 23, 16 ottobre 1890). Osserva giustamente Rocchi, che riproduce in parte
questo articolo: «Seul Carducci, évidemment, a le droit de traduire en vers. Cf. la Conversazione du 19-20
sept. 1897, où est cité le text de la trad. Il lamento del Re di Tule de Goethe par Carducci» (Rocchi, Les
«Conversazioni della domenica» de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 31).
184 Secondo Bernardelli, Ragusa non accenna ai poemetti in prosa nella prefazione perché in Italia «il
Baudelaire dei Petits poèmes en prose è ormai recepito e quasi scontato (al punto che la traduzione non
bisogna di una riga di presentazione specifica)» (Bernardelli, Baudelaire nelle traduzioni italiane, cit., p.
354). A conferma di quanto detto, vengono citati in nota i Nuovi profili letterari di Eugenio Camerini
(Natale Battezzati, Milano 1875-76, 4 voll.), che «più volte ne contengono eco». Non a caso, analizzando
la fortuna di Baudelaire in Italia in vari blocchi temporali, Bernardelli intitola il secondo paragrafo Fortu-
na dei «Petits poèmes en prose» (1870-1890), indicando fin da subito, come tratto caratterizzante del peri-
odo, la predilezione per le prose a scapito delle poesie. Sarebbe, semmai, da precisare l’indicazione tempo-
rale (1870-1890), almeno per la sua data d’inizio, che sembra basarsi sulla Nota azzurra 4648 di Dossi, la
quale è riconducibile in realtà, come suppone ragionevolmente Isella, al 1879.
185 Non convince la spiegazione più generica di Pia Falciola: «C’est la première fois que le poète français
est traduit en italien de façon systématique et il est remarquable que le traducteur Ragusa Moleti ait choisi
les Petits poèmes en prose, plutôt que les Fleurs du Mal ; il a compris plus peut-être par intuition que par
raisonnement, que la langue italienne n’avait pas encore les moyens indispensables pour traduire la mo-
dernité et la nouveauté des vers baudelairiens» (Falciola, La littérature française dans la presse vériste ita-
lienne, cit., p. 33).
156 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Scorrendo i Poemetti in prosa nella versione di Ragusa, si può riscontrare quanto
sostiene Bernardelli: «La traduzione è in genere corretta e senza gravi cadute, anche
se tende a dare di Baudelaire una lettura piccolo-provinciale e linguisticamente un
poco diluita»186. Tali affermazioni sono comprovate da Bernardelli tramite alcuni
prelievi testuali, facilmente ampliabili: «quatre hommes fumaient et buvaient», c’est a
dire, per Ragusa Moleti, «quattro signori, fra una boccata e l’altra di fumo, centella-
vano un buon vino» (XLII, Ritratti d’innamorate – in origine Portraits de maîtresses,
che non vale proprio lo stesso)187.
Leggendo il testo per intero, si ha l’impressione che Ragusa Moleti si applichi,
nella traduzione, per ingentilire le immagini di Baudelaire, prediligendo quegli «squi-
siti profumi» in nome dei quali difendeva anche le Fleurs, oltre che per arricchire
l’atmosfera di domesticità. Si tratterebbe insomma non solo di quell’«accostamento
superficiale» al testo denunciato da Bernardelli, o della difficile interpretazione di cer-
ti vocaboli, sempre risolta da Ragusa abbastanza agilmente188, ma di un sistematico
“tradimento” della scrittura baudelairiana; i suoi sono, se è concesso utilizzare una
metafora tratta dalla critica testuale, gli errori del “copista dotto” piuttosto che quelli
dello scriba illetterato, in quanto nascono da un’interpretazione ben precisa del testo
e da un progetto per la sua assimilazione in ambito italiano.
Si veda un altro esempio di traduzione, confrontato con il testo francese:
Vauvenargues dit que dans les jardins publics il est des allées hantées principale-
ment par l’ambition déçue, par les inventeurs malheureux, par les gloires avortées,
par les cœurs brisés, par toutes ces âmes tumultueuses et fermées, en qui grondent
encore les derniers soupirs d’un orage, et qui reculent loin du regard insolent des
joyeux et des oisifs. Ces retraites ombreuses sont les rendez-vous des éclopés de la
vie189.
186 Bernardelli, Baudelaire nelle traduzioni italiane, cit., p. 351.
187 Cfr. ivi, pp. 350-51. Uno slittamento simile si ha nell’Invito al viaggio (ivi, XVIII, pp. 32-34), dove «une
vieille amie» (L’invitation au voyage) diventa «un’antica mia bella». Non si tratta certo di
un’incomprensione dei vocaboli, e a togliere ogni dubbio si noti che altrove Ragusa traduce «vieille maî-
tresse» con «vecchia ganza», «l’énorme catin» («dont le charme infernal me rajeunit sans cesse») con
l’«enorme baldracca» (cfr. Epilogo, LI, ivi, p. 91).
188 Basti un esempio: il traduttore sembra trovarsi in difficoltà di fronte all’espressione «par quelque tour
de bâton à lui connu» (Portraits de maîtresses, XLII), di non immediata comprensione. Chiosa Steinmets:
«Profit illicite fait secrètement dans une charge ou une commission. Cette métaphore est tirée de l’art des
escamoteurs de foire faisant disparaître des objects par un tour de bâton» (cfr. Ch. Baudelaire, Le Spleen
de Paris, a c. di J.-L. Steinmets, Librairie Générale Française, Paris 2003, p. 190). Di fronte all’ostacolo,
Ragusa riesce comunque a tradurre senza troppo alterare il senso dell’originale, attenendosi ad un sempli-
ce «non so come» (Baudelaire, Poemetti in prosa, cit., p. 78).
189 Le citazioni sono tratte dal volume dall’edizione del 1869, da cui Ragusa Moleti deve aver tradotto,
considerati anche i ricchi prelievi dalla prefazione di Gautier alle Fleurs du Mal: Ch. Baudelaire, Petits
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 157
Vauvenargues dice che, nei giardini pubblici, vi sono certi viali dove bazzicano più
volontieri gli ambiziosi delusi, gli inventori sfortunati, coloro la cui gloria è andata in
fumo, o il cuore dei quali è rotto: tutte quelle anime, insomma, chiuse, tumultuose,
dove soffiano ancora gli ultimi buffi d'un uragano, e che si dilungano dallo sguardo
degli oziosi e dei felici. In quei luoghi ombrosi, si dan la posta tutti gli storpiati della
vita190.
Si noterà in questo primo paragrafo delle Vedove una tendenza a semplificare il testo,
eliminando la variatio (l’ambition, les inventeurs, les gloires, ecc.) a favore di un pa-
rallelismo volto a depennare gli astratti (ambiziosi, inventori, coloro la cui gloria,
ecc.); si tratta evidentemente di una “miglioria”, che infatti distingue questa versione
da quella abbozzata per il volume su Baudelaire, più fedele all’originale («viali fre-
quentati principalmente dalle ambizioni decadute, dalle glorie abortite, dai cuori rot-
ti»)191. La punteggiatura subisce, rispetto al francese, lievi ma significativi cambia-
menti (con l’introduzione dei due punti che interrompono l’elencazione)192.
Nel paragrafo seguente, le modifiche nella punteggiatura, che riportano il testo
franto baudelairiano ad un corretto periodare latineggiante, è ancor più evidente:
C’est surtout vers ces lieux que le poëte et le philosophe aiment diriger leurs avides
conjectures. Il y a là une pâture certaine. Car s’il est une place qu’ils dédaignent de vi-
siter, comme je l’insinuais tout à l’heure, c’est surtout la joie des riches. Cette turbu-
lence dans le vide n’a rien qui les attire. Au contraire, ils se sentent irrésistiblement
entraînés vers tout ce qui est faible, ruiné, contristé, orphelin.
È soprattutto in quei luoghi che il poeta e il filosofo, avidi di congetture, si dirizza-
no e trovan pascolo certo per le loro anime; giacché, se v’è un luogo che essi sdegnino
visitare, è quello dove i ricchi godono. Il tumulto nel vuoto non ha allettamenti per
Poèmes en prose, in Œuvres complètes, Lévy, Paris 1869. Il testo di Ragusa, infatti, riporta i lievi cambia-
menti che caratterizzano quell’edizione; ad esempio, nell’edizione 1869, in Assommons les pauvres!
(XLIX) la frase conclusiva («Qu’en dis-tu, citoyen Proudhon?») è soppressa; tale assenza si ritrova nella
traduzione di Ragusa (cfr. Mazzate ai poveri, XLIX, ivi, pp. 88-90). Ancora, l’aggettivo «rouge» che carat-
terizza l’«ombrelle» de La belle Dorothée nell’edizione 1869 è presente anche nella traduzione di Ragusa
(«l’ombrellino rosso»; La bella Dorotea, in Baudelaire, Poemetti in prosa, cit., XXV, pp. 46-48); Dorothée è
«célèbre» (ed. 1869) e «celebre» per Ragusa, non «belle» (cfr. ed. Steinmets, p. 134); la descrizione della
sorellina nel testo di Ragusa corrisponde a quella aggiunta nell’ed. 1869 («qui a bien onze ans, et qui est
déjà presque mûre, et si belle»: «che ha già undici anni ed è già matura ed è tanto bella!»).
190 Baudelaire, Poemetti in prosa, cit., p. 22.
191 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 46.
192 Si noterà anche che l’aggettivo «insolent» riferito a «regard» è caduto, probabilmente per errore invo-
lontario.
158 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
loro, che si sentono invece irresistibilmente invogliati da tutto quel che è debole, rui-
nato, triste, orfano193.
Di cinque periodi se ne fanno due, e la traduzione assume a tratti le modalità di una
parafrasi, volta a spiegare i nessi brevi e più ardui della prosa baudelairiana: nel testo
francese le «conjectures» sono «avides», ma Ragusa Moleti “chiosa” «il poeta e il filo-
sofo, avidi di congetture», interpretando la perifrasi come un’ipallage da sciogliere; la
«pâture» è “disambiguata” come «pascolo per le anime».
A perdere di vigore nella traduzione è, spesso, l’ironia, che passa attraverso la raf-
finata scelta del lessico, come si noterà, ad esempio, per il dolore del ricco confronta-
to con quello del povero: «Il est contraint de lésiner sur sa douleur. Le riche porte la
sienne au grand complet»; tradotto, «Il povero è costretto a lesinare col suo dolore. Al
dolore del ricco non manca nulla mai»194 (già in C. Baudelaire, la semplificazione era
fatta: «al dolore del ricco non manca niente»)195.
Più avanti, il tono è artificiosamente spostato, interpretando in modo deciso e u-
nivoco il testo baudelairiano, in un punto dove, peraltro, la traduzione non presenta
una difficoltà evidente:
C’est toujours chose intéressante que ce reflet de la joie du riche au fond de l’œil du
pauvre.
È sempre una cosa che commuove il riflettersi della gioja del ricco in fondo all’occhio
del povero196.
L’interpretazione è chiara: l’interesse che il poeta trova in questo spettacolo, secondo
Ragusa, non può nascere che dalla commozione. La pietosa partecipazione agli spet-
tacoli del Male che Baudelaire coglie nelle pieghe della normalità è, secondo Ragusa,
il passaporto morale che lo riscatta, com’è emerso chiaramente dal profilo edito nel
1878. Dunque il traduttore ritiene legittimo rendere più esplicita la “salvazione del
poeta”, lavorando per una interessata disambiguazione.
La correzione della punteggiatura è sistematica e tende a sostituire al discorso
frammentato un periodare ricco di subordinate; si veda, ad esempio, come, nella tra-
duzione di Le désespoir de la vieille, il primo paragrafo, già ricco di proposizioni di-
pendenti, non è modificato nella sua struttura; il secondo, invece, troppo breve, viene
fuso con il terzo:
193 Baudelaire, Poemetti in prosa, cit., p. 22.
194 Ivi, p. 23.
195 Cfr. Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 46.
196 Baudelaire, Poemetti in prosa, cit., p. 23.
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 159
La petite vieille ratatinée se sentit toute réjouie en voyant ce joli enfant à qui chacun
faisait fête, à qui tout le monde voulait plaire; ce joli être, si fragile comme elle, la pe-
tite vieille, et, comme elle aussi, sans dents et sans cheveux.
Et elle s’approcha de lui, voulant lui faire des risettes et des mines agréables.
Mais l’enfant épouvanté se débattait sous les caresses de la bonne femme décrépite,
et remplissait la maison de ses glapissements.
La grinzosa vecchiarella rallegravasi vedendo un caro bambino a cui tutti facevan
festa, a cui tutti volevan piacere; un essere grazioso, fragile come lei, e, come lei, senza
denti e senza capelli.
E gli si avvicinò per fargli vezzi e sorrisi; ma il bambino, spaventato, divincolavasi
sotto le carezze di quella buona, ma decrepita donna, ed assordava la casa di strilli197.
Si noterà anche, a livello del lessico, la traduzione di «la bonne femme décrépite» in
«quella buona, ma decrepita donna», dove l’accentuazione dell’antitesi buo-
na/decrepita inserisce una nota pietosa assente nel testo francese.
Un movimento uguale e contrario, a livello sintattico, avviene quando il periodo
baudelairiano si lancia in lunghe elencazioni, come nel secondo paragrafo de Le
«Confiteor» de l’artiste:
Grand délice que celui de noyer son regard dans l’immensité du ciel et de la mer!
Solitude, silence, incomparable chasteté de l’azur! une petite voile frissonnante à
l’horizon, et qui par sa petitesse et son isolement imite mon irrémédiable existence,
mélodie monotone de la houle, toutes ces choses pensent par moi, ou je pense par
elles (car dans la grandeur de la rêverie, le moi se perd vite!); elles pensent, dis-je,
mais musicalement et pittoresquement, sans arguties, sans syllogismes, sans déduc-
tions.
Come è soave l’annegare il proprio sguardo nell’immensità del cielo e del mare! So-
litudine, silenzio, incomparabile castità dell’azzurro! Una piccola vela tremola
all’orizzonte e, per la sua piccolezza e il suo isolamento, somiglia alla mia esistenza,
melodia monotona dell’onda. Tutte queste cose pensano per me o io penso per loro
(giacché nella grandezza del sogno l’io si perde subito); esse pensano, dico, ma musi-
calmente e pittorescamente, senza arguzie, senza sillogismi, senza deduzioni198.
La serie delle lunghe apposizioni del soggetto («toutes ces choses») è suddivisa in di-
verse frasi, eliminando l’accumulo. In un senso o nell’altro, dunque, le anomalie che
197 Id., La disperazione della vecchia, ivi, p. 8.
198 Id., Il Confiteor dell’artista, ivi, pp. 8-9.
160 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
rendono la prosa francese frammentata, oppure ampia come un movimento musica-
le, vengono rimosse. Tale “normalizzazione” è indizio di una fondamentale incom-
prensione dell’esperimento baudelairiano, che condizionerà anche il Ragusa scrittore
di “poemetti in prosa”: il tentativo di forzare la prosa ad una musicalità propria della
poesia non può mai andare oltre, in Ragusa, le buone regole della sintassi italiana; ciò
significa una rinuncia non secondaria, o un’incapacità, a sperimentare nuove forme.
Tra le traduzioni, è poi degna di nota Inebriatevi (Enivrez-vous)199, poiché Ragusa
opera uno spostamento per lui insolito, volto a conferire al testo una sorta di “struttu-
ra ad anello”; riportiamo l’inizio e il finale della pièce, in originale e in traduzione:
Il faut être toujours ivre. Tout est là: c’est l’unique question. Pour ne pas sentir
l’horrible fardeau du Temps qui brise vos épaules et vous penche vers la terre, il faut
vous enivrer sans trêve.
Mais de quoi? De vin, de poésie ou de vertu, à votre guise. Mais enivrez-vous.
[…] Il est l’heure de s’enivrer! Pour n’être pas les esclaves martyrisés du Temps,
enivrez-vous; enivrez-vous sans cesse! De vin, de poésie ou de vertu, à votre guise.
Inebbriatevi di vino, di poesia, di virtù, non importa di che; ma inebbriatevi, per
non sentire l’orribile peso del Tempo, che vi rompe le spalle e vi curva verso la terra.
[…] inebbriatevi sempre di vino, di poesia, di virtù, di quel che meglio vi piace.
Come si noterà, il primo segmento del testo baudelairiano scompare, a favore di un
parallelismo rafforzato. Questo gusto per la composizione chiusa è, evidentemente,
un tratto specifico del poemetto in prosa nella ricezione italiana, utilizzato per confe-
rire poeticità al testo; lo si trovava, innanzitutto, nei Canti del cuore di Tarchetti, e
proveniva probabilmente anche dall’uso del refrain nella canzone popolare, studiata,
per l’appunto, anche da Ragusa.
Frequenti sono le scelte a favore di una consapevole normalizzazione delle im-
magini baudelairiane; in Une hémisphère dans une chevelure (trad. Un emisfero in una
capigliatura)200, il sintagma finale «il me semble que je mange des souvenirs», che si
impone per la forza dell’immagine inconsueta, è tradotta, in modo da eliminare la
stranezza, come «mi sembra di assaporare dolci memorie»201. Sempre in nome di una
musa contadina, Ragusa traduce un passo de Les projets potenziando la positiva do-
mesticità delle immagini, cosicché la cena diventa, da «passable», «appetitosa» (Ren-
199 Ivi, p. 68.
200 Ivi, pp. 31-32.
201 A proposito di questa figura, ha scritto Barbara Johnson, confrontandola con l’espressione che si trova
invece nella poesia in versi: «La figure “mange des souvenirs” devient donc la figure de la facticité de la
figure poétique “boire le vin du souvenir” qu’elle littéralise et métonymise» (cfr. B. Johnson, Défigurations
du langage poétique: la seconde révolution baudelairienne, Flammarion, Paris 1979, p. 53).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 161
dina: «alla buona»), il «vin rude» è «una bottiglia del buono» (Rendina: «un vino vi-
goroso»)202. Il «ton nasale, très apostolique» del «gazetier philanthrope» (La Solitude,
XXIII) è tradotto come «voce nasale ed enfatica», eliminando un riferimento («apo-
stolico») che poteva apparire bizzarro.
Si incontrano a volte slittamenti lessicali indicativi. Per quanto riguarda Perte
d’auréole (trad. Perdita d’aureola), è da rimarcare la resa del celebre «la dignité
m’ennuie» in «le grandigie m’annojano», che comporta una riduzione del significato
più esteso del termine «dignité» e, dunque, del valore emblematico di questa raffigu-
razione. Nella traduzione di Les bons chiens (I buoni cani)203, spicca la definizione del-
la Musa invocata: «J’invoque la Muse familière, la citadine, la vivante» viene trasposto
in «Io invoco la musa casalinga, viva, paesana». Passi la resa di «familière» con «casa-
linga», ma «citadine» non corrisponde a «paesana» e lo slittamento è rivelatore: la
«lettura piccolo-provinciale» denunciata da Bernardelli trova piena conferma in una
dichiarazione di poetica più adatta alle Miniature e Filigrane che allo Spleen de Paris.
Nelle Foules (in trad. Le folle, XII)204 Ragusa fa appello alla tradizione italiana per
restituire un’espressione carica di senso e non facilmente traducibile, «le promeneur
solitaire et pensif», sintagma celebre e potenziale titolo dei petits poèmes en prose, se-
condo una lettera ad Houssaye del 1861. Con un passaggio di testimone dal Rousse-
au, ironicamente invocato, ad un Petrarca che pare prefigurare solitudini romantiche,
si ottiene: «Chi va solo e pensoso». La scelta è significativa, visto che altrove il termine
«promeneur» è semplicemente trasposto in «vagabondo», come avviene in Le tir et le
cimetière (XLV: Il bersaglio e il cimitero)205. Infine l’epilogo, originariamente in versi,
è tradotto in prosa, senza alcun avvertimento.
Si potrà avere qualche idea della reazione del pubblico di fronte alle traduzioni di
Ragusa scorrendo alcune recensioni. Pietro Anelli, sul «Prometeo», nel 1881, defini-
sce «la traduzione dei poemetti», insieme ad Aloe, «saggi di prosa purgata ed elegan-
te»206. Sulla «Rivista minina», è Salvatore Farina a commentare la traduzione dei Po-
emetti in prosa:
202 Cfr. Les projets (XXIV) e I progetti (Baudelaire, Poemetti in prosa, cit., pp. 45-46): «Un grand feu, des
faïences voyantes, un souper passable, un vin rude, et un lit très-large avec des draps un peu âpres, mais
frais»; «Un gran fuoco, belle majoliche, una cenetta appetitosa, una bottiglia del buono, un letto largo con
lenzuola rude sì, ma fresche… che cercate di più?».
203 Ivi, pp. 91-94.
204 Ivi, pp. 21-22.
205 «À la vue du cimetière, Estaminet. “Singulière enseigne”, se dit notre promeneur»: «Taverna con vedu-
ta del cimitero. “Strana insegna”, disse il nostro vagabondo» (Baudelaire, Poemetti in prosa, cit., p. 81).
206 P. Anelli, L’Eterno romanzo di G. Ragusa Moleti, «Prometeo», I, 23, 3 luglio 1881; cfr. Pagine sparse di
Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 4.
162 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Stavamo dicendo che il signor Ragusa Moleti non ha perduto il suo tempo voltando
in prosa italiana i Poemetti in prosa del Baudelaire, e ora lo diciamo proprio. Non ha
perduto il suo tempo; anzi vorremmo che i giovani lo imitassero e che si provassero a
voltare in prosa, per loro uso e consumo, certa poesia elzeviriana moderna per vedere
che cosa ne rimane […]. La versione di Ragusa è fatta con fedeltà, anzi con scrupolo e
non senza eleganza; tratto tratto per altro si scorge ancora il periodo francese ed ahi!
talvolta anche la parola207.
La recensione di Farina è significativa per la definizione stessa del poemetto in
prosa, che rientrerebbe nella «poesia elzeviriana moderna», una pratica piuttosto e-
stemporanea che, tradotta, rivelerebbe meglio la propria natura; il giudizio su di essa
è implicitamente negativo («per vedere che cosa ne rimane»). Riguardo alla traduzio-
ne, Farina riconosce a Ragusa meriti di «fedeltà, scrupolo» e, come già Anelli, «ele-
ganza»; un rimprovero è mosso, semmai, a quei passi in cui affiora ancora «il periodo
francese» e «la parola». In controluce, si può ricavare un concetto di traduzione che
doveva aver guidato Ragusa stesso: si trattava di eliminare i caratteri precipui della
lingua francese, operazione condotta, infatti, con «scrupolo», visti i molteplici slitta-
menti lessicali e sintattici.
I due articoli già citati, a firma di Filipponi e di Pipitone Federico, che recano un
profilo di Ragusa, non mancano di ricordare le traduzioni dei Petits poèmes en prose,
citando un giudizio elogiativo del Carducci:
Il Ragusa nel 1878 ne pubblicò uno studio, nel quale ancor più s’innamorò dello scrit-
tore francese; ne tradusse i Poemetti in prosa, traduzione ch’ebbe l’onore d’esser giu-
dicata dal Carducci «emula dell’originale»208.
Del Baudelaire, da cui tanto ritrae insieme all’Heine, il Ragusa ci ha regalato una bel-
lissima traduzione de’ Petits poèmes superiore all’originale medesimo crede il Car-
ducci209.
Le letture baudelairiane di Ragusa avranno probabilmente contribuito a formare il
gusto anche del giovane Pirandello, soprattutto per la produzione poetica, che, come
ha ipotizzato per prima Gilda Ottonello, non è affatto estranea ad un influsso di Bau-
207 S. Farina, Libri nuovi, «Rivista minima di scienze, lettere ed arti», XII, 12, 1882; cfr. Pagine sparse di
Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 6.
208 Filipponi, Girolamo Ragusa Moleti, cit.
209 Pipitone Federico, G. Ragusa Moleti, cit.
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 163
delaire, segnatamente dei Petits poèmes e prose, da cui proverrebbero suggestioni de-
stinate a confermare perfino le più mature intuizioni pirandelliane210.
Il lavoro su Baudelaire procura a Ragusa la fama di estimatore della letteratura
francese, che si conferma con la presentazione al pubblico delle Miniature e Filigrane,
come si evince ad esempio dal profilo dell’autore che appare sulla «Luce» di Terrano-
va di Sicilia nel 1883:
Il Ragusa Moleti, nel Parnaso siciliano, lasciatemelo dire, è un parigino dal sorriso
mefistofelico che nell’ora dell’azione ha avuto gli scatti di Desmoulin e nell’ora di pa-
ce ha notomizzato il cuore di cento amanti per vedere com’era fatto, senza aver dato
in un momento il gemito del Tarchetti, ma berteggiando sempre come Democrito211.
Considerazioni simili si trovano sulla «Gazzetta letteraria», che ravvisa una corri-
spondenza di pensiero tra Ragusa e il “suo” Baudelaire:
Il Ragusa Moleti, scettico e pessimista anche lui, si trova all’unisono con l’autore e
quindi della traduzione ne ha fatto un vero capolavoro letterario del quale ci congra-
tuliamo vivamente212.
Tale fama di «parigino dal sorriso mefistofelico» è sostenuta dal Ragusa stesso, che
pubblica alcune prose delle Miniature e Filigrane con l’indicazione di «piccole prose»
e di «poemetti in prosa», ponendosi volutamente sulle tracce di Baudelaire.
210 «In realtà sono suggestioni e impressioni indelebili, che Pirandello conserverà anche negli anni succes-
sivi, e che si ritroveranno, ancora, nell’ultima stagione letteraria dello scrittore, originalmente ripresi nella
singolarità espressiva e nella potenza creativa della sua arte, e che rispondono, inoltre, a grandi temi pi-
randelliani» (G. Ottonello, Presenza di Baudelaire nei versi giovanili di Pirandello, «La Rassegna della Let-
teratura italiana», LXXXVIII (serie VIII), 1-2, gennaio-agosto 1984, pp. 196-97). Si fa poi riferimento a
poesie che recano titoli esplicitamente baudelairiani (La maschera, Elevazione fra le Poesie varie), prose-
guendo con significativi prelievi testuali dalle Elegie renane, che segnano il soggiorno a Bonn
dell’agrigentino (1889-91), a confronto con Les Fleurs e i Petits poèmes di Baudelaire. Non a caso si fa rife-
rimento alle Renane, esemplate sulle Elegie romane di Goethe: «a contatto con il paesaggio invernale tede-
sco», scrive ancora Ottonello, «le angosce e i profondi turbamenti di Pirandello prendono forma e consi-
stenza, identificandosi con la desolazione del paesaggio, col quale pare egli viva in una sorta di osmosi
dolorosa» (ivi, p. 198).
211 Rec. a Miniature e filigrane, «La Luce», I, 2, 18 novembre 1883.
212 N. L., Bibliografia. Recensione alla traduzione di Ragusa Moleti dei «Poèmes» di Baudelaire, «Gazzetta
letteraria», IV, 47, 20-27 novembre 1880.
164 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
1.5 Alla maniera di Baudelaire: Miniature e Filigrane
La pubblicazione di alcune prose destinate a comporre il volume delle Miniature e
Filigrane edito nel 1885213 comincia, in rivista, nel 1880, anno dell’edizione David del-
la traduzione dei Poemetti in prosa di Baudelaire; la presentazione su periodico delle
prose, per quanto si è potuto censire214, avviene tramite varie “etichette”, una delle
quali è rilevata anche da Giusti215. Nel luglio 1883, sul «Momento», il periodico di Pi-
pitone Federico che, secondo Gentile, è emblematico per comprendere «un determi-
nato periodo della cultura siciliana» (gli anni 1880-1895)216 Ragusa pubblica due
gruppi di Miniature e Filigrane, che portano l’intestazione di «Piccole prose»217; Giu-
sti ha ragione, dunque, a rilevare la presenza di una definizione «dalla parte della pro-
sa»218.
Ma altro fatto interessante, nella logica delle “etichette”, è la pubblicazione di al-
cune Miniature sul «Tempo», che aveva già ospitato varie traduzioni «dai Poemucci
in prosa di C. Baudelaire», tra il 1879 e il 1880. Le prime “miniature” vi compaiono
tra l’aprile 1880 e il febbraio 1882219; numerosi componimenti sono poi pubblicati alla
fine del 1882 e, stavolta, portano l’etichetta che accompagnava il volume di traduzioni
213 G. Ragusa Moleti, Miniature e Filigrane, con disegni di E. Ximenes, Treves, Milano 1885.
214 La ricognizione delle prose di Miniature e Filigrane pubblicate su periodici non ha la presunzione di
dirsi completa; si pensa di aver individuato la maggior parte di esse, anche confrontandosi con la biblio-
grafia fornita dalla Gallo, che afferma però, in nota, di fornire «una prima indicazione dei lavori che Ra-
gusa Moleti pubblica in periodici» (cfr. Gallo, Nota bibliografica, cit., p. 103). La ricognizione qui presen-
tata permette, altresì, di arrivare a conclusioni piuttosto definitive sulle “etichette di genere” utilizzate dal
Ragusa e dai periodici stessi per presentare le sue prose brevi.
215 Cfr. Giusti, L’instaurazione del poemetto in prosa, cit., pp. 57-63.
216 Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, cit., p. 177; come ricorda Gentile, al «Momento» collabora-
vano siciliani e non (tra gli altri Capuana, Pitré, Rapisardi, Verga e Dossi, Pica, Stecchetti, Turati). Ri-
guardo al «Momento» afferma Falciola: «A part la “Farfalla”, aucune autre publication vériste ne contient
autant d’articles minutieux et aussi bien informés sur le Naturalisme français et sur ses rapports avec le
Vérisme italien, sans parler des traductions [...]» (Falciola, La littérature française dans la presse vériste
italienne, cit., p. 31).
217 G. Ragusa Moleti, Piccole prose («da un volume di prossima pubblicazione»): Un proprietario di nuvole;
Discorsi di ragni; Brindisi; In montagna; Sulla Tolda, «Il Momento», I, 6, 1 luglio 1883; Id., Piccole prose:
Evanescenza; Evocazione intima; Nello spineto, ivi, I, 7, 15 luglio 1883.
218 Cfr. Giusti, L’instaurazione del poemetto in prosa, cit.
219 Una di esse, che risale appunto al 5 aprile 1880, è presentata tramite il titolo ed una vaga indicazione di
genere («capriccio») e si trova ad essere incastonata entro due pièces tratte «dai Poemucci in prosa di C.
Baudelaire» (La corda, 2 febbraio 1880; I buoni cani, 26 aprile 1880) (Id., Una commendatizia (capriccio),
«Il Tempo», 5 aprile 1880). Si salta poi al 14 febbraio 1882 (per il 1881, anno in cui il «Tempo» non sem-
bra aver presentato altre pubblicazioni ragusiane, si conta un’altra prosa sparsa: Gioco d’ombre, «La falce»,
16 ottobre 1881), dove incontriamo, sempre sul «Tempo», un’altra prosa poi inserita nelle Miniature, che
si presenta con il solo titolo, La spigolatrice («Il Tempo», 14 febbraio 1882).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 165
da Baudelaire, «Poemetti in prosa»: In chiesa e La sorgiva220; Vanitas, Favole, Egoismo
e Impressioni notturne221; Falsa primavera e Le oche222. La denominazione di poemuc-
ci/poemetti in prosa è dunque riconosciuta dallo stesso Ragusa e le Miniature e Fili-
grane si inseriscono nel genere inaugurato da Baudelaire, per similitudini che, il letto-
re di oggi, giudicherebbe in realtà secondarie: la brevità della prosa, in sé conchiusa,
la tipologia varia (si va dal racconto breve, all’apologo morale), una pretesa raffina-
tezza e tornitura che avvicina il procedimento di stesura al labor limae della poesia. In
tale definizione si incontrano, evidentemente, lo scrittore e il pubblico, che intendono
con «piccola prosa» quella «prosa poetica», o «poemetto in prosa» (questi i termini
che troveremo, più avanti, nelle recensioni), nata con il volumetto di Baudelaire.
Già nell’agosto 1883, sempre sul «Momento», compaiono altre prose di Ragusa,
che portano come intestazione il titolo del volume, Miniature e Filigrane, e delle quali
fanno parte, in realtà, anche pièces che non saranno comprese nel volumetto del 1885
e sono presentate come Miniature e Filigrane (seconda serie)223. Altre prose poi inclu-
se in volume sono pubblicate, episodicamente, in varie testate, da «Scuola e fami-
glia»224, periodico siciliano di cui Ragusa era redattore, alla «Cronaca bizantina»225, il
quindicinale romano di Sommaruga. Il fenomeno «Miniature e filigrane», «poemetti
in prosa» e «piccole prose» non si esaurisce però con la pubblicazione del volume;
sembra che le tre formule siano diventate specificazioni in pratica coincidenti da
premettere alle prose inviate in rivista: anche dopo il 1885, e fino ad inizio Novecen-
to, Ragusa Moleti le utilizza in diversi casi226.
220 Ivi, 28 novembre 1882.
221 Ivi, 5 dicembre 1882.
222 Ivi, 12 dicembre 1882.
223 Id., Miniature e Filigrane («da un volume di piccole prose che saran pubblicate quanto prima»). Una
gabbia d’uccelli, «Il Momento», I, 8, 10 agosto 1883; Id., Miniature e Filigrane («da un volume di prossima
pubblicazione»). Sul Monte Erice, ivi, I, 10, 16 settembre 1883; Id., Miniature e Filigrane (seconda serie).
Esumazione, ivi, II, 21, 1 aprile 1884 (poi non inclusa nel vol.); Id., Miniature e Filigrane (seconda serie).
In giro pel Museo, ivi, II, (serie II) 2,16 giugno 1884 (poi non inclusa nel vol.); Id., Miniature e Filigrane.
Egoismo; La mia nutrice, ivi, III, (serie III) 13, 15 gennaio 1885.
224 Id., Mamma Maria, «Scuola e famiglia», 1 ottobre 1882; Id., Una gabbia d’uccelli, ivi, 1 luglio 1883; Id.,
Il naufragio, ivi, 16 agosto 1887.
225 Id., Le sorelle Gurson, «Cronaca bizantina», 16 aprile 1883.
226 Come Miniature e Filigrane sono presentate le seguenti prose, individuate grazie alla bibliografia della
Gallo, Nel bosco (in «Il Tintoretto», 24 giugno 1886) e Scene di famiglia (in «Falstaff», 19 maggio 1894). In
«Scuola e famiglia» compare, in quattro numeri del 1890, il titolo «Poemetti in prosa» (16 aprile, 16 mag-
gio, 16 giugno e 1 novembre 1890); non è stato possibile controllare l’effettiva consistenza della pubblica-
zione. Sempre in «Scuola e famiglia», vari componimenti vengono presentati sotto il titolo di Piccole pro-
se, tra il 1903 e il 1904: La colombella, Il fiore dei poli (ivi, 16 settembre 1903); A fin d’autunno. Favola (ivi,
1 ottobre 1903); Storia d’una lacrima, La fotografia della spuma, Un falso volcano, Il poema d’un usignuolo
(ivi, 16 settembre 1904).
166 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Qualche recensione alle Miniature e filigrane può rendere un’idea di come autore
e pubblico si incontrassero nel definire il «poemetto in prosa», proprio nell’occasione
del nuovo volumetto di Ragusa. Sulla «Luce» di Terranova di Sicilia, le Miniature e
filigrane vengono presentate, due anni prima che il volume esca effettivamente per i
tipi di Treves (si parla, in effetti, di una futura uscita: «saran per essere»)227, in base ai
lacerti pubblicati da Ragusa in rivista:
me ne son formato il concetto genuino che saran per essere le sorelline minori dei
Poemetti in prosa, dei Paradisi artificiali, dei Fiori del male, dello Spleen ed Ideale di
Baudelaire, o note strappate al nervoso e satanico strumento dell’americano Edgar
Poe. […]
Le sue prose sono melodie – se ne eccettui il ritmo – intuonate sullo stesso aulodo
che gl’inspira le liriche. […] Le Prime Armi, l’Aloe, collezione di bozzetti, l’Eterno
Romanzo, le traduzioni dal francese, le nuove liriche che quanto prima formeranno
un terzo volume, la serie delle prose critiche, e soprattutto le Miniature e Filigrane
sono gingilli d’appendere alle catene d’orologio o da surrogare ai librettini di devo-
zione nelle dita rosee ed inguantate delle nostre damine228.
Le Miniature sono introdotte dunque con il passaporto di Baudelaire, con i Poemetti
in prima posizione e, si propende per una lettura che non si rivolga necessariamente
al volume intero, ma alla singola prosa, in sé conchiusa ed elegante («gingilli»): si
tratta di una semplice e chiara definizione dell’orizzonte d’attesa più diffuso,
nell’Italia dell’epoca, di fronte all’etichetta “poemetto in prosa”.
In occasione dell’edizione Treves, nel 1885, Luigi Natoli si riferisce a Ragusa Mo-
leti definendolo «poeta», ma specificando poi: «per trovarlo tale bisogna leggere le sue
piccole prose, dove egli si rivela»229. Scrive infatti a proposito della raccolta poetica
Fioritura nuova:
Basta una rapida occhiata al libro, per rilevare, che, quello che al Ragusa Moleti
manca nella poesia verseggiata, si trova a dovizia nella poesia in prosa. Giacché le
227 Occorre segnalare che la Rocchi riporta, nella sintetica bibliografia su Ragusa Moleti, un’edizione Tre-
ves, Milano, 1884 (Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 203); si
tratta però probabilmente di un errore, in quanto simile notizia non compare in nessuno degli archivi
cartacei e on line consultati; inoltre, il fatto che la Rocchi non riporti invece l’edizione 1885 (sulla cui esi-
stenza non ci sono dubbi) conferma l’idea che si tratti di una svista.
228 Miniature e filigrane, «La Luce», I, 2, 18 novembre 1883.
229 L. Natoli, Note in margine. «Miniature e filigrane». Prose di Girolamo Ragusa Moleti, Milano, Treves,
1885, «Momento», III, (serie III) 18 e 19, 1 marzo 1885: «Conchiudo, Ragusa Moleti è poeta; ma per tro-
varlo tale bisogna leggere le sue piccole prose, dove egli si rivela».
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 167
prose che egli ci presenta in questo elegante volume sono della poesia bella e buona,
della vera poesia anzi, nella quale l’ingegno dell’autore si riconosce e si afferma.
Nel verso, costretto forse da un suo ideale poetico egli diventa piccino, e l’idea esce
magra e in una forma stentata; nella prosa poetica è invece largo, il concetto spazieg-
gia nella plasticità di una forma che si piega a tutte le esigenze del pensiero.
L’analisi di Natoli, appendicista-scrittore celebre all’epoca230, rivela una lettura piut-
tosto attenta, poiché mette in evidenza l’attenzione alla realtà che sfuma
nell’intimismo e nel sogno, il moralismo, la malinconia e l’ironia amara sottesa alle
prose231. È da rilevare poi, oltre all’“etichetta” «piccola prosa», l’uso della contrappo-
sizione «poesia verseggiata»/«poesia in prosa», che rende l’idea sottesa al termine
poème en prose francese; Natoli riconosce anzi una superiorità della «poesia in prosa»,
forma plastica «che si piega a tutte le esigenze del pensiero», secondo una definizione
che echeggia la prefazione baudelairiana232. Il modello è dunque, almeno superficial-
mente, conosciuto, in quella scarna teoria fornita da Baudelaire nella lettera À Arsène
Houssaye; ma la sua applicazione trova barriere e fraintendimenti.
A testimoniare la persistenza di questa interpretazione, si ricordi anche che, qual-
che anno dopo, Sanfilippo, recensendo il Libro delle Memorie e le Acqueforti di Ragu-
sa nel «Giornale di Sicilia», ricorda che queste ultime appartengono al genere delle
230 È soprattutto noto come autore di più di 25 romanzi d'appendice ambientati in Sicilia e apparsi a pun-
tate su giornali e riviste come «Il Giornale di Sicilia», «Il giornalino della Domenica» e «Primavera», che
gli fecero guadagnare una grande popolarità; I Beati Paoli, apparso per la prima volta a puntate sul
«Giornale di Sicilia» tra il 1909 e il 1910 e poi pubblicato a dispense dopo la seconda guerra mondiale, è il
suo romanzo più famoso.
231 «E pure è lo stesso mondo, lo stesso Romanticismo della Fioritura nuova, dell’Eterno romanzo; è lo
stesso subiettivismo, l’impressione, il concetto nuovo, il senso malinconico delle cose. Ma nelle Miniature
e Filigrane, invece di restringersi al fenomeno interiore soltanto, invece di rappresentare la emozione
dell’io sensiente; vi è tanta oggettività, tanto paesaggio, che l’impressione subiettiva, pare come la conclu-
sione finale di ciò che vediamo di fuori. E mentre nella Fioritura nuova tutto sparisce nel poeta, nelle Mi-
niature invece il poeta si trasfonde in tutto. L’ingegno del Ragusa Moleti è osservatore, e soggiace a una
continua associazione di idee e di imagini, per cui dal fatto reale va mano mano astraendosi fino al sogno.
E però tra i limiti impostigli dal verso egli si sente angusto, mentre nella prosa disvelasi in tutta la sua in-
terezza. […] Da questo suo modo di vedere e analizzare le cose, per trarne poi, a guisa di moralità, quel
senso malinconico che informa l’arte del Ragusa, derivano osservazioni spesso profonde, talvolta di una
terribilità tragica. L’ironia, che vi traluce spesso, non ha nulla di acre, di violento; ma una amarezza paca-
ta, rassegnata. Sebbene il poeta non risorga mai dal mondo doloroso che si è creato, né procuri di domi-
narlo da forte, e vi si culli anzi, e si studii continuamente di scoprire in ogni cosa un nuovo senso di dolo-
re; pure nelle prose poetiche ha una grande serenità di forma» (Natoli, Note in margine. «Miniature e fili-
grane», cit.).
232 Come nota la Gallo, Natoli plaude invece all’Intermezzo barbaro (Pagine sparse di Girolamo Ragusa
Moleti, cit., p. 9).
168 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
«piccole prose» inaugurato da Baudelaire233 e che Filipponi, nel 1890, ricorda il volu-
metto confermando un’interpretazione consolidata, secondo cui la piccola prosa di
Ragusa è all’insegna del «bello stile» e del «pensiero»234. In una delle sua Conversazio-
ni della domenica, citata da Patrizia Rocchi, Ragusa afferma di aver ricevuto persino
una lettera da d’Annunzio contenente un giudizio favorevole sulle Miniature e Fili-
grane:
Quel genio di cui, molti anni or sono, mi gratificava Gabriele D’Annunzio, in una sua
lettera che conservo ancora, non fu che un bugiardo splendore di vetro scambiato per
raggio diamantino235.
Incauto sarebbe, però, trarre conclusioni affrettate da una lettera probabilmente esi-
stente, ma che aspetta ancora di essere rinvenuta236.
Il titolo con cui si presenta il volumetto delle Miniature e Filigrane, arricchito dai
disegni di Ettore Ximenes, attira l’attenzione su un lavoro d’arte paziente e preciso, su
una prosa cesellata e preziosa, inserendosi idealmente nel filone inaugurato dalle
Goccie d’inchiostro di Dossi, che pur sono ornate da tutt’altro lavoro linguistico. Il
termine «filigrana» richiama alla mente l’intreccio sapiente di sottili fili di metallo
prezioso (le singole prose, si suppone) a formare un oggetto di raffinata oreficeria; la
«miniatura» corrisponde, letteralmente, all’«arte e tecnica di ornare, di decorare, di
illustrare libri […] con figure di dimensioni molto ridotte, scene, fregi ornamentali»
e, per estensione, all’«opera pittorica (o aspetto o singola figura di essa) o, anche, ope-
ra di oreficeria, per lo più di dimensioni molto ridotte ed eseguita con cura minuzio-
233 «Le Acqueforti sono cinquantadue piccole prose del genere delle Miniature e Filigrane che già colloca-
rono di un tratto il Ragusa-Moleti in Italia a quel medesimo posto che in Francia tenne il Baudelaire, di
cui egli tradusse amorosamente i Petit[s] Poemes» (I. S. [I. Sanfilippo], Cronache letterarie. G. Ragusa Mo-
leti. «Il Libro delle Memorie» e «Le Acqueforti», «Giornale di Sicilia», XXXI, 346, 15-16 dicembre 1891; cfr.
Pagine sparse di Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 10).
234 «Quantunque però l’arte sua favorita sia la poesia, pure il Ragusa, nel volume pubblicato dai Treves,
nel 1885 – Miniature e filigrane – riesce prosatore leggiadrissimo, elegante, facile e di un atticismo invi-
diabile in tanta democrazia di forma. […] Sotto la veste elegante di una lingua pura, fresca, viva, e di uno
stile ammaliatore, onde potrebbe parere che tutta la diligenza del Ragusa fosse stata rivolta a darci una
pagina di bello stile, c’è il pensiero profondo, analizzatore» (Filipponi, Girolamo Ragusa Moleti, cit.).
235 G. Ragusa Moleti, Conversazioni della domenica. La mia destituzione, «Corriere dell’Isola», V, 94, 5
aprile 1897 (ed. del mattino).
236 Per approfondire la questione, cfr. Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girola-
mo Ragusa Moleti, cit., p. 17. Per il rapporto con d’Annunzio, cfr. ivi, pp. 15-19; Rocchi nota che l’ironia
contro l’autore dell’Isotteo non è segnata dall’abituale vis polemica, in considerazione del fatto che «la
première production de D’Annunzio […] devait ancore beaucoup a Carducci auquel Ragusa Moleti vouet
une admiration sans réserves» (ivi, p. 16).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 169
sa, con raffinata attenzione alla perfezione dei particolari»237. Il termine è utilizzato
dallo stesso Ragusa nell’ambito del volume per indicare una figura indelebile conser-
vata dal ricordo e trasposta nella prosa: «Il calore febbrile della sua mano, quando es-
sa la prima volta strinse la mia, mi passò nel sangue, e, dopo lunghi anni, nessun’altra
immagine ha potuto scolorire la piccola e graziosa miniatura, che di lei mi è restata
dipinta in fondo all’anima» (Vanitas)238. Altrove, il vocabolo è più banalmente volto a
sottolineare la misura breve delle prose: la quarta pièce porta l’intestazione di Roman-
zo in miniatura239.
Nessuna introduzione accoglie il lettore, ma è Preghiera della sera240, la prima
prosa, ad indirizzare la fruizione. Il titolo è rivelatore dello stile: si tratta di una prosa
ritmica, nella cadenza ripetitiva vagamente ispirata ai salmi, che presenta il fil rouge
della raccolta, ovvero le «ardenti passioni dell’anima mia»241. Alle passioni, si promet-
te di dare una degna forma: «vi canterò in versi, i versi che farò del mio meglio, ac-
ciocché abbiano quella dolce armonia che insegnaron prime le Grazie». L’impegno,
però, è disatteso, o meglio lo scrittore sceglierà «dolci parole» combinate in prosa,
una prosa che nasce appunto nel segno di una poesia intimistica e delicata.
Vari tipi di componimenti vengono a formare la tramatura del volume: brevi
narrazioni, favole, apologhi morali, pensieri, ricordi. Un titolo come La spigolatrice242
può far pensare, in anni di realismo, alle figure di un Fattori o di un Verga, ma ne
marca invece la distanza. «In campagna», guardando da lontano «le macchie di alcuni
contadini» (accompagnati da un armamentario di «biche», «tridenti», «loppe» e «pa-
glie»)243, lo scrittore, vicino a «un pittore di paese», tenta di «cogliere con la parola
quelle stesse linee, quegli stessi effetti di luce»244; giunge una spigolatrice, che si aggira
nel campo «curva» in un’aria di sacrale dignità. Il finale della prosa riporta però
l’immagine realistica ad una significazione intima: «mi venne in mente come anche a
me sia avvenuto di ostinarmi a cercare, per tempo lunghissimo, spiche in terreno
237 Cfr. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, cit., X, 1978, p. 444.
238 Ragusa Moleti, Miniature e Filigrane, cit., p. 247.
239 Ivi, pp. 17-19. Vi si racconta la storia d’amore di «due creature di porcellana», terminata con l’urto fu-
nesto di un «micio», che «fece cadere a terra quel povero pastore di porcellana». La morale è tutta umana,
e deriva dall’“indifferenza” della «compagna di lui», che «seguitò a sorridere ad un altro Cinese»: «Le
creature di carne no hanno anima più ricordevole e degna. Poveri i morti!».
240 Ivi, pp. 1-3.
241 «Restate, restate nella vostra vecchia casa, nell’anima mia, o mie care passioni»; «Restate, restate nella
vecchia casa!»; «Restate, restate nella vecchia casa!»; «Restate, restate nell’anima mia, o mie care passioni»
(Ibid.).
242 Ivi, pp. 5-9.
243 Ivi, pp. 5-6.
244 Ivi, p. 6.
170 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
mietuto, nella vostra anima, o cara signora, dove ogni spica fu già raccolta»245. Il pro-
cedimento è ricorrente nel volumetto: anche se l’immagine di partenza ha tratti reali-
stici, una sorta di morale conclusiva riporta l’attenzione sulle «passioni» invocate nel-
la Preghiera d’apertura246.
Al ricordo appartengono Una gabbia d’uccelli247, Mamma Maria248 e Mia nutri-
ce249, dedicate a figure ed episodi d’infanzia, racchiusi in una luce tenue e crepuscola-
re; Evocazione intima250 è destinata al ricordo di un’«ombra», scomparsa e mai morta
per lo scrittore. Fra le brevi narrazioni si potrebbero elencare Il gioco dei coltelli251,
storia di amore e morte terminata con un fatale numero circense, Le sorelle Gurson252,
altra vicenda di amore e gelosia con tragico epilogo ambientato nel circo, Una com-
mendatizia253, esempio di passione tormentata ma a lieto fine, seppur facendo «uno
strappo alla tunica della morale»254, e Gioco d’ombre, storia di un tradimento255.
Diverse sono le storie brevi caratterizzate da epilogo moralistico, rispetto alle
quali, più che il modello baudelairiano, sembra di intravedere il gusto per l’exemplum
della letteratura classica e un’ascendenza diretta dall’apologo morale. Oggetto delle
osservazioni del narratore o protagonisti di brevi storie sono talvolta gli animali, de-
putati a rappresentare la condizione umana: le oche contente per la pioggia (Le o-
che)256, i corvi, che festeggiano per un «eccidio», come il «re, e i suoi storiografi» (I
corvi)257, i ragni, che discutono con le scimmie affermando che «l’universo è fatto»
per loro (Discorsi di ragni)258. Alcune prose assumono direttamente il volto di brevi
245 Ivi, p. 9.
246 Si può dunque concordare solo in parte con l’osservazione di Rocchi, secondo cui «les thèmes de ces
quarante-neuf bozzetti sont d’abord des thèmes véristes» (Rocchi, Les «Conversazioni della domenica»
(1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 27).
247 Ragusa Moleti, Miniature e Filigrane, cit., pp. 11-16.
248 Ivi, pp. 82-96.
249 Ivi, pp. 169-70.
250 Ivi, pp. 147-50.
251 Ivi, pp. 53-67.
252 Ivi, pp. 123-140.
253 Ivi, pp. 207-30.
254 Ivi, p. 230.
255 Ivi, pp. 251-69. «Ed egli cominciò a confidarmi tutto quello che io ho confidato a voi! […] Se avesse
potuto sapere che l’ombra contro la quale egli era tanto irato, era proprio la mia!» (ivi, pp. 268-69).
256 Ivi, pp. 69-71: «Ah, non vengon mai dal cielo o acquate o sventure che non vi sien sempre delle oche e
dei paperi, a cui la cosa non riesca di bene e di contentezza» (ivi, p. 71).
257 Ivi, pp. 151-54.
258 Ivi, pp. 175-78. La tematica è topica, e non manca l’antecedente leopardiano delle Operette morali.
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 171
favole, degne del folklorista259, come Serpicina, Favola, Leggenda, Due paia di coni-
gli260; lo segnalava già il recensore Luigi Natoli261.
Come si comprenderà, solo una parte dei componimenti si discosta da un tono
piano, narrativo e strettamente moralistico, per ricercare tematiche differenti e una
prosa meno lineare. Si veda, ad esempio, Brindisi262, una sorta di inno al vino nella
memoria di Alceo, che è intessuto di ripetizioni:
Ma beviamo, amici, finché abbiamo tempo; di ogni cosa pigliamo il meglio; dalle ar-
nie il miele, dal papavero l’oppio, dal lino la corda, dalla donna la voluttà. Beviamo
fino all’ultima goccia, riscaldiamoci agli ultimi carboni, cogliamo le ultime carezze e
gli ultimi baci, e non lasciamo fiori sotto i nostri passi. […]
Giacché siamo tra i fortunati, […] beviamo il vino, amiamo le nostre donne e non ci
mettiamo in ascolto per udire se qualche voce scenda dal cielo o venga da sotterra
[…]263.
Quest’inno in prosa, al di là del valore della scrittura, è sintomatico
dell’atteggiamento con cui Ragusa affronta la sfida di comporre «piccole prose» o
«poemetti in prosa» alla maniera dell’amato Baudelaire, ma nel rispetto della tradi-
zione italiana e classica, all’ombra del maestro Carducci, che aveva raccomandato, in
Dieci anni a dietro (già materia di due articoli sul «Fanfulla della Domenica» nel
1880): «la lingua italiana non può chiamarsi quella miseria di cento linfatiche parole
con le quali quella povera gente si arrapina a rattoppare gli sdruci delle sue versioni
da qualche poeta francese di terzo o quarto ordine»264. Così il tema del vino, che è qua
semplice simbolo del carpe diem (niente a che vedere con il dérèglement de tous les
sens), ammicca al Vin delle Fleurs ma si svolge in realtà sulle corde della lira classica
259 Nota anche Rocchi: «Le goût pour la fable et la légende [...] nous revèle aussi le folkloriste» (Rocchi, Les
«Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 28).
260 Ragusa Moleti, Miniature e Filigrane, cit., pp. 73-76, 77-78, 105-08, 237-39.
261 «Alcuna delle Miniature, che potrebbe essere una favola, una fiaba, come Serpicina, ha una semplicità e
una lindura elegante di forma tutta esopiana, e chiude un concetto che fa pensare» (Natoli, Note in mar-
gine. «Miniature e filigrane», cit.).
262 Ragusa Moleti, Miniature e Filigrane, cit., pp. 79-81; precedentemente in periodico come Piccole prose.
Un proprietario di nuvole; Discorsi di ragni; Brindisi; In montagna; Sulla Tolda, «Il Momento», I, 6, 1 lu-
glio 1883.
263 Ivi, pp. 79-81.
264 G. Carducci, Dieci anni a dietro, in Id., Opere. Edizione nazionale, vol. XXIII (Bozzetti e scherme), Za-
nichelli, Bologna 1937, pp. 247-252; il saggio fu pubblicato inizialmente sotto forma di due articoli nel
«Fanfulla della Domenica» (22 febbraio e 28 marzo 1880); con modifiche, come Prefazione ai Nuovi versi
di Vittorio Betteloni (Zanichelli, Bologna 1880); poi in Confessioni e battaglie (Sommaruga, Roma 1883);
infine, con ultima revisione, nel vol. III della prima edizione delle Opere (Zanichelli, Bologna 1889) (cfr.
Note in Carducci, Opere, vol. XXIII, cit., p. 472).
172 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
di Alceo; invece della poesia, però, si sceglie una prosa ritmata e, almeno nelle inten-
zioni dell’autore, raffinata, secondo il principio della possibilità di un poesia senza
verso. Altrove, la frizione tra poesia e prosa significa invece una distinzione bas-
so/alto, reale/ideale, per cui la poesia d’amore di un tempo è scalzata dalla “prosa”
delle amanti, fredde o traditrici. Così Madrigale in prosa265 sembra presentare, fin dal
titolo, una frizione tra poesia e prosa, ma la contraddizione corrisponde alla natura
della destinataria: «Ogni passione che vi arriva vi si perde e resta assiderata in mezzo
ai ghiacci». A tali «ghiacciai», il poeta risponde, prosasticamente, con l’ironia: «Io mi
sento dei reumi al cuore! Oh, voi dovreste stabilire un servizio di cani di San Bernar-
do dentro la vostra bianca anima, o signora!».
Come in alcuni celebri poèmes en prose baudelairiani, Ragusa riflette a volte sullo
statuto dell’artista nella società. L’arte del poeta assomiglia al mestiere del contrab-
bandiere266:
Sono del mestiere, compagni, e lavoro anch’io per introdurre nelle famiglie, ben
guardato da nonne, da babbi, da pedagoghi e da chierici, certe mie idee, certi senti-
menti che non potrebbero passare a bandiera spiegata […]267.
Alla letteratura è attribuita una funzione battagliera, sulla scia del ribellismo che ca-
ratterizzava le Prime armi:
E mi è riuscito finora, facendo il pazzo, facendo il monello, a far sì che nessun Tar-
quinio pedagogo mi pigliasse sul serio, e, mentre il babbo sorrideva leggendo una mia
canzone, un mio racconto allegro, il contrabbando del mio pensiero democratico en-
trava in casa, o compagni…268.
In questo caso, l’«eleganza e lindura» con cui è vestito il «pensiero» non sono che una
maniera per ingannare un «doganiere sospettoso»: «ed io ho cercato di far bella l’arte
mia, e spesso, ho fatto passare come stecche i pugnali, con cui bisogna uccidere i ne-
mici della libertà»269. Alla funzione eversiva dell’arte e del pensiero umano si richia-
mano altre prose, a testimoniare una passione civile ed un ribellismo non sopiti, in
modo simile a ciò che accadeva nella prima raccolta poetica di Praga, non scevra di
attenzione verso il “popolo lavoratore”. Dall’altana270 manifesta la necessità del cam-
265 Ragusa Moleti, Miniature e Filigrane, cit., pp. 115-16.
266 I contrabbandieri, ivi, pp. 109-111.
267 Ivi, p. 110.
268 Ivi, p. 111.
269 Ibid.
270 Ivi, pp. 163-65.
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 173
biamento sociale: «E finalmente voi vi persuaderete che gli uomini sono eguali, e mai
più nelle tazze di porcellana, nelle scatole di tabacco, sui cartoni dei calendari, ve-
dremo disegnate né teste con le mitre, né teste con le corone».
Lo scrittore non si introduce nelle sale di anatomia, come i primi scapigliati, ma
nella sala da disegno; qui si paragona agli ingegneri, specificandosi però come co-
struttore di sogni per il futuro: «Se non che, soggiunsi, un giorno voi farete di pietra e
di ferro quel che ora fate d’aria; ma solo i figli potranno rizzar su i disegni che ora io
faccio» (In una sala di disegno)271. Altrove, la fiducia nel mestiere di poeta è più vacil-
lante, e lo scrittore si equipara ai vendemmiatori, che producono con fatica una be-
vanda afrodisiaca, «come al poeta è supremo dolore la poesia, che è piacer a coloro i
quali se ne pascono, a coloro i quali se ne ubbriacano» (Tristezze della vendemmia)272.
Il ribellismo di Prime armi è recuperato nel Sogno273, dove si immagina un Dio
«infermo» di una sorta di «marasmo senile», che, in punto di morte, ripercorre la
propria opera concludendo che gli uomini, trovandosi «sotto una religione repubbli-
cana e democratica», lo rimpiangeranno. Satana, «al capezzale del povero moribon-
do», si fa beffe dell’agonizzante274: il diabolico viene polemicamente rappresentato
come il difensore del progresso “democratico”, in vesti carducciane piuttosto che
nell’ottica del Joueur généreux.
A suggellare il volumetto è posta una prosa significativa, che intende accennare,
in chiusura, al rapporto con Baudelaire; si tratta di Un proprietario di nuvole275:
Ho conosciuto nel contado un vecchio taglialegna, il quale era riuscito a far credere
ai contadini aver avuto in proprietà da una Fata, che gli voleva gran bene quando egli
era giovine, tutte le nuvole che passano pel cielo della Conca d’oro. […]
A quel proprietario di nuvole, quando lo conobbi, strinsi la mano come a un colle-
ga, ché nuvole, belle nuvole, che il vento porta via, son la mercanzia unica che io pos-
so vendere al mio prossimo.
Si percepisce l’eco dell’Etranger, amante delle «merveilleux nuages», o de La soupe et
les nuages (XLIV), dove il poeta è definito «s.... b..... [sacré bougre] de marchand de
nuages»; traducendo questo passo, tra l’altro, Ragusa aveva reso molto meno tagliente
l’ironia baudelairiana («o eterno mercante di nugole»)276. Si ha ancora modo di con-
271 Ivi, pp. 117-121.
272 Ivi, pp. 155-60.
273 Ivi, pp. 231-36.
274 «Satana, che era al capezzale del povero moribondo e che avea accolto tutto quel discorso con segni
della più viva approvazione, alzò l’anca e ne fece una delle sue» (ivi, p. 236).
275 Ivi, pp. 277-79.
276 Baudelaire, Poemetti in prosa, cit., XLIV, p. 81.
174 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
statare la reinterpretazione provinciale delle immagini baudelairiane: l’atmosfera di-
venta campagnola, e l’amante delle nuvole un astuto taglialegna che, «a certi segni,
conosceva il tempo»; il poeta è un suo simile, che pratica lo stesso smercio.
Quel che si registra, nelle Miniature e Filigrane, è dunque un’assenza: le speri-
mentazioni al confine tra poesia e prosa, che avevano coinvolto, nella temperie scapi-
gliata, i Canti tarchettiani, vengono lasciate in sospeso. In conclusione, Ragusa cerca
una distanza, con le Miniature e filigrane, dalla prosa di romanzo (da lui stesso prati-
cata, con Il Signor di Macqueda), dalla novellistica, che lo ha visto inserirsi nella tem-
perie dei «colori del vero», e da una poesia dai toni ribelli e veristi (dopo l’esordio
Prime armi). Si tratta di praticare un genere diverso, a partire da una dichiarata prefe-
renza per la prosa (già sbandierata, tra gli scapigliati di seconda generazione, da Dos-
si) a discapito della poesia, in base al principio vagamente romantico che occorra e-
sprimere le «passioni» nel modo più sincero (si ricordi Preghiera), e che una prosa
musicale e sciolta lo permetta pienamente. L’intento è compreso dai lettori, se in una
recensione la raccolta viene apprezzata perché «quello che al Ragusa Moleti manca
nella poesia verseggiata, si trova a dovizia nella poesia in prosa».
Un altro tratto che Ragusa ha colto, a partire dalla traduzione dei Poemetti in pro-
sa, è il loro carattere di osservazione, interiorizzazione e riflessione: si trattava di un
libro di prose filosofiche, più vicino di quanto si possa pensare alla letteratura sapien-
ziale, che appunto poteva esprimersi in prose brevi, o aforismi, quadri di una condi-
zione esistenziale; non a caso, rivendicando Baudelaire al surrealismo André Breton,
nel Manifeste du surréalisme (1924), lo definiva «surréaliste dans la morale». Questa
“morale”, Ragusa la ricercava nei segnali di una «compassione» per i poveri, di una
riflessione sul male che non viene accettato ma denunciato, come si è visto a proposi-
to dello studio Carlo Baudelaire. Quando arriva a scrivere i propri poemetti in prosa,
Ragusa mantiene questo carattere riflessivo, pur rendendo spesso la morale fastidio-
samente univoca ed esplicita. Tradotto in ambito italiano quest’aspetto di riflessione
prende i caratteri della satira, della favola, dell’apologo morale, appoggiandosi ad una
tradizione classica banalizzata piuttosto che traghettata nella modernità. L’esperienza
di stile, fondamentale per i petits poèmes di Baudelaire, veniva ridimensionata, come
si è visto, già nella traduzione; la sintassi ciceroniana ripristinata nei Poemetti in prosa
non può che ritrovarsi nelle Miniature. Ricompare a tratti il gusto per
l’organizzazione in couplets, che peraltro anche Baudelaire non aveva mantenuto in
maniera così sistematica com’era in Bertrand; si tratta però, per il lettore odierno, di
una ben magra consolazione.
A distanza di un decennio, Ragusa Moleti ricorda quell’esperienza in occasione
della polemica con «Il Marzocco», che lo accusa di sprezzare la letteratura simbolista
scordandosi di essere stato «il piccolo Baudelaire italiano». In questo caso, il siciliano
ha dunque tutto l’interesse a prendere le distanze da un tale appellativo, ed infatti lo
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 175
riduce ad una «fama» che lo perseguita; non rinnega però, anzi ribadisce il proprio
ruolo di traghettatore della «piccola prosa» in Italia:
Cominciò a perseguitarmi la fama di baudelairiano, che parve confermata dalla mia
annuenza pel fatto d’aver io, per il primo, e con molto buon esito, dice il Pica, tentata
la piccola prosa in Italia277.
Più avanti, Ragusa sottolinea l’aspetto di riflessione umoristica legato alle Miniature,
«il contrabbando del pensiero che, con intenzione umorista, io avevo celato in quella
nave, che aveva una falsa bandiera di pace», la «polvere pirica, nascosta sotto un gin-
gillo», le «cartucce di melanine, che v’eran dentro gli astucci di filigrana»278.
Un’altra osservazione è d’obbligo, già emersa da quanto si è potuto analizzare. Il
Baudelaire letto dai primi scapigliati, da Praga in particolare, a cui è obbligatorio un
riferimento da parte di chi si occupi della ricezione italiana dell’autore delle Fleurs279,
era assurto a simbolo di una liberazione dai padri, rappresentava la voce con cui gri-
dare, non senza momentanei ripensamenti e remore, una crisi storica e generaziona-
le, il mentore di un’esistenza antiborghese da condurre fino alle estreme conseguenze.
Si direbbe però che la confusione di orge, Seraphine, rimorsi postumi e dissacrazioni
abbia compromesso la capacità di volgersi in silenzio, senza obnubilamenti, verso gli
«orridi abissi»280 della coscienza. Con Ragusa siamo giunti, anche a partire dalle let-
ture scapigliate, ad un rapporto diretto con il testo baudelairiano, che passa attraverso
l’arduo esercizio della traduzione; il Baudelaire che influenza lo scrittore siciliano, a
cui egli stesso e i suoi lettori fanno riferimento in relazione alle Miniature, è molto
diverso, però, dal Baudelaire idolo di Praga. Il poeta maudit non interessa che margi-
nalmente, e i toni più duri o polemici sono comunque guidati da una verve sociale o
umanitaria, magari anticlericale. Baudelaire è diventato il maestro di stile – peraltro
incompreso – dei «poemetti in prosa» o delle «piccole prose», e può proficuamente
incontrarsi con la tradizione italiana; per rimanere nell’ambito della Scapigliatura, si
tratta del Baudelaire apprezzato da Dossi.
Ragusa aveva letto, com’è emerso dallo studio su Baudelaire, Leopardi e lo ritene-
va il poeta più vicino, insieme ad una certa poesia scapigliata (su cui pesava, però,
l’anatema dei nuovi classicisti, compreso lo stimato Carducci), alla personalità del
grande francese. È possibile che qualche carattere delle Operette morali fosse sembra-
277 Ragusa Moleti, Conversazioni della domenica. La mia destituzione, cit.
278 Ibid.
279 Cfr. Bernardelli, Baudelaire nelle traduzioni italiane, cit., pp. 347-50, per il paragrafo Primi echi di
Baudelaire in Italia.
280 E. Praga, Alla riva (Tavolozza, 4), in Id., Poesie, cit., pp. 18-19.
176 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
to al Ragusa poter corrispondere alla propria idea di «piccola prosa»; e se il tema della
piccolezza dell’uomo è più che diffuso e poteva avere innumerevoli fonti come nes-
suna, la discussione se l’universo sia o meno «fatto pei ragni» potrebbe provenire an-
che dai “dialoghi” leopardiani. In fondo, il tentativo di Ragusa, che sembra voler pas-
sare attraverso una tradizione classica (satira, favola) per giungere ad un «poemetto
in prosa» italiano ha qualcosa in comune con la genesi della prosa delle Operette mo-
rali; ma nel bilancio di questa sfida non può che risaltare ancor più, semmai, la gran-
dezza isolata del recanatese.
1.6 «Boja de’ decadenti» (1897-98)
Dopo Miniature e Filigrane, Ragusa Moleti continua la propria attività di scrittore di
poesie, su un coté carducciano e bolognese (Intermezzo barbaro)281, autore di bozzetti
(Acquarelli e macchiette)282 e piccole prose (ancora per Treves, Memorie e acquefor-
ti)283, nonché folklorista284. Interessa particolarmente però, ai fini del nostro percorso,
un misterioso Decadenti e simbolisti francesi (Palermo, Vena, 1897), citato nelle bi-
bliografie di Ragusa curate da Simiani285 e poi da Mulé come «opera […] costituita
d’una serie di articoli»286, ma irreperibile, come attestano le ricerche della Rocchi287.
Con tutta probabilità il volume, solo progettato, sarebbe stato costituito dai ventinove
articoli dedicati da Ragusa alla poesia “decadente” francese nell’ambito delle Conver-
sazioni della domenica del «Corriere dell’Isola» di Palermo tra il 14-15 febbraio 1897
e il 27-28 febbraio 1898.
Si tratta di articoli spesso feroci, per i quali Ragusa si meritò l’appellativo di «boja
de’ Simbolisti» da parte di Lucini288. Eppure, nell’ambito delle polemiche simboliste
281 G. Ragusa Moleti, Intermezzo barbaro, Zanichelli, Bologna 1891.
282 Id., Acquarelli e macchiette, Sandron, Palermo 1891.
283 Id., Memorie e acqueforti, Treves, Milano 1891.
284 Id., Poesie dei popoli selvaggi o poco civili, Clausen, Torino-Palermo 1891; Id., I proverbi dei popoli bar-
bari, Vena, Palermo 1893; Id., Il paganesimo popolare, Vena, Palermo 1894.
285 V. Simiani, Bibliografia di G. Ragusa Moleti (Pubblicazioni più importanti e Opere inedite), «La Sicilia
illustrata», VI, 5, 1909.
286 F. P. Mulé, Un poeta scomparso: Girolamo Ragusa Moleti, «L’Ora», XVIII, 200, 19-20 luglio 1917.
287 Cfr. Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti, cit., pp. 5-7.
Decadenti e simbolisti francesi (Palermo, Vena, 1897) è citato nella bibliografia della Gallo (Gallo, Nota
bibliografica, cit., p. 102), ma nasce il sospetto che tale registrazione provenga dall’informativa di Simiani-
Mulé piuttosto che da una effettivo reperimento del volume.
288 Cfr. G. P. Lucini, Il Verso Libero. Proposta, anastatica dell’edizione 1908 di Ragion poetica e Program-
ma del Verso Libero. Grammatica, Ricordi e Confidenze per servire alla Storia delle Lettere contemporanee,
a cura di P. L. Ferro, Interlinea, Novara 2008, p. 452-56. «Ragusa-Moleti aveva deciso di riversare tutto il
suo odio sopra i suoi presunti nemici, e lo faceva tumido, aspro, tuonando e fulminando imagini meri-
dionali, come conviensi a chi nacque vicino a un Mongibello siciliano» (ivi, pp. 452-53).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 177
in Italia, questi interventi hanno il pregio di essere supportati da letture e traduzio-
ni289 e di derivare, come ben dimostra Rocchi, da un’amplissima documentazione co-
stituita da testi di letteratura e di critica francese290. Perfino nella lettera di Pascoli A
Giuseppe Chiarini della metrica neoclassica, troviamo il riferimento a un articolo di
Ragusa su Walt Whitman, a confermare l’importanza di una voce di aggiornamento
sul panorama letterario straniero291. Ragusa si dichiara mosso dall’esigenza, per il cri-
tico militante, di studiare la letteratura contemporanea:
Muovere dai nostri più grandi antichi per arrivare ai Moderni è dovere di ogni Italia-
no, che voglia attendere allo studio delle Lettere come ad istituto di vita; ma credere
che fuori dal ciclo classico non ci sia salute, è avere convinzioni estetiche molto limi-
tate292.
Dal classicismo restauratore, rispetto al quale si ritiene lontano, Ragusa è tuttavia in-
fluenzato; tradurre Heine o Hölderlin come faceva Carducci, o Baudelaire come ave-
va fatto Ragusa, non significava essere disponibile ad estetiche completamente diffe-
renti.
Inoltre, sulla critica italiana che comincia ad interessarsi a «simbolisti» e «deca-
denti», e su Ragusa stesso, cominciava a pesare enormemente l’opera di Max Nor-
dau293, riguardo al quale si ricordi quel che scriveva Gianni Nicoletti:
289 Per un primo ragguaglio delle letture del simbolismo francese in Italia cfr. Rocchi, Les «Conversazioni
della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti, cit., pp. 12-14. Si tenga conto che si tratta so-
prattutto, con l’eccezione di Vittorio Pica, di polemiche spesso innescate da pregiudizi piuttosto che da
un’attenta conoscenza dei testi.
290 Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti, cit., pp. 54-56.
Anche polemizzando con «Il Marzocco», Ragusa si proponeva di «studiare e decifrare» i decadenti (con
una lunga lista che va da Mallarmé a Wilde), per poi parlarne «con quella deferenza, che provi a tutti i
marzocchi di questo sciocco mondo, che ne so più di loro»; continua poi: «bisogna pure che sprofondi le
mie inquietissime dita tra i peli delle maggiori bestie, per chiappare gli animalucci parassiti che vi campa-
no su» (Ragusa Moleti, Un capoccia dei Decadenti, cit.).
291 G. Pascoli, A Giuseppe Chiarini della metrica neoclassica, in Poesie e prose scelte, progetto editoriale,
introduzione e commento di C. Garboli, Mondadori, Milano 2002, II, p. 245; Pascoli riporta parole di
Whitman citando «da un articolo di G. Ragusa Moleti nella Flegrea, anno I, vol. III, fasc. V», anno 1899.
292 Ragusa Moleti, Le poesie di Edgar Poe, cit.
293 Si ricordi M. Nordau, Degenerazione, Dumolard, Milano 1893-94, 2 voll.; Bocca, Torino 1896. Già due
edizioni erano apparse all’epoca delle «Conversazioni». Anche Rocchi lo nota, affermando: «R. M. con-
nâit cet ouvrage, en reprend souvent les accusations d’immoralité portées contre les “décadents”, mais en
conteste aussi les excès» (Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa
Moleti, cit., p. 13).
178 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Questi, volendo gettar ponti scientificamente costrutti su pretesi abissi di degenera-
zione, con l’ausilio della diffusa atmosfera positivista educò più di un capo scarico, e
perfino qualche onesto studioso; sia incastrandosi proprio nel momento in cui la cri-
tica italiana mostrava nuova volontà di orientamento, sia pesando per via indiretta su
giudizi posteriori, fabbricò l’armatura di un falso schema critico su cui lombrosiani,
realisti e faciloni si trovarono a loro agio. Il piacere dello scandalo, e l’ignoranza, fece-
ro il resto294.
A proposito di degenerati, da Roma già Arturo Graf aveva dato un esempio di come
si debba trattare di Preraffaelliti, simbolisti ed esteti: Mallarmé e compagni possiedo-
no «il tocco sommo dell’arte», «se l’arte letteraria dev’essere, d’ora innanzi, l’arte di
parlare senza dir nulla»295; Verlaine «fu incontrastabilmente poeta vero», però fu an-
che, biografia alla mano, «non dirò un degenerato, perché tale appellativo è divenuto
ormai di troppo larga e confusa significazione, […] ma un mezzo pazzo e un mezzo
delinquente»296.
Ragusa si oppone in realtà, come altri, tra i quali Graf o Lombroso stessi, agli ec-
cessi297 del sionista le cui teorie, tragicità della sorte, avrebbero presentato non poche
consonanze con le elaborazioni naziste. Le condanne totali e senz’appello di Nordau
non convincono Ragusa, e certo non può concordare con la definizione di Baudelaire
come «mistico ed erotomane, mangiatore di oppio». Tuttavia, se all’epoca delle tra-
duzioni da Baudelaire scriveva che i fiori del male provengono dalle «civiltà decrepi-
te», né va accusata la sensibilità poetica di chi li raccoglie, lo stesso principio non si
estende all’interpretazione dei «decadenti», colti proprio laddove dimostrano la loro
immoralità.
Di fronte alle accuse del «Marzocco», che lo coglie in contraddizione imputando-
gli di essere diventato avversario dei decadenti dopo essersi fregiato del titolo di «pic-
colo Baudelaire italiano», Ragusa non sconfessa la predilezione per il proprio autore
d’elezione, ma lo distanzia prepotentemente dai “successori”, ribadendo la propria
interpretazione298. Il maestro stesso, afferma Ragusa, rinnegherebbe i propri imitato-
ri, perché hanno fatto di sensazioni sincere una posa artificiosa:
294 Nicoletti, Max Nordau e i primi critici del «Simbolismo» in Italia, cit., p. 365.
295 A. Graf, Preraffaelliti, simbolisti ed esteti, in Foscolo, Manzoni, Leopardi (aggiuntovi Preraffaelliti, sim-
bolisti ed esteti e Letteratura dell'avvenire), Loescher, Torino 1898; il saggio era stato pubblicato nella
«Nuova antologia» il 1 gennaio 1897. Si cita dall’edizione Loescher, Torino 1955, p. 312.
296 Ivi, p. 319.
297 Cfr. anche Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p.
58.
298 Non ha del tutto ragione Lucini quando afferma polemicamente che Ragusa «se la prendeva con tutti,
incominciando dal Baudelaire, che, dieci anni prima, aveva volto nella nostra lingua» (Lucini, Il Verso
Libero. Proposta, cit., p. 453).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 179
Troppo del resto gli imitatori di Baudelaire han voluto prendere alla parola quel mae-
stro, che li rinnegò in suo vivente, e li rinnegherebbe ancora, se potesse venir fuori dal
sepolcro. In un momento di dolore ei mormorò le litanie a Satana? Ebbene, quello
che in lui poté essere un’ora di dispetto, diventa nei suoi imitatori un’eterna e noio-
sissima posa di bestemmiatori299.
L’artificio, avulso dalla realtà materiale e rispondente unicamente a se stesso, è pesan-
temente condannato, funzionando da punto di discrimine tra Baudelaire e, ad esem-
pio, Mallarmé:
Il maestro chiude gli occhi per sognare, e ogni Mallarmé di questo mondo ne trae la
conseguenza che tutta la vita non deve esser che sognata, in guisa che tra i doveri del
poeta c’è quello di non volger mai l’occhio al mondo luminoso esterno300.
La raffinatezza, il senso assoluto della letteratura, quasi parnassiano, apparteneva,
riconosce Ragusa quasi a malincuore, anche a Baudelaire:
Si compiaceva, anche il Baudelaire, della musica delle parole, e apparteneva, come
ben dice Giulio Barbey d’Aurevilly, a quella scuola che crede tutto perduto, anche
l’onore se nella più ardita poesia scivoli loro dalla penna una rima un po’ debole301.
Eppure, quel che conta è la sincerità di una letteratura vissuta fino in fondo, come e-
sperienza esistenziale, senza sconti, secondo una ricezione di Baudelaire che era stata
messa in atto, fino all’estremo, dallo scapigliato Praga; nessun manierismo, dunque,
nemmeno nei «suoni più squisiti»:
Ed era anche uno spirito molto raffinato; ma, se attinse parole da tutti i vocabolari,
colori da tutte le tavolozze, se educò il suo orecchio ai suoni più squisiti, non si fermò
a quest’esercizio solamente, ma gettò, come materiale poetico, in ogni forma d’arte le
sue passioni; passioni che saranno perverse quanto volete, ma son vita sinceramente
vissuta da un uomo che non v’inganna mai, né con bugiarda prosa, né con bugiarda
poesia. Di detestabile in arte non v’è che la menzogna, la rea madre, cioè a dire del
manierismo302.
299 Id., Nella torre d’avorio, «Corriere dell’Isola», 9-10 maggio 1897.
300 Ibid.
301 Ibid.
302 Ibid.
180 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Gli imitatori invece hanno fatto, della virtù come della degenerazione, semplici topoi:
«Qualunque ipocrisia, e quella della virtù e quella della degenerazione, è nauseante.
Nel tempio della fama non c’è posto che per gli artisti sinceri»303.
In tali esternazioni non sembra sia da leggere un cambiamento di Ragusa
nell’interpretazione di Baudelaire rispetto agli anni della giovinezza, come ritiene in-
vece la Rocchi304. È vero, come sostiene l’autrice, che Ragusa riconosceva e faceva suo
il ribellismo baudelairiano tra il 1878 e il 1885, tratto che invece lo interessa meno alla
fine degli anni ’90. D’altra parte però, «la souffrance de l’homme qui découvre la pré-
sence du mal dans le monde», che, per Rocchi, Ragusa scopre in Baudelaire a partire
dal 1897, era in realtà il principio cardine su cui egli aveva impostato il profilo Carlo
Baudelaire. Infatti le liriche citate da Ragusa nell’introduzione ai Poemetti in prosa
(1884) come «brani più notevoli di Baudelaire» sostengono, in realtà,
quest’affermazione: «Abele e Caino, La Rinnegazione di San Pietro, il Vino dei cencia-
juoli, la Martire, il Vino dell’Assassino, Don Giovanni nell’inferno ed i Quadri parigi-
ni» sono, per il critico, la testimonianza di uno sguardo puntato sulla realtà e sui mali
legati alla miseria e alla disumanità della vita moderna305.
Il trattamento riservato a Rimbaud, al quale vengono dedicati tre articoli
nell’ambito delle «Conversazioni della domenica»306, può dare la misura dell’asprezza
con cui vengono giudicati i «simbolisti». Rimbaud era stato conosciuto da Ragusa,
molto probabilmente, attraverso Vittorio Pica, che, parente e amico, veniva sempre
risparmiato dalle critiche più dure; anzi, mai si dimenticava un accenno al suo inge-
gno speciale. Il giudizio su Rimbaud echeggia le pagine di Nordau, e il suo “collega”
italiano, Lombroso, è direttamente richiamato:
303 Ibid.
304 Rocchi afferma, commentando Nella torre d’avorio: «il a cessé de voir chez Baudelaire uniquement la
révolte et le blasphème; il retrouve en lui la souffrance de l’homme qui découvre la présence du mal dans
le monde [...]. Le critique a enrichi ses connaisances et sa sensibilité, l’homme a trouvé son équilibre. Si le
Spleen avait marqué sa jeunesse, c’est maintenant l’Idéal qui réclame sa part. […] Celui qui en 1897 tra-
duit Elévation n’est plus celui qui, en 1880, citait, parmi les “brani più notevoli” de Baudelaire: “ Abele e
Caino, La Rinnegazione di San Pietro, il Vino dei cenciajuoli, la Martire, il Vino dell’Assassino, Don Gio-
vanni nell’inferno ed i Quadri parigini”» (Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Gi-
rolamo Ragusa Moleti, cit., pp. 34-35).
305 Ricordiamo quanto scriveva di Baudelaire nella stessa introduzione: «ha professato […] altero disde-
gno contro le turpitudini dello spirito e le brutture della materia»; «Se il suo mazzo di fiori si compone di
fiori strani, egli può rispondere che non ne attecchiscono altri nel terriccio nero e saturo di putridume,
come un terreno di cimitero, delle civiltà decrepite» (G. Ragusa Moleti, Carlo Baudelaire, in Baudelaire,
Poemetti in prosa, cit., p. 5).
306 Queste le tre Conversazioni della domenica dedicate a Rimbaud da Ragusa Moleti: Un capoccia dei de-
cadenti, «Corriere dell’Isola», V, 52, 22 febbraio 1897 (ed. del mattino); Il Reliquiario di A. Rimbaud, ivi,
V, 59, 28 febbraio 1897 (ed. della sera); Sino alla feccia, ivi, V, 66, 7 marzo 1897 (ed. della sera). Cfr. Roc-
chi, Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti, cit., pp. 61-62.
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 181
Arturo Rimbaud, superuomo di cui non solamente Darzens, ma anche il P. Verlaine
nel volume dei Poètes Maudits, e il Mallarmé nelle sue Divagations fanno in Francia le
più sperticate lodi, lodi ripetute in Italia da Vittorio Pica, che umilia spesso il suo bel-
lissimo ingegno di critico sino all’annuenza di certe forme d’arte, che non potrebbero
ambire ad altra carità, che quella di figurare nelle raccolte che dei criminali e dei pazzi
fa con tanto amore Cesare Lombroso307.
Il primo articolo su Rimbaud, da cui è tratta anche la precedente citazione, è de-
dicato alla biografia del poeta; come si può immaginare, è dunque la zona dove me-
glio si esercitano le teorie lombrosiane. Così, appoggiandosi per autorità al Livre des
Masques di Remy de Gourmont, esempio delle informate letture ragusiane, il quadro
del delinquente è già tracciato:
A pagina 163 quello specioso critico dice che ciò che si sa della vita di Rimbaud disgu-
sta più di quello che si potrebbe sapere. Né basta: aggiunge che Rimbaud era come
quelle donne, delle quali nessuno si sorprende a sapere che si sono consacrate sacer-
dotesse in certi innominabili templi. E, quasi tutto questo fosse poco, il De Gourmont
dice che la cosa più rivoltante in Rimbaud era quella di non vergognarsi a far da a-
mante gelosa e appassionata. L’aberrazione era in lui tanto più crapulosa, quanto più
era sentimentale…308.
Il est fàcheux que sa vie, si mal connue, n'ait pas été toute la vraie vita abscondita; ce
qu'on en sait dégoûte de ce qu'on pourrait en apprendre. Rimbaud était de ces
femmes dont on n'est pas surpris d'entendre dire qu'elles sont entrées en religion
dans une maison publique; mais ce qui révolte encore davantage c'est qu'il semble
avoir été une maîtresse jalouse et passionnée: ici l'aberration devient crapuleuse, étant
sentimentale309.
Disgusto, aberrazione, uomo dai «gusti depravatissimi», se non criminali; la patente
di “degenerato” è già assegnata, a rafforzare le fila dei Delinquenti dell’arte310.
Quando dunque, nei due articoli successivi, ci si occuperà delle poesie di Reli-
quaire (e non, come sottolinea Rocchi, di Une saison en Enfer o delle Illuminations,
307 Ragusa Moleti, Un capoccia dei decadenti, cit. (per approfondimenti sulle fonti di critica francese di
Ragusa Moleti cfr. Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti,
cit., p. 63).
308 Ragusa Moleti, Un capoccia dei decadenti, cit.
309 R. De Gourmont, Arthur Rimbaud, in Id., Le Livre des masques. Portraits symbolistes, gloses et docu-
ments sur les écrivains d'hier et d'aujourd'hui, vol. I, Mercure de France, Paris 1896, p. 163.
310 È questo il titolo di un libro di Enrico Ferri, pubblicato per la Libreria Editrice Ligure di Genova nel
1896.
182 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
dove si riproponeva il poemetto in prosa)311 il terreno è preparato per accogliere le
accuse principali dirette al ragazzo prodigio, ovvero immoralità, oscurità e banalità;
riassunti e brevi traduzioni sono mirati alla dimostrazione di tali assunti312. Gli unici
apprezzamenti, pur sempre parziali, per le poesie di Rimbaud coinvolgono testi in cui
si trattano temi “degni” di essere affrontati, come Le forgeron («il fabbro») o Soleil et
Chair: la prima ha il pregio di essere citata come poesia più bella del volume, la se-
conda tratta un tema ormai abusato («è un rimpianto al paganesimo»), ma «alcuni
tratti di questa poesia hanno un certo valore estetico». Le forgeron si inscrive in
quell’arte sociale tra le cui pieghe rassicuranti Ragusa ha posto anche se stesso e Bau-
delaire; la seconda è apprezzata come imitazione di Musset e Baudelaire, e si iscrive in
quel paganesimo-religiosità della natura tipico anche della Scapigliatura e del Ragusa
delle Prime armi313.
Proprio nel primo articolo dedicato a Rimbaud, Ragusa Moleti individuava una
costola italiana dei “decadenti” francesi nei collaboratori del «Marzocco», lamentan-
dosi di trovarsi a leggere i libri pubblicati da Paggi (leggi: Enrico Corradini), «le me-
ditazioni estetiche» di Ojetti, le poesie dei «marzocchiani»314. All’attacco beffardo che
arrivava dalle sponde siciliane, «Il Marzocco» si sentì in dovere di rispondere in mo-
do altrettanto mordace, scatenando una vertenza che contribuì a rendere celebre il
castigatore del malcostume letterario dei decadenti. Ai Marginalia è affidata la stocca-
ta diretta ad «un decaduto contro i decadenti», al «piccolo Baudelaire italiano»:
Nell’elegante Corriere dell’Isola di Palermo il professore G. Ragusa Moleti ogni do-
menica o lunedì va da qualche tempo vuotando il sacco delle amenità critiche (oh!
eufemismo!), che mette insieme nel corso della settimana. Così qualche settimana fa,
spettegolando alla brava sul Rimbaud trovava modo, il felice ironista, di deridere e il
Rimbaud e tutti i decadenti […]. Ultimamente poi egli – uno dei tanti condannati al
ruolo di decaduti vita natural durante – tracciava lo schema d’un romanzo decadente,
311 Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 72.
312 Diamo un esempio del procedere di Ragusa, a danno delle Réparties de Nina: «Il mattino è azzurro […]
ma l’azzurro di quel mattino era quell’azzurro speciale, che bagna le cose del vino del giorno. Avete capito?
Io no; ma non importa. In campagna il poeta sente fremere le carni nelle cose aperte. Perché non possiate
credere che io traduca male, ecco i versi originali: “On sent dans les choses ouvertes / Frémir des chairs”»
(Ragusa Moleti, Il Reliquiario di A. Rimbaud, cit.).
313 «Sole e Carne, che è un rimpianto al paganesimo, rimpianto che, dopo Schiller, Heine, De Musset,
Baudelaire, Swinburne, Carducci, è una di quelle novità che han tanto di barba! […] L’imitazione del
Musset comincia dalle parole: “Io rimpiango il tempo dell’antica giovinezza […]”. […] Segue un po’
d’imitazione di Baudelaire: “Io rimpiango il tempo della grande cibale […]”» (ivi).
314 Id., Un capoccia dei Decadenti, cit. Non è del tutto vero ciò che afferma Lucini, ovvero che Ragusa
«s’era accinto a dir male dei Simbolisti per alcune beghe avute col Marzocco», anche perché i primi arti-
coli contro i “decadenti” sono precedenti alla vertenza con il periodico (cfr. Lucini, Il Verso Libero. Propo-
sta, cit., p. 453).
Ragusa Moleti traduttore e imitatore di Baudelaire 183
per esilarare se stesso e i suoi lettori. […] l’ex-piccolo Baudelaire, ciaramellando su un
argomento, che ignora, di gente che non ha mai visto né conosciuto, intorno a un’arte
che egli per primo sa di non capire, finirà col fare una figura meschina315.
Ragusa Moleti non manca di rispondere ai «giovincelli in riva d’Arno», con un arti-
colo antifrastico che non si perita di essere offensivo ed è basato, ancora, su una dife-
sa della morale:
A me l’oblio; a voi la gloria. Divertitevi pure in piaceri difficili, in amori alla rovescia;
ma abbiate la pietà di tollerare che, in arte e nella vita, io continui nei vecchi sistemi
d’Adamo, non riveduti e corretti dal vostro celebre compagno di raffinatezze Oscar
Wilde316.
Scusandosi di aver trattato gli avversari «a colpi di spillo», ma affermando che «c’è
modo di rimediare», Ragusa indirizza la conclusione della vertenza, come racconta
Rocchi, verso un duello napoletano, in verità interrotto prima dell’inizio317.
Abbandoniamo dunque la Sicilia e il suo polemista, che con i suoi colpi di spillo e
di spada rimane decisamente al di qua dai confini del Novecento, che pure risentì
tanto, più di quanto si è disposti a credere, di quell’anatema contro il simbolismo di
cui Ragusa Moleti fu uno dei propugnatori. Con l’eccezione, non secondaria, di Bau-
delaire, che Nordau e Tolstoj mettevano a capostipite della scuola decadente e che
invece Ragusa avrebbe sempre difeso, seppur nel segno di una comprensione assai
parziale.
315 Anon., Marginalia. Un decaduto contro i decadenti, «Il Marzocco», II, 8, 28 marzo 1897; cfr. Rocchi,
Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti, cit., pp. 20-23.
316 Ragusa Moleti, Conversazioni della domenica. La mia destituzione, cit.
317 «Le duel aura lieu a Naples le 20 avril, mais il fut arreté avant que les adversaires n’aient croisé le fer»
(Rocchi, Les «Conversazioni della domenica» (1897-1898) de Girolamo Ragusa Moleti, cit., p. 21).
2. Vittorio Pica e i «poemucci in prosa»: espedienti per favorire la ri-
cezione del Simbolismo in Italia
2.1 La critica dell’inconciliabile: raccontare l’«istoria morale contemporanea» o
l’Individuo, «contro ogni conculcativa sovranità sociale»
Vittorio Emanuele Giuseppe Vincenzo De Anna, figlio di Luigi, impiegato delle po-
ste, e dell’inglese Anna James, nasce a Napoli il 28 aprile 1862; il celebre cognome gli
deriva dall’adozione del senatore Giuseppe Pica, seguita alla morte prematura dei ge-
nitori e legata, probabilmente, a paternità naturale1. Laureatosi in legge nel 1884 a
Napoli, si allontana dai tribunali per diventare collaboratore del «Marzocco» a partire
dal 1886, transfuga, non privo di sensi di colpa, della «curialesca professione», se an-
cora nel 1896 prega Neera di tralasciare sulle buste «il titolo di avvocato», che «mi e-
saspera discretamente»2. Giovanissimo, si inserisce nell’ambiente del giornalismo let-
terario napoletano, rivelando un interesse precipuo per la letteratura francese, colti-
vato sulla scorta delle letture zoliane di un maestro napoletano, De Sanctis, sempre
informate ad una ricezione problematica e critica del Naturalismo. Ma gli interessi di
Pica non tardano a volgersi ai simbolisti francesi, con un passaggio che viene colloca-
to, da D’Antuono come da Iermano, tra il 1884 e il 1885, al comparire di A rebours3.
Così comincia un’avventura di critico4 dei maggiori scrittori contemporanei, eminen-
1 Per approfondimenti, cfr. N. D’Antuono, La Chimera e la Sfinge nel Des Esseintes italiano, in V. Pica,
«Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e giapponismo (1881-1892), a c. di N.
D'Antuono, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1995, p. 13.
2 «Voglio però dalla vostra colpa a metà riconosciuta trarre un vantaggio materiale e v’impongo quindi
come punizione di non più infliggere al mio nome sulle buste delle vostre lettere il titolo di avvocato, a cui
non ho diritto poiché non esercito la curialesca professione e che mi esaspera discretamente» (Pica ad
Anna Radius, Napoli, 25 aprile 1896, in Finotti, Sistema letterario e diffusione del decadentismo nell'Italia
di fine ‘800, cit., p. 149).
3 Cfr. T. Iermano, Un “aristocratico” a Napoli: Vittorio Pica, in V. Pica, All’Avanguardia (1890), ed.
anastatica, con Introduzione di T. Iermano, Vecchiarelli, Roma 1993, p. XV; D’Antuono, La Chimera e la
Sfinge nel Des Esseintes italiano, cit., p. 66.
4 Cfr. Iermano, Un “aristocratico” a Napoli: Vittorio Pica, cit., p. XXII: «Nel decennio 1880-1890 Pica
conquista uno spazio sempre più significativo nel mondo culturale italiano ed anche Oltralpe acquisisce
importanti collaborazioni giornalistiche: la sua firma compare sulla “Cronaca bizantina”, sul “Fanfulla
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
186 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
temente francesi ma non solo, poi raccolta in All’Avanguardia, uscito nel 18905, e, in
seguito, in Letteratura d’eccezione, pubblicato nel 1898, l’anno delle terribili giornate
di Milano, quando Pica era ormai dedito principalmente a interpretazioni d’arte e ad
organizzazioni veneziane. A metà strada tra questi due volumi, è da ricordare anche
la data del 1892, per la conferenza Arte aristocratica.
Nel 1895 Pica assumerà la direzione di «Emporium», rivista d’arte. E come critico
d’arte egli impone il proprio sigillo sulla Biennale di Venezia del 1895, della quale di-
venta segretario generale a partire dal 1910, in collaborazione con Antonio Fradelet-
to: scelte d’avanguardia caratterizzarono l’operato del napoletano impegnato nella
diffusione della modernità europea, che fosse in volume o su tela. La lezione dei “de-
cadenti” francesi segnò anche certi gusti in campo d’arte, come l’interesse per il
Giappone, che portò Pica ad occuparsi di Toyokuni, Utamao, Hiroshige e Hokusai6.
Seguendo un destino diffuso per gli intellettuali del Sud d’Italia, si era messo presto in
contatto con il centro italiano della modernità tecnologica e culturale, Milano, ma vi
si trasferì solo nel 1904, per morirvi l’1 maggio 1930, in povertà: il critico «di spirito
profetico dotato»7, come ricorda Gianni Nicoletti trattando dei primi lettori del
«Simbolismo» in Italia, «fu prima ostacolato e poi dimenticato per opera dei fasci-
sti»8. Distante dalle posizioni dei Futuristi, «tra gli insulti del Soffici lacerbiano e del
Marinetti sansepolcrista»9, già intorno al 1910 era ormai emarginato, e si dimise vo-
lontariamente dall’analisi dell’arte italiana “all’avanguardia”.
I recenti studi dedicati a Pica si sono accompagnati ad una riedizione dei testi:
Citro ha ripresentato Letteratura d’eccezione (1987), Iermano ha riproposto
All’Avanguardia (1993) e Arte aristocratica (1996: anastatica dell’ed. Pierro 1892)10,
D’Antuono «Arte aristocratica» e altri scritti (1995), cui ha fatto seguito una mono-
grafia per Carocci nel 200211. Né manca un’attenzione agli epistolari: Finotti ha pro-
della domenica”, sulla “Domenica letteraria”, sulla “Domenica del Fracassa”; in Francia scrive sulla
“Revue contemporaine” e sulla “Revue indépendente”». Si ricordi anche che Pica frequentò il salotto di
Mallarmé, il quale, come poi Verlaine, gli offrirono testi inediti, pubblicati in Italia prima che in Francia.
5 Il titolo è categoria goncourtiana, ricavata dalla Préface a Chérie.
6 Su Pica critico d’arte cfr. M. M. Lamberti, Vittorio Pica e l'Impressionismo in Italia, «Annali della Scuola
Normale Superiore di Pisa», Classe di Lettere e Filosofia, V (serie III), 3, 1975, pp. 1149-1201.
7 Nicoletti, Max Nordau e i primi critici del «Simbolismo» in Italia, cit., p. 365.
8 Ivi, p. 366.
9 D’Antuono, La Chimera e la Sfinge nel Des Esseintes italiano, cit., p. 86.
10 V. Pica, Arte aristocratica e due scritti rari, Saggio introduttivo e nota al testo di T. Iermano,
Vecchiarelli, Roma 1996 (rist. anastatica dell’ed. Pierro 1892, con l’aggiunta di A Rebours e Nozze
giapponesi, risalenti al 1883 e al 1891).
11 La monografia Carocci contiene la bibliografia più completa degli scritti di Pica, dal 1881 al 1929: cfr.
Bibliografia degli scritti di Pica, in N. D’Antuono, Vittorio Pica. Un visionario tra Napoli e l’Europa,
Carocci, Roma 2002, pp. 175-200.
Pica e i «poemucci in prosa» 187
posto Il carteggio Vittorio Pica - Neera (1988), Citro le lettere di Cameroni a Pica
(1990), Loranti le missive di Vittorio Pica ad Alberto Martini (1994), Daniela Galeo-
ne ha riportato alla luce il rapporto tra Pica e De Nittis (1997). Gli studi, i testi nuo-
vamente disponibili, le testimonianze del Lucini, le lettere, gli affettuosi ricordi che
hanno un peso (si registrano nomi quali d’Annunzio per l’Italia, Verlaine per la Fran-
cia), sono piuttosto persuasivi dell’esigenza di ripristinare un nome fondamentale nel
percorso tardottocentesco di aggiornamento della cultura italiana alle contemporanee
esigenze poetiche e filosofiche d’oltralpe. L’interesse per gli scrittori e i critici che o-
perarono tra gli anni ‘80 e ‘90 dell’Ottocento è tutto da coltivare, attraverso opere,
che, ad un giudizio di valore, rimangono inferiori alle elaborazioni di d’Annunzio e
Pascoli, ma muovono passi decisi in direzione della cultura simbolista e del Novecen-
to, tentando strade anche diverse dai grandi, come nel caso di Lucini, come afferma
Finotti: «Eppure quelle opere muovevano passi ancora incerti sulla via del Novecento
e soprattutto alludevano ad una cultura simbolista che, anche attraverso il Pica, si era
insediata nel cuore del nostro movimento letterario»12.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento, all’ombra di Croce pochi potevano spera-
re di mantenere, nell’ambito dell’estetica o anche solo della critica letteraria, una pur
pallida presenza nel panorama italiano. Di quest’oscuramento è rimasto vittima an-
che Vittorio Pica, che dallo stesso ambiente napoletano proveniva; non per particola-
re acrimonia o disistima di Croce, ma perché il critico della letteratura decadente si
opponeva, palesemente, al progetto estetico crociano. Scrive giustamente D’Antuono
che Croce «non dimenticò Pica», piuttosto «ne fece una personale storicizzazione»13:
Pica restava, per l’autore della Letteratura della nuova Italia, il «pica-dor» dell’arte
nuova14, il critico che «aveva coniato la formola della “letteratura d’eccezione” e di
questa letteratura si era posto campione»15. Così, il “collega napoletano” condivide,
nelle pagine crociane, il destino riservato alla letteratura “scapigliata” e “decadente”:
neutralizzazione della carica trasgressiva, svalutazione dell’importanza nel corso sto-
rico della letteratura, riduzione ad episodio di una transizione destinata a volgere al-
trove. Eppure non c’è dubbio che Croce faccia riferimento più volte, a proposito di
decadenti, al loro primo critico italiano; anche occupandosi di Rimbaud, a cui l’Italia
aveva spalancato le porte, in ritardo, nei primi del Novecento, sotto lo sguardo preoc-
cupato della «Critica», Croce si ricordava, ancora, di Vittorio Pica16.
12 Finotti, Sistema letterario e diffusione del decadentismo nell'Italia di fine ‘800, cit., p. 120.
13 D’Antuono, Vittorio Pica. Un visionario tra Napoli e l’Europa, cit., p. 148.
14 Cfr. B. Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 (1909-10), in Id., La letteratura della nuova
Italia, IV, Laterza, Bari 1973, p. 323.
15 B. Croce, Huysmans, in Id.,Varietà di storia letteraria e civile, serie seconda, Laterza, Bari 1949, p. 298.
16 «Veramente il nome del Rimbaud era conosciuto in Italia già intorno al 1890, e il Pica aveva discorso
dell’amico del Verlaine in conferenze ed articoli» (La letteratura della nuova Italia, IV, cit. p. 339-40 e
188 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Sorge la necessità, dunque, di vedere quale poemetto in prosa fosse recepito dal
critico dell’avanguardia per eccellenza, che se ne occupò in varie occasioni, e come le
sue letture influenzarono o si sposarono con le tendenze contemporanee. Si può anti-
cipare che l’interpretazione di Pica, seppur intelligente, è condizionata dalla forma-
zione naturalista (com’è vero per le letture simboliste pichiane in genere) e, inoltre,
che i poemetti in prosa “generati” dall’interpretazione pichiana o legati a quel tipo di
letture sono stati dimenticati non senza ragione: temi e forme ancora acerbi ne com-
promettono la qualità. Un altro passo è però compiuto nell’interpretazione e nella
pratica del poemetto in prosa, in una direzione che si può tentare di evincere e de-
scrivere.
Il giovane appassionato di cultura francese si presenta al pubblico tra il 1881, an-
no di pubblicazione di un articolo su Alberto Glatigny su «Intermezzo», e il 1882, in
occasione di un concorso bandito dal «Fanfulla della Domenica», dove partecipò (con
un saggio sui Goncourt e una novella) meritando una menzione tra i lavori migliori17.
Procedendo sulla strada indicata da De Sanctis, e con la mediazione delle cronache
francesi di Cameroni, Pica elabora «uno suo esclusivo e coerente progetto di “stori-
cizzazione” delle cose di Francia»18, come afferma Ghidetti, già a partire dal saggio
Romanticismo, Realismo e Naturalismo del 1882. Il Naturalismo vi è appassionata-
mente descritto come «rivoluzione vera» e il romanzo è dipinto come «la grande
forma seria, appassionata, vivente, dello studio letterario e dell’inchiesta sociale; è, per
mezzo dell’analisi e dell’indagine psicologica, diventato l’istoria morale contempora-
nea»19. L’incontro tra «studio letterario» e «inchiesta sociale» interessa il critico, che
ribadisce d’altro canto la separazione tra il metodo sperimentale e il romanzo, valu-
tando in modo problematico, come De Sanctis, una possibile corrispondenza tra
scientismo e letteratura20.
344). Per una riconsiderazione del rapporto Pica-Croce si veda D’Antuono, Vittorio Pica. Un visionario
tra Napoli e l’Europa, cit., pp. 153-64. Cfr. anche R. de Sangro, Una lettera inedita di Vittorio Pica a
Benedetto Croce su Arthur Rimbaud, «Sì e No», III (II serie), 7, 1, 1978, pp. 70-78 (si tratta di una lettera
del 12 agosto 1918 di Pica a Croce, in risposta all’articolo crociano Entusiasmi prima della guerra: A.
Rimbaud, «La Critica», XVI, 4, 20 luglio 1918), dove Croce citava Pica come primo conoscitore del poeta
francese in Italia.
17 Cfr. D’Antuono, La Chimera e la Sfinge nel Des Esseintes italiano, cit., p. 14.
18 Ghidetti, L’ipotesi del realismo, cit., p. 26.
19 V. Pica, Romanticismo, Realismo e Naturalismo, in Id., All’Avanguardia, cit., p. 35.
20 «Parecchie altre ragioni, che la natura di per sé stessa limitata di questo studio mi vieta di esporre,
militano contro l’applicazione del metodo sperimentale al romanzo, tanto strenuamente sostenuta dallo
Zola; quella però da me esposta mi sembra per sé stessa abbastanza efficace […]: essendo l’espressione
personale tra gli elementi essenziali ed indispensabili di ogni buon’opera d’arte e cagionando delle
inevitabili deviazioni di verità, non ammissibili nel campo del metodo sperimentale, è impossibile che
questo sia applicato al romanzo» (ivi, p. 37).
Pica e i «poemucci in prosa» 189
Ma Pica avvertì ben presto, forse influenzato dai germi della cultura italiana, che
lo avevano reso cauto nei confronti dello scientismo positivista, il peso di un pessimi-
smo derivato da una sorta di coscienza della crisi dell’uomo contemporaneo, ritro-
vandone la prova anche nel Lazare della Joie de vivre di Zola, recensito nel 1884 e as-
surto a emblema di un’epoca:
Oggidì vi è una crescente schiera di giovani che hanno assaggiato le scienze e ne sono
rimasti malati, non avendo potuto soddisfare le vecchie idee assolute, succhiate col
latte delle loro nutrici. Essi avrebbero voluto trovare nelle scienze, di un colpo ed in
blocco, tutte le verità […]. Allora, insoddisfatti, negano la scienza e si gettano di nuo-
vo nella fede, e, poiché questa non vuole più saperne di loro, finiscono col cadere, se-
dotti dai geniali paradossi di Schopenhauer, nel più scoraggiante e tetro pessimi-
smo21.
Il pessimismo contemporaneo è paragonato da Pica alla «nera malattia» abbattutasi
«sulla gioventù europea» ad inizio secolo, in seguito alle distruzioni e ai rivolgimenti
mancati dell’89, e riscontrabile in Byron, in Goethe, nell’autore di Jacopo Ortis, in
Chateaubriand e, più tardi, in Musset. Ma «quello stato patologico» era legato ad un
«periodo di transizione», ed arricchiva gli animi di una ribellione da «spiriti fieri, ar-
denti, generosi»; il pessimismo attuale è invece «ben più terribile»22 e disarmante.
Schopenhauer era, non a caso, citato anche come fonte del pensiero pessimistico
di Ragusa Moleti, ad indicare la presenza, in ambito meridionale, di un modello cul-
turale destinato a lasciare il segno. Lo scetticismo era il tratto comune ai giovani auto-
ri contemporanei, che Pica individuava in vari articoli e di cui si era fregiato, al pro-
prio esordio, lo stesso Ragusa. Se quest’ultimo paragonava il pessimismo di Baudelai-
re alla visione del mondo di Leopardi, Pica riconosceva nel poeta di Recanati e nel
filosofo prussiano23 i padri dell’era moderna, svincolando Leopardi dal quel pessimi-
smo “storico” (legato ai rivolgimenti della rivoluzione francese) di cui era espressione
Jacopo Ortis:
È interessante però osservare che l’Haraucourt, che pure è riuscito ad emanciparsi
dal bizantinismo signoreggiante nell’odierna poesia francese, è anche lui dominato da
quel nero pessimismo, che oggidì s’impone eziandio ai più recalcitranti e che inga-
21 V. Pica, La Joie de vivre, in Id., All’Avanguardia, cit., p. 145. Su questo articolo cfr. anche D’Antuono,
La Chimera e la Sfinge nel Des Esseintes italiano, cit., p. 26-27.
22 Pica, La Joie de vivre, cit., p. 145.
23 Pica fu anche traduttore di alcuni aforismi di Schopenhauer, se si concorda con l’attribuzione al critico
napoletano di un pezzo anonimo comparso sulla «Cronaca Sibarita» nel 1884 (A. Schpenhauer, Pensieri
di un pessimista, «Cronaca Sibarita», I, 5, 16 dicembre 1884); cfr. D’Antuono, Vittorio Pica. Un visionario
tra Napoli e l’Europa, cit., p. 51.
190 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
gliardisce sempre più l’influenza sulla letterature contemporanea di Schopenhauer e
di Leopardi24.
L’allontanamento di Pica dal Naturalismo, come confermano i saggi raccolti da
D’Antuono25, avviene sulle orme di Huysmans, a cui il critico napoletano si avvicinò
nel 1884 con l’intenzione di presentare in Italia un nuovo romanzo naturalista; ma,
dopo le prime letture su questo tono (in «Cronaca sibarita»26 e nella «Domenica lette-
raria»27), cominciò ad accorgersi che A rebours lo sbalzava altrove, con un passaggio
di cui tentò di ridurre la portata mantenendo il termine «naturalismo», e specifican-
dolo non più come «fisiologico» ma come «psicologico».
A rebours dunque, siccome rilevasi dal breve riassunto fatto, non è come la maggior
parte dei romanzi naturalisti e come gli altri tre romanzi dello stesso Huysmans […],
no, in esso invece l’autore ha voluto con ogni cura studiare un caso eccezionale di pa-
tologia psichica28.
Si tratta, afferma Pica inizialmente, di prediligere «lo studio dell’eccezioni» a quello di
caratteri «tipici» e di «moltitudini»; una scelta forse discutibile, ma sempre interna ai
dettami del Naturalismo:
Si potrebbe, è vero, all’Huysmans come a qualche altro scrittore rimproverare que-
sto preferire lo studio dell’eccezioni all’analisi dei tipi e dei casi comuni della società,
giacché essendo la maggiore ambizione del romanzo naturalista di dare la fisionomia
dell’epoca attuale, a ciò senza dubbio si riesce meglio col ritrarre uomini e donne che
non escano dalla media comune e quindi siano più tipici, e forse anche col rappresen-
tare, come fa lo Zola, le moltitudini piuttosto che gli individui presi isolatamente29.
Io son dunque persuaso che è l’Huysmans, con il suo A rebours, né i Goncourt, con
Mme Gervaisais, abbiano offeso le teorie darwiniane e molto meno mancato ai prin-
24 V. Pica, Debutti (Harancourt, Courmes, Margueritte), in Id., All’Avanguardia, cit., p. 326 (in chiusura
l’indicazione «agosto ‘85»).
25 «I due articoli su A rebours di Huysmans (uno dei quali del tutto sconosciuto) accertano la svolta,
invece, la frattura con le certezze naturalistiche e la caduta dell’ottimismo evoluzionistico» (cfr.
D’Antuono, La Chimera e la Sfinge nel Des Esseintes italiano, cit., p. 66).
26 V. Pica, A rebours, «Cronaca sibarita», I, 2, 1 novembre 1884; ora in Id., «Arte aristocratica» e altri
scritti su naturalismo, sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit., pp. 155-63.
27 Id., “La vita a rovescio”, «La Domenica letteraria», III, 40, 5 ottobre 1884; ora in Id., «Arte aristocratica»
e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit., pp. 143-55.
28 Id., A rebours, cit., p. 156.
29 Id., “La vita a rovescio”, cit., p. 149.
Pica e i «poemucci in prosa» 191
cipi fondamentali del naturalismo, per vavere studiato dei casi psico-fisiologici, fuori
dall’ordinario30.
Che tale lettura sia senza conseguenze non crede, giustamente, D’Antuono, che la se-
gnala come il punto cardine di una svolta: se Pica parlava di uno spostamento
nell’ambito del Naturalismo, le prime incursioni nel terreno dei Moderni bizantini lo
portavano altrove. La stessa tecnica utilizzata da Pica per stendere i propri saggi, che
prevedeva un collage di citazioni la cui fonte poteva essere esplicitata o meno31, se, da
una parte, poteva ben essere accusata di plagio, dall’altra salvaguardava i testi pichiani
da interpretazioni provinciali ed aveva il pregio di rispecchiare, spesse volte, le posi-
zioni critiche diffuse in Francia a proposito di un autore; Pica finisce così per domi-
nare, attraverso la frequentazione e citazione di scritti dei “decadenti” francesi, alcuni
elementi della loro estetica32.
Nella conferenza Arte aristocratica del 1892, compendio dell’attività di vari anni,
Pica si soffermerà ancora su Huysmans, e in particolare su Des Esseintes, figura em-
blematica per un’intera generazione:
Il libro dell’Huysmans ha dunque, oltre al raro valore letterario, un’eccezionale im-
portanza psicologica, perché ci mostra, nelle sue esagerazioni morbose, i principali
caratteri di questa eccezionale tendenza aristocratica di tutto un gruppo di elevati spi-
riti contemporanei33.
Soggettività, rifugio nell’estetica, condivisione, con pochi, di una visione del mondo
“aristocratica”, rivolta verso l’interiorità e la realtà immateriale del sogno e della me-
tafora, in un allontanamento decisivo dalla «fange du macadam». A questo cambia-
mento progressivo di rotta corrisponde anche una diversa riflessione sulle “questioni
sociali”, che Pica aveva avvicinato inizialmente con lo sguardo socialista di Zola, ma
si troverà poi a riconsiderare attraverso le teorie individualiste di Barrès.
30 Id., A rebours, cit., p. 156.
31 Sulla questione cfr. D’Antuono, Vittorio Pica. Un visionario tra Napoli e l’Europa, cit., pp. 18-21.
32 Del resto, bisogna pur prestare attenzione alle parole con le quali Pica riconosceva, nel 1881,
un’inferiorità dei Goncourt nei confronti di Zola, dichiarando poi una preferenza per lo stile dei fratelli,
«molto superiori dal lato artistico»: «nelle loro opere vi è una squisitezza di fattura, un profumo artistico,
uno spirito, un brio» (V. Pica, Edmondo e Giulio De Goncourt, in Id., «Arte aristocratica» e altri scritti su
naturalismo, sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit., p. 90). L’articolo fu pubblicato in «Rivista nuova
di scienze, lettere ed arti», fasc. 16, 1881; vi si avverte già una preferenza in cui, giustamente, Finotti
rintraccia un gusto per «la formulazione linguistica orientata verso una artificialità pre-decadente»
(Finotti, Sistema letterario e diffusione del decadentismo nell'Italia di fine ‘800, cit., p. 72).
33 V. Pica, Arte aristocratica, in Id., «Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e
giapponismo (1881-1892), cit., p. 268.
192 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
A proposito di Pot-Bouille di Zola, nel 1882, Pica plaudiva al modo in cui l’autore
«descrive la corruttela borghese, sdegnando i veli pietosi, non usando reticenze»34:
Anzi io non mi periterò nell’affermare che le più belle pagine di Pot-Bouille sono
proprio quelle nelle quali lo Zola ci fa assistere alle conversazioni caratteristiche che le
serve hanno tra loro e nelle quali i padroni sono smascherati e mostrati in tutta la ri-
buttante ignominia delle loro debolezze e dei loro vizii35.
Recensendo Germinal nell’aprile 1885, rimarcava l’«importanza sociale» del lavoro di
Zola tra i minatori, esprimendo la propria «profonda ammirazione»36:
Non consiglio dunque la lettura di Germinal ai buoni borghesi, egoisticamente
soddisfatti del presente ed amanti della loro quiete, ai buoni borghesi che non voglio-
no sentir parlare di questioni sociali e di possibili rivendicazioni della plebe, simili in
ciò allo struzzo, che, inseguito dal cacciatore, crede salvarsi col nascondere il capo
sotto l’ala, quasi che il non vedere e il non esser visto siano la medesima cosa.
[…] questo romanzo, oltre ad una grande importanza letteraria, ha anche una certa
importanza sociale, essendovi profondamente studiato uno degli aspetti più gravi di
quella questione operaia, che agita e travaglia la moderna società37.
Ma, più avanti, subentra l’interesse per Barrès38, attraverso il quale Pica metteva
in luce «le due grandi tendenze» dell’epoca, «il Socialismo» e «l’Individualismo», ap-
profondendo, con l’autore dell’Ennemi des lois, la seconda:
In questo vitale dibattito sociale, il Barrès naturalmente si schiera con gli anarchici ed
il suo libro è una nuova battaglia a pro dell’Individualismo e contro le leggi, che in
tutti i modi comprimono e deprimono l’Io39.
Ecco cosa si nasconde dietro il plot che illustra le vicende di André Maltère e delle sue
due donne, «la principessa avida di novità e d’ignote sensazioni e la generosa sogna-
trice di una società ideale»40:
34 Id., Pot-Bouille, in Id., All’Avanguardia, cit., p. 118.
35 Ivi, p. 123.
36 Id., Germinal, in Id., All’Avanguardia, cit., p. 168.
37 Ivi, pp. 155-56.
38 Id., Maurice Barrès, in Id., Letteratura d’eccezione (1898), a c. di E. Citro, con presentazione di L. Erba,
Costa & Nolan, Genova 1987, pp. 152- 168.
39 Ivi, p. 159.
40 Ivi, p. 160.
Pica e i «poemucci in prosa» 193
L’interesse maggiore del libro si condensa però nel protagonista, il quale in sé perso-
nifica il tipo speciale del giovane moderno, raffinato, meditabondo, irrequieto e spiri-
tualmente ansioso, di cui Maurice Barrès si è prefissato di studiare e di analizzare
l’anima multiforme, squisita ed un po’ morbosa nelle sue curiose, originali e docu-
mentarie monografie psicologiche41.
Maltère incarna lo spirito del giovane «moderno, raffinato», dall’anima «squisita ed
un po’ morbosa»: il cultore dell’arte aristocratica. «Ferocemente ostile all’odierna im-
palcatura di leggi, non soddisfatto delle riforme socialiste», il personaggio arriva, con-
tinua Pica, a queste conclusioni:
“Un état d’esprit, non des lois, voilà ce que réclame le monde, une réforme mentale
plutôt qu’une rèforme matérielle”. E questa conclusione di uno spirito di larga coltu-
ra, di grande elevatezza morale e di rara perspicacia e chiaroveggenza intellettiva me-
rita di essere profondamente meditata, come quella che indica che il vitale problema
sociale, il quale così tragicamente agita le coscienze e le intelligenze di questa fine di
secolo, accanto ad una riforma economica, richiede una riforma anche più interes-
sante, più essenziale: una completa riforma spirituale42.
Pica insomma rilevava in Barrès l’aspirazione ad una riforma dello spirito di ten-
denza individualistica (non, per intendersi, nel senso marxiano di rovesciamento del-
la “sovrastruttura”), giudicandola «anche più interessante, più essenziale», di una tra-
sformazione economica. Semmai, limitava l’impatto di tali proposizioni confinandole
nell’ambito, considerato (erroneamente?) “neutro”, della letteratura: «Questo libro,
presterebbesi certo a molteplici obbiezioni se lo si volesse considerare soltanto come
opera di scienza o di morale, mentre invece […] non deve essere considerato che co-
me una manifestazione artistica»43. Poi, però, Pica ribadiva il gran merito di Barrès:
aver rappresentato il «pensiero della gioventù intellettuale odierna», che intende ap-
punto «risolutamente affermare i diritti incoercibili dell’Individuo contro ogni con-
culcativa sovranità sociale»44.
Le simpatie di Pica per l’anarchismo individualistico che si respirava nell’arte
nuova sono probabilmente da collegare allo scollamento tra estetica e morale/politica
che il critico si trovava a praticare e meglio si sposava con le teorie di un Barrès, piut-
tosto che con le idee di Cameroni, Turati e Kuliscioff45, per citare tre personaggi gra-
41 Ibid.
42 Ivi, pp. 162-3.
43 Ivi, p. 163.
44 Ivi, p. 164.
45 E. Citro, Lettere inedite di Cameroni, Turati e Kuliscioff a Pica, «Nuova Rivista Europea», IX, 65, ottobre
1985, pp. 27-36.
194 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
vitanti nell’orbita del socialismo con i quali Pica ebbe rapporti di frequentazione e
stima. Si ricordi come Pica stesso delineava, scrivendo a Neera nel 1893, la differenza
tra i giudizi di Cameroni, che, «specie in questi ultimi tempi, influenzato dai suoi in-
timi Turati e Ciccotti, lasciasi guidare da criteri politico-sociali», e i propri, legati a
«criteri assolutamente estetici»46. Così Pica riserva un posto a Barrès anche in Arte
aristocratica:
In ultimo Maurizio Barrès, il penetrante e scettico psicologo, che tutto imbevuto di
metafisica alemanna, ha, sulla larga via dell’Arte, aperta una piccola cappella, consa-
crata al culto dell’Io, richiamandovi tutta un’internazionale schiera di spiriti sottili,
che disdegnano le vane pompe di quella che noi chiamiamo «realtà» e che essi, con il
filosofo Fichte, affermano altro non essere che una soggettiva creazione dell’Anima,
la sola che davvero esista47.
Pessimismo universale dai tratti catastofisti piuttosto che “progressivi”, individuali-
smo anarchico e predisposizione ad indagare le zone oscure dell’io: i pilastri della
nuova letteratura francese sono chiari a Pica, anche attraverso Barrès, già intorno al
1884-1885.
2.2 Tra romanzo naturalista e poesia simbolista
Il percorso di disgregazione del naturalismo e delle sue basi positiviste, operazione
per Pica inconfessabile ma ben individuabile agli occhi di un lettore odierno che ri-
percorra gli interventi pichiani48, trova un passaggio significativo nella conferenza
Arte aristocratica del 189249; essa rappresenta un ideale compendio degli studi pi-
chiani fino a quella data, riassunti e semplificati in funzione di un pubblico non ne-
cessariamente esperto in materia “decadente”. Ai fini d’introdurre un discorso sul
poemetto in prosa, bisogna notare, innanzitutto, che la conferenza porta solo qualche
implicita traccia delle letture pichiane di poèmes en prose, che a quest’altezza hanno
46 V. Pica, Lettera ad Anna Radius, Napoli, 7 luglio 1893, in Finotti, Sistema letterario e diffusione del
decadentismo nell'Italia di fine '800. Il carteggio Vittorio Pica - Neera, cit., pp. 136-37. La lettera è citata
anche in D’Antuono, La Chimera e la Sfinge nel Des Esseintes italiano, cit., p. 44. Si ricorderà però che
Pica, pur distante dalla concezione di letteratura come impegno di un Cameroni, non si fece nemmeno
attrarre dai facili nazionalismi, grazie al cosmopolitismo su cui si era formato.
47 Pica, «Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit., p.
263.
48 Cfr. D’Antuono, La Chimera e la Sfinge nel Des Esseintes italiano, cit., p. 47.
49 Letta il 3 aprile 1892 al «Circolo filologico» di Napoli, poi edita elegantemente in vol. da Pierro nello
stesso anno; è riedita integralmente da D’Antuono, in V. Pica, «Arte aristocratica» e altri scritti su
naturalismo, sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit., pp. 243-270.
Pica e i «poemucci in prosa» 195
già dato frutti (l’ampio articolo del 1888); l’assenza è significativa, ed è legata proba-
bilmente a due ragioni, che possiamo anticipare: da una parte (come si chiarirà me-
glio più avanti, leggendo attentamente l’articolo dedicato al nuovo “genere”) agisce
un’interpretazione del poemetto in prosa come attività secondaria rispetto alla pratica
poetica di un grande autore; dall’altra, come proprio la conferenza rivela, Pica avverte
la necessità di estromettere il poème en prose da un sistema nel quale la ripartizione
tra poesia e prosa permette di salvaguardare due concezioni antitetiche dell’arte.
La conferenza si apre con una citazione da «quel mirabile poema in prosa, che è
La tentation de Saint-Antoine di Gustavo Flaubert», passaggio che ci permette di no-
tare come Pica utilizzi il termine «poema in prosa» intendendo che il romanzo ha il
valore di una moderna epopea, non più versificata ma in prosa. Si passi, però, alla ci-
tazione («Je cherche des parfums nouveaux, des fleurs plus larges, des plaisirs iné-
prouvés») e al commento:
Ebbene, a me sembra, o signori, che queste parole ritraggano assai bene le eccezio-
nali aspirazioni di tutto un gruppo di moderni spiriti raffinati, che queste parole rias-
sumano assai bene la loro febbre dell’ignoto, il loro ideale insoddisfatto, il loro biso-
gno perpetuo di sfuggire all’aborrita realtà della quotidiana esistenza, di sorpassare i
confini del pensiero, di andare raminghi, senza mai raggiunger una placatrice certi-
tudine, tra le brume degli al-di-là dell’Arte.
Questi spiriti bizzarri e paradossali rappresentano una malattia intellettuale, abba-
stanza sviluppata nelle classi superiori della società moderna e che tende ad allargarsi
sempre di più.
Le cagioni di tale malattia spirituale – e la chiamo malattia, notatelo bene, non con
intenzione di dispregio o di riprovazione, ma soltanto perché tutto ciò che, e
nell’ordine morale e nell’ordine fisico, sorpassa certi limiti comuni alla grande mag-
gioranza degli uomini, diventa patologico: il genio non rappresenta forse uno stato
morboso così come la follia? – le cagioni dunque di questa malattia spirituale biso-
gnerebbe forse ricercarle in principal modo nella nevrosi, in questo terribile flagello
del secol nostro, che rende sempre più squisita, più acuta, più intensa la nostra sensi-
tività ed in certo qual modo la perverte, e nella civiltà estrema, inclinante fortemente
alla decadenza, di alcune grandi città moderne50.
In apertura del proprio intervento, Pica non si esime dal rendere omaggio alla conce-
zione diffusa dell’arte “decadente” nell’ottica di Lombroso e Nordau, mettendo subito
in campo l’equivalenza tra genio e follia, acuita dalla vita estrema e decadente delle
«grandi città moderne». Anche occupandosi di Verlaine, il critico lo collocava tra gli
«inetti, per indole, per tradizione, per educazione», tra «gli ultimi frutti della degene-
50 Pica, «Arte aristocratica», cit., p. 244.
196 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
razione di una razza», «privi d’ogni forza di volontà», «i vinti nella lotta sociale», pre-
cipitati nel «più nero pessimismo»51. Se Ragusa Moleti aveva tradotto come «dubbio»
il termine «nevrosi», con cui Gautier descriveva l’estrema sensibilità di Baudelaire,
Pica non aveva timore di citarla apertamente. D’altro lato, però, a Pica va il merito di
aver allontanato ogni «intenzione di dispregio o di riprovazione», essendo la nevrosi
un male del secolo, e la malattia spirituale, dunque, una sorta di categoria storico-
psicologica che dovrebbe aiutare il pubblico ad avvicinare l’arte degli «spiriti parados-
sali» con il giusto armamentario critico.
Tanto più che, osserva Pica sulla scorta dello svizzero Edmund Rod (padre della
formula dell’«eccezione»)52, in controtendenza rispetto alla violenta campagna contro
«l’arte per l’arte» (nella quale intervenne anni dopo lo stesso Nordau con una confe-
renza sulla Funzione sociale dell’arte)53, gli “aristocratici” reagiscono, seppur eccessi-
vamente, contro la mercificazione dell’arte, e pongono, seppur in termini esagitati, il
problema di una conciliazione tra arte e popolo, l’annosa questione che informò,
com’è noto, anche le riflessioni letterarie di Gramsci:
Questa tendenza ultra-aristocratica, che trova ogni giorno nuovi proseliti, a creare
un’Arte destinata ad un ristretto numero di elette intelligenze ed incomprensibile per
la folla, è forse perniciosa, è forse riprovevole, ma pure rappresenta, siccome osserva
il Rod, una naturale e non ingiustificabile reazione contro certa malintesa democra-
tizzazione dell’Arte; più i commercianti di letteratura o di pittura o di musica smi-
nuzzeranno la loro merce per metterla al livello di tutte le intelligenze e di tutte le
borse e per lusingare tutti i gusti, e sempre più gli artisti veri, in odio all’imperante
mediocrità, si adopereranno a costituire una specie di setta ristretta e chiusa, compli-
cando le difficoltà della loro estetica per distinguersi dagli altri.
Indiscutibilmente la Democrazia, con le inesorabili sue tendenze livellatrici, è ostile
all’Arte, che rappresenta l’indefinita disuguaglianza […]. Ma d’altra parte […] non
vale meglio uniformare, per quanto è possibile, le opere d’arte alle odierne tendenze
scientifiche e positive, tentare un compromesso fra l’Arte e la Democrazia? Certo che
sì, ma l’Arte, per essere davvero popolare, deve adattare le sue idee e la sua forma alla
51 Ivi, pp. 254-55.
52 E. Rod, Corrispondenza da Parigi. La letteratura e la democrazia, «Fanfulla della Domenica», V, 44, 4
novembre 1883; sulla questione, che percorre gli scritti di vari critici dell’epoca, cfr. Finotti, Sistema
letterario e diffusione del decadentismo nell'Italia di fine ‘800, cit., p. 68. Gli articoli del Rod furono per
Pica fondamentali; per le differenze, cfr. ivi, pp. 74-75: «Rispetto a quelli del Rod gli articoli del Pica di
caratterizzano per una più ricca documentazione e soprattutto per le più ampie citazioni che li corredano
in lingua originale»; inoltre, con Pica «i decadenti sono giudicati sulla base dei loro programmi».
53 M. Nordau, La funzione sociale dell’arte, Bocca, Torino 1897.
Pica e i «poemucci in prosa» 197
comprensione, sempre limitata, della folla; orbene vi sono letterati, che […] non san-
no, né possono a ciò rassegnarsi […]54.
Pur ponendo sé stesso e gli ascoltatori dalla parte della sanità e della democrazia con
un assertivo «Certo che sì», Pica apre le porte alla comprensione degli artisti decaden-
ti, sulla base di considerazioni storiche e psicologiche, in modo da poterne poi pre-
sentare l’incompresa genialità. La dedizione totale e incondizionata all’arte testimonia
la sincera abnegazione, stoica55, ad una causa che occorre cercare di comprendere, se
si vuole essere testimoni onesti della contemporaneità, epoca di «transazione», «dub-
bio» e «scoraggiamento morale»56.
Soffermandosi su Mallarmé, Pica ritiene necessaria una digressione sul «simboli-
smo», introducendo una distinzione tra il «simbolismo innato», pratica del popolo
volta a dare significazione ad eventi oscuri e a raffigurare materialmente il mondo
morale, e l’«elevato», l’«austero e ieratico», «magicamente suggestivo», che, «trovata
l’immagine definitiva, non si attarda in superflue delucidazioni»57. Il secondo simbo-
lismo, ça va sans dire, è quello praticato da Mallarmé. Sono da rilevare anche le paro-
le con cui, ripercorrendo la strada letteraria che aveva condotto al «geniale» e «pro-
fondo»58 Mallarmé, viene ritratto Baudelaire:
Poi venne Baudelaire, il penetrante analizzatore degli stati morbosi dell’anima, il ma-
gico evocatore di sensazioni raffinate e perverse, che ordinò e perfezionò
l’instrumentazione del verso e trovò musiche di parole squisitamente angosciose59.
Il sintagma «musiche di parole» allude probabilmente ai poemetti in prosa, visto che
la stessa definizione si trovava nell’articolo del 1888 dedicato ai «poemucci in prosa».
Riprendendo Huysmans-Des Esseintes, Pica sottolinea anche la differenza tra
Verlaine e Baudelaire, a proposito di Fêtes Galantes:
54 Pica, «Arte aristocratica», cit., p. 245. Cfr. anche Stéphane Mallarmé, in Letteratura d’eccezione, cit., pp.
90-91: «più i commercianti di letteratura o di pittura o di musica sminuzzeranno la loro merce per
metterla al livello di tute le intelligenze e di tutte le borse e per lusingare tutti i gusti, e sempre più gli
artisti veri, in odio all’imperante volgarità, si adopereranno a costituire una specie di setta ristretta e
chiusa, complicando le difficoltà della loro estetica per distinguersi dagli altri».
55 Cfr. ibid.: «[…] non si può fare a meno di ammirare l’altiero stoicismo, col quale volontariamente
rinunziano al suffragio della folla».
56 Ibid.; Pica prosegue: «Bisogna dunque, a parer mio, studiare tutte due queste letterature [la democratica
e l’aristocratica], che crescono e si sviluppano parallelamente e che purtroppo cadono in due eccessi
contrarî […]».
57 Pica, «Arte aristocratica», cit., pp. 248-49.
58 Ivi, p. 246.
59 Ivi, p. 247.
198 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Non è più certo, siccome osserva l’Huysmans, l’orizzonte immenso aperto dalle in-
dimenticabili porte di Baudelaire, è bensì, sotto il chiaro di luna, una fessura dischiu-
sa sur un campo più ristretto e più intimo, ma insomma tutt’affatto speciale di Ver-
laine60.
Il ritratto di Verlaine si differenzia dai feroci medaglioni di Ragusa Moleti per le am-
pie letture di poesie, arricchite da alcuni cenni di biografia di non secondaria impor-
tanza; a Pica preme sottolineare la distanza, ed il superamento, delle posizioni etiche
e poetiche di Baudelaire. Ma l’effigie che ne deriva risente di consuete apprensioni
moralistiche; ecco un uomo fondamentalmente buono che, dopo essersi perduto per
varie ragioni storico-biografiche, torna all’ordine, scontando i propri errori fino in
fondo:
Dispiaceri domestici e le feroci repressioni seguite alla Comune, nella quale Verlai-
ne, che in quei tempi era un arrabbiato radicale, si era trovato alquanto compromes-
so, lo costrinsero ad abbandonare la Francia e ad andar ramingo per l’Inghilterra e
pel Belgio, menandovi un’esistenza delle più avventurose, delle più stravaganti e, di-
ciamolo pure, delle più sregolate. […]
I reiterati colpi della Fortuna produssero una radicale mutazione nell’anima del
poeta, debole, sensuale, ma intimamente buono, ed è un uomo nuovo, che ci appare
in Sagesse, libro di un sincero ed ardente misticismo61.
Qui si misura, per Pica, la discrepanza, in ambito morale, da Baudelaire, che non a-
scoltava i suggerimenti del proprio «sentimento religioso», a differenza di Verlaine:
Raccontasi che Barbey d’Aurevilly, dopo aver letto Les Fleurs du Mal, dicesse a
Baudelaire: «Ora logicamente non vi resta che scegliere tra la bocca di una pistola ed i
piedi di un crocefisso», ma Baudelaire, ad onta che nella sua anima vibrasse a volte un
profondo sentimento religioso, non si curò punto di seguire il consiglio dell’illustre
romanzatore cattolico. Lo ha invece ascoltato Verlaine – cosa del resto che non deve
sorprendere, trattandosi di uno spirito insoddisfatto, irrequieto, squilibrato – e così,
spogliandosi di un tratto delle sue vecchie idee di ateo e ultra-repubblicano, egli si è
buttato nelle braccia della Chiesa […]62.
60 Ivi, p. 257.
61 Ivi, p. 258.
62 Ivi, pp. 258-59.
Pica e i «poemucci in prosa» 199
Date le premesse, Baudelaire poteva diventare «monaco» tanto quanto «rompicol-
lo»63: anche Ragusa lo aveva affermato, rivendicando poi il fatto che «Baudelaire,
scettico, fu però sempre mite, pacifico, buono»64. Pica, invece, vuole distinguere e iso-
lare il misticismo alla «Francesco d’Assisi»65 di Verlaine, dipinto come un uomo che
sconta la propria esistenza in una peregrinazione senza pace «nei varî ospedali pari-
gini», conducendo una vita «delle più miserabili e delle più tribolate»66.
Tra le altre personalità dell’Arte aristocratica a cui Pica accenna troviamo, ad un
tratto, Rimbaud, sul quale, come scrittore di poemetti in prosa, interesserebbe cono-
scere un’opinione di Pica; ma la presentazione non offre spunti molto notevoli: «do-
po aver composto a 16 ed a 18 anni parecchi poemucci in prosa e parecchie poesie di
un’originalità paradossale, che sono veri piccoli capolavori, prese una decisione
[…]»67. Il rapporto del critico napoletano con lo «Shakespeare fanciullo» è controver-
so e per certi versi oscuro, tra saggi annunciati e analisi mancate68. Si ricordi, ad e-
sempio, che nella temperie di accuse di follia e nevrosi legate alla teoria delle vocali di
Rimbaud, contro le quali si esercitò anche lo scherno di Ragusa Moleti69, Pica spese
parole di difesa fornendo anche le “evidenze scientifiche” della percezione sinesteti-
ca70.
A latere rispetto alla presentazione delle singole personalità, si sviluppa in Arte
aristocratica una proposta di sistemazione critica che sancisce una posizione scomo-
da e dunque defilata per il petit poème en prose; si tratta di individuare e accettare una
netta distinzione tra poesia e prosa, volta ad una comprensione e accettazione del
“simbolismo”: «La poesia, essendo, per sua natura, sintetica, aristocratica e selettrice»,
63 Ivi, p. 11.
64 Ibid.
65 Ivi, p. 260.
66 Ivi, p. 262.
67 Ibid.
68 Cfr. N. D’Antuono, Note e commento, in Pica, «Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo,
sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit., p. 328. Sappiamo anche che Pica chiese documentazione su
Rimbaud a Verlaine e questi gli offrì, oltre alle edizioni a stampa, un inedito da pubblicare (V. Pica, Un
sonnet inedit de Rimbaud, «La Cravache parisienne», n.s., 401, 27 ottobre 1888). Cfr. Finotti, Sistema
letterario e diffusione del decadentismo nell'Italia di fine ‘800, cit., p. 76.
69 «Porte di tutti i manicomi apritevi. Per un A. Rimbaud qualunque l’A è nero, l’E è bianco, l’I è rosso,
l’U è verde e l’O è azzurro» (G. Ragusa Moleti, La piccola e la grande arte, «Psiche», XIII, 11, 16 maggio
1896).
70 V. Pica, Per i decadenti (Lettera aperta al dottor Bugía), «Il Pungolo della Domenica», III, 38, 20
settembre 1885 (il dottor Bugía è Leone Fortis); ora in «Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo,
sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit., pp. 177-83. Scrive Pica che «la relazione dei suoni con i
colori è percettibile da ogni sistema nervoso raffinato», e incalza, «sui fenomeni dell’audizione colorata si
tenne a Vienna fin dal 1873 una conferenza, in seguito agli studi del dottor Nussbaumer […]» (ivi, pp.
179-80).
200 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
sta dalla parte del simbolismo e dell’«idealismo», mentre il romanzo, dedicato alla
complessità della vita moderna, deve essere «analitico, minuzioso, descrittivo», e si
snoda, per natura, sul filo del positivismo. Da critico acuto qual è, sancita la regola,
Pica non tarda a dare esempi di eccezioni e interscambi poesia/prosa, facendo riferi-
mento ad alcune pagine di Flaubert, Goncourt e anche Zola. Spicca allora l’assenza di
un qualsiasi riferimento al poemetto in prosa, mancanza rivelatrice di una difficoltà
nel collocare una “scrittura di frontiera”.
La separazione – investita di implicazioni, verrebbe da dire, quasi morali – tra
poesia e prosa permetterebbe di salvare due pratiche letterarie diventate quasi incon-
ciliabili, romanzo e lirica, nonché due estetiche (e teorie della ricezione),
l’aristocratica e la democratica. Il problema avvertito da Pica, critico francesista che
nasce come lettore di romanzi, per poi scoprire la poesia, non apparirà, anche in
tempi odierni, così banale: può darsi anche che il Novecento sia figlio, in molte sue
manifestazioni, di una infruttuosa netta separazione tra lirica e narrativa, fin troppo
costrette nell’investitura di arte “aristocratica” e “democratica”. Nell’esigenza di legit-
timare, assegnando loro campi differenti, il Naturalismo e il Simbolismo, il poemetto
in prosa, scrittura piana praticata per lo più da poeti e dunque investita dai procedi-
menti della poesia, rappresentava un’invasione di campo capace di minare il dominio
del Naturalismo (inteso da Pica come indagine sociale, alla Zola, o al limite psicologi-
ca, alla Huysmans) sulla prosa di romanzo.
Concludendo la conferenza, Pica enuncia, con le dovute cautele, la propria posi-
zione, esemplandola sui Goncourt e Flaubert, a favore di un’arte aristocratica e raffi-
nata, ma senza gli eccessi che sfiorano la patologia:
Ciò che costituisce la superiorità di Flaubert e dei Goncourt sugli altri estremi
campioni dell’Arte aristocratica, che non devono però venir confusi con il protagoni-
sta di A rebours, il quale è un tipo tutt’affatto patologico, è che essi non hanno mai
smarrito il senso del reale, l’amore della vita così come è, sicché la loro passione per le
cose squisite, la loro inclinazione verso le maggiori raffinatezze non dànno che un sa-
pore di originalità simpaticissima, un profumo di più ad ogni loro scritto.
Invece ai rappresentanti dell’Arte d’eccezione, così in Francia, come in Inghilterra,
in Belgio, in Portogallo e dovunque altro essa fiorisca, non si può fare a meno, pur
ammirandone le magnifiche opere, di muovere il grave rimprovero di odiare tutto ciò
che è moderno, di rinchiudersi in un subbiettivismo feroce e disdegnoso, di foggiarsi
una concezione falsa ed arbitraria della vita umana71.
71 Id., «Arte aristocratica», cit., p. 270.
Pica e i «poemucci in prosa» 201
2.3 Il «poemuccio in prosa» come genere
Girolamo Ragusa Moleti si era avvicinato a Baudelaire tanto da diventarne tradutto-
re, ma aveva rifiutato categoricamente, benché con tanto impegno di lettura da risul-
tare quantomeno sospetto, i suoi “successori”. Il cugino napoletano, invece, aveva
scelto tra i propri phares Huysmans, e con lui si era trovato a passare dal terreno bat-
tuto del naturalismo alle lande deserte dell’arte aristocratica. Era una «consorteria»,
quella guidata da Verlaine e Mallarmé, che già si era appropriata delle intuizioni bau-
delairiane modificandole radicalmente.
I poeti successivi a Baudelaire che Pica incrocia e frequenta, quali Verlaine e Mal-
larmé, condividono «un vincolo di amore e di dannazione per la poesia», così definito
da Colesanti:
È una scelta di Assoluto, fino alle conseguenze più estreme, alla sconfitta, al silenzio.
[…] è una ricerca di ordine non tanto metafisico, quanto mistico, centrata su
un’operazione alchemica (o anche «scientifica») della Parola, che se riuscirà veramen-
te a rompere, a bruciare i legami con gli episodi contingenti, con le occasionali vicen-
de del quotidiano, a scartare e a recidere ogni appiglio con la realtà più concreta e vis-
suta, potrà liberarsi, come in un esercizio ascetico, verso la purezza72.
Tale avventura ascensionale, presieduta da analogia, metafora, simboli e ritmi nuovi,
trova una prima sistemazione teorica proprio nel 1884, con due operazioni “antologi-
che”: la prima è data dai Poètes maudits di Verlaine73, la seconda è presentata in A re-
bours di Huysmans. Quest’ultimo dedica pagine ammirate anche a Baudelaire, men-
tre tra i medaglioni di Verlaine si registra l’assenza dell’autore delle Fleurs, come a
porre uno spartiacque che Pica farà proprio, lasciando a Baudelaire una posizione de-
filata.
Non abbiamo molti testi dedicati da Pica a Baudelaire, e le ipotesi a riguardo so-
no varie; Citro ipotizza che «a frenarlo sia stato l’alone di cui la sua poesia è già cir-
confusa, quasi una imbalsamazione dell’autore e dell’opera»74; per D’Antuono, si trat-
ta di una presa di distanza dai temi baudelairiani, come «il satanismo» o «la degrada-
zione del ruolo del poeta»75. Può darsi che entrambe le ragioni convivano, mentre,
72 Macchia, Colesanti, La letteratura francese dal Romanticismo al Simbolismo, cit., p. 241.
73 Per la lettura dei profili di Verlaine pubblicati su «Lutèce» tra l’agosto e il dicembre 1884, «Pica non
ebbe bisogno, dunque, di attendere la pubblicazione in volume» (cfr. D’Antuono, Vittorio Pica. Un
visionario tra Napoli e l’Europa, cit., p. 67).
74 E. Citro, Introduzione, in Pica, Letteratura d’eccezione (1898), cit., p. 22.
75 N. D’Antuono, Note e commento, in Pica, «Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e
giapponismo (1881-1892), cit., p. 280.
202 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
per attenersi ai dati, si potrà ricordare che Pica assegnava a Baudelaire un ruolo fon-
damentale nell’evoluzione del «Romanticismo», soprattutto in relazione alle Fleurs,
ma lo allontanava, così, nel passato dei predecessori:
Il gran merito di Carlo Baudelaire, che gli ha fatto occupare un posto speciale nella
letteratura francese moderna e gli ha fatto avere tanti imitatori, è l’aver portato un ac-
cento personale, che si rivela in ispecial modo nei Fleurs du Mal, che rappresentano
una specie di romanticismo diabolico76.
Tra i poetae novi, ce ne’era almeno uno che guardava alla poesia in modo radi-
calmente differente, ovvero Rimbaud; come si è accennato, su di lui, però, Pica stenta
a raccogliere abbastanza dati (o idee?) per un’analisi. Si ha l’impressione che Pica si
fosse presto formato attraverso quell’«adorazione rispettosa per l’Arte» che leggeva,
con la mediazione di Des Esseintes, in Mallarmé e in Verlaine77; stentava a reperirla
in Baudelaire, fatto che lo allontanava dal grande “predecessore”; e, se la lettura non
era troppo ostica, era forse in difficoltà nel ritrovare, con Rimbaud, di nuovo l’aureola
nel fango78. Già i dati biografici lo sconvolgevano abbastanza:
prese una decisione ch’egli, che aveva davvero impresso sulla fronte il marchio divino
dell’Arte, non avrebbe dovuto mai prendere […]: rinunziò all’Arte per commerciare
di pelli e di avorio in Africa, donde non è più ritornato in Francia che qualche mese fa
per morirvi oscuramente79.
76 V. Pica, Romanticismo, realismo, naturalismo, in Id., «Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo,
sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit., p. 113. Il saggio, pubblicato tra il 1882 e il 1883 sul «Fantasio»,
poi nella «Gazzetta letteraria» torinese di Bersezio (1884), testimonia delle posizioni pichiane intorno e a
sostegno del Naturalismo.
77 Ivi, p. 254.
78 Su queste differenze, si legga anche quanto scrive D’Antuono, a proposito dell’idea dell’arte:
«L’intellettuale […] doveva rifiutare, anzi, proprio il carattere di merce della produzione artistica. Pica lo
fece perentoriamente, ma non con gesto iconoclasta come Baudelaire (ed al limite, con gesto anarchico,
Rimbaud); esasperò la raffinatezza del lavoro artistico e inseguì i fantasmi ovunque si trovassero, in tutte
le regioni del Sogno» (D’Antuono, La Chimera e la Sfinge nel Des Esseintes italiano, cit., p. 81).
79 Pica, «Arte aristocratica», cit., p. 262. Raccontando le vicende biografiche di Verlaine, Pica censurò
ampiamente il «drôle de ménage», accennando giusto ad un legame di «tenerezza più che amichevole»
con Rimbaud e alla vita sregolata dei due (cfr. V. Pica, Paul Verlaine, in Id., Letteratura d’eccezione, cit., p.
53). La difficoltà di presentare Rimbaud al pubblico con una biografia veritiera generò anche, nell’aprile
1900, un piccolo incidente con il fratello di Federico De Roberto, di cui recano traccia le lettere tra
quest’ultimo e Pica: Diego De Roberto aveva mandato a Pica un profilo di Rimbaud da pubblicare su
«Emporium», ma questi lo ritenne poco adatto, vista «l’aureola licenziosa che circonda il giovane poeta
francese», per una rivista «che va in varii collegi», proponendone la pubblicazione su «Flegrea»; come si
intuisce, a tale decisione erano seguite le rimostranze dei fratelli (Lettera del 28 aprile 1900, in V. Pica,
Lettere a Federico De Roberto, cit., pp. 268-70). Maffei ipotizza giustamente che Pica fosse dubbioso
Pica e i «poemucci in prosa» 203
Verlaine, scrive Colesanti, «non ha però mai pensato né teorizzato alcun pro-
gramma di sovvertimento totale della parola e della realtà, anzi della realtà attraverso
la parola»80; lo stesso si può affermare, con le dovute differenze, di Mallarmé, autore
di un «distacco della realtà più netto, “a priori”, irreversibile, e senza programmi di
rivolgimenti “pour changer la vie”»81. Come si poteva raccontare, invece, l’avventura
di Rimbaud?
Stiamo già toccando un punto focale della questione Pica - poemetto in prosa: i
due autori che hanno fatto della pratica del poemetto in prosa un cardine della poeti-
ca in senso rivoluzionario, Baudelaire e Rimbaud, sono, per ragioni diverse, per lo più
assenti dalle analisi pichiane, come si riscontrava già a proposito di Arte aristocratica.
Influenzato da quell’atteggiamento di individualismo esasperato proprio della nuova
poesia francese, che si allontanava da Baudelaire rivedendone così anche la nozione
di arte e, più in particolare, l’uso del petit poème en prose, Pica si avvicinava al «poe-
muccio in prosa» da un punto di partenza già molto diverso rispetto a quello baude-
lairiano.
Il poemetto in prosa per Baudelaire era stato, tra le altre cose, un tentativo di u-
scire dalla poesia per meglio conquistare uno sguardo rinnovato sulla realtà: scrive
Nicoletti che «quella carica lirica non sopportava il verso perché voleva tornare a es-
sere specchio della realtà intera della vita»82; e, ancora, sostiene che Baudelaire, com-
prendendo «i pericoli di un primato della forma, si allontanò dal verso senza rinun-
ciare alla poesia»83. Il poemetto in prosa è figlio, in Baudelaire, di quel «dilemma esi-
stenziale» che «si ripropone di continuo», «l’invocation à Dieu, ou spiritualité», e
«celle de Satan, ou animalité»84. Colesanti vi pone l’accento a più riprese: «Tutto in
Baudelaire è più grave, umano, terrestre: i suoi cieli “déchirés comme des grèves”; la
sua bellezza colpita dal “malheur”, sessuale e potentemente satanica»85.
I «seguaci» di Baudelaire, sintetizza Gianni Nicoletti, «superarono ben presto la
fase in cui l’estetica era solo una delle dimensioni della cultura, e ne fecero l’unica
dimensione»; Des Esseintes è già il prodotto di questo slittamento, e le sue teorie sul
poemetto in prosa ne risentono. Sarà da tener presente, allora, un’altra osservazione
sull’articolo di Diego ritenendolo «contrario al proprio modo di sentire» (cfr. ivi, p. 273): ad esempio,
questi sposava acriticamente la leggenda della conversione di Rimbaud, diffusa da un biografo
(Berrichon) che Pica definì, nella lettera a Croce del 1918, «enfatico e sconclusionato» (cfr. De Sangro,
Una lettera inedita di Vittorio Pica a Benedetto Croce su Arthur Rimbaud, cit.).
80 Macchia, Colesanti, La letteratura francese dal Romanticismo al Simbolismo, cit., p. 253.
81 Ivi, p. 312.
82 Nicoletti, Max Nordau e i primi critici del «Simbolismo» in Italia, cit., p. 353.
83 Ivi, p. 354.
84 Macchia, Colesanti, La letteratura francese dal Romanticismo al Simbolismo, cit., p. 86.
85 Ivi, p. 102
204 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
di Nicoletti: «La poesia aveva scoperto una sua prosa per un bisogno «etico» di riscat-
to; e finì in un completo rifiuto etico»86.
Pica avvertiva la vicinanza, pur nelle differenze, di Verlaine e Mallarmé, e la loro
distanza da Baudelaire, e scriveva (in Watteau e Verlaine, «settembre ’87») che «am-
bedue» sono considerati capiscuola dei «decadenti e simbolisti»87, mentre Baudelaire
era posto a capo dei romantici. Presentando al pubblico le Fêtes Galantes, Pica indi-
viduava la differenza tra Verlaine e Baudelaire in un rinnovato intimismo:
Non è più, osserva acutamente l’Huysmans, l’orizzonte immenso, aperto dalle in-
dimenticabili porte di Baudelaire, è bensì, sotto il chiaro di luna, una fessura dischiu-
sa su di un campo più ristretto e più intimo, ma insomma tutt’affatto speciale di Ver-
laine88.
Se di Verlaine Pica aveva raccontato e difeso, tra i primi, la poesia89, con Mallarmé la
questione si faceva più complessa, ché questi «non potrà mai esser compreso e gusta-
to, per le volontarie astruserie, […] che da un piccolo e scelto stuolo di persone».
Proprio qui entrano in gioco i «suoi affascinanti poemucci in prosa», che sono «di
una perfetta chiarezza»90; di poemetti in prosa Pica sembra interessarsi non seconda-
riamente per presentare un poeta “indifendibile”, campione di oscurità.
Sembra che Pica non si sia particolarmente interessato alla produzione di poe-
metti in prosa da parte di Verlaine, che accompagna più o meno tutta la sua carriera
poetica91. Scopriamo però, grazie alle ricostruzioni di D’Antuono, che Pica aveva tra-
dotto, per la «Cronaca Sibarita» del 1885, un testo verlainiano che rientra appunto tra
i poèmes en prose, Un orologio, affermando in calce di aver voluto presentare ai lettori
«queste bizzarre e geniali pagine, degne di essere firmate da Edgardo Poë, che Paolo
Verlaine, il chiaro ed originalissimo poeta francese, ha di recente pubblicato nella Ré-
vue indépendante di Parigi»92.
86 Nicoletti, Max Nordau e i primi critici del «Simbolismo» in Italia, cit., p. 360.
87 V. Pica, Watteau e Verlaine, in Id., All’Avanguardia, cit., p. 357.
88 Ivi, pp. 355-56. Vengono citati i versi riportati anche da Des Esseintes: «Le soir tombait, un soir
équivoque d'automne. / Les belles se pendant rêveuses à nos bras / Dirent alors des mots si specieux tout
bas, / Que notre âme depuis ce temps tremble et s'étonne».
89 Cfr. A. Fongaro, Bibliographie de Verlaine en Italie, Libreria Commissionaria Sansoni, Firenze /
Librairie Marcel Didier, Parigi 19762, p. 23.
90 Pica, Watteau e Verlaine, cit., p. 358.
91 Sette testi, di ispirazione cittadina e baudelairiana, vengono pubblicati in rivista tra il 1867 e il 1870;
abbandonato il poemetto in prosa per una decina d’anni, Verlaine lo riprende tra il 1882 e il 1887, ed i
testi furono raccolti già in Les Mémoires d’un veuf (1886).
92 P. Verlaine, Un orologio, «Cronaca Sibarita», II, 1, 10 gennaio 1885. La traduzione è anonima, ma
D’Antuono fornisce prove sufficienti per un’attribuzione a Pica (V. Pica, Tra los montes, «Cronaca
Pica e i «poemucci in prosa» 205
Si tratta effettivamente di uno dei pochi poemetti in prosa di Verlaine, che dun-
que Pica conosce fin dal 1885, come conoscerà il volume Mémoires d’un veuf (recen-
sito nel 1887), dove questo e altri poèmes en prose sono raccolti. Pica si cimenta vo-
lentieri nella traduzione, forse proprio in quanto trattasi di una prosa, e, non a caso,
fa riferimento a Poe, le cui teorie della «suggestione» Pica utilizza per la poesia quan-
to per il poemuccio in prosa. Dunque non è per ignoranza che Pica tralascia ogni rife-
rimento ai poemucci in prosa di Verlaine nel saggio del 1888. Probabilmente, il criti-
co non riconosce i poèmes di Verlaine come facenti parte, a pieno titolo, del genere
che nel 1888 si appresta a presentare; in secondo luogo, essi non suppliscono a quella
funzione chiarificatrice ed emblematica alla quale si sentiva di poter elevare quelli di
Mallarmé. Inoltre, in termini generali, Pica non sembra ritenere la produzione in
prosa di Verlaine “letterariamente” valevole93.
Già nel 1886, Pica aveva pubblicato un poemetto in prosa di Mallarmé ancora i-
nedito, L’Ecclesiastique, sulla «Gazzetta letteraria»94; nel settembre 1888, Pica decide
di dedicare espressamente un breve studio alla storia del genere, intitolato Poemucci
in prosa. Aloïsius Bertrand, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé95: l’intervento
passò dal «Fanfulla della Domenica» alla «Cravache parisienne», per finire nella «Re-
Sibarita», II, 1, 10 gennaio 1885, ora in Id., «Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e
giapponismo (1881-1892), cit., p. 175: «sappiamo ammirare […] Verlaine […], ed una pruova ne diamo in
questo numero della «Cronaca sibarita», pel quale abbiamo appositamente tradotto le belle pagine,
pubblicate di recente dal Verlaine nella “Révue indépendante”»). Si modifica dunque anche
l’affermazione di Fongaro, secondo cui Pica non avrebbe mai tradotto Verlaine (cfr. Fongaro,
Bibliographie de Verlaine en Italie, cit., p. 19).
93 Nel saggio su Verlaine raccolto in Letteratura d’eccezione afferma, in riferimento a «varii volumi di
prosa» di Verlaine, tra i quali le Mémoires d’un veuf: «se possono interessare per le parecchie pagine
autobiografiche che contengono, hanno, a dire il vero, un’abbastanza scarsa importanza letteraria, giacché
il Verlaine, malgrado una certa bonarietà maliziosa non priva di seduzione, è un prosatore mediocre ad a
volte anche un po’ sconclusionato» (V. Pica, Paul Verlaine, in Id., Letteratura d’eccezione, cit., p. 67). Già
recensendo Mémoires d’un veuf e Louise Leclercq nel 1887, d’altronde, Pica trovava «il prosatore molto
inferiore al poeta», pur apprezzando «uno stile di una limpidità, di un’armonia, di una luminosità
davvero mirabili»; tra i due volumi preferiva il secondo, in particolare per le «due novelle, Louise Leclercq
e Pierre Duchatelet» (Id., Rassegna letteraria (Letteratura francese), «Le Conversazioni della domenica»,
II, 10, 6 marzo 1887, p. 74).
94 Id., I moderni bizantini. Stèphane Mallarmé, «Gazzetta letteraria», X, 49, 4 dicembre 1886.
L’informazione è riportata da Finotti (Finotti, Sistema letterario e diffusione del decadentismo nell'Italia di
fine ‘800, cit, p. 75) e corrisponde all’indicazione di Marchal nelle note alle opere di Mallarmé (B.
Marchal, Notices, notes et variantes, in S. Mallarmé, Œuvres complètes, édition présentée, établie er
annotée par B. Marchel, Gallimard, Paris 1998, vol. I, p. 1341).
95 V. Pica, Poemucci in prosa. Aloïsius Bertrand, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé, «Fanfulla della
Domenica», X, 39, 23 settembre 1888 (poi in Id., All'Avanguardia). Il saggio fu pubblicato anche il 6
ottobre 1888 sulla «La Cravache parisienne»; poi in «Revue Indépendante», febbraio-marzo 1891.
206 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
vue Indépendante»96. Il critico italiano era probabilmente intervenuto su una que-
stione d’attualità.
Nell’articolo si riscontra quanto appena osservato: Baudelaire non è per Pica un
autore d’elezione e, più semplicemente, non è l’autore della contemporaneità;
all’avanguardia sono ormai altri, che sui suoi testi si sono formati e sono già oltre.
Così, Pica sembra interessarsi ai poemetti in prosa non tanto a partire da letture bau-
delairiane, quanto da due capisaldi dell’eccezione: Huysmans, inteso non tanto come
scrittore di poèmes en prose, quanto come primo modellizzatore, in A rebours, di un
genere innovativo, e Mallarmé, per una produzione sparsa, quasi defilata, che assume
però, nel sistema interpretativo di Pica, un peso decisivo. Dunque il poemuccio in
prosa sarà per Pica tale quale lo definisce Des Esseintes: a livello di testi, quello prati-
cato da Baudelaire (trattato come “immaturo”) e, in seguito, da Mallarmé.
La definizione del poemuccio in prosa è così affidata, in apertura del saggio del
1888, alle parole di Des Esseintes, «il bizzarro e nevrotico protagonista di A rebours»,
«prototipo dei moderni spiriti raffinati»:
Des Esseintes dunque, stanco dalle troppo minute e lunghe descrizioni, dalle troppo
particolareggiate analisi psicologiche degli odierni romanzi, stanco dall’orgia di colo-
re, dalla pompa retorica, dall’idropisia di pensieri e d’immagini della poesia romanti-
ca, si ferma sovente a meditare sul tormentoso problema di una prosa concentrata in
poche parole, che contenessero il succo concreto di centinaia di pagine, una prosa,
nella quale le parole scelte fossero talmente impermutabili da supplire a tutte le altre;
l’aggettivo, situato d’una sì ingegnosa e definitiva maniera da non potere essere le-
galmente spossessato dal suo posto, aprirebbe tali prospettive, che il lettore potrebbe
sognare, durante intere settimane, sul suo senso, preciso e nell’istesso tempo multi-
forme97.
Des Esseintes si dichiara amante di un genere dai tratti provocatori e marginali, che
discorre, opponendovisi, con il romanzo, viziato dalla lunghezza dell’analisi e della
descrizione: una rovina, insomma, per il romanzo, che da narrazione diverrebbe
«communion de pensée entre un magique écrivain et un ideal lecteur», «collabora-
tion spirituelle». Artificio e condensazione, nutrimento intellettuale di una civiltà
(troppo) avanzata: il poemetto in prosa viene comparato, non a caso, con l’«of meat»,
alimento concentrato per un uomo che soffre di mancanza d’appetito.
96 I saggi di Pica sono noti nell’ambito del salotto di Mallarmé, e, apprezzati per la chiarezza, vengono
spesso tradotti per «La Cravache parisienne» e/o per la «Revue Indépendante». Cfr. Finotti, Sistema
letterario e diffusione del decadentismo nell'Italia di fine ‘800, cit., pp. 75-79.
97 Id., Poemucci in prosa. Aloïsius Bertrand, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé, in Id.,
All'Avanguardia, cit., p. 361.
Pica e i «poemucci in prosa» 207
Il poème en prose «ha insieme della prosa e della poesia» e «corrisponde» alle esi-
genze della «generazione letteraria» aristocratica: la modernità del genere letterario è
immediatamente dichiarata, e ricondotta essenzialmente nell’ambito dell’estetica dei
neo-bizantini; in tal modo si riconosce e insieme circoscrive l’impatto di una scrittura
di frontiera che appare praticabile solamente nell’ambito di una concezione ben pre-
cisa della letteratura, l’“aristocratica”. A livello di poetica, Pica individua innanzitutto
l’importanza della «concisione suggestiva»:
Questo genere di letteratura, che ha insieme della prosa e della poesia, corrisponde
a meraviglia al bisogno sempre più spiccato di concisione suggestiva, che caratterizza
una parte dell’odierna generazione letteraria; però esso richiede in chi lo coltiva non
comuni qualità di artefice dello stile e di pensatore sintetico […]98.
Sulla suggestione conviene soffermarsi, perché essa, qualità in primis della musica, e
della letteratura in seconda battuta, rappresenta, secondo Pica, una delle chiavi per
comprendere la poesia dei contemporanei francesi, come scrive nel 1892:
La letteratura, trovandosi tra la musica e la pittura, prestasi più facilmente di
quest’ultima alla suggestione, che ha agio di manifestarsi in particolar modo nella po-
esia, la quale possiede spiccati elementi musicali99.
La suggestione, creata tramite «sapienti omissioni, indeterminatezze ed anche ambi-
guità», modifica radicalmente la ricezione: suscita «sempre nuove idee, sempre nuove
emozioni nell’animo di chi legge» e crea, «fra autore e lettore» una fruttuosa «colla-
borazione»100. Ad essere chiamato in causa, per una definizione teorica, è Edgardo
Poe:
È pensando a questa grande forza della suggestione su di un pubblico eletto che
Edgardo Poe scriveva: «Due cose sono eternamente richieste: l’una, una certa somma
di complessità o, per essere più proprî, di combinazione; l’altra, una certa quantità di
spirito suggestivo, qualcosa come una corrente sotterranea di pensiero, non visibile,
indefinito…»101.
La necessità della brevitas suggestiva, del senso “insinuato” piuttosto che “espres-
so”, è per Pica riferita principalmente alla poesia, a differenza di quanto invece aveva
98 Ivi, p. 362.
99 Id., «Arte aristocratica», cit.,, p. 250.
100 Ivi, p. 251.
101 Ibid.
208 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
teorizzato Poe, che ne aveva fatto un canone per la prosa, ripreso in tal senso da Bau-
delaire. Nel momento in cui doveva definire il poemetto in prosa, però, Pica non po-
teva che ricorrere, ancora, alla teoria della suggestione; aveva dunque compreso, il
critico napoletano, che nella poesia simbolista e nel poemetto in prosa si giocava la
stessa partita. Ma la seconda manche, in realtà, era anche più difficile della prima,
perché minava appunto una concezione della prosa come luogo dell’analisi e del par-
lare esteso, rispetto alla poesia, luogo della sintesi suggestiva.
Ritornando al saggio del 1888, di seguito Pica espone i caratteri del poemuccio in
prosa:
questi poemucci in prosa debbono in sé riassumere ciò che potrebbe formare il con-
tenuto di parecchie pagine di descrizione e di analisi; debbono esprimere concisa-
mente, ma efficacissimamente stati d’animo eccezionali e tipici; debbono essere for-
mati di epiteti rari, scelti con perspicace diligenza e non senza qualche ambiguità, che
si presti alle induzioni sottili ed alle fantasticherie del lettore, e situate al loro posto
giusto in modo da non poter essere spostate, senza grave danno di tutto il complesso;
debbono infine essere scritti in una lingua sapientemente musicale, che esalti il lettore
ed aumenti a mille doppi l’intensità delle impressioni e dei pensieri dall’autore voluti
esprimere102.
Tema del poemuccio è dunque, per Pica, prima di tutto l’espressione di «stati
d’animo»; lo scavo è diretto all’interiorità, non al quadretto di genere, né all’apologo
moralistico. Il rapporto con il lettore è ancora delineato: come nella poesia,
l’«ambiguità» deve tendere la mano ad un lettore attivo, pronto alla «fantasticheria»;
una «lingua musicale» dovrebbe farsi garante della moltiplicazione delle «impressio-
ni» e dei «pensieri».
Si passa dunque a delineare «la storia di una tale modernissima forma letteraria»
e a presentarne «i valorosi cultori»103; come nell’antologia personale di Des Esseintes,
la ricostruzione di Pica comincia con Gaspard de la nuit, «una raccolta di brevi balla-
te in prosa»104. L’autore viene collocato, a partire dal nome cambiato, «nel periodo
tumultuoso e clamoroso del primo romanticismo», «enfatico periodo letterario» di
cui porta il segno105. «Una serie di scenette intime, di fantasticherie medioevali, di
pietose elegie d’amore»: questa è la materia dell’auctor unius libri, strappato all’oblio
non tanto per il «merito individuale», quanto «perché il suo tentativo di prosa ritmata
102 Id., Poemucci in prosa. Aloïsius Bertrand, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé, cit., p. 362.
103 Ibid.
104 Ivi, p. 363.
105 Ibid.
Pica e i «poemucci in prosa» 209
e cesellata con cura amorosa ha ottenuto fortuna»106. Pica utilizza la presentazione
con la quale alcune pièces di Bertrand venivano proposte ai lettori della «Revue des
Lettres et des Arts»107 nel 1867:
il Sainte-Beuve scrisse: «…il usa toute sa jeunesse à ciseler en riche matière mille peti-
tes coupes d’une délicatesse infinie et d’une invention minutieuse», ne scelgo una, che
ha una soave intonazione elegiaca e da cui elevasi un delicato profumo di sentimenta-
lità […]108.
Di seguito, si riporta l’esempio di Encore un printemps, scegliendo dunque un
brano tratto dalla sesta sezione di Gaspard de la Nuit, Silves, che un lettore di Ber-
trand probabilmente non riconoscerebbe come la più rappresentativa. È opinione
diffusa che sia il terzo libro, La Nuit et ses prodiges, a presentarsi come centrale, so-
prattutto per la sapiente commistione tra i fantasmi medievaleggianti che infestano
Digione e le ossessioni individuali, dipinte nei morsi di Scarbo; cedendo la parola a
Lanfranco Binni, qui «la discesa nel passato si ricongiunge con la complessità dei fan-
tasmi e delle ossessioni presenti di Bertrand; il fantastico storico e apparentemente
pittoresco dell’arcaismo medievaleggiante assume le sembianze inquietanti di un
quotidiano angoscioso e disperato»109.
Encore un printemps110 appartiene invece ad una sezione più intimista, che, nota
Binni, «propone i toni amari della confessione autobiografica del paria,
106 Ibid.
107 Cfr. Gaspard de la Nuit. Fantaisies à la manière de Rembrandt et de Callot, «Revue des Lettres et des
Arts», 10 novembre 1867. Nel breve cappello introduttivo si legge: «La Revue des Lettres et des Arts se
propose de publier certains œuvres rares, oubliées ou inconnues [...]. Parmi ces œuvres, connues
seulement de quelques lettrés ou de quelques patients bibliophiles, il faut compter les Fantaisies à la
manière de Rembrandt et de Callot, de Louis Bertrand, dont M. Sainte Beuve a défini en une image
pittoresque le talent raffiné et originale: [...]»; seguono le parole riportate anche da Pica. I poèmes
riproposti sono Ma Chaumière e La Viole de Gamba.
108 Pica, Poemucci in prosa. Aloïsius Bertrand, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé, cit., p. 363.
109 Cfr. A. Bertrand, Gaspard de la nuit, Introduzione, traduzione e note di L. Binni, Garzanti, Milano
2003, p. XV.
110 Riportiamo di seguito il testo completo in francese com’è antologizzato da Pica (da notare, rispetto
all’edizione francese: la mancanza della spaziatura che dovrebbe dividere ogni capoverso; la mancanza
della data, in calce, «Paris, 11 Mai 1836»):
Encore un printemps
Toutes les pensées, toutes les passions
qui agitent le coeur mortel sont
les esclaves de l'amour
(Coleridge).
Encore un printemps, - encore une goutte de rosée qui se bercera un moment dans mon calice amer, et
qui s’en échappera comme une larme.
210 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
dell’escluso»111; la primavera, «une goutte de rosée qui se bercera un moment dans
mon calice amer», ricorda una perduta «jeunesse», le gioie «glacées par les baisers du
temps», e i dolori «qui ont survécu au temps». Pica privilegia, dunque, una pièce dagli
ingredienti intimisti, dedicata all’amore e al ricordo, escludendo un medioevo spet-
trale che giudicava ormai datato.
Pica si occuperà di Bertrand anche in un’altra occasione, nel gennaio 1897112, in
concomitanza con la ristampa parigina per i tipi del «Mercure de France», definendo-
le ancora «ballate in prosa», «scenette intime», «fantasticherie medievali», ornate da
un «istile squisitamente elaborato ed alquanto prezioso». Per portare un esempio, fa
di nuovo cadere la scelta su Encore un printemps, «un poemuccio che ha una soave
intonazione elegiaca». L’articolo è interessante, in questo caso, per la cornice nella
quale è inserito, a fornire suggerimenti di lettura ad un pubblico marzocchiano che si
trova già in contatto con tentativi di petit poème en prose, quali potevano essere i Pic-
coli motivi poetici di Jolanda.
Recuperando il filo dell’articolo del 1888, vediamo che Pica, esaurito il tributo a
Bertrand, passa, senza indugi, agli sviluppi successivi, delineando così il «merito» di
Baudelaire:
Ma tutto il merito di aver perfezionato il poemuccio in prosa, di avergli tolto ciò
che vi era di troppo ingenuo in esso, siccome era stato creato da Aloisius Bertrand, di
averlo dotato di quella sotterranea corrente di pensiero non appariscente ed indefini-
bile, che ne forma la grande malìa segreta, devesi a Calo Baudelaire […]113.
Baudelaire è definito con parole che ricorreranno in Arte aristocratica: «il penetrante
analizzatore degli stati morbosi dell’anima, il magico evocatore di sensazioni raffinate
e perverse, l’ordinatore sapiente di musiche di parole squisitamente angosciose»114. Il
O ma jeunesse! tes joies ont été glacées par les baisers du temps, mais tes douleurs ont survécu au temps
qu’elles ont étouffé sur leur sein.
Et vous qui avez parfilé la soie de ma vie, ô femmes! s’il y a eu dans mon roman d'amour quelqu’un de
trompeur, ce n’est pas moi, quelqu’un de trompé, ce n’est pas vous!
O printemps! petit oiseau de passage, notre hôte d'une saison qui chante mélancoliquement dans le coeur
du poète et dans la ramée du chêne!
Encore un printemps, - encore un rayon du soleil de mai au front du jeune poëte, parmi le monde, au
front du vieux chêne, parmi les bois!
111 Cfr. Bertrand, Gaspard de la nuit, cit., p. XVI.
112 V. Pica, Aloïsius Bertrand, «Il Marzocco», I, 51, 17 gennaio 1897.
113 Id., Poemucci in prosa. Aloïsius Bertrand, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé, cit., p. 364.
114 Ivi, pp. 364-65; cfr. Id., Arte aristocratica, cit., p. 247. A proposito del ricorrere di formule equivalenti
da un saggio all’altro di Pica, si ricordi che questi praticava ampiamente l’autocitazione (sulla questione
cfr. D’Antuono, Vittorio Pica. Un visionario tra Napoli e l’Europa, cit., pp. 21-22).
Pica e i «poemucci in prosa» 211
poemetto in prosa di Baudelaire si caratterizza dunque per una «sotterranea corrente
di pensiero», ovvero per una componente spiccata di riflessione, e per la «musica di
parole».
Pica non manca di distanziare Baudelaire dalla contemporaneità, moderando le
lodi pur nel riconoscimento dell’indubbia grandezza: «suscita così vivi entusiasmi
nella gioventù letteraria, da essere proclamato da alcuni, in un eccesso di entusiasmo,
il poeta di genio del secolo decimonono»115; tra quei giovani potrebbe trovarsi, peral-
tro, anche Ragusa Moleti. E al cugino traduttore Pica fa riferimento proprio in nota,
per la «pregevole traduzione italiana» e per aver «tentato per conto suo il genere, con
abbastanza buon esito, in un volume edito qualche anno fa dal Treves e portante per
titolo Miniature e Filigrane»116. Critico più scaltrito del Ragusa, Pica, interrogandosi
sul genere, fa immediato riferimento alla «lettera-prefazione ad Arsenio Houssaye»,
per poi ricordare, tramite Péladan, la fonte inedita di Barbey d’Aurevilly («che, fra
breve, il Lemerre pubblicherà»)117. Ma proprio per contrasto con i poemetti di
quest’ultimo («prosa fortemente colorita, frondosa, eloquente»)118, si definiscono i
poemetti di Bertrand («quadretti di genere», «flebili elegie», «pittoresche descrizioni
medioevali»)119 e quelli di Baudelaire: «visioni eccezionali della vita moderna», «anali-
si sottili di sensazioni, di emozioni e di sogni morbosamente squisiti»120. Sguardo sul-
la vita moderna e sogni, emozioni: questi i cardini dell’operazione baudelairiana, che
Pica spiega tramite le parole della Lettre-Préface; la citazione non era scontata e deno-
ta la formazione da francesista di Pica, visto che la Lettre tendeva stranamente a
scomparire, ad esempio, dalle traduzioni.
«Il ricordo degli indimenticabili Fleurs du mal ci si risveglia ad ogni istante»: Pica
mette i poemetti direttamente in relazione con le Fleurs, probabilmente in polemica
con un’altra tendenza dell’epoca – fatta propria da Dossi, e in un certo senso da Ra-
gusa stesso – che mirava a separare le due produzioni:
difatti in essi si ritrova lo stesso dandysme scettico; la stessa ricerca rabbiosa ed insi-
stente del fango della creatura umana; la stessa fioritura mostruosa di sensazioni raf-
finate, di pensieri stravaganti, di emozioni complicate; la stessa miscela di idealismo
esaltato e di sensualismo esacerbato; lo stesso odio per tutto ciò che è volgare, che è
115 Pica, Poemucci in prosa. Aloïsius Bertrand, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé, cit., p. 364-65.
116 Ivi, p. 365.
117 Ibid.
118 Ibid.
119 Ivi, p. 366.
120 Ibid.
212 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
ordinario, che è borghese, per adoperare il terribile epiteto di profonda esecrazione
dei romantici121.
Scetticismo, stravaganza, dualismo esacerbato: questi i caratteri di Baudelaire, in poe-
sia e in prosa, che lo avvicinano, sostiene Pica, alla temperie romantica. Anche
l’iconografia, affascinante ma bizzarra, non è cambiata:
E le imagini e le similitudini lambiccate e volutamente bizzarre, ma pur sempre af-
fascinanti e nuove, qui, come nei Fleurs du mal, abbondano: uno dei più bei poemetti
non finisce forse così: «Lasse-moi mordre longtemps tes tresses lourdes et noires.
Quand je mordille tes cheveux élastique et rebelles, il me semble que je mange des sou-
venirs»122.
Si ricorderà che, di fronte a questo passo, Ragusa Moleti aveva optato per una norma-
lizzazione traditrice («mi sembra di assaporare dolci memorie»); Pica, al contrario,
pone la stranezza sotto l’occhio del lettore, facendone anzi un punto cardine dello sti-
le baudelairiano. Laddove Ragusa aveva celato la polvere sotto il tappeto, Pica la ri-
porta al centro della stanza; certo ciò avviene in maniera non del tutto neutra, in
quanto, di nuovo, l’immaginario di Baudelaire è fin troppo sospinto nel regno dello
strano, fino ad affermarne ingenerosamente l’antiumanesimo: «il pessimismo fosco, il
disprezzo dell’umanità tutta, l’ironia feroce […] anche nei Petits poèmes en prose ap-
paiono speso»123.
Dopo essersi soffermato sul sogno («Des rêves! Toujours des rêves!»), Pica arriva
al Baudelaire en prose che più lo convince: «quei poemucci nei quali lascia piena li-
bertà alla fervida sua fantasia, che gli ispira creazioni leggiadrissime e squisite»124, ov-
vero Les bienfaits de la lune. Questo Baudelaire “delicato” ha addirittura il beneplaci-
to di Carducci, che da esso «ha tolto il motivo iniziale di una delle sue più belle poe-
sie, Vendette della luna»; certo, poi, tra una saffica rimata e un poemetto in prosa c’è
una certa distanza. Non è dunque il Baudelaire dei quadri cittadini, della riflessione
sull’anima smarrita del poeta nella modernità, della realtà deformata della metropoli
ad interessare Pica, quanto il fine cesellatore di una prosa poetica rinnovata.
Il giudizio sui poemucci in prosa di Baudelaire assomiglia al tributo riservato ai
classici («rappresentano una mirabile opera d’arte»)125; eppure, il critico vi riscontra
una mancanza di concentrazione e brevità:
121 Ivi, pp. 366-67.
122 Ivi, p. 367.
123 Ibid.; ad esemplificare tale misantropia è riportato Le Chien et le Flacon.
124 Ivi, p. 368.
125 Ivi, p. 370.
Pica e i «poemucci in prosa» 213
si potrebbe osservare che alcuni di essi peccano per prolissità e contengono particola-
ri minuziosi e divagamenti superflui, e che a volte l’autore sceglie la forma aneddotica
o dimostrativa, le quali contribuiscono non poco a menomarne l’efficacia e l’intensità
emozionale126.
Pica insomma giudica già secondo i parametri di Des Esseintes: il poemetto in prosa
deve proporsi la massima “concisione suggestiva” e, come si sa, non è a questo risul-
tato che arriva l’eterogenea raccolta, postuma, di Baudelaire.
Arriviamo dunque, per contrasto, a Mallarmé: la superiorità dei poemetti in pro-
sa di Mallarmé rispetto a quelli di Baudelaire è motivata dalla «perfezione plastica e
musicale di forma» e dalla «suggestiva quintessenza di contenuto»127. Pica motiva, in-
nanzitutto, la mancanza di un volume che raccolga i poemetti in prosa: Mallarmé,
«persuaso da una rara modestia e da un rispetto religioso ed esagerato per l’Arte», li
ha stimati non corrispondenti «all’alto concetto da lui formatosi di un Libro, architet-
tonico cioè, omogeneo, ritmico»128; con le stesse parole Mallarmé si scuserà ancora
per le proprie Divagations («Un livre comme je ne les aime pas, ceux épars et privés
d’architecture»).
Già nel citato intervento del 1887, Watteau e Verlaine, Pica aveva avuto modo di
accennare ai poemetti in prosa di Mallarmé:
Del resto io intendo le ostilità contro Stefano Mallarmé, il quale […] non potrà mai
esser compreso e gustato, per le volontarie astruserie e per il troppo complicato e sot-
tile simbolismo dei suoi versi, che da un piccolo e scelto stuolo di persone soltanto,
benché i suoi affascinanti poemucci in prosa, Plaintes d’Automne, Frisson d’Hiver, La
Pipe, Le fusain, Le Spectacle Interrompu, Le Phénomène futur ed altri ancora, sieno di
una perfetta chiarezza e dovrebbero essere letti e riletti da tutti […]129.
Fascino, qualità ricorrente, e, finalmente, chiarezza: Pica trovava nei poemetti in pro-
sa, che andava leggendo proprio su consiglio dello stesso Mallarmé, il vantaggio della
fruibilità.
Mallarmé scrisse poco più che una decina di poèmes en prose; l’edizione di Mon-
dor e Jean-Aubry ne conta, nella sezione che porta questa etichetta, dodici; le nuove
opere curate da Marchal (1998) ripristinano anche un tredicesimo. Un primo gruppo
di sette poèmes risale al 1864, anche se gli stessi furono poi ripubblicati con variazioni
126 Ibid.
127 Ibid.
128 Ivi, pp. 370-71.
129 V. Pica, Watteau e Verlaine, in Id., All’Avanguardia, cit., pp. 357-58.
214 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
nel titolo e nel testo: Plainte d’Automne (inizialmente con titolo L’orgue de Barbarie),
Frisson d’Hiver (in precedenza, Causerie d’hiver), Réminiscence (inizialmente con ti-
tolo L’orphelin)130, Pauvre Enfant Pâle (inizialmente con titolo La tête; poi Fusain, in
«Le Décadent», 7 agosto 1886), La Pipe, Le Phénomène futur, Le Démon de l’Analogie.
Un secondo gruppo, «d’une style visiblement différent» secondo Mondor e Jean-
Aubry, è composto da Le Nénufar Blanc (1885), La Gloire (1886), L’Ecclésiastique
(1886) e La Déclaration Foraine (1887). Tra i due raggruppamenti si colloca, risalente
ad una data intermedia, il 1875, Un Spectacle Interrompu131; a questi dodici, è stato
giustamente aggiunto Conflit (1895)132.
La maggior parte dei poèmes en prose furono editi in un volume intitolato Pages
(Deman, Bruxelles, 1891) e in seguito costituirono la sezione «Anecdotes ou poèmes»
di Divagations (1897). In apertura delle Divagations Mallarmé scriveva, ad excusatio
preventiva: «Un livre comme je ne les aime pas, ceux épars et privés d’architecture»,
quasi a sottolineare la posizione defilata della scrittura di prosa di un sacerdote della
poesia, dedito ad un misterioso «Grand Œuvre» che, come l’Assoluto, rimane inattin-
to e irraggiungibile. Come scrive Colesanti, «Mallarmé scrive e pubblica in riviste po-
esie e “poèmes en prose” (e non certo in abbondanza), ma pensa alla Poesia»133.
La collocazione dei poèmes en prose nell’ambito dell’opera di Mallarmé non è pe-
rò scontata, com’è testimoniato dalle due edizioni citate: Mondor e Jean-Aubry rive-
lavano tale difficoltà nel decidere la posizione di Conflit, che stentavano a classificare
come poème en prose, preferendo ripristinarlo al più modesto stadio di variation
(confliggendo però, in effetti, con la volontà di Mallarmé). L’incertezza rimane anche
nel nuovo curatore, Bertrand Marchal: a incrinare il piano delle opere, che prevede di
porre nel primo volume «l’œuvre proprement poétique, c’est à dire créatrice, de Mal-
larmé, qu’elle soit en vers ou en prose» e, nel secondo, «l’ œuvre critique (et pédago-
gique)», concorre, puntualmente, la classificazione dei poèmes en prose134. Conscio
130 Il testo è fortemente modificato per la pubblicazione in Pages (1891).
131 Cfr. H. Mondor, G. Jean-Aubry, Notes et variantes, in S. Mallarmé, Œuvres complètes, Gallimard, Paris
1945, pp. 1547-61.
132 I curatori dell’ed. 1959 riportavano Conflit nella sezione Variations sur un sujet (titolo delle cronache
di Mallarmé sulla «Revue Blanche» nel 1895), ma Mallarmé l’aveva spostato tra i Poèmes en prose nel
volume Divagations (1897).
133 Macchia, Colesanti, La letteratura francese dal Romanticismo al Simbolismo, cit., p. 314.
134 «Une difficulté demeurait cependant, puisque la répartition choisie entrait en contradiction, dans le cas
de Divagations qui comporte une section poétique (les poèmes en prose), et une section critique, avec le
respect de l’intégrité des recueils» (B. Marchal, Note sur la présente édition, in S. Mallarmé, Œuvres
complètes, édition présentée, établie er annotée par B. Marchal, Gallimard, Paris 1998, I, p. LXV). Così il
piano delle opere impone una duplicazione dei testi: i tredici poèmes vengono presentati nel primo
volume (sezione Poèmes en prose) e riproposti nel secondo (sezione Divagations); da una parte, infatti,
Pica e i «poemucci in prosa» 215
della difficile collocazione, Marchal tenta una definizione dei poemetti in prosa di
Mallarmé che tenga conto del contatto con gli altri scritti saggistici del volume Diva-
gations, proponendo la formula di «journalisme poétique»:
Choses vues, si l’on veut – et le locuteur se représente volontiers en spectateur ou en
voyeur -, mais la vue se prolonge en vision, et l’anecdote en rêverie: comme le mani-
feste le début d’«Un spectacle interrompu», le fait divers est ici la matière première
d’un journalisme poétique voué à «remarque[r] les événements sous le jour propre au
rêve»135.
Torniamo dunque al saggio di Pica, e notiamo che il critico elenca quasi tutti i
poèmes en prose di Mallarmé già scritti a quella data (concludendo con un «ecc.» che
accenna agli omessi): Fusain (titolo di Pauvre Enfant Pâle all’altezza del 1886), Le
petit saltimbanque, L’orphelin (qui Pica cita un titolo che Mallarmé aveva dato in «La
Revue des Lettres et des Arts», 24 novembre 1867; poi modificato e pubblicato come
Réminiscence a partire dal 1872), Le Démon de l’Analogie, La Pipe, Plaintes
d’Automne (qui Pica conosce il titolo adottato al posto di L’orgue de Barbarie a parti-
re dal 1875, anche se prende un singolare per un plurale), Frisson d’Hiver (idem: Pica
conosce il nuovo titolo adottato dal 1875)136, Le Phénomène futur, Le Nénufar Blanc,
L’Ecclésiastique, La Gloire.
Possiamo dunque vedere che le letture di Pica sono sostanzialmente aggiorna-
te137, grazie anche al rapporto diretto con la Francia. All’altezza del 1888, i poemetti
in prosa di Mallarmé non erano ancora raccolti nel volumetto Pages; per conoscerli
bisognava aver seguito le pubblicazioni in rivista; solo quattro di essi venivano allora
pubblicati in Album de vers et de prose138. Pica dunque presenta effettivamente testi
poco noti in Italia anche per un lettore che conosca il Mallarmé poeta, e li ritiene in-
dispensabili per una propedeutica ai «signes sévères, chastes, inconnus»139 del poeta
“aristocratico”. In nota, infatti, afferma di aver vinto «molte feroci ed ostinate ostilità,
rientrano nell’ambito della creazione letteraria, dall’altra va pur salvaguardata la volontà di Mallarmé, che
li inserì in un volume miscellaneo, accanto a pièces di natura eminentemente saggistica.
135 B. Marchal, Notices, notes et variantes, ivi, p. 1329.
136 Entrambi, Plainte d’Automne e Frisson d’Hiver, vengono presentati con nuovo titolo in «La République
des lettres», 20 dicembre 1875.
137 A parte il caso di Le Fusain, per il quale il critico non sembra conoscere la versione con titolo
modificato.
138 S. Mallarmé, Album de vers et de prose, Librairie Nouvelle, Bruxelles; Librairie Universelle, Paris 1887-
1888. Il volume conteneva, nella sezione «Prose»: Plainte d’automne, Frisson d’hiver, La Gloire, Le
Nénuphar blanc.
139 Id., Hérésies artistiques. L’Art pour tous, «L’Artiste», 15 septembre 1862; si cita da Id., Œuvres
complètes, a c. di H. Mondor e G. Jean-Aubry, Gallimard, Paris 1945, pp. 257-60.
216 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
nella mia privata propaganda a favore del Mallarmé», «mercé cotesti incantevoli po-
emucci in prosa», e cita, come esempio, le due scrittrici «donna Emilia Pardo-Bazan»
e «la Contessa Lara»:
Ma i poemucci in prosa rappresentano nell’opera del Mallarmé una parte accessibi-
le a tutti che, pur rimanendo squisita, sottile e raffinata, non richiede punto quella
paziente, anticipata preparazione, che ci vuole per interpretare e gustare le sue poesie
[…]140.
Per informare i lettori di un lavoro per lo più oscuro, Pica riporta dunque il testo
francese di Frisson d’hiver, «in cui con finezza incantevole, dicesi la grâce des choses
fanées». Il poemetto è inteso come una discesa in un mondo di sogni e in un passato
da immaginare, mentre La Pipe dovrebbe essere prova di un’altra qualità:
il sublime sognatore […] sa anche essere, quando vuole, un osservatore minuzioso
dei piccoli fatti della nostra esistenza quotidiana e sa mirabilmente esprimere la soave
melanconia delle cose e le nostalgie indomabili, che esse risvegliano nell’anima141.
Nella Pipe, il critico napoletano riconosce la capacità di evocazione di una realtà
complessa a partire da un semplice oggetto, fatto che aveva colpito anche Eugène Le-
fébure, che scriveva a Mallarmé (13 maggio 1864): «dans la Pipe vous donnez la sen-
sation vraisemblable de Londres»142:
Come è commovente nella sua semplicità e nella sentimentale tenerezza della nota fi-
nale, e come è efficace nella scelta dei particolari osservati dal vero e che dinanzi agli
occhi del lettore evocano quasi per incanto, la visione della grandiosa metropoli in-
glese!143
Per Plaintes d’automne (sempre con l’errato plurale), «in cui Mallarmé confessa i
suoi gusti raffinati di decadente»144, e per Le phénomène futur, Pica tenta in nota, mo-
destamente, una traduzione italiana («ingegnandomi […] di serbare le squisitezze sti-
listiche e la sapiente soave musicalità dell’originale»)145. Le traduzioni sono in effetti
improntate ad una fedeltà maggiore di quelle di Ragusa Moleti; i movimenti sintattici
140 Pica, Poemucci in prosa. Aloïsius Bertrand, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé, cit., pp. 371-72.
141 Ivi, p. 374.
142 S. Mallarmé, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1945, pp. 1547-61, p. 1558.
143 Pica, Poemucci in prosa. Aloïsius Bertrand, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé, cit., p. 375.
144 Ivi, pp. 375-76.
145 Ivi, p. 375.
Pica e i «poemucci in prosa» 217
della prosa, giustamente interpretati come espedienti di musicalità, sono per lo più
conservati.
Dalla traduzione di Plaintes d’automne si chiarisce, ad esempio, il motivo per cui
Pica ritiene semplici e significativi i poemetti in prosa di Mallarmé: il gusto per la
«caduta» vi è esplicitato in maniera quasi didascalica, svolgendosi in gesti baudelai-
riani (il gatto «compagno mistico», l’amore per la «decadenza latina») o in palesi
simbologie (il crepuscolo, l’autunno)146. Lo stesso vale per Le phénomène futur, coa-
cervo di «decrepitezza» e culto poetico del «Bello»147. La nota rivela anche uno dei
motivi principali per cui Pica si è dedicato al poemuccio in prosa, provandosi anche
nell’ingeneroso compito del vertere: fornire in anteprima la notizia che si va prepa-
rando un’edizione «dei due surriferiti poemucci, e di parecchi altri ancora».
Pica si dimostra, ancora una volta, ben aggiornato sui lavori in cantiere di Mal-
larmé: per i poemetti in prosa, dunque, dà notizia dell’«edizione di gran lusso, con
acqueforti dei chiari pittori impressionisti Degas, Renoir, Berthe Morisot e Lewis-
Brown, che ne prepara il Vanier di Parigi»148. Contagiato dal giapponismo parigino,
ma ancor più affascinato dal possibile incontro tra testo e immagine, Mallarmé aveva
infatti progettato un volume dal titolo Le Tiroir de lacque, arricchito dai lavori di
John Lewis Brown (incaricato di fornire la copertina con un ritratto di Méry Laurent
in stile giapponese), Mary Cassatt, Degas, Monet, Berthe Morisot e Renoir; l’idea fu
abbandonata intorno al 1890, e il volume fu poi trasformato in Pages.
Ancora alcuni cenni mirano a suscitare curiosità: Fusain rivela «pietose e tragiche
riflessioni», Le spectacle interrompu identifica, nella conclusione, la natura dell’opera
di Mallarmé, con la sua «façon de voir» diversa e, in ultimo, superiore. In conclusio-
ne, si ripete il punto cardine dell’argomentazione: «al contrario di buona parte dei
versi di Mallarmé», i poemetti «sono di una perfetta chiarezza»149.
Dei poemetti in prosa di Mallarmé Pica si occuperà ancora, nello stesso 1888
(Due poemucci di Mallarmé, sul «Fortunio»), nel 1890 (Dai «Poemucci di prosa» (di
St. Mallarmé), ancora sul «Fortunio»), nel 1896 (Poemucci in prosa (dal francese di
146 Ivi, pp. 375-77.
147 Ivi, pp. 377-78.
148 Ivi, p. 378. Si noti che Pica fa riferimento agli stessi nomi citati da Mallarmé nella «page de titre» della
«maquette» inviata da Mallarmé a Edmond Deman nel febbraio 1888: «avec illustrations, en couleur sur
la couverture, / de John Lewis Brown, à l’eau-forte et à la pointe-sèche de Madame Berthe Morisot, / de
Renoir et Degas». Semmai, Pica è evidentemente male informato sull’editore; lo stesso Mallarmé aveva
peraltro proposto il lavoro ad altri (Tresse et Stock, Dentu). Cfr. B. Marchal, Notice, notes et variantes, in
Mallarmé, Œuvres complètes, cit., II, p. 1676-77.
149 Ivi, pp. 377-78.
218 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Stefano Mallarmé), sul «Marzocco»150, per arrivare al 1898. In quell’anno, pubblican-
do un ampio saggio su Mallarmé in Letteratura d’eccezione, Pica dedicò un paragrafo
ai «poemucci» di Mallarmé, nel quale riprendeva le parole dell’analisi condotta nel
1888, a partire dalla presentazione del “genere” attraverso Bertrand e Baudelaire. Nel
frattempo, però, viene aggiornata la bibliografia, i poemetti salgono a tredici e la lista
completa corrisponde all’indice di Divagations, a cui Pica fa riferimento; il critico dà
notizia anche del volume Pages del 1891, «elegantissimo», «ornato da un frontespizio
all’acquaforte del Renoir»151, e abbozza una ricostruzione delle vicende editoriali di
ogni poemetto, che dà conto della variazione dei titoli, pur soffrendo di qualche im-
precisione152.
Ancora dei poemetti in prosa di Mallarmé si parla con Alberto Martini, in una
lettera del 21 ottobre 1908 che testimonia nuovamente l’attenzione alla storicizzazio-
ne di un “genere” inedito; Pica non ha dimenticato i poemetti di Mallarmé, ed anzi li
ha consigliati a Martini proponendo le proprie traduzioni:
Eccovi il titolo del volume che mi domandate: Vers et prose par Stéphane Mallarmé
[…]. È bene che arriviate ai poemucci in prosa di Mallarmé dopo Baudelaire e Poe,
cosa che non sarebbe avvenuta se aveste seguito le incitazioni che vi feci, consegnan-
dovi, manoscritte, le traduzioni di alcuni poemucci mallarmeiani, perché già preve-
devo ed intravedevo nel Martini di tre anni fa il Martini di oggi e di domani […]153.
L’auspicio di un’illustrazione da parte di Martini ricorre da parte di Pica più volte, e
si accompagna anche all’idea della resa grafica come interpretazione:
150 V. Pica, Due poemucci di Mallarmé, «Fortunio», I, 16 dicembre 1888; Id., Dai «Poemucci di prosa» (di
St. Mallarmé), «Fortunio», III, 18 luglio 1890; Id., Poemucci in prosa (dal francese di Stefano Mallarmé),
«Il Marzocco», I, 19, luglio 1896.
151 Id., Stéphane Mallarmé, cit., p. 126.
152 Cfr. ivi, pp. 125-26.
153 Pica a Martini, 21 ottobre 1908, in Un’affettuosa stretta di mano. L’epistolario di Vittorio Pica ad
Alberto Martini, a c. di M. Lorandi, con la coll. di O. Pinessi, Viennepierre, Monza 1994, p. 101. Annota
Lorandi: «Esiste presso l’archivio degli eredi a Milano un piano di lavoro manoscritto e autografo relativo
alla realizzazione dei disegni per i Petits poèmes en prose di Stéphane Mallarmé dal dicembre del 1908 al
gennaio 1909 […]. I disegni realizzati sono 9 e tutti eseguiti a penna (di alcuni c’è la riproduzione in
vecchi cataloghi), purtroppo gli originali nella versione definitiva sono dispersi ad eccezione de Le
nenuphar blanc (Collezione privata, Milano). Esistono comunque alcuni dei bozzetti preparatori a matita,
straordinari già per esecuzione quali Pla[i]nte d’automne, La Pipe, Le phénomène futur, Frisson d’hiver e
L’Ecclésiastique» (ivi, p. 101-02).
Pica e i «poemucci in prosa» 219
Nel volume di Mallarmé che vi spedisco [Vers et prose] troverete i nuovi poemetti in
prosa, squisitamente e deliziosamente suggestivi, che una volta io ho desiderato di
vedere graficamente commentati da voi154.
Una volta che Martini abbraccia il progetto, non mancano le indicazioni del suo criti-
co, che scalpita per vedere un testo d’elezione illustrato dal compagno di un sodalizio
umano e artistico tra i più virtuosi nel primo Novecento:
Sono lieto molto che vi siate deciso ad illustrare i poemucci in prosa di Mallarmée de-
sidero tanto di vedere il disegno già eseguito. Forse il meglio sarebbe eseguire per cia-
scun poemuccio una testata, una iniziale figurata ed un finale155.
Pica, critico formato sui grandi affreschi delle Comédies Humaines naturaliste,
non è pronto a concedere tanto: che i “simbolisti” si approprino anche della prosa,
scardinandone i principi fondamentali. Così, il poemetto in prosa rimane un’attività
secondaria di grandi poeti come Mallarmé; tali componimenti sono da leggere quale
anticamera alla poesia, spesso di difficile approccio, quasi appunti per poesie non
scritte, dove il demone dell’analogia non ha ancora danneggiato troppo lo scheletro
dei significati. Viene da chiedersi se Rimbaud, con la pericolosa commistione di poe-
sia e prosa, non ponesse troppi dubbi al critico, pur abituato alle oscurità di Mallar-
mé, e se, proprio per questo, sia rimasto un autore inesplorato.
È stato detto che Pica, improntato interamente ad una formazione di “critico”, a
differenza della scuola crociana, ha il difetto di puntare troppo ed esclusivamente lo
sguardo sulla fruizione156. Tale tendenza si riscontra nella presentazione del poemetto
in prosa come genere, letto in funzione di una ricezione facilitata di alcuni elementi,
tematici e formali, dell’arte aristocratica. Eppure, l’erede italiano di Des Esseintes era
sinceramente affascinato dall’essenza di una prosa tendente alla poesia, proiettata,
nella propria libertà, verso le altre forme d’arte (la musica per le qualità suggestive, la
pittura per il gusto della pennellata rapida e decisa); nel 1908, ancora non aveva di-
menticato questa parte della produzione di Mallarmé e scalpitava d’impazienza
all’idea di vederli, rinnovati da un’originale interpretazione, attraverso l’estro di Al-
berto Martini.
2.4 I colori della vita vera, «ma pur sempre frammentariamente»: Dossi, “neo-
bizantino” in Italia
154 Pica a Martini, 12 novembre 1908, ivi, p. 106.
155 Pica a Martini, 23 dicembre 1908, ivi, p. 109; Martini non seguì questo consiglio (cfr. ivi, pp. 15-16).
156 Cfr. R. Fantasia, G. Tallini, Poesia e rivoluzione. Simbolismo, crepuscolarismo, futurismo, Angeli,
Milano 2004, p. 78.
220 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
A conti fatti, non sono molti gli autori italiani ai quali Pica dedica attenzione critica,
come si vede scorrendo i volumi di saggi pubblicati, dove gli autori presenti sono
davvero pochi: attraverso il Naturalismo giunge a Capuana, una breve parentesi lo
avvicina al Di Giacomo, la passione per l’arte bizantina lo conduce a Dossi prima, a
d’Annunzio poi, unici italiani della conferenza Arte aristocratica. Affrontando la que-
stione dal punto di vista delle traduzioni di testi italiani in lingua francese (Pica tra-
duce, oltre ai propri articoli, anche «varie recenti poesie italiane»), scopriamo altri
fatti degni d’attenzione. Occupandosi di poesia italiana per la «Revue indépendante»
nel 1887157, Pica presenta il panorama letterario italiano e, tra le poesie volte «in prosa
francese», ne figurano alcune di d’Annunzio (dall’Isotteo, dalla Chimera e dal Canto
novo), altre di Emilio Praga, Tarchetti, Guerrini, Carducci, Contessa Lara, Giovanni
Alfredo Cesareo. Oltre a d’Annunzio, rappresentante del bizantinismo italiano in po-
esia, al Cesareo (amico di Pica ed autore dei Canti sinfoniali, tentativo di rinnova-
mento metrico al di là dell’artificioso verso), alla Contessa Lara (lettrice dei poemetti
in prosa di Mallarmé su proposta di Pica, ella stessa traduttrice di Rodenbach) e
all’indiscusso Carducci, ritroviamo dunque i nomi di due poeti scapigliati e del loro
epigono. La poesia scapigliata, seppur non recentissima, viene presentata al pubblico
francese dal traduttore napoletano, che vi rintraccia probabilmente i primi rapporti
con la poesia d’oltralpe, un pessimismo filosofico e una svolta in direzione dell’“arte
per l’arte” e dell’“eccezione”, seppur declinata in toni da maudits.
In apertura dell’articolo, Pica ricorda il 1877, con la pubblicazione delle Odi bar-
bare di Carducci, di Postuma di Guerrini e di Lyrica di Panzacchi, come anno di svol-
ta, sia per la rinnovata fioritura poetica che per un rinnovato interesse da parte del
pubblico verso la poesia. Rievocando il periodo precedente all’«année miraculeuse»,
Pica ricorda come la poesia italiana languisse tra i canti di Prati, «d’un splendide ro-
mantisme nordique», ma adatti per lo più a «jeunes gens», le liriche di Aleardi, che,
improntate ad una «musique soave», ma «monotone», conquistano per lo più le da-
me sentimentali, e i componimenti dell’abate Zanella, «d’une pureté vraiment classi-
que»158, ma adatte soprattutto ai professori.
157 V. Pica, Chronique Littéraire Italienne. La poésie en Italie, «Revue Indépendante», serie III, tomo II, n.
5, marzo 1887, pp. 346-361 (in calce: «Naples, ce 15 février 1887»); dell’articolo si trova traccia in una
cartolina a Federico De Roberto: «Vi manderei volentieri il mio ultimo articolo sui poeti contemporanei
italiani, pubblicato sulla “Revue Indépendante”, ma non ho che la mia copia: se lo volete leggere potete
chiederlo all’amico Capuana il quale credo che riceva regolarmente tale rivista. Del resto non è che una
riduzione ed in parte un ampliamento della mia prefazione ai versi di Casa e di interessante proprio nulla
contiene, a meno che non sembrino interessanti agli occhi vs. le traduzioni in prosa francese da me
tentate di varie recenti poesie italiane» (Lettera del 29 aprile 1887, in V. Pica, Lettere a Federico De
Roberto, con introduzione e note di G. Maffei, Fondazione Verga, Catania 1996).
158 Pica, Chronique Littéraire Italienne. La poésie en Italie, cit., p. 347.
Pica e i «poemucci in prosa» 221
Pica oppone invece, a questi, i poeti della Scapigliatura159, Praga, Tarchetti e Boi-
to, che ritiene doveroso illustrare con l’ausilio di traduzioni:
C’est un devoir pourtant de rappeler qu’une note humaine, jeune, nerveusement et
inquiètement moderne avait résonné dans des œuvres qui ne furent appréciées à leur
juste valeur qu’après 1877 et qui furent, à cette époque de réveil littéraire, un peu trop
exaltée: œuvres de trois jeunes écrivains, Emilio Praga, Iginio Ugo F[T]archetti et Ar-
rigo Boito; ils appartenaient à ce cénacle de littérateurs et d’artistes lombards menés
par Rovani et dont plusieurs tombèrent victimes d’une folle imitation des mœurs dé-
braillées et alcoliques de la bohème parisienne160.
Inquietudine, umanità, giovinezza stroncata dall’imitazione dei costumi della bohème
e modernità: è questo il portato di tali poeti che, secondo Pica, furono rifiutati ini-
zialmente e, dopo il 1877, forse troppo esaltati. Nel breve profilo di Emilio Praga poe-
ta, Pica cita i tre volumi dalla sensibilità in effetti più innovativa, compresa la pro-
blematica raccolta postuma, mentre sembra addirittura ignorare l’esistenza di Fiabe e
leggende, l’episodico rifugio praghiano in fantasie medioevali; è il segnale che, proba-
bilmente, all’epoca, negli ambienti “bohème”, frequentati a Napoli anche da Pica, cir-
colava il Praga pre-decadente di quelle tre raccolte, anche se ristampe varie avevano
messo a disposizione dei lettori tutta la produzione poetica praghiana161. Il giudizio
su Praga riecheggia le parole con cui Carducci e poi Croce lo presentarono, non reali-
sta ma malato di idealismo («Povero Praga, realista lui? lui inzuppato, anzi ammalato,
d’idealismo?»)162:
D’Emilio Praga, mort très jeune ainsi que F[T]archetti., nous restent trois volumes
de vers, F[T]rasparenze, Penombre er F[T]avolozza, auxquels on pardonne l’excessive
bizzarrerie des images, les imperfections de forme, les fréquentes réminiscences de
159 Tra le lettere di Cameroni a Pica rimane traccia di una richiesta di informazioni e aneddoti sulla
«bohème milenese», nel 1895, probabilmente ad uso di Ettore Moschino, l’«amico» di Pica che deve
tenere una conferenza al Circolo Filologico sull’argomento. Cameroni è piuttosto evasivo, afferma di non
aver conservato «neppure un opuscolo» di quel periodo, ma dà alcuni consigli. Se Moschino si era rivolto
a Pica (il quale ricorreva al “testimone” Cameroni) era perché lo riteneva conoscitore, per quanto
parziale, della letteratura scapigliata (cfr. lettera del 21 dicembre 1895, in F. Cameroni, Lettere a Vittorio
Pica 1883-1903, a c. di E. Citro, ETS, Pisa 1990, pp. 144-45).
160 Pica, Chronique Littéraire Italienne. La poésie en Italie, cit., p. 347.
161 Non citiamo le prime edizioni, ma le pubblicazioni successive, tra il 1879 e il 1897: E. Praga, Penombre,
Casanova, Torino 1879; Id., Tavolozza, Casanova, Torino 1883; Id., Fiabe e leggende, Casanova, Torino
1884; Id., Tavolozza, Casanova, Torino 1889; Id., Penombre e Trasparenze, Casanova, Torino 1889; Id.,
Poesie postume - Trasparenze, Casanova, Torino 1897.
162 G. Carducci, Dieci anni a dietro (1883), in Id., Opere, ed. naz., vol. XXIII (Bozzetti e scherme),
Zanichelli, Bologn 1937, pp. 250-51.
222 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Baudelaire, de Musset et d’autres poètes français, parce qu’on y trouve une passionée
intensité de sentiment, une affactuosité exquise, et surtout une sincérité à montrer
l’âme du poète, malade d’idéalisme et saignante au contact épineux des brutales ou
vulgaires misères de la vie. Voici une courte pièce, que je choisis dans son délicieux
Canzoniere del Bimbo (Le Chansonnier de l’Enfant): [...]163.
Non per questo, però, Pica ricerca l’originalità di Praga nella «immediata e lieta e
sincera percezione della natura», nella «bonomia arguta tra di campagnolo e di pitto-
re» delle «prime e più ingenue poesie»164. Di Praga si apprezzano l’idealismo ferito a
contatto con la realtà e un’autenticità che trapela, ad esempio, nel Canzoniere del
bimbo di Penombre; da lettore scaltrito, però, Pica traduce una poesia che, a partire
dalla pace del focolare domestico, introduce immagini raffinate e sottili: macchie di
colore a descrivere il tramonto, «un petit chat noir», che «rêve sono long rêve de
mystère», e, infine, un mesto scandaglio delle profondità dell’animo alla ricerca delle
«perle» di poesia, con una moderna catabasi in direzione della coscienza: «come un
mesto palombaro nel mare, / io discendo nel cor che Iddio m’ha dato, / e mi guida le
perle a rintracciare // il respiro del bimbo addormentato»165.
Si tratta insomma di un Praga intimista, il cui destino si incontra ancora con
quello di Baudelaire, che veniva riletto in ambito italiano depurato dalla componente
ribellistica, e decisamente proiettato sul piano dell’esplorazione dei “fondali” della
coscienza; così, Salvadori parla di Baudelaire, nel 1883, come poeta-palombaro:
La sua è arte di palombaro: egli cala sotto le acque con la sicurezza di chi sa vedere,
cala nei baratri più neri, li abbraccia, li scruta, li penetra, fino a che non abbia acqui-
stato quella precisione di topografia spirituale che in lui riesce quasi paurosa, tanto è
sopra il comune. […] Così, leggendo Fleurs du Mal, come del resto i petits poèmes en
prose, come qualunque altro scritto di Baudelaire, par di trovarsi in un mondo scono-
sciuto e pauroso166.
Al di là dei giudizi sui protagonisti, la differenza sostanziale tra le interpretazioni
di Pica e Carducci riguarda, a ben vedere, le ipotesi di storicizzazione. Per Carducci la
generazione dei poeti scapigliati sarà presto dimenticata («Chi si ricorda più della po-
163 Pica, Chronique Littéraire Italienne. La poésie en Italie, cit., p. 347-48.
164 Ivi, p. 252.
165 Praga, Poesie, cit., p. 115. Questa è la traduzione di Pica: «ainsi que dans la mer un sombre plongeur, -
je descends dans le cœur que Dieu m’a donné ; - et me conduit à retrouver les perles – le souffle de mon
petit enfant endormi» (Pica, Chronique Littéraire Italienne. La poésie en Italie, cit., p. 348).
166 G. Salvadori, La retorica dell’isterismo. Maurizio Rollinat (1883), in Scritti bizantini, a c. di N. Vian,
Cappelli, Bologna 1963, pp. 143-44.
Pica e i «poemucci in prosa» 223
esia italiana di dieci o undici anni sono?»)167, in quanto invischiata in un tardo ro-
manticismo poco interessante e poco salutare, dal quale si salverebbero piuttosto Bet-
teloni e i predecessori Aleardi e Prati («il solo veramente e riccamente poeta della se-
conda generazione dei romantici in Italia»)168. Per Pica invece essi fanno parte della
storia della poesia italiana, dove rappresentano un primo tentativo per svincolarsi dai
paludamenti di Aleardi, Prati e Zanella. Questi ultimi sono significativamente citati
senza l’ausilio di traduzioni e senza un accenno di bibliografia, decisamente allonta-
nati, implicitamente, in un datato Romanticismo sentimentale. I poeti scapigliati in-
vece sono da Pica inclusi tra i «recenti» poeti italiani, e tradotti ad uso del lettore
francese che voglia conoscere gli sviluppi della poesia italiana contemporanea.
Tarchetti, di cui Pica ricorda, per la prosa, Fosca, «l’un des meilleures romans ita-
liens parus en ces derniers vingt ans», si è rivelato in seguito alla pubblicazione po-
stuma di Disiecta, poeta di ispirazione discontinua, ma «d’une mélancolie suave et
nuancée d’ironie»169; viene tradotto il sonetto Elle était si frèle et si menue, scegliendo,
anche in tal caso, un testo significativo170, e segnalando una profonda distanza
dall’interpretazione carducciana171.
Si passa dunque a Boito, definito senza indugio «talent plus robuste, plus équili-
bré, plus savamment assimilateur»:
Enfin Arrigo Boito, talent plus robuste, plus équilibré, plus savamment assimila-
teur, qui s’est ensuite avec le Mefistofele affirmé puissant musicien, a produit une poé-
sie bizarre, jaillissant, au contraire de celles de ses deux amis, de cerveau plutôt que de
cœur et qui parfois réfléchit l’influence de la poésie française moderne, mais plus
souvent celle de poésie allemande172.
Di Boito dunque si afferma, condividendo un giudizio che anche Ragusa Moleti ave-
va espresso, che la poesia nasce dalla “testa” più che dal “cuore”; nessun giudizio ne-
gativo segue, ma sarà da rimarcare il fatto che, di Boito, Pica non ritiene doveroso
167 Carducci, Dieci anni a dietro, cit., p. 237.
168 Ivi, p. 241.
169 Pica, Chronique Littéraire Italienne. La poésie en Italie, cit., p. 348.
170 Riportiamo l’inzio e la fine della traduzione : «Elle était si frèle et si menue – que, plus que de l’amour,
j’avais pour elle de la pitié; - sa tête mignonne semblait celle d’un ange, - tant elle était diaphane, tant elle
était pieuse. [...] Toute pleine elle était de délicatesses, - de tout elle pleurait, de tout elle souriait, - elle
vivait de bonbons et de caresses : - eh bien, cette fleur si délicate et fragile – a détruit ma jeunesse
vigoreuse, - à brisé de mon cœur la vaillante fermeté» (Ibid.).
171 Carducci scriveva che «l’ammirazione pe ‘l sonetto “Ell’era così gracile e piccina” è una miserabile pro-
va del rammollimento di cervello a cui quella che il Proudhon chiamava “scrofola romantica” aveva con-
dotto la gente» (Carducci, Dieci anni a dietro, cit., p. 248).
172 Pica, Chronique Littéraire Italienne. La poésie en Italie, cit., p. 349.
224 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
presentare traduzioni; si noterà, inoltre, l’assenza del benché minimo riferimento alla
pubblicazione del Libro dei versi, che appariva appunto, per i tipi di Casanova, nel fa-
tidico 1877.
Già frequentatore, dunque, di letterature scapigliate, informato da Cameroni e da
lui sollecitato alla lettura di Dossi, Pica dedica ad Alberto Pisani un articolo pubblica-
to nel luglio 1887173, per porre all’attenzione dei lettori un «caso letterario», che «è
molto curioso ed interessante e meriterebbe di essere studiato»174. Ma già preceden-
temente Pica aveva dimostrato di conoscere e apprezzare Dossi, come rappresentante
fondamentale, nell’Italia contemporanea, dell’umorismo. Nel 1875, infatti, il critico si
era trovato a recensire due conferenze di Giorgio Arcoleo dedicate all’«Umorismo
nell’arte moderna»; ripercorrendo il percorso del conferenziere napoletano, Pica ac-
cenna ad alcune definizioni dell’umorismo fornite dagli autori, plaudendo alla scelta
di non definire ma osservare il problema, e ricostruisce con l’Arcoleo una possibile
storia della letteratura umoristica. Informato sull’argomento, Pica discute le opinioni
dell’Arcoleo e le compara a quelle del Nencioni, che dell’argomento si era occupato,
delineando poi alcune posizioni precise, nient’affatto banali, in contrasto con en-
trambi. In prima battuta, tra gli umoristi stranieri soggiorna di diritto, per Pica, Poe,
«il novelliere geniale, il critico acuto e profondo»175; in secondo luogo, per il panora-
ma italiano, né Arcoleo né Nencioni vedono giusto: Pica conterebbe tra gli umoristi
Carducci, come Nencioni, ma escluderebbe molti altri per portare piuttosto
l’attenzione sul Dossi, da entrambi «completamente dimenticato»176. L’altra opinione,
sempre acuta, di Pica, riguarda l’affermazione dell’Arcoleo, secondo cui «l’umore può
trovarsi soltanto nella letteratura e che alle altre arti è negato»177: il confine tra le arti
non è, per Pica, così netto, e tutte possono esprimere «quel complesso di sentimenti
opposti da cui zampilla l’umorismo»178.
173 Id., Carlo Dossi. A proposito di un suo nuovo libro [Rec. a C. Dossi, Amori], «Fanfulla della Domenica»,
IX, 27, 3 luglio 1887; poi con titolo Carlo Dossi, in Id., All’Avanguardia, cit.; il testo è ripubblicato anche
in «Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit. A Pica è da
attribuirsi, secondo Citro (cfr. F. Cameroni, Lettere a Vittorio Pica (1883-1903), a c. di E. Citro, ETS, Pisa
1990, p. 19), anche una segnalazione sull’Altrieri (in occasione della ristampa 1881: cfr. «Fantasio», I, 1, 10
agosto 1881); nutre ragionevoli dubbi D’Antuono (cfr. N. D’Antuono, Note e commento, in Pica, «Arte
aristocratica» e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit., p. 312). A
proposito della recensione ad Amori si veda A. Gaudio, II lettore e il silenzio dell'opera. L'umorismo di
Carlo Dossi al vaglio di Vittorio Pica, «Esperienze letterarie», XXXII, 2, aprile-giugno 2007, pp. 21-34.
174 V. Pica, Carlo Dossi, in All’Avanguardia, cit., p. 437.
175 Id., L’umorismo nell’arte, ivi, p. 6. Cfr. a proposito Gaudio, II lettore e il silenzio dell'opera, L'umorismo
di Carlo Dossi al vaglio di Vittorio Pica, cit., pp. 21-34.
176 Pica, L’umorismo nell’arte, p. 9
177 Ivi, p. 10-11.
178 Ivi, p. 11.
Pica e i «poemucci in prosa» 225
Nel 1887, dunque, Pica conosce già gli scritti di Dossi da qualche anno, ed ha già
individuato uno dei tratti che permettono di inserirlo in un panorama italiano
“d’eccezione”, ovvero l’umorismo, pratica molto sviluppata in ambito europeo.
«Stranezza di concezione e di forma» contraddistinguono l’autore in questione, fin
dai primi racconti, e gli attirano le simpatie di «tutto un gruppo di giovani lombardi,
ribelli novatori nel campo dell’arte»179; così Pica inserisce Dossi nell’ambito della Sca-
pigliatura, dove, come si è visto, riteneva si fossero sviluppate interessanti innovazio-
ni. Ma la contestualizzazione termina qua, laddove Pica trova più produttivo per
l’interpretazione far risaltare l’isolamento di Dossi (appunto, «caso letterario») per
introdurlo, semmai, in un panorama europeo.
Le vicende editoriali dell’«ardimentoso e geniale scrittore»180, che Pica conclude
facendo presente che finalmente Dossi può leggersi anche per i tipi di Sommaruga
(benché non si registri un mutamento nel «contegno del pubblico»), sono assurte a
paradigma di un destino: edizioni di lusso per un creatore di «stravaganze» stilistiche,
contenutistiche e strutturali. Gli ingredienti della scrittura dossiana sono ben indivi-
duati:
L’aristocratico dispregiatore della folla […] si rivela sovra tutto nello stile aggomitola-
to, nervoso, pittorico, fitto di neologismi e di barbarismi, irto d’innovazioni ortogra-
fiche; uno stile denso di idee e di una potenza evocativa davvero meravigliosa, che da
principio appare difficoltoso ed ostico, ma che a poco a poco seduce i raffinati e di-
venta alfine gustosissimo181.
La contestualizzazione di Dossi fornita da Pica, come si può intuire dall’accento
posto sulla «potenza evocativa», non è priva di interesse:
pur non derivando da nessuno […] la sua spiccata e gagliarda originalità artistica, ha
però una certa affinità d’ingegno da un lato con gli umoristi tedeschi ed inglesi, in i-
specie con Richter e con Sterne, e da un altro lato con quella schiera di poeti e prosa-
tori neo-bizantini della vicina Francia, come Villiers de l’Isle-Adam, Mallarmé, Ver-
laine, Huysmans ed altri, i quali si compiacciono in un ideale d’arte ultra-eccezionale
e ultra-aristocratica, tale da non poter essere compresa e gustata che soltanto da un
ristretto e scelto numero di lettori, i quali trovano una squisita voluttà nel diventare
in certo modo i collaboratori dell’autore che leggono, che interpretano, che a volte
179 Pica Carlo Dossi, cit., p. 437.
180 Ibid.
181 Ivi, pp. 439-40.
226 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
completano anche, poiché la sapiente suggestione di simili scritti lascia un certo mar-
gine alla loro fantasia ed alla loro sensitività182.
Le affinità sono cercate con acume: Richter e Sterne, con un giudizio che Pica aveva
espresso già al tempo dell’articolo sull’umorismo, e d’altro lato i «poeti e prosatori
neo-bizantini», per la concezione aristocratica dell’arte. Conseguenza sia della lettera-
tura umoristica, che spesso stravolge gli intrecci, che dell’arte “bizantina” è la neces-
saria collaborazione da parte del lettore. Seguendo le indicazioni di Pica, Dossi si col-
locherà allora all’opposto di Zola, il quale è maestro «nello scegliere a preferenza il
luogo comune, perché è con esso che si riesce a dare l’idea esatta dei vizi, delle aber-
razioni, delle malattie di tutta una società»183; il lombardo assomiglia semmai ad au-
tori come Goncourt e Daudet, che «ricercano quasi sempre l’eccezione».
Per quanto riguarda Dossi e il senso del reale, l’analisi di Pica non è meno pene-
trante: Dossi possiede il senso della realtà, ma essa gli appare per frammenti, poiché il
suo sguardo non si propone la meta dell’oggettività, com’è per Zola, ma è condiziona-
to dall’esigenza di testimoniare il proprio io, con individualistica parzialità.
Sì, il Dossi possiede quel senso possente del reale che a tanti altri è diniegato, ed egli
a volte riproduce con esattezza e con vivacità di colore la vita vera, ma pur sempre
frammentariamente, che l’osservarla con la sincerità oggettiva dello Zola gli è vietato
dalla conformazione tutta propria del suo cervello di sottile ed ostinato sognatore,
che lo costringe ad infondere il suo io in tutto quello che mira fuori di sé, od almeno a
farsi giudice e quindi ad esaltare o fustigare con imparzialità per solito molto proble-
matica184.
Quell’individualismo esasperato che è alla base del bizantinismo provoca in Dossi
l’emergere dell’umorismo, dato lo scontro tra il mondo come realtà e come sogno:
Un antitesi quindi si stabilisce tra il mondo come egli lo sogna ed il mondo quale è in
realtà e quale ai suoi sensi si addimostra, e da quest’antitesi quasi perenne sgorga
quell’umorismo ora feroce, ora sorridente, che pervade quasi tutti i libri del Dossi185.
Con questa presentazione, Pica intende anche fornire a Dossi uno scudo contro
le voci di disapprovazione che si erano levate contro la Desinenza in A, «che accanto a
pagine stupende ne contiene parecchie puerili o triviali»186 e gli ha provocato
182 Ivi, pp. 438-39.
183 Pica, La Joie de vivre, cit., p. 147.
184 Id., Carlo Dossi, cit., p. 441.
185 Ibid.
186 Ivi, p. 440.
Pica e i «poemucci in prosa» 227
l’appellativo (quanto mai vago, com’è noto) di “verista”. Invece, se appellativo deve
esserci, bisognerà propendere, come per Praga, per quello di «idealista»: «poiché di-
fatti, per chi abbia la perspicacia di non arrestarsi alla superficie, egli apparirà sempre
quale un sognatore ostinato, quale un sentimentale, quale un utopista»187. Una delle
qualità del «sentimentale» è poi appunto, secondo Pica, quella di mostrarsi «licenziosi
nel linguaggio»188 a misura della propria timidezza: «castissime tenerezze»189 compor-
ranno, infatti, gli Amori.
Il libro che Pica si appresta a presentare, Amori, è particolarmente in linea con i
dettami dell’arte aristocratica, a partire dalla veste editoriale, con copertina e fronte-
spizio di Conconi, e la tiratura limitata su carta giapponese: «è infine un vero gioiello
del più raffinato giapponismo»190. Il poemetto in prosa non viene evocato diretta-
mente, tanto più che il saggio dossiano è di un anno precedente a quello dedicato al
poème en prose; eppure, anche la veste elegante del volumetto richiama alla mente il
progetto di Mallarmé per la pubblicazione dei propri poemetti in prosa, noto a Pica
anche se mai portato a termine.
Quando si tratta di descrivere la prosa di Amori, ricompaiono gli aggettivi «sug-
gestivo» e «indefinito», che, come si è visto, Pica attribuisce solitamente alla poesia e
al poemetto in prosa. Lo stile è molto apprezzato da Pica, che riscontra un avanza-
mento laddove Dossi raggiunge «una limpidità ed una luminosità mirabili»191, sop-
primendo le troppo audaci innovazioni lessicali o ortografiche e lavorando a favore di
una maggiore concisione raffinata della frase (assente, in effetti, dalla prosa esplosiva
del primo Dossi): «si sentiva la necessità […] che la frase fosse sveltita, sfrondata,
sopprimendo gl’incisi ed i giuochi di parola superflui»192.
In Amori Dossi ha raccontato, secondo Pica, la «storia complessa e completa di
un’anima», ma attraverso «tanti staccati episodî amorosi»193, in una raffinata confe-
zione all’insegna della brevitas. Dossi è riuscito a dare pieno sfogo al proprio «subiet-
tivismo», non più frenato da un’arditezza affettata (Desinenza in A) o dalla necessità
di contenersi per non perdere completamente il filo della verosimiglianza (come nella
Colonia felice), perché l’unico soggetto sono, infine, «le sue benamate fantasime»:
«Qui, trattandosi di autopsicologia, può a suo bell’agio fare sfoggio di quel subbietti-
187 Ibid.
188 Ivi, p. 441.
189 Ivi, p. 444.
190 Al giapponismo Pica aveva pagato anche un tributo giovanile, con la novella Lo spettro di Fa-Ghoa-Ni
(in «Fantasio», I, 6, 25 ottobre 1881; ora in Id., «Arte aristocratica» e altri scritti su naturalismo,
sibaritismo e giapponismo (1881-1892), cit., pp. 220-09).
191 Id., Carlo Dossi, cit., p. 446.
192 Ivi, p. 445.
193 Ivi, p. 446.
228 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
vismo, che a stento raffrena negli altri suoi libri, ove sovente fa capolino fuori di pro-
posito»194. Così, se una critica si può muovere ad Amori, è solo per il difetto di
un’«intonazione monocorda», necessario corollario dell’analisi di «un solo sentimen-
to in una sola persona»195.
194 Ivi, p. 445.
195 Ivi, p. 447.
3. Semiritmi di Capuana e poemetti in prosa “al femminile”, tra
«Fanfulla della Domenica» e «Marzocco»
3.1 «Dapprima per parodia», «e poi, sul serio»: i Semiritmi
Tra Ragusa Moleti, traduttore e serio imitatore dei modi baudelairiani, e Vittorio Pi-
ca, sempre in ambito meridionale incontriamo, ad incrociare la strada del poemetto
in prosa, un Capuana poco noto, sperimentatore e ironico, consapevole delatore dello
statuto convenzionale della letteratura. I primi sette Semiritmi furono editi
nell’ottobre 1882 sul «Fanfulla della Domenica», come presunte traduzioni da un po-
eta danese dal nome impronunciabile, Gertziier; tre anni più tardi, il Capuana avreb-
be dichiarato che si trattava una contraffazione. Sotto il segno del gioco e della falsifi-
cazione sembrano condotti i primi Semiritmi, per testimonianze disseminate dallo
stesso autore o da suoi sodali. È Giuseppe Cimbali a ricordare la genesi quasi estem-
poranea dei Semiritmi: «Ricorda quella domenica, in cui io e lei eravamo tutti intenti
a preparare pel “Fanfulla” l’articolo burla sul “gran” poeta danese Getziier?»1. In real-
tà, Capuana troverà in qualche modo interessante questo suo esperimento, e vi torne-
rà sopra ampliandolo di molto. Eppure, ancora nel 1887, scrive al De Roberto van-
tandosi di un volume messo insieme «in due giorni»2.
Nel 1882, i componimenti erano accompagnati da un saggio volto a presentare
Un poeta danese3, che annunciava anche l’imminente traduzione italiana completa
delle poesie. La forma del semiritmo veniva giustificata come esigenza di una tradu-
zione concettualmente fedele: «Peccato che questi pregi non sia possibile riprodurli in
una traduzione in prosa! Però il lettore può esser sicuro di trovarvi l’accento,
1 Ghidetti, L'ipotesi del realismo, cit., p. 263.
2 «In due giorni, ho messo insieme un volume che farà stupire il mondo, che metterà sossopra il regno
barbarico delle Muse […]» (cfr. ivi, p. 268).
3 G. P. [L. Capuana], Un poeta danese, «Fanfulla della Domenica», IV, 45, 5 novembre 1882; poi in L. Ca-
puana, Per l’arte, Giannotta, Catania 1885, pp. 155-167; ora in Id., Semiritmi, a c. di E. Ghidetti, Guida,
Napoli 1972, pp. 41-50.
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
230 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
l’intonazione dell’originale: è qualche cosa»4. Il poeta è rappresentato come sapiente
«assimilatore»:
Getziier è un poeta intimo: ma soprattutto, è un assimilatore, come si compiace di
giudicarlo l'alta critica delle riviste letterarie danesi: «un poeta, che ha fatto davvero
risuonare sotto il fosco cielo della Danimarca gli echi del mondo incivilito» (Win-
dspiel). Infatti, ordinariamente, la sua poesia è impersonale. L'anima sua è come uno
specchio dove ogni cosa esteriore si riflette nitidamente. L'arte antica, l'arte moderna
di tutti i paesi vi hanno lasciato qualche cosa della loro particolare essenza, un balenìo
di luce, un profumo, un'impronta; ma quello che in ogni altro rimarrebbe allo stato di
semplice imitazione, in lui si trasforma in una creazione geniale che ha tutto il sapore
della originalità5.
Tale «imitazione» dell’arte antica e moderna che diventa «originalità» sembra il frutto
di una considerazione abbastanza banale sulla poesia come equilibrio tra tradizione e
originalità, ma, alla luce dell’operazione parodica intrapresa nei Semiritmi, assume un
altro valore: questo sapiente imitatore potrebbe essere, in fin dei conti, il Capuana
stesso.
Nel 1885, nell’ambito di Per l’arte, Capuana recuperò il profilo introduttivo av-
vertendo in nota che «questo scritto, pubblicato nel “Fanfulla della Domenica” firma-
to colle iniziali G. P., è semplicemente una parodia», a sommo scherno dei «tanti pre-
tesi cultori di letterature straniere che in Italia traducono, o fingono di tradurre, da
tutte le lingue europee moderne»6.
La formazione di Capuana è lontana dalle elaborazioni decadenti e simboliste
della poesia francese, nonché sospettosa nei confronti di certe operazioni dannunzia-
ne e dal classicismo carducciano, ancora fiducioso in un alto magistero poetico; an-
che la data di nascita, 1839, lo allontana dalla formazione culturale delle generazioni
degli anni ‘60 (Vittorio Pica) e ‘70 (Ricciotto Canudo). La storia stessa di Capuana
poeta, tra l’interesse per i modi della poesia popolare, anch’essa imitata e contraffatta
ad uso dell’allestimento della Raccolta amplissima di Leonardo Vigo7, e le parodie ai
danni del Rapisardi8, porta le tracce di una concezione poco sacrale del mestiere poe-
4 Ivi, p. 48.
5 Ivi, p. 45.
6 Ivi, p. 50.
7 Cfr. Ghidetti, L'ipotesi del realismo, cit., p. 255.
8 Paralipomeni del Lucifero di Mario Rapisardi, Zanichelli, Bologna 1878; Giobbe. Frammenti d’un poema
inedito, Arte della Stampa, Firenze 1882 (precedentemente apparsi senza indicazione di editore nel luglio
1881); poi raccolti in L. Capuana, Parodie: Giobbe, Lucifero, con prefazione di G. Salvadori, Giannotta,
Catania 1884 (cfr. Ghidetti, L'ipotesi del realismo, cit., p. 261). Capuana ricorda come il Rapisardi si ven-
dicò disprezzando i Semiritmi: «Il mio tentativo fu male accolto dai critici e dai poeti di allora. Uno di
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 231
tico: egli sembra attratto piuttosto dalla sperimentazione di vari tipi di tèkne, dal gu-
sto di confezionare il prodotto che l’occasione richiede. Germi della modernità si na-
scondono in una tale concezione di poesia come ludus, gioco di nascondimento ai
danni, magari, di un collega che ama prendersi troppo sul serio. D’altro lato, il gioco,
più che divertissement puro a se stesso, finisce per esprimere una crisi a cui non si of-
frono risposte decise: la poesia si riduce forse ormai, come afferma Ghidetti, ad «un
meccanismo che funziona a vuoto»9, imbrigliata al sublime e alle sue forme, che la
sacrificano. In questo senso della crisi, di una poesia sconfitta non appena la si spogli
da una certa patina dorata decadente, Capuana richiama certe note stonate della lirica
Scapigliata, che conosce e apprezza; si ricordi il gioco di Boito sulla rima in «iccio»,
quello di Praga sulla «rima in i»10.
Partendo probabilmente da una riflessione, in parte parodica, sulla mania delle
traduzioni di poesia straniera, Capuana mette in pratica una sorta di verso libero, che
denomina «semiritmo», ed ha come primo effetto quello di spiazzare il lettore, por-
tandolo a riflettere sui meccanismi di creazione e sulla definizione della poesia.
L’apostrofe d’apertura Al sempre e sempre benevolo lettore si pone questo obbiettivo,
introducendo il sospetto che esista una distinzione tra «versi» e «poesia», come acca-
deva nell’ambito del poemetto in prosa:
E con un po’ d’attenzione e di buon volontà, avrei potuto, anch’io, metter insieme
dei ritmi, come tant’altri, e non sarebbe stato un miracolo. Ma ho detto: pubblicando-
si tuttodì parecchi volumi di versi dove c’è poca o punta poesia, non sarebbe, per lo
meno, una cosa bizzarra un volume di componimenti poetici con pochi o punti ver-
si?11
Il lettore dei Semiritmi, infatti, vive innanzitutto questo spiazzamento: è chiamato
a verificare la tenuta della poesia a fronte di una dichiarata contrainte, l’utilizzo di
«pochi o punti versi». «Sei dunque avvertito, benevolo lettore. E Dio ti conservi lieto e
sano»: non spetta all’autore, che se ne guarda bene, il compito di giudicare il proprio
risultato e, a ben vedere, dopo aver affermato che parecchi volumi di versi mancano
di poesia, non dichiara, altrettanto fortemente, che la poesia si riscoprirà, rinfrancata,
in un volume di semiritmi. Il lettore potrebbe essere chiamato a scoprire sia che la
questi mi scrisse sdegnosamente: “Assai meglio di me, tu conosci i tempi e il paese; e la ragione è tutta
tua: a semiuomini, semiritmi”» (Enquête internazionale sur le Vers libre et Manifeste du futurisme, par F.
T. Marinetti, Éditions de «Poesia», Milano 1909, p. 39).
9 Ghidetti, L'ipotesi del realismo, cit., p. 264.
10 Cfr. A. Boito, Liriche sparse, in Id., Tutti gli scritti, cit., pp. 1375-76; E. Praga, La libreria, in Id., Poesie,
cit., pp. 61-67.
11 Capuana, Semiritmi, cit., p. 53.
232 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
poesia contemporanea rinasce proprio laddove viene liberata dai ritmi, sia che essa,
privata dalla cassa di risonanza della metrica, è una vuota accozzaglia di temi poco
interessanti.
Di qui nasce la difficoltà di lettura di un volume che suscita impressioni difformi,
non pare essere strutturato da un ordine rilevante a livello tematico, e contiene, in
realtà, conferme di entrambe queste possibilità: ci sono semiritmi in cui Capuana è
terribilmente serio, attinge ad immagini che lo tormentano ed andranno a sostanziare
pagine memorabili dei romanzi o delle novelle (è il caso, ad esempio, del Cristo in
croce, poi emblema del tormento del marchese di Roccaverdina); d’altro lato, si rico-
noscono componimenti decisamente volti alla parodia, al disvelamento dei modi del-
la poesia decadente, che egli stentava a comprendere e apprezzare; si sente, altrove, il
gusto di provarsi in percorsi tematici di vario tipo, quasi ad esplorare fino in fondo i
gusti dell’epoca per diventarne, per una volta, attore (non propriamente regista). In
più, pesa sui Semiritmi il loro battesimo di burla ai danni dei tanti cultori di letteratu-
re straniere, che spinge il lettore a mantenere un atteggiamento vigile nei confronti
dei componimenti attribuiti ad un poeta inesistente che, si suppone, l’autore avrebbe
voluto vertere a favore dei critici del «Fanfulla».
Molti anni dopo, rispondendo al «referendum» marinettiano sul verso libero,
Capuana sposta l’accento sull’innovazione ritmica dei propri esperimenti, pur prote-
stando una scarsa competenza in materia, e ribadisce lo statuto ambiguo che aveva
caratterizzato, fin dalla genesi, i Semiritmi:
Non mi riconosco molta competenza nell’apprezzare le recenti forme ritmiche e
metriche introdotte nella nostra letteratura poetica, anche perché mi troverei nel caso
di essere giudice e parte.
Ho fatto io, il primo in Italia, il tentativo d’introdurre il semiritmo, e senza nes-
sun’intenzione d’imitazione straniera. Nel 1883, quando, dapprima per parodia, ne
diedi un saggio nel «Fanfulla della Domenica» e poi, sul serio, m’indussi a pubblicar-
ne un volumetto (Milano, Fratelli Treves, 1888) non si parlava ancora di verso libero,
almeno tra noi.
La mia opinione è che esso, adoprato con abilità, può contribuire a dar sveltezza e
libertà alla forma poetica. Il D’Annunzio ne ha pubblicato splendidi esempi12.
Il primo componimento, A Enotrio, apre la raccolta nell’ottica della parodia e del
dialogo a distanza con Carducci13, «Enotrio romano», e d’Annunzio, suo celebratore
12 Enquête internazionale sur le Vers libre et Manifeste du futurisme, cit., pp. 37-39.
13 Scriveva giustamente Flora che i Semiritmi «nascono in una esperienza opposta a quella del Carducci»,
aggiungendo che essi «precorrono perciò i versi liberi che dal futurismo e dalle influenze dirette di alcuni
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 233
(A Enotrio romano autore delle «Odi barbare»)14. L’ultima parte del semiritmo, in
particolare, enuncia una sorta di poetica:
Io, qual faciullo che nei suoi giochi
tentando d’imitare gli ardui esercizii
d’un esperto guerriero, e foggiandosi
un’arundinea lancia,
o un bastone cavalcando (che nella di lui
vivace fantasia sbalza, nitrisce, s’aombra)
incalzi invisibili nemici e stragi meni
incruente nello spazio;
mi son foggiato anch’io un esile arco15.
Rispetto a chi può servirsi del «gran ritmico arco che vibra / frecce d’oro sonanti», il
poeta si dipinge quale un fanciullo che gioca cavalcando un bastone e con armi spun-
tate, un Don Chisciotte smarrito in un universo letterario che lo impegna con dram-
matica serietà, mentre scaglia frecce con «corto volo e punta innocua».
Pure – o è inganno – l’aer freme ogni volta
ch’esse con piccoletta ala il fendono; pure –
o è inganno – vedendomi seriamente assorto
nel mio gioco infantile,
trattennero compiacenti le Muse
i lor passi leggieri […]16.
Un ragazzo «seriamente assorto» in un gioco infantile: questo è l’autore dei Semirit-
mi, o, forse, semplicemente, quel che resta di ogni poeta uscito dal «tempio dell’italica
poesia».
Il componimento successivo, Sub umbra (II), già si presenta di ambigua interpre-
tazione: nessun segnale palese di parodia, un tono potenzialmente serio, un idillio
campestre. Però, se la corda dell’arco dell’autore è «di vile canape sottilissima»17,
scrittori stranieri son giunti alla più recente, e già stanca, maniera di versi senza schemi e senza rime» (F.
Flora, Storia della letteratura italiana, V, Mondadori, Milano 1966, p. 369).
14 Per precisi riferimenti e corrispondenze cfr. Ghidetti, L'ipotesi del realismo, cit., pp. 157-59.
15 Capuana, Semiritmi, cit., p. 55.
16 Ibid.
17 Ibid.
234 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
com’era affermato in A Enotrio, dove si prendeva le distanze da quell’armamentario
di «frecce d’oro», «polsi bronzei» e «aurei crini», risulta difficile ritenere del tutto se-
ria una lirica dove ricorrono sintagmi quali «piovevano tremule falde d’oro», «canta-
vano, le divine cicade, le elleniche cicade»18. Se non bastasse, l’erba verde, i crisantemi
e le argentee margherite «stupivano di quel canto, nuovo per loro»19: il componimen-
to è disseminato di riferimenti a d’Annunzio, chiamato ad assistere all’allestimento di
una scena di perfetto panismo, laddove «la parola tremava nella voce, tremava / come
preghiera saliente dalle fonde / viscere della terra […]»20.
Una parodia dei modi della poesia contemporanea francese è rappresentata da
Poesia musicale (VII), che giustamente Ghidetti ipotizza possa essere posta in rela-
zione con la poetica di Verlaine; sulla “poetica della suggestione”, peraltro, Capuana
aveva già espresso i propri dubbi e sull’argomento tornò con una novella ironica,
L’aggettivo21. Mettono dunque in guardia i cenni al conflitto tra poeta e pubblico e
alla concezione della parola come forma e limite dell’Idea:
Suona nei tuoi versi, o biondo poeta,
una musica troppo nuova pei duri orecchi
del nostro volgo. […]
Parole, parole!... Oh velo che tutta avvolgi
La libera Idea nuotante nell’infinito!
Oh forma che la neghi! Oh fallace apparenza
Che ci dài l’illusione come realtà!22
La stessa conclusione, ci mette in allarme di parodia:
La sillaba dalla sillaba riceve dilucidazione;
così dalle tue canzoni che più sembra nulla dicano
vena sgorga, o poeta, d’ineffabile poesia23.
Similmente nell’Aggettivo, il culto eccessivo per la parola porterà alla pazzia il
giovane poeta Jello Albulo («che, veramente, si chiamava Nino Bianchi, ma che aveva
18 Ivi, p. 56.
19 Ibid.
20 Ivi, p. 57.
21 Cfr. ivi, p. 162.
22 Ivi, p. 66.
23 Ivi, p. 67.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 235
firmato cosí due volumetti di versi, e non voleva essere chiamato altrimenti»)24, perso
nella ricerca dell’«aggettivo raro, […] pittoresco, impreveduto, comprensivo»25:
E gesticolava, balbettando:
«L'aggettivo... comprensivo? No! L'aggettivo vergine!... Ecco il poema eterno, di cui
esso è la pietra preziosa... legata nell'oro di quattro versi... eterni! Udite ... Favete lin-
guis!».
E declamava, anzi mugolava suoni incomposti, parole senza senso, povera vittima
dell'aggettivo! –26
L’intera novella è giocata su una mimesi ironica di modi decadenti, che impregnano
l’ambientazione di profumi stordenti:
– Nello studio (dovrei dire nel santuario o nel cenacolo) – riprese il dottore – si sof-
focava. I profumi che bruciavano negli incensieri d'argento sospesi alla volta, il fumo
delle sigarette consumate dal maestro e dal discepolo durante la lettura dell'Idillio
cromatico, avevano già formato una densa nuvola che rendeva indistinti, nella pe-
nombra in cui era tenuta la stanza, le stoffe delle pareti, i quadri, gli oggetti di arte, gli
armadi finamente intagliati in vecchio stile, e la coppa di cristallo opalino dove lan-
guivano in mucchio rose bianche, giacinti e alzalee senza nessuna foglia verde che ne
menomasse il simbolico candore27.
Candidamente, il narratore si dichiara incapace di comprendere: «Noi, gente poco
spirituale, non possiamo intendere quali guasti sia capace di produrre nella mente di
un artista raffinato una fissazione come quella che teneva continuamente alla tortura
Jello Albulo»28.
L’opinione di Capuana su tali questioni era emersa in parte anche nel saggio de-
dicato al Canto novo di d’Annunzio, dove scriveva a proposito degli artisti contempo-
ranei:
Essi, poveri diavoli, non possono darci che quello che han dentro di loro, cioè: cose
troppo elaborate, raffinate; cioè: sensazioni aggruppate, fantasmi che si aggrovigliano
24 L. Capuana, L'aggettivo, in Id., Il Decameroncino, Salerno Editrice, Roma 1991, p. 28. Il Decameroncino
fu edito nel 1901 a Catania, per i tipi di Giannotta.
25 Ivi, pp. 28-29.
26 Ivi, p. 34. Scrive il curatore Alberto Castelvecchi che «ci troviamo immersi, con la seconda giornata, in
un clima di nauseante vacuità dannunziana», con una «riduzione estrema del dannunzianesimo a estenu-
ante gioco linguistico»; A. Castelvecchi, Introduzione, ivi, p. 10. Per un più ampio commento si veda L.
Capuana, Racconti, a c. di E. Ghidetti, Salerno Editrice, Roma 1974, II, pp. 257-327.
27 Capuana, L'aggettivo, cit., p. 27.
28 Ivi, p. 32.
236 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
e si divincolano agitati da nevrosi, sentimenti complessi che si possono appena dir ta-
li, tanto la invadente riflessione gli ha compenetrati e trasformati. Che meraviglia
dunque se la forma corrisponde al concetto?
Perciò essa diventa analitica, eccessivamente cesellata, spesso contorta; come se una
convulsione la scuotesse tutta in quel suo avido inseguire il concetto per le mille si-
nuosità dov'esso si perde, in quell'intenso sforzo di afferrarne e di renderne le diverse
gradazioni e le più piccole sfumature29.
Serenata (IV)30, facente parte dei primi semiritmi pubblicati, sembra mimare at-
teggiamenti decadenti eludendoli sottilmente; il paesaggio appare prossimo ad una
rivelazione che solo agli iniziati è dato di comprendere, seppur guastata da scontati
aulicismi:
Con la luna si destano
le aurette tra le fronde;
e pispigliano cose gentili,
non fatte per orecchio umano31.
Peccato che certe voci «non fatte per orecchio umano» rivelino, più avanti, la loro
perfetta inutilità, visto che all’uomo solo è dato, finalmente, il dono della parola per la
dichiarazione d’amore:
Pispigliate pure, o fronde,
le vostre cose gentili!
[…]
Io solo, io solo, io solo,
meglio di tutti voialtri,
io solo posso dirle:
t’amo, t’amo, t’amo32.
La fontana del Pascià (VIII)33 appare come un esercizio parodico sul topos della
fonte e del fiume, chiamati a rappresentare sofferenze, gioie e tempi umani, come mi-
rabilmente accadeva con Carducci Alle fonti del Clitumno. Il lamento delle acque con
cui si apre il semiritmo sembra già introdurre un tono semiserio: «Zampillo d’argento
29 L. Capuana, Gabriele D’Annunzio, in Id., Per l’arte, a c. di R. Scrivano, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 1994, pp. 68-69.
30 Capuana, Semiritmi, cit., pp. 61-62.
31 Ivi, p. 61.
32 Ivi, p. 62.
33 Ivi, p. 68.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 237
che continuamente, / continuamente ti lamenti, sommesso». Il poeta si rivolge alla
fontana per sapere il perché di tante proteste, visto che l’acqua è stata, con «arte indu-
stre», portata via dalla «rozza grotta» e dalle «pianticene villane» dove era nata, per
essere deviata ad un «gentile albergo di piante preziose». La fontana del Pascià ri-
sponde aspramente:
Avresti dovuto lasciarmi lontano,
nella rozza grotta […]
Avrei continuato, nella natia ombra fresca,
il mio sonno di liquido argento.
Qui, trattovi a forza, che può importarmi
dei doni tuoi? E mi lamento, mi lamento!
È probabile, come afferma Ghidetti, avvertire un’ironia nei confronti dell’esotismo e
della suggestione esercitata in Italia dalle Rubayyàt di Omar Khayyàm34. In più,
quest’ingegnere che «con arte industre» ha formato per le acque «una via facile, ripa-
rata da ogni insulto», «di marmo prezioso», potrebbe non essere altri che il poeta, il
quale avrebbe costretto uno degli elementi della realtà naturale nella gabbia di una
dorata e inappropriata raffigurazione. L’acqua si lamenta della fontana, dorata pri-
gione dove non vive più la vita reale della «rozza grotta», ma è costretta a un corso
artificiale «tra i profumi delle piante fiorite»: la realtà si ribella alle raffinatezze del
poeta? È solo un esempio delle possibili interpretazioni che i Semiritmi sembrano in-
coraggiare, presentando al lettore una serie di testi che, come gli altri ma forse un po’
più degli altri, si nutrono di una dimensione intertestuale e sospetta.
La fontana del Pascià appartiene al primo gruppo di sette semiritmi pubblicati
nel 1882, nei quali in effetti l’intento parodico è predominante; tornando a riconside-
rare i componimenti per ampliarli a volume, la gamma di toni e temi si amplia note-
volmente. A questo punto Capuana, uomo e scrittore, mette in gioco il proprio im-
maginario: così Ritratto fotografico (IX)35, come non manca di notare Ghidetti, è il
sigillo dell’interesse maniacale di un «ottimo fotografo»36, che scruta la personalità di
una «gentile Amica», rubata da una «parlante imago». Si noti, a margine, che il poeta
predilige, per sorprendere la compagna nei suoi modi più veri, la realtà fotografica
rispetto alla una rielaborazione artistica:
Qui voi non passaste attraverso l’accesa
34 Cfr. ivi, pp. 162-63.
35 Ivi, pp. 69-70.
36 Cfr. ivi, p. 163.
238 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
fantasia d’un artista;
egli non v’impresse il sigillo
della sua forte interpretazione creatrice.
«L’accesa fantasia» e la «forte interpretazione creatrice» dell’artista non sono il filtro
ideale per comprendere la realtà; en passant, al poeta è sfuggita un’altra dichiarazione
di sfiducia nei confronti della poesia.
Dinanzi un Cristo dipinto (III)37, in terza posizione nella raccolta, è un componi-
mento assai interessante anche per i lettori del Capuana prosatore, e a ragione Ghi-
detti fa riferimento al Marchese di Roccaverdina, che, pubblicato nel 1901, veniva ide-
ato intorno al 1881. Il poeta dialoga con un Cristo dipinto ritrovando se stesso in
quelle sofferenze e auspicando alla propria salvazione38; non si faticherà a ritrovare le
movenze del Marchese di Roccaverdina, con lievi rispondenze anche nel vocabolario
tra semiritmo e romanzo: «coronato di spine, […] la testa abbandonata sul destro
omero»39, «la testa coronata di spine e inchinata su una spalla»40; «nel cielo livido,
[…] le tue labbra scolorite»41, «le livide labbra contratte»42.
Il «turbamento così profondo»43 espresso dal semiritmo ricorda la «paura di
bambino» del Marchese, che «si riproduceva in lui ugualmente intensa, anzi raddop-
piata»44, e gli rimarrà accanto come monito minaccioso di punizione. Lo strazio del
poeta è riprodotto nel Cristo dipinto, non necessariamente per immedesimazione di
credente:
Sovente, più duro strazio sulla croce
del pensiero, agonizza la mia ragione
cui sfugge l’anelata
verità; e nelle fitte tenebre non scende
dai cieli dell’intelligenza alcuno, alcuno
37 Ivi, pp. 58-60.
38 Considerando che Capuana era stato lettore di Tarchetti (cfr. n. 50), andrà forse ricordato che, se in
ambito scapigliato l’immagine della crocifissione compare spesso come concretizzazione di dualismo, in
Tarchetti, in particolare, ricorre un’immagine molto simile a quella di cui stiamo trattando: «La notte è
feconda di strane allucinazioni. Mi pareva che quel Cristo col capo così inclinato sull’omero destro mi
accennasse di levargli dal capo al corona, e io sentiva le punture di quelle spine come fossero state confitte
nella mia testa» (I. U. Tarchetti, L’innamorato della montagna, in Id., Tutte le opere, cit., II, p. 151).
39 Ivi, p. 58.
40 Si cita da L. Capuana, Il marchese di Roccaverdina, Garzanti, Milano 1995, cap. VIII, p. 57.
41 Id., Semiritmi, cit., p. 58.
42 Id., Il marchese di Roccaverdina, cit., cap. VIII, p. 58.
43 Id., Semiritmi, cit., p. 58.
44 Id., Il marchese di Roccaverdina, cit., cap. VIII, p. 57.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 239
barlume consolante45.
Capuana presta all’io poetico la voce di un personaggio in via di creazione, di cui sta
sperimentando la psicologia; anche questo ben si addice ai semiritmi, in quanto con-
travviene a una delle norme diffuse della scrittura poetica post-romantica, ovvero
l’identificazione tra voce parlante e poesia. In questo caso, Capuana ha tranquilla-
mente dato voce ad un personaggio-io poetico, che non necessariamente gli corri-
sponde, senza però avvertire il lettore; un personaggio tale può parlare anche con la
cadenza del convertito Verlaine di Sagesse46 («Oh come ti sento nella povera carne, /
oh come ti sento nel povero spirito»), con la differenza che, per Verlaine, parole simi-
li volevano parere estremamente serie.
La serietà nell’attenzione alla psicologia e il tarlo dell’introspezione sono testimo-
niati anche da Analisi (XVIII)47, dove si rivela un quadro di inquietudine disarmante:
Invece di gridar forte: soccorso, soccorso!
intanto mi compiaccio di analizzare
queste atroci impressioni ad una ad una,
come se punto non si trattasse di me.
È indifferenza? […]
No. A furia di analizzare, di analizzare,
l’analisi già si rese un’abitudine spietata,
e, orrore! mi dibatto sotto il mio stesso scalpello.
Le esplorazioni di temi, moderni, antichi o galanti, sono poi molteplici, più o
meno venate da ironia; veramente la nota che caratterizza la raccolta è, dopo tutto,
quella che Salvadori, richiamato da Ghidetti, denominava la «momentanea metem-
psicosi artistica» di Capuana: una «singolar potenza d’intuizione, per cui un uomo
riesce quando vuole a mettersi nei panni, larghi o stretti che siano, del primo che ca-
pita», dando vita a «serissimi esperimenti»48. Un serio esperimento appare, ad esem-
pio, Dormire… sognar forse!...49, che riprende nei temi e nel linguaggio il Tarchetti dei
45 Id., Semiritmi, cit., p. 59.
46 Cfr. ivi, pp. 160-61.
47 Ivi, p. 84.
48 Salvadori, Scritti bizantini, cit., pp. 68-69; cfr. Ghidetti, L'ipotesi del realismo, cit., p. 262.
49 Capuana, Semiritmi, cit., pp. 24-25.
240 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Canti del cuore (Forse nella tomba si sogna), autore ben noto a Capuana50: «Quando
mi addormenterò, / nella pace profonda, / e sopra il mio disfatto / corpo cresceran le
novelle / erbe e i precoci fiorellini / destati da questo solo siciliano, // quai sogni io
sognerò / nella pace profonda?». Con il “canto del cuore”, e con la canzone popolare,
il componimento condivide anche la struttura di ripetizioni (ogni strofa inizia chie-
dendosi «quai sogni io sognerò / nella pace profonda?»), per un tentativo di “metem-
psicosi scapigliata”.
Salvadori non ha torto nemmeno quando afferma, a proposito delle Parodie di
Capuana, che «il falsificatore compie il critico, come l’artista compie il falsificatore»: il
critico incontra spesso l’autore dei Semiritmi. Ad esempio, Cammeo (V)51, neoclassica
inquadratura su Diana e Endimione dormiente, va probabilmente messo in relazione
con la lettura di Émaux et Camées di Gautier, al quale Capuana dedicò un saggio nel
1879, sottolineando che l’autore francese non regalava personaggi viventi ma sempre
«quadri», ricchi semmai di «forma» e «colorito»52.
Davvero poi come poeta in semiritmi Capuana si sente libero di ampliare il rag-
gio tematico53: Nella notte, per la foresta (X)54 racconta episodi di folklore popolare;
Intus (XI)55, ancora introspettiva, si interroga sugli sviluppi del senso del mistero
nell’uomo, dalla religiosità pagana ad uno scientismo che non combatte «il profondo
mistero delle cose», un infinito che «spaura» («Ma, tosto celebrati gl’infranti lacci, / la
mia ragione non rivacilla com’ebbra?»)56; L’albergo del cuore (XII)57 si assesta sul gio-
co di un’ironica galanteria; Saviezza (XIII)58 rinvia forse alla riconquistata sagesse di
Verlaine; Altitudo (XIV)59 tenta l’esperienza di un infinito rinnovato da una conce-
zione atomistica della realtà; Ad una barca (XV)60 testimonia letture catulliane e una
50 Cfr. C. Di Blasi, Luigi Capuana. Vita – Amicizie – Relazioni letterarie, Edizione “Biblioteca Capuana”,
Mineo 1954, pp. 139-41: «La figura dello scomparso [Tarchetti] attirava l’attenzione del Capuana, che
pensa di scriverne la biografia e di esaminarne le opere» e, a tale fine, si mette in contatto con il Farina.
51 Capuana, Semiritmi, cit., p. 63.
52 Il saggio, pubblicato nel «Corriere della sera» del 25 agosto 1879 e raccolto nei primi Studii sulla lettera-
tura contemporanea, è citato a questo proposito da Ghidetti (cfr. ivi, p. 160).
53 Giustamente osserva Ghidetti che siamo di fronte ad una «sperimentazione in vivo di modelli di poesi-
a»; «La conclusione, anziché approfondire i motivi essenziali di questa impossibilità della poesia, che a-
vrebbe comportato uno scarto ideologico inconcepibile nel moderato Capuana, sarà la rivelazione, in
chiave ludica, del meccanismo di questo fare poesia per dimostrarne, una volta accertata la sua riproduci-
bilità all’infinito, l’assoluta inutilità» (Ghidetti, L'ipotesi del realismo, cit., pp. 265-66).
54 Capuana, Semiritmi, cit., p. 71.
55 Ivi, pp. 72-74.
56 Ivi, p. 74.
57 Ivi, pp. 75-76.
58 Ivi, p. 77; cfr. ivi, p. 166.
59 Ivi, p. 78.
60 Ivi, pp. 79-80.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 241
volontà di imitazione non necessariamente parodica; Per le nozze d’uno scienziato
(XVI)61 scherza su una figura destinata a riproporsi nelle novelle, come anche Fasma
(XVII)62; ? (XIX)63 si chiede, questione cara al Capuana, cosa ne sia delle «anime tra-
passate»; A Giannina (XX)64 affronta, nei confini piccolo-borghesi di una cameretta,
il tema della morte delle speranze giovanili.
Infine, in chiusura del volume si leggono gli Epigrammi (XXI)65, componimenti
di gusto classicheggiante, una Passio Domini nostri (XXII)66, che coincide con il gusto
per il racconto popolare ma non disdegna l’imitazione di un autore amato come Sha-
kespeare, con un Pilato novello Mercutio67, e Rospus, «fiaba in un atto»68, sorta di «li-
bretto in prosa»69 scritto per Giuseppe Perrotta. A monito del lettore, una «Nota» dif-
fida dalle certezze dell’interpretazione, prendendo ad esempio proprio Rospus, per il
quale ancora si ricorre ad una contraffazione, ad «un brano di articolo d’un critico
tedesco»70, che così conclude:
Noi qui ci fermiamo, abbandonando alla lucida mente del lettore una maggiore e
più intima comprensione dell’alto poetico concetto di questo lavoro; non senza rico-
noscere che anche potrebbesi dare di esso una spiegazione perfettamente contraria a
questa già da noi data e non meno, intanto, razionalmente adatta allo insieme e alle
singole parti del fantastico dramma; […]71.
L’ultimo componimento, Finis72, ribadisce il carattere ludico dichiarato in aper-
tura: è un «ibrido gioco» che rischia, insistendo, di diventare pericoloso, urtando con
61 Ivi, p. 81.
62 Ivi, pp. 82-83. Si vedano le novelle Fasma (Profili di donne) ed Evoluzione (Le appassionate); cfr. ivi, p.
167.
63 Ivi, pp. 85-86.
64 Ivi, pp. 87-88.
65 Ivi, pp. 89-93.
66 Ivi, pp. 94-100.
67 «I sogni son cosa vana, / nebbia che fugge davanti il sole. // Immagini scappate / dalle case del cervello, /
vanno attorno per la mente / mentre la ragione dorme. // O, forse, sono scherzi / degli umori caldi e
freddi, / o capricci di spiriti / notturni perturbatori» (ivi, pp. 95-96); cfr. W. Shakespeare, Romeo and
Juliet, I, 4 (by J. L. Levenson, Oxford University Press, Oxford 2000, pp. 187-88): «True, I talk of dreams, /
Which are the children of an idle brain, / Begot of nothing but vain fantasy, / Which is as thin of sub-
stance as the air / And more inconstant than the wind, who wooes / Even now the frozen bosom of the
north, / And, being angered, puffs away from thence, / Turning his face to the dew-dropping south».
68 Capuana, Semiritmi, cit., p. 101.
69 Ibid.
70 Ivi, p. 125.
71 Ivi, p. 126.
72 Ivi, pp. 127-28.
242 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
concezioni ben più alte della poesia, mentre «non si scherza così colle cose sante»,
«profanamente»73. L’augurio, in ultimo, è che a nessuno degli «scimmiottini dell’arte»
venga in mente, infine, di «svagolarsi semiritmicamente»74.
L’incontro di Capuana con il semiritmo, con quel movimento di frizione innova-
trice tra prosa e poesia, appare precoce ed eccentrico rispetto ai tentati poemetti in
prosa che si avrà modo di vedere in seguito. La metrica allusa, ancora presente, sep-
pure conservata solo nell’intelaiatura, pone i Semiritmi, più legittimamente,
nell’ambito della storia del verso libero, una vicenda indovinata da Capuana più a po-
steriori che in fieri, di fronte ad agguerriti futuristi in cerca di radici e preludi alla
modernità. Eppure i Semiritmi sono un testo da non dimenticare anche dal nostro
punto di vista, un libro sulla poesia, più che di poesia, che apre e non chiude molte-
plici interrogativi sulla poesia contemporanea e avvenire. È possibile sottrarre il me-
tro alla poesia, ridefinendola per avvicinamento alla prosa? Di cosa, ancora, tratterà la
poesia? Emergono, a riguardo, le idiosincrasie verso i “decadenti”, con la predilezione
per i suoni e le immagini a danno della vita reale, per i notturni lunari disabitati, per
le fontane ambientate in bacini artificiali. Un sospetto, d’altra parte, sorge, nei Semi-
ritmi, anche nei confronti del classicismo carducciano, chiuso in un mondo aulico
pressoché deserto. A livello propositivo, però, non si contano grandi risultati.
La frontiera tra poesia e prosa viene sfruttata da Capuana principalmente come
fonte di spiazzamento per il lettore, costretto a entrare nell’intertesto; non si tratta,
invece, di allinearsi alle più moderne sperimentazioni europee. Il caso dei Semiritmi,
però, in tempi di cambiamenti, non rimase sconosciuto, se addirittura ne troviamo
testimonianza in una antologia di Italian Lyrists of To-Day del 189375, a cura di Geor-
ge Arthur Greene, il quale presenta così i Semiritmi:
A more serious contribution to poetical literature is his curious volume of
“Semiritmi” (Milan, Treves, 1888), in which he makes essay of various rhytmical
forms which approach the nature of measured prose, and remind the English reader
of Walt Whitman, though without the American’s author freedom and “verve”76.
Il lettore anglofono può trovare interesse a sapere che anche in Italia si sperimenta
qualcosa che ha a che vedere con la liberazione dei ritmi di Whitman; a tale scopo,
73 Ivi, p. 127.
74 Ivi, p. 128.
75 Italian Lyrists of To-Day. Translation from contemporary Italian poetry with biographical notices, by G.
A. Greene, Elkin Mathews and John Lane, London; Macmillan and Company, New York 1893. Il libro
contiene traduzioni da D’Annunzio, Betteloni, Boito, Carducci, Chiarini, De Amicis, Fogazzaro, Graf,
Milelli, Panzacchi, Pascoli, Stecchetti, e tra le autrici figurano Contessa Lara, Ada Negri, Annie Vivanti.
76 Ivi, p. 53.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 243
Greene traduce Sub umbra, cadendo nella trappola tesa da Capuana, se, come si è i-
potizzato, il tema e il linguaggio avevano per l’autore dei Semiritmi, in larga misura,
risvolti parodici ai danni di una poesia estetizzante alla moda. La misura dello scher-
zo, del distacco parodico non sono infatti affatto contemplati da Greene, nemmeno
nella breve introduzione, che riporta le parole di Capuana sulla scelta del semiritmo
(«In these days when many volumes of verse are published in which there is little or
no poetry […]»)77, ma non fa cenno all’ammissione della «parodia» ai danni dei «pre-
tesi cultori di letterature straniere». Greene traduce poi Cameo (corrispondente a
Cammeo) e Passio domini nostri (Fragments of a Mystery); di quest’ultimo, sceglie per
l’appunto la Scena XIII, dove Capuana lettore di Shakespeare emerge più chiaramen-
te, con un Pilato-Amleto tormentato dall’ingiusta esecuzione e in preda a sogni de-
scritti alla maniera di Mercutio.
Tra coloro che riconobbero l’innovativa misura dei Semiritmi di Capuana non
mancò Lucini, che in più sedi elargì riconoscimenti, mettendo da parte «la burla» e
concentrandosi sull’esperimento:
fra tanto, e non per burla, intermezzava coi Semiritmi, che sono la prima prova stam-
pata, il primo rude tentativo del verso libero italiano78.
Ora più d’ogni altra sua cosa io apprezzo il tentativo dei Semiritmi, che primo, con
ragione pura italiana e sentimento d’arte nazionale, mandò fuori, or saranno
vent’anni, preconizzando il verso libero, contro l’indifferenza, le risate, li scherni dei
barbassori della critica e della poesia italiana patentata79.
Peraltro lo stesso Lucini, prima di adottare la designazione di “semiritmo”, nel
1888, e ben prima di volgersi definitivamente al verso libero, aveva letto e considerato
il petit poème en prose come forma innovativa, a partire da Baudelaire80; un tentativo
in direzione del poemetto in prosa è rappresento, secondo Viazzi, dai Salmi della Ele-
vazione81, tre pièces facenti parte della prima stesura delle Armonie sinfoniche, scritte
tra il 1885 e il 1888, dunque in contemporaneità con i Semiritmi di Capuana e con la
“modellizzazione” di Pica.
È interessante rilevare che si tratta appunto di Salmi: Lucini ha intuito che un e-
sempio di prosa tendente alla poesia è rappresentato, in una tradizione classica, dalla
77 Ivi, pp. 53-54.
78 Lucini, Il verso libero, cit., p. 112.
79 Id., Le novità del mese [Rec. a L. Capuana, Profumo], «Giovane Italia», I, 2, febbraio 1909; citato in G.
Viazzi, Studi e documenti per il Lucini, Guida, Napoli 1972, p. 109.
80 Cfr. ivi, p. 120.
81 Ivi, pp. 239-41.
244 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
salmistica (come affermerà polemicamente Pascoli discorrendo di metrica libera)82, e
la piega ad immagini esoteriche; secondo Viazzi, si può ipotizzare che si tratti del
«documento di rottura di Lucini con la prima esperienza naturalistica»83.
I tre testi rappresentano una sorta di autobiografia simbolica, un itinerario di
formazione che, nei suoi primi due movimenti, ricorda lontanamente l’esperienza
dell’Islandese leopardiano. La prima presa di coscienza sembra riguardare la degene-
razione incontrastabile dell’organismo umano; avendo creduto nella forza e nella bel-
lezza, doni della giovinezza, come compagni migliori per il proprio viaggio, si trova
presto solo e indifeso:
Egli credé nella sua forza e nella sua bellezza, poi che lungo era il viaggio, nuove ed
avventurose le contrade per le quali doveva passare: e seppe che la forza vince li ani-
mali selvaggi e li uomini e la bellezza le vergini dalle trecce d’oro.
Ma egli ha perduto la forze e la bellezza ed un fanciullo inerme può rovesciarlo e li
uomini ridono della sua miseria.
E pure traversò montagne scheggiate e scintillanti come argento eletto sul domo
dei cieli […].
E pure perdé la forza e la bellezza: né più vinse li animali selvaggi e li uomini né più
lo guardarono le belle vergini dalle treccie d’oro84.
La seconda disillusione giunge a proposito degli affetti e della vita sociale; non
potendo essere autosufficiente, si è appoggiato all’amicizia e all’amore, ma ha presto
gustato il sapore del tradimento:
Egli credé nell’affetto degli uomini e nell’amore delle femine: e disse che l’amicizia
è come il bastone del viatore su cui si riposa durante il cammino e che l’ebrezza della
voluttà sono i fiori dell’oasi nelle quali riprende forza e vigore per la via a venire.
[…]
E si ricredé e disse: «La mia via è lunga e faticosa e nel diserto l’oasi si essiccò al sof-
fio del Simoûn e nulla vena d’acqua ristora il viandante assetato»85.
82 Anche Pascoli, nella Lettera al Chiarini, lega la poesia in prosa al salmo: «Tempo prima del Whitman,
in Italia usava questo genere di composizione e di metrica: il salmo» (G. Pascoli, A Giuseppe Chiarini del-
la metrica neoclassica, in Poesie e prose scelte, progetto editoriale, introduzione e commento di C. Garboli,
Mondadori, Milano 2002, II, p. 249).
83 Viazzi, Studi e documenti per il Lucini, cit., p. 121. Secondo il critico, in questo caso saremmo di fronte
ad un «antecedente del sistema simbolista del Gian Pietro da Core» (i Salmi terminano in una sorta di
«Idea che fatta muscoli e sangue travolge i monti»); cfr. ivi, p. 124 e p. 241.
84 Ivi, p. 239.
85 Ivi, pp. 240-41.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 245
Il Salmo terzo presenta invece una risoluzione del tutto originale, opposta al ma-
terialismo leopardiano: abbandonate «le terre abitate», vivendo una vita selvaggia ed
eremitica nel deserto, l’Io ha finalmente ragione della propria esistenza tramite
«l’Idea», culmine di una sorta di percorso ascetico che si concretizza nelle forme di
un pantheon politeista e di gusto esoterico (Baal, Moloch e così via):
Ora in quel punto, egli credé in un’altra forza e non errò, alla potentissima e santa,
alla Idea che fatta muscoli e sangue sconvolge i mondi.
[…]
A questa eterna idea, la Sarah dell’Oûr, noi pure prostriamoci: i Celti dicono: «Nul
existe que l’idëal»; Schahabarim insegna: «L’Idea è tutto: è il mondo e l’uomo; l’Idea
sconvolge il mondo, uccide e fa rivivere l’uomo»86.
La forma del salmo, rivisitata alla luce del poemetto in prosa, serve a Lucini per deli-
neare la storia di un’evoluzione spirituale, proprio tramite una prosa breve, di sapore
arcaico, indeterminata ed intessuta di ripetizioni che le conferiscono un’aura sacrale.
Il caso dei semiritmi sarà citato da Pascoli discorrendo, nel 1900, Della metrica
neoclassica87, a partire dal Tommaseo dei Canti Illirici: «versi, no, prosa, nemmeno.
Forse l’uno e l’altro?»88. A detta di Pascoli, le traduzioni in prosa di poesie straniere
godono di un «ritmo riflesso», di una «doppia misura»:
Sotto gli occhi è la prosa; ma se la leggiamo, questa prosa, in quelle linee disuguali,
ecco agli orecchi dell’anima risonare il verso. C’è insomma una doppia misura, per
l’orecchio del corpo e per quello dell’anima, presente e assente, diretta e riflessa. E che
questa doppia misura sia come in quelle stupende traduzioni del Tommaseo
dall’illirico e dal greco, così in altre d’altri, non è certo un inganno del mio senso: un
valentuomo da quest’indefinibile effetto ricavò una sua teorica e una sua prassi di se-
miritmi89.
Il verso assente risuona nella prosa, in modo tale che Capuana avrebbe dovuto parla-
re, piuttosto che di semiritmo, di «doppio ritmo, come ho detto: il vicino e il lonta-
no»: «il ritmo di prosa e il ritmo di verso dei così detti semiritmi è obietto di due fa-
coltà diverse: dell’udito e dell’imaginazione»90. Il semiritmo è legittimato, secondo
Pascoli, dalla propria natura di traduzione supposta, di gioco episodico, che non e-
sclude ma presuppone un’originaria poesia versificata, sia essa vera o immaginata.
86 Ivi, pp. 241-42.
87 Pascoli, A Giuseppe Chiarini della metrica neoclassica, cit., pp. 201-270.
88 Ivi, p. 240.
89 Ibid.
90 Ivi, p. 241.
246 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Un gioco di «una volta» e di «un solo»91: Pascoli si trova d’accordo con Capuana nel
deprecare eventuali imitazioni, ma non si trova affatto concorde con un’affermazione
dello scrittore siciliano contro le «pastoie del ritmo» («Secondo me, il poeta ha fatto
bene a sciogliersi dalle pastoie del ritmo, che non concede libera agilità neppure ai
suoi più poderosi domatori»)92. Ma un’opposizione ancor più forte è riservata da Pa-
scoli a Walt Whitman: «la poesia in prosa? Ma la poesia elementare ed essenziale è
ritmo solo!»93. Whitman e i suoi seguaci si vantano di rivoluzioni in realtà inesistenti:
«come il Capuana trasse l’idea dei semiritmi dalle traduzioni interlineari del Tomma-
seo, così Walt Whitman dedusse i suoi versicles dalla Bibbia, dal sacro libro che, tra i
popoli anglosassoni e protestanti, è più sotto gli occhi e negli orecchi e nel cuore di
tutti»94. Pascoli ammonisce lo scrittore sui pericoli dell’abuso del ritmo riflesso e della
suggestione, mettendo in guardia contro la richiesta di un’eccessiva «collaborazione»:
Meglio è la cosa che l’ombra, e meglio il ritmo proprio che il riflesso; e contar sul sen-
so e sul suono di ciò che si dice, non sull’effetto di ciò che non si dice. Chi si affida al-
la suggestione, prende all’opera sua un collaboratore: un collaboratore che poi, allo
spartire del merito e del premio, vuol tutto per sé. Pensateci!95
Come già accennato, saranno i futuristi, ai quali Capuana guardava con interesse,
ad annoverare i Semiritmi tra i precedenti del verso libero, e Marinetti inviterà il pro-
tagonista di tempi ormai trascorsi al tavolo della discussione sul Vers libre. Non a ca-
so, dunque, alla scomparsa di Capuana, nel 1915, ancora uno scrittore di ambito fu-
turista, Paolo Buzzi, ricorderà su «Aprutium» «il grande liberatore dei ritmi»96. Con-
testualmente, anche Marinetti renderà omaggio all’autore dei Semiritmi: «Poeta au-
dace e novatore, egli sentì pel primo fra noi la necessità delle riforme metriche che
ormai si impongono»97. Sempre su «Aprutium», Giovanni Rabizzani ricordava i Se-
miritmi come «elaborazione di temi poetici all’infuori di ogni corrente poetica, senza
rima, senza verso, quasi senza accenti, una prosa lirica divisa in membri ora lunghi
ora corti»98. Ricordando la genesi parodica, nota poi acutamente che essi «rappresen-
91 Ivi, p. 243.
92 Pascoli fa riferimento ad una «“Cronaca letteraria” della Tribuna, 1899, n. 84» (ivi, p. 244).
93 Ivi, p. 246.
94 Ivi, p. 249.
95 Ivi, p. 252.
96 Cfr. Pensieri, ricordi, rimpianti, «Aprutium», IV, 12, dicembre 1915 (citato in Ghidetti, L'ipotesi del rea-
lismo, cit., p. 278): «Piango il grande liberatore dei ritmi, il difensore delle audacie migliori del Futuri-
smo». Il fascicolo è dedicato alla memoria di Capuana, con ampli interventi di Giovanni Alfredo Cesareo
e Giovanni Rabizzani.
97 Pensieri, ricordi, rimpianti, «Aprutium», IV, 12, dicembre 1915.
98 G. Rabizzani, Luigi Capuana critico, «Aprutium», IV, 12, dicembre 1915.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 247
tano uno stato intermedio tra la critica e la poesia»: «Tutto il volume è poesia poten-
ziale, è una vittoria critica sui versificatori usuali. Del resto il Capuana volle fare un
giuoco, che in alcuni momenti egli stesso prese sul serio»99.
In conclusione, si può ricordare come il sintagma forgiato da Capuana rimanga
nella memoria italiana, se anche Montale lo sceglierà, nel 1950, per definire la poesia
di René Char: «René Char si serve di un verso-prosa, di semiritmi che attraverso Re-
verdy sembrano aspirare a una concentrazione esplosiva di tipo rimbaudiano»100.
3.2 Pratiche per un apprendistato simbolista
Quel «genere di letteratura, che ha insieme della prosa e della poesia», presentato da
Pica nel 1888, era stato oggetto di lettura, pochi anni prima, di Ragusa Moleti e non
solo; interessi di vario tipo, legati anche a letture “traditrici”, avevano accompagnato
la scoperta dei poemetti baudelairiani e suscitato appassionate imitazioni, come quel-
le, appunto, tentate nelle Miniature e Filigrane. La lettura pichiana del 1888 aveva
contribuito, con la consueta chiarezza storicizzante, a chiarirne le origini e i caratteri
precipui, mentre, al contempo, ne modificava anche la ricezione. L’attenzione del let-
tore veniva infatti spostata verso un poemuccio in prosa più tipicamente simbolista,
raffinato nella fattura e nella delicatezza di immagini: un Mallarmé “edulcorato” di
prose dal senso sfuggente ma intelligibile.
La lettura pichiana sembra incoraggiare la produzione di “piccole prose” o “poe-
metti in prosa”, a partire dalla stessa rivista in cui il fatidico saggio fu pubblicato nel
1888, «Il Fanfulla della Domenica», come ha rilevato acutamente Finotti101. L’altra
rivista da tenere sott’occhio è il «Marzocco», dove nel gennaio 1897 Pica presentava
Bertrand, e che accoglierà poemetti in prosa distinguendoli, a livello tipografico, tra-
mite il corsivo.
Si possono anticipare alcuni caratteri di questi poemetti: sono spesso basati su di
un simbolismo “debole”, non tendente all’oscurità, dai temi e le immagini pre-
crepuscolari; a scriverli sono per lo più donne, magari esordienti, rappresentanti, in-
somma, di una condizione marginale nel panorama letterario; la sede in cui le pièces
appaiono sono pubblicazioni periodiche, frutti di una collaborazione estemporanea. I
nomi che si incontrano su questa strada sono quelli di Haydée (Ida Finzi), Deledda,
Neera e Jolanda: donne che, in diversa maniera, raccontano, nella misura breve, lirica
99 Ibid.
100 E. Montale, Dopo il surrealismo, in Id., Sulla poesia, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1976, p. 387
(l’articolo era stato pubblicato nel «Corriere della Sera» del 9 febbraio 1950).
101 A dare rilevanza alla questione è stato Finotti, con osservazioni poi riprese e sviluppate da Giusti; cfr.
Finotti, Sistema letterario e diffusione del decadentismo nell'Italia di fine ‘800, cit., pp. 85-89.
248 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
ma non strettamente poetica, del poemetto in prosa, storie femminili di disillusioni,
fallimenti amorosi e terribile immobilismo.
Sebbene si tratti di una produzione minore anche nell’ambito dell’opera di scrit-
trici destinate a ben altra fortuna, è interessante ripercorrere alcuni dei poemetti in
prosa da loro pubblicati sul «Fanfulla della Domenica» e sul «Marzocco». La triestina
Ida Finzi (1867-1946) pubblica i primi poemetti in prosa poco dopo l’articolo del Pi-
ca; tra prosa e poesia, la scrittura sembra propendere per la prima, e non si riscontra-
no particolari procedimenti volti a trasportare il lettore sulle ali della pichiana «sug-
gestione»; a livello tematico, immagini di cose perdute, passate, morte e crepuscolari
richiamano un simbolismo che potrebbe essere definito, con Finotti, «minimalista»,
in opposizione ad un tipo «forte», «teso ad una trasfigurazione dei dati della coscien-
za e spesso di contenuti onirici»102. Del resto, lo afferma Haydée stessa in uno dei po-
emetti in prosa: «Voi lo sapete, molte volte mi passano per il capo delle strane fanta-
sie: io amo indovinare la storia delle cose che tanti credono così fredde e insensibi-
li»103.
La grande sventura, risalente al 1889104, traccia il ritratto di quattro fanciulle: le
prime tre ricordano le Dame eleganti di Praga (in particolare «la seconda fanciulla,
sottile e bruna, dall’occhio di sultana, ardente e velato, pieno di lampi foschi») e le
bellezze smorte di Tarchetti («la terza fanciulla, smorta e dolce come un fantasma
sotto le molli trecce castane»), mentre la quarta, «immobile e muta», è bloccata nel
dolore dell’impossibilità di amare, in un deserto di sentimenti: «in mezzo agli uomini
che amano, sulla terra che freme in un continuo amplesso di nozze, sotto il cielo che è
tutto un tremito d’astri palpitanti d’amore, io passo come una creatura maledetta,
condannata a non amar mai». Deserto è, parimenti, il palazzo abbandonato di Corde
spezzate:
Sugli anelli rugginosi i cortinaggi delle alte porte correvano a stento, come se dopo
tanto tempo non sapessero più muoversi, come se non ricordassero più, gli alti spec-
chi coperti di polvere riflettevano delle immagini velate, dei fantasmi di persone e di
mobili avvolte come in una nebbia105.
102 Ivi, p. 110.
103 Haydée (Ida Finzi), Poemetti in prosa. Corde spezzate (Alla Signora M. G. de A), «Fanfulla della Dome-
nica», XI, 46, 17 novembre 1889 (in calce: «Trieste, ottobre ‘89»). Corde spezzate è preceduto da un altro
poemetto di Haydée, Fra le rovine (ivi). I primi poemetti in prosa di Haydée sul «Fanfulla» risalgono al
1888: Poemetti in prosa. Le campane, L’apparizione della Morte, Il libro della bambina, ivi, X, 46, 11 no-
vembre 1888.
104 Ead., Poemetti in prosa. La grande sventura, «Fanfulla della Domenica», XI, 9, 3 marzo 1889.
105 Ead., Poemetti in prosa. Corde spezzate, cit.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 249
Le immagini velate simili a fantasmi ricordano l’ultimo Praga e, ancor più, certe pro-
se di Bazzero, ugualmente affascinato dai palazzi deserti nel loro sentore di passato
spento, ossessivo e irrecuperabile: «la tastiera restò muta», le corde sono ormai spez-
zate e il pianoforte è il simulacro, vuoto, del tempo perduto.
Sempre con Bazzero Haydée sembrerebbe condividere idealmente un fascino per
l’atmosfera del «crepuscolo cadente», con il suo «debole chiarore azzurrognolo»106,
che aveva ispirato, a suo tempo, l’autore di Riflesso azzurro, e pare rappresentare lo
spegnersi di ogni passione, risucchiata nel passato: «Essi se ne stavano l’uno accanto
all’altro nel crepuscolo cadente, dopo tanti anni di separazione, il grande poeta scetti-
co e la bellissima donna che egli aveva amato un giorno e che non amava più»107.
Nei Due ascensori108 si legge, accanto al fascino esercitato dalla modernità del «ve-
icolo strano», la separazione tra due bambini che, divisi dai vetri delle due cabine, si
parlano senza intendersi. Gli orologi109 vengono interrogati sul significato dello scor-
rere del tempo, e la risposta non è piacevole: «Io ho ragione di piangere. L’ora che
passa è sempre triste per me. Che essa sia triste o lieta per gli altri, essa è un tarlo ro-
ditore che mi consuma, che smussa le punte delle mie ruotine e allenta l’elasticità del-
le mie molle. […] Non v’è nessun dolore come questo, di dover guardar fisso l’abisso
in cui si precipita: è questo il m io supplizio, il supplizio dei veggenti e dei saggi». La
notte è foriera di tormento e di dubbio: «Per noi, i malati, i tormentati, i sofferenti, la
notte non porta il riposo; tutti i dubbi, tutte le segrete torture, tutti i desiderii insod-
disfatti che lacerano nascostamente le nostre anime, si fanno più acuti e più vivi allo
spegnersi della luce»110.
Sempre sul «Fanfulla della Domenica», come segnala Finotti, si prestava atten-
zione al fenomeno del poemetto in prosa come significativo passaggio nella letteratu-
ra italiana:
le immagini sintetiche, quasi ieraticamente fissate nella compostezza metrica del ver-
so, […] hanno ceduto il luogo prima alla poetica ribelle dei romantici, poi a una for-
ma più larga ma non più libera perché la mancanza del ritmo la costringe a una scelta
forse più sottile della sua forma, e a tenersi egualmente lontana così dalla declama-
zione oratoria della poesia falsa, come dall’umiltà scritta della prosa comune111.
106 Ead., Poemetti in prosa. Dall’alto, «Fanfulla della Domenica», XIII, 33, 16 agosto 1891. Nello stesso
numero si leggono anche i poemetti La miniera d’oro e Alba (vd. infra).
107 Ibid.
108 Ead., Poemetti in prosa. I due ascensori, «Fanfulla della Domenica», XI, 9, 3 marzo 1889.
109 Ead., Poemetti in prosa. Gli orologi, ivi.
110 Ead., Poemetti in prosa. Alba, «Fanfulla della Domenica», XIII, 33, 16 agosto 1891.
111 Silex, Il libro della Chimera, «Fanfulla della Domenica», XII, 46, 16 novembre 1890; l’articolo è citato in
F. Finotti, Sistema letterario e diffusione del decadentismo nell'Italia di fine ‘800, cit., pp. 87-88.
250 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Queste parole, che si leggono nel quadro di una recensione al Libro della Chimera di
Ernesto Morando, nel 1890, testimoniano una riflessione sul genere, che riconosce
l’estrema difficoltà, a suo tempo già enunciata da Baudelaire, di comporre una prosa
poetica al di là delle regole della poesia convenzionale. D’altra parte, il poemetto in
prosa viene posto al vertice di un percorso di riforma letteraria che verrà occupato,
successivamente, dal verso libero. Lo stesso Morando, poi, è autore di una prosa che
porta, sul «Fanfulla», l’etichetta di poemetto in prosa, l’ Heautontimorumenos, coa-
cervo d’immagini d’immobilità e morte, giocato sull’iterazione:
Era seduto a’ suoi piedi, ma senza un palpito dell’anima, senza un pensiero per lei
nella mente. Ed ella, distratta, con gli occhi erranti tutto all’intorno sulle pareti del sa-
lotto, come se vi avesse letto per la prima volta qualche oscura e terrificante iscrizione
– come se per la prima volta ne risentisse, dentro del suo essere, per tutte le sue fibre,
la ghiacciale freddezza - distrattamente, con la pupilla semivelata, ma senza abbando-
no, senza desiderio alcuno, gli accarezzava ancora la densa e bruna capigliatura.
[…] Poi la mano ricadde inerte»112.
Naturalmente, il “punitore di se stesso” è il poeta, conscio ma schiavo della «tortura
che gelosamente alimento con tutto il fuoco delle mie facoltà»113.
Sempre sul «Fanfulla» era comparsa, nel 1892, oltre ad altri poemetti di Ha-
ydée114, una traduzione «dalle “Poesie in prosa” di Ivan Turghenieff», S’impicchi!, a
firma di Nautilus115; il componimento, in realtà, appartiene a quella galleria di ritratti
di popolani che più si allontanano dai modelli simbolisti, ricollegandosi piuttosto alla
prosa del grande realismo russo; infatti essa non sembra avere particolari imitazioni
nell’ambito della rivista. Eppure questa traduzione è il segnale di un interesse preci-
puo per un genere innovativo, praticato anche da un grande realista che, dopo aver
esordito con la poesia, l’aveva abbandonata del tutto per riscoprirla, in stagione senile
(il titolo della raccolta fu appunto Senilia), in una forma del tutto rinnovata; come
sostiene Stefano Garzonio, si tratta, sia a livello formale che contenutistico, di un o-
112 F. E. Morando, Heautontimorumenos. Poemetto in prosa, «Fanfulla della Domenica», XVI, 37, 16 set-
tembre 1894.
113 Ibid.
114 Haydée, Poemetti in prosa. La storia del fiore che volle diventar farfalla, A una stellina nuova, Nelle te-
nebre, ivi, XIV, 10, 6 marzo 1892. Per il 1893 si registrano questi poemetti a firma di Haydée: I poemetti
del gatto, ivi, XV, 12, 19 marzo 1893; Poemetti in prosa. Mentre scende la neve, Spes, La rondinella, ivi, XV,
52, 24 dicembre 1893.
115 Nautilus, S’impicchi! (dalle «Poesie in prosa» di Ivan Turghenieff), ivi, XIV, 5, 31 gennaio 1892.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 251
rientamento verso elementi «neoromantici», che fecero di Tugenev «un antesignano
delle nuove tendenze decadenti e simboliste verso il declinare del secolo»116.
Tra il lettori dei poemetti in prosa del Turgenev è da annoverare, peraltro, anche
Italo Svevo, che aveva dedicato alle Poesie in prosa di Iwan Turgenjeff un articolo
pubblicato sull’«Indipendente» di Trieste il 29 gennaio 1884117, avendo letto l’opera,
molto probabilmente, in una delle quattro edizioni tedesche pubblicate nel 1883118.
Svevo presenta le poesie in prosa non dimenticando di soffermarsi sull’eterogeneità
dei contenuti, che richiedono una lettura frammentaria ed episodica, nonché sulla
forma lirica e sintetica:
In una lettera al direttore di questa rivista, l’autore consiglia di non leggere queste
poesie tutte di seguito, perché «la conseguenza ne sarebbe la noia […]». Il consiglio
merita di venire seguito; il contenuto del volumetto è tanto eterogeneo che, alla lettu-
ra di seguito, una sensazione scaccia l’altra. Sono allegorie, racconti e bozzetti che
non hanno di comune che la forma alquanto lirica, forma marcatissima per la predi-
lezione alla sintesi nei giudizî, e nella descrizione e nel racconto l’uso ed abuso di trat-
ti rapidi, incompleti, tanto che talvolta la fantasia del lettore non riesce a ricostruire il
fantasma che balenò alla mente dell’autore119.
Affiora la difficoltà di definire una scrittura varia, dall’allegoria al bozzetto, ma i tratti
della poesia in prosa sono messi in luce ponendo l’accento sulla brevità e
sull’incompletezza, che, anzi, Svevo lamenta come eccessivi: «in questo rapido appa-
rire e sparire della disposizione nacquero queste poesie, di cui alcune frettolosamente
concepite ti lasciano indifferente, altre ti chiamano alle labbra quel sorriso di compia-
cenza che non si ha che per le opere più raffinate dello spirito umano»120.
116 S. Garzonio, Introduzione, in I. Turgenev, Senilia. Poesie in prosa 1878-1882, Marsilio, Venezia 1996, p.
12.
117 I. Svevo, Poesie in prosa di Iwan Turgenjeff, in Id., Saggi e pagine sparse, Mondadori, Milano 1954, pp.
31-34; ora in Id., Tutte le opere, edizione diretta da M. Lavagetto, Teatro e saggi, a c. di F. Bertoni, Mon-
dadori, Milano 2004, pp. 989-992. Si veda a proposito E. Saccone, Dati per una storia del primo Svevo
(1880-89), «La Rassegna della letteratura italiana», LXVI (serie VII), 3, settembre-dicembre 1962, pp. 483-
512.
118 Come ricorda Bertoni, era già disponibile anche un’edizione francese, dal 1882; la prima traduzione
italiana comparirà, invece, nel 1907 (cfr. Bertoni, Apparato genetico e commento, ivi, p. 1792).
119 Svevo, Poesie in prosa di Iwan Turgenjeff, cit., p. 989. Svevo aveva colto nel segno individuando il mi-
nimo comune denominatore delle poesie in prosa nella sintesi e nella condensazione; qui il suo giudizio si
incontra, ad esempio, con quello recente del traduttore italiano Garzonio: «Le Poesie in prosa di Turgenev
si concentrano ognuna tematicamente su di una specifica questione dell’esistenza umana […]. Tale impo-
stazione spinge lo scrittore a una condensazione del testo portata al suo limite estremo» (Garzonio, Intro-
duzione, cit., p. 20).
120 Ivi, p. 990.
252 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Le poesie in prosa interessano Svevo proprio perché non si tratta più del «Tur-
genjeff completo, l’autore del Nihilismo»121, ma di un autore «più rilassato», nel bene
e nel male, eppure ancora capace di delineare con aspra precisione le contraddizioni
del tessuto sociale umano: non per niente, viene tradotta da Svevo qualche frase
dell’Egoista e, per intero, è presentata al lettore la conversazione Gli operai e l’uomo
dalle mani bianche122. La prima lo interessa per l’acuta rappresentazione dell’“onesto
egoismo” alla base della società contemporanea, la seconda aiuta a gettare luce sul di-
scusso «partito politico» dell’autore russo, mettendo in scena il sacrificio, inutile,
dell’intellettuale per il popolo irriconoscente:
Nell’«uomo delle mani bianche» si scorge il modo di pensare di Turgenjeff stesso. Il
quale sapeva quanto valeva il suo popolo e continuava ad amarlo; sapeva che le corde
che servono ad uccidere i suoi eroi gli sono care perché apportano fortuna, e sapeva
che esso vede con disgusto quei poltroni che fanno disordini, eppure non disprezzò
gli uomini che si sagrificano e in questo modo provò non reputare inutile questo sa-
crificio.
È, con tutto il rispetto, in questo senso più conseguente, più umano, superiore ad
Alfieri, il quale amava un popolo ideato a suo modo e quando dovette accorgersi che
l’esistente era del tutto diverso, scriveva Il Misogallo123.
Sono in gioco, dunque, nelle poesie in prosa di Turgenev, spesso giostrate tra il dialo-
go e il racconto breve, logiche diverse rispetto al tenue simbolismo degli oggetti quo-
tidiani trasfigurati dei poemetti in prosa di Mallarmé pubblicizzati da Pica. Siamo,
piuttosto, dalla parte di Baudelaire, nell’esplorazione disillusa ma continua di
un’umanità allo sbando; sebbene Turgenev non vi abbia fatto riferimento diretto, si
sa che l’opera di Baudelaire gli era nota tramite Flaubert, che parlò dei propri com-
ponimenti come «poesie senza rima e senza metro», e consonanze tematiche e forma-
li sono state rilevate in varie sedi124.
Sulla linea di demarcazione tra prosa e poesia si ponevano poi, sempre sul «Fan-
fulla», anche alcune traduzioni che assumevano i tratti del poemetto in prosa: si pen-
sa, ad esempio, a La pescatrice di Burano, tratta dagli Idilli di Von Platen:
- Assidue al lavoro sorelle! La rete vo’ darla oggi stesso
al mio diletto, e tosto che la sua vela ritorni.
Ma questa sera ei tarda! Perché? La laguna è tranquilla,
121 Ibid.
122 Si possono leggere entrambe le prose, con i titoli di Un egoista e Il manovale e il signorino – Conversa-
zione, in Turgenev, Senilia. Poesie in prosa 1878-1882, cit. (rispettivamente, pp. 119-21 e 107-09).
123 Svevo, Poesie in prosa di Iwan Turgenjeff, cit., p. 992.
124 Cfr. Garzonio, Introduzione, cit., p. 15.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 253
ala non c’è di vento; i rossi vapor della sera,
come dall’onde usciti, ravvolgon Venezia lucente125.
Lo stesso vale per il brano tratto dalla Sensitiva di Shelley, per traduzione di De Bosis,
che adotta una sorta di verso lungo rimato:
Or la mala erba, imagine di viva morte, al primo
sopravenir de’ ghiacci, si rimpiattò ne l’imo
suolo: subitamente, dal gel fuggendo, sparve
come via da li umani occhi dileguan le larve126.
La produzione di poemetti in prosa coinvolge, tra le altre127, anche gli esordi della
Deledda (nata nel 1871, dunque più giovane di Haydée, Jolanda e Pica), che, come
accennato, pubblica due Piccoli poemi sul «Fanfulla della Domenica del 1893, La chic-
chera e Il libro d’oro128. La prima prosa si apre in uno stato di desolata solitudine cre-
puscolare:
Sentite, oh, sentite! Il freddo crepuscolo color di viola allaga la brughiera e una
mandra attraversa il sentiero, una stupida mandra di pecore melanconiche che si al-
lunga e si restringe, col muso in terra, che si allarga e si assottiglia, che si ferma e va
secondo il volere della prima fila. E i sonagli singhiozzano nella tristezza della pianu-
ra129.
La chicchera diventa il simbolo di un amore non consumato130, e un sapiente tessuto
di ripetizioni ne incornicia la fine:
125 V. Richter, La pescatrice di Burano, dagli Idilli di August Von Platen, «Fanfulla della Domenica», XIV,
30, 24 luglio 1892.
126 A. De Bosis, Dalla «Sensitiva» di Percy Bysshe Shelley, ivi, XIV, 32, 7 agosto 1892.
127 Si troveranno, ad esempio, anche i poemetti in prosa di Sfinge [Eugenia Codronchi Angeli]: Poemetti
in prosa (Il trionfo, La preghiera, La follia, La ragione), «Fanfulla della Domenica», XIX, 1, 3 gennaio 1897.
128 G. Deledda, Piccoli poemi. La chicchera, Il libro d’oro, «Fanfulla della Domenica», XV, 44, 29 ottobre
1893. I due poemetti sono citati nella bibliografia edita in Id., Versi e prose giovanili (nuova ed. riv. dalla
figlia Carmen, a c. di A. Scano, Edizioni Virgilio, Milano 1972, p. 314), ma presumendo un’errata corri-
spondenza con due poemetti pubblicati sulla «Vita sarda» (II, 15, 21 agosto 1892) e riportati nel volume
(pp. 177-78); inoltre si riportano titoli errati (Piccoli poemi in prosa. È mattina; È sera). In realtà si tratta
di sei poemetti differenti: La chicchera e Il libro d’oro, sul «Fanfulla della Domenica»; quattro Piccoli poe-
mi, su «Vita sarda», senza ulteriore titolo, anche se due di essi hanno come inizio «È mattina» ed «È sera».
Ad essi, va aggiunto Bambini (Dai piccoli poemi), «Vita Sarda», II, 14, 7 agosto 1892; si tratta però, in real-
tà, di un breve racconto, a testimonianza dell’uso molteplice della fluida nozione di «piccolo poema».
129 Ead., Piccoli poemi. La chicchera, cit.
130 «La chicchera di porcellana bianca scintillava tra le sue mani inguantate di nero, ed io mi vidi là dentro,
la giù, là sù, riflessa nitidamente nelle arcate moresche piene di luce, mi vidi nel bagliore niveo della por-
254 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Sapete voi le tristezze del tramonto e dell’agonia di un amore? Voi, pini altissimi,
che guardate verso orizzonti lontani, voi che assistete ai dolorosi tramonti della landa,
ai gialli tramonti invernali, sapete voi la tristezza di altri tramonti, di altre agonie?
Nel Libro d’oro è ancora protagonista un amore che finisce, lasciandosi dietro un
sonno di aridità e morte:
Voi siete morto per me – e a poco a poco lo spirito mio sfumò coi sogni e con le la-
grime e si nascose tra le pagine pallide del libro fatale; ora dorme laggiù il triste sonno
dei viventi che è più amaro del sonno dei defunti…131.
Com’è stato da altri argomentato, le prime scritture della Deledda risentono pro-
prio di un’indecisione tra poesia e prosa che porta a frequenti tentativi di commistio-
ne, sulla scia di un apprendistato tra tardo-romantico e decadente. Ad esempio, «non
prosa e non versi tradizionali» definisce Eurialo De Michelis L’incontro (Piccolo poe-
ma), risalente al 1896132. Tra le prose giovanili della Deledda, si trovano almeno133 al-
tri quattro componimenti ascrivibili al genere, contrassegnati dall’etichetta di Piccoli
poemi («Vita sarda», II, 15, 21 agosto 1892)134, a testimonianza di un tipo di scrittura
diffuso in ambito femminile, per pubblicazioni su periodico e prime prove “poeti-
cellana, mi vidi, io vi dico che mi vidi tutta quanta. Con tutto lo strazio e la voluttà di quell’ora suprema,
io mi vidi» (ibid.).
131 Ead., Piccoli poemi. Il libro d’oro, cit.
132 Ead., L’incontro (Piccolo Poema), «Natura ed Arte», 1 gennaio 1896:
Vorrei incontrarti in una di queste sere d’autunno.
Dove? Lontano, anima, molto lontano.
Io ho veduto un altopiano meraviglioso
dove la luce del vespero folgorava ancora
mentre la vallea era notte oscura.
Cfr. E. de Michelis, Introduzione, in G. Deledda, Opere scelte, Mondadori, Milano 1964, p. 13.
133 Anche altre pièces sembrano ispirate al poemetto in prosa, come si può rilevare sfogliando le prose gio-
vanili. A proposito della collaborazione a «Vita sarda», afferma Olga Lombardi: «La collaborazione a “Vi-
ta sarda” durerà fino al 1893, anno in cui la rivista cessò le pubblicazioni, non solo con racconti e versi ma
anche con piccoli poemi in prosa, di cui abbonda la produzione deleddiana in quegli anni, nei quali si
formava il gusto della scrittrice, attingendo a fonti diverse» (O. Lombardi, Invito alla lettura di Grazia
Deledda, Mursia, Milano 1979, p. 20).
134 Si fa riferimento ai Piccoli poemi, «Vita sarda», II, 15, 21 agosto 1892; poi in Deledda, Versi e prose gio-
vanili, cit., pp. 177-78. A proposito di questi scrive Anna Dolfi, mettendo in luce la varietà delle speri-
mentazioni della giovane Deledda: «La descrizione e il tentativo documentario si alternano con la ricerca
del poème en prose di marca baudelairiana, in sottolineatura decadente e vagamente simbolista,
nell’apparizione del bianco spirito del bene che parla nella notte, in mezzo a dichiarazioni appassionate
d’amore» (A. Dolfi, Grazia Deledda, Mursia, Milano 1979, p. 45).
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 255
che”. Tra l’altro, a «Vita sarda» collaboravano studiosi sardi e non, compreso Giro-
lamo Ragusa Moleti, che vi pubblicava alcune Miniature e Filigrane, dove, come si è
detto, egli si provava nell’imitazione dei petits poèmes en prose di Baudelaire135. Le
prose presentano qualche ripetizione, un’attenzione alla frammentazione del testo in
paragrafi anche molto brevi, un tono enfatico ed esclamativo; fatti esteriori, piuttosto
accidentali, di una scrittura immatura.
La prima coppia di poemetti descrive una variazione sentimentale tra alba e cre-
puscolo, dalla potente luce mattinale della speranza all’ombra languente del tramon-
to:
È mattina. Il sole, poco alto sul cielo ancora tinto dalla freschezza dell’alba, projetta
i raggi obliqui nell’angolo del piccolo giardino, sotto il pergolato di passiflore, le cui
foglie sembrano tante piccole mano verdi, di un verde opaco, tremanti per ignota
commozione.
È sera! Lo stesso ambiente, la stessa personcina, come cambiati!
È forse l’ora della Natura che influisce sull’ora dell’Anima?
[…]
Nessuno splendore sotto i pergolati, dove anzi l’ombra invade melanconica: solo un
riflesso vago, fuggente, azzurrino, sulle foglie nere, solo un barlume roseo intorno alle
rose languenti136.
Nella successiva coppia di poemi l’amore interviene a colmare le «deserte solitu-
dini dello sconforto»:
Tu hai riempito il buio vuoto che mi stringeva, mi soffocava, nel mistero doloroso
del nulla, e, dacché tu sei venuto, il mio spirito ha raggiunto l’atomo fuggente, dietro
cui correva nell’angoscia dei sogni lunghi, ignei, dei sogni dell’idea e della fantasia137.
Nel secondo poemetto, questo amore si definisce nei tratti evanescenti di una «misti-
ca voce»:
Tu sei Ariel, il bianco spirito del bene, e passi soave nella mia vita come soffio di
brezza serale su fiori languenti nel vespero misterioso. […] Il bacio del tuo amore, la
135 Cfr. G. Cerina, Grazia Deledda e «Vita sarda». Tre anni di apprendistato, in A.Prost (a cura di), Rileg-
gere Grazia Deledda (Convegno del 22 marzo 1986, Cagliari), Quaderni della Cooperativa Teatro di Sar-
degna, Cagliari 1987, p. 15. Si trovano Miniature e Filigrane in «Vita sarda», III, 15, 20 agosto 1893; ivi,
III, 16, 3 settembre 1893; ivi, III, 17, 17 settembre 1893.
136 Deledda, Piccoli poemi, cit.
137 Ead., Versi e prose giovanili, cit., p. 177.
256 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
mistica voce dell’anima tua, la tua carezza spirituale e aerea sussurrano, tra le foglie
nere del fiore della mia vita, canti arcano che danno l’estasi e l’oblio al mio cuore […].
Io ascolto il tuo simbolico linguaggio e taccio; taccio ai tuoi piedi, come le donne
pie davanti all’infinito Iddio dei popoli, come i poeti davanti alla poesia dell’ignoto138.
Sempre su «Vita sarda», nel 1893, Deledda pubblica Fantasia grigia139, un poe-
metto ispirato all’Emilio Praga più intimista, citato in calce140; la “fantasia” è carica di
fiori appassiti e memorie perse nel «vaporoso spazio del tempo», irrecuperabili, tinte
del classico binomio amore-morte.
Fra le vecchie pagine del mio libro di preghiere rilegato, tra le pagine che gemono
le preghiere dei morti, ed a cui il tempo ha dato la tinta eburnea delle sere autunnali,
io conservo una piccola viola del pensiero, appassita141.
Leopardianamente, di sogni e speranze rimane solo il ricordo, racchiuso nella viola
appassita, mentre si attende il compimento dell’unica certezza e pace, la morte:
Tu mi ricordi il mio sogno perduto, o viola, il mio sogno morto, il mio sogno lon-
tano, il primo, forse l’ultimo sogno della mia anima, perché tutti gli altri dileguarono,
ideali abbattuti dal vento gelido del dolore, e tu sola mi resti, piccola viola, morta co-
me il mio primo sogno d’amore.
Ma una voce che mi carezza l’anima, mi dice: «piccola amica, attendi. Dopo i sogni
tormentosi della vita giunge per tutti la realtà del nulla e la dolce quiete del sepolcro».
138 Ivi, p. 178.
139 Ead., Fantasia grigia (poemetto in prosa), «Vita sarda», III, 4, 19 marzo 1893. La stessa prosa, con diver-
se varianti e il titolo di Due novembre (Fantasia grigia), è riportata in Ead., Versi e prose giovanili, cit., pp.
177-78; è fornita l’indicazione «Vita sarda», 2 novembre 1892, ma non sembra esistere un numero del 2
novembre, bensì dell’1, dove non vi si trova tale prosa (cfr. Vita Sarda. Periodico quindicinale di scienze,
lettere ed arti (1891-1893), con saggio introduttivo di A. Romagnino, Cagliari, Editrice Democratica Sar-
da, 1878). Non siamo riusciti a far chiarezza su questo piccolo mistero; inoltre, data la maggiore coinci-
sione in direzione poetica e l’eliminazione di materiale superfluo («mio libre di preghiere rilegato» > «mio
libre di preghiere»; «il mio sogno morto» > «il mio morto sogno»; «il primo, forse l’ultimo sogno della
mia anima» > «il primo, il sogno ultimo forse de lo spirito mio», ecc.) la versione riportata in volume,
seppur datata al 1892, sembrerebbe posteriore a quella da noi rintracciata nel numero di «Vita Sarda» del
1893.
140 Questa è la citazione praghiana, tratta dai Tre amanti di Bella (XVII) di Fiabe e leggende: «Genti pie che
pregate quando la notte cade, / non pregate pei morti che bevon le rugiade, / che si mutano in foglie, che
si mutano in fiori; / non pregate pei giunti, pregate pei viatori».
141 G. Deledda, Fantasia grigia (poemetto in prosa), «Vita sarda», III, 4, 19 marzo 1893 (citiamo dalla ver-
sione in rivista piuttosto che da quella in volume, che pur sembra più raffinata, privilegiando la certezza
della fonte).
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 257
La mia anima sorride, le labbra sussurrano le preghiere dei morti, ma lo spirito prega
peri viandanti ne le lande della terra142.
Sfogliando il «Marzocco», stavolta sulla fine degli anni ’90, si incontrano autrici
di poemetti in prosa come Jolanda, dedita a «Piccoli motivi poetici» poi raccolti in
volume, e Neera (Anna Zuccari non fa parte della generazione degli anni ’60, essendo
nata nel 1846), che preferisce la categoria di «Piccole prose» (ne pubblica sei o sette
tra il 1896 e il 1897)143; anche in tal caso, la produzione viaggia parallelamente con
l’analisi di Pica (testimone il carteggio tra i due), oltre a corrispondere, per la scrittri-
ce nota per il realismo intimista, ad un periodo di evoluzione in senso simbolista144. A
prendere per buone le parole della stessa Neera, in Ho rovesciato il mio paniere, esse
nascono da una sorta di brainstorming creativo destabilizzante: «i miei pensieri bat-
tono la campagna ben lungi dal calamaio, ben lungi dalla penna, sbrigliati, spostati,
indomiti, senza speranza di poterne cavare né un romanzo, né un racconto, né la più
piccola pagina d’album»145.
Dato altrettanto interessante, Neera ripropose una di queste piccole prose, La
vecchia, a «Poesia» di Marinetti, nel 1906, con il sottotitolo di Poema in prosa146. La
vecchia mette in scena il delirio notturno di un’anziana donna che, sentendo una mu-
sica lontana, non riesce a dormire, ripensando alla giovinezza ormai trascorsa
nell’incubo della vecchiaia che avanza:
142 Ibid.
143 Queste sono le sette Piccole prose di Neera: La chiave, «Il Marzocco», I, 11, 12 aprile 1896; La malinco-
nia della stella, ivi, I, 17, 24 maggio 1896; La vecchia, ivi, I, 41, 8 novembre 1896; La notte dei morti, ivi, I,
47, 20 dicembre 1896; Il fiore piange, ivi, I, 49, 3 gennaio 1897; Rosa nera, Ho rovesciato il mio paniere, ivi,
I, 51, 17 gennaio 1897. Esse sono citate in P. Zambon, Letteratura e stampa nel secondo Ottocento,
Dell’Orso, Alessandria 1993, p. 88, dove si riporta anche la definizione di Orvieto («soavi lirichette in pro-
sa»), che si trova in una lettera del 25 maggio 1896. A questo elenco andrebbe però probabilmente sottrat-
ta, a rigor di logica, La malinconia della stella: al di là del fatto che questa prosa ha carattere più narrativo
(come, del resto, Rosa nera), essa non si presenta in corsivo, patente di riconoscimento tipografico per le
prose poetiche del «Marzocco».
144 «Anna Zuccari, la donna che si firmava con tale nom de plume, di derivazione oraziana, nata a Milano
nel 1846 e sempre vissutavi, fino al 1918, era all’aprirsi dell’ultimo decennio del secolo scrittrice di una
certa fama […]. Apprezzata negli anni Ottanta per quella lettura “femminile” del realismo […], la scrittri-
ce stava maturando nuove linee estetiche» (cfr. Zambon, Letteratura e stampa nel secondo Ottocento, cit.,
pp. 82-83).
145 Neera, Ho rovesciato il mio paniere, cit.
146 Ead., La vecchia. Poema in prosa, «Poesia», II, 9-12, ottobre 1906-gennaio 1907 (la si può leggere in A.
Arslan, Marinetti e Neera. Un curioso scambio di lettere, «Forum italicum», XVI, 1-2, 1982).
258 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Dice la musica: Bella è la vita quando sotto il cielo azzurro si snodano le trecce
bionde, quando passeggiando in due accanto alle siepi si colgono i baci insieme alle
rose.
Pensa la vecchia: Ahi! Come erano bianche le mie braccia, morbido il mio collo e la
mia vita sottile!147
Esaltazione dell’arte “aristocratica”, teoria delle corrispondenze, capacità di au-
scultazione dei simboli da parte del poeta, immagini di forza accanto a tremori di fra-
gilità e morte sono i temi che si alternano nelle prose, come si vede nella Chiave:
Videro gli uomini – quando dopo di avere contemplati gli splendori del cielo, della
terra e la bellezza della donna, rivolsero gli occhi alle armonie interne – che una arca-
na corrispondenza si andava formando, per cui qualcuno di essi svelava agli altri i
moti segreti dell’animo, mettendoli in relazione coi fenomeni della natura, d’onde
una nuova bellezza sorse nel mondo e fu chiamata volta a volta arte, poesia, pensie-
ro148.
Immagini macabre cimiteriali, di gusto tardo-scapigliato, popolano La notte dei mor-
ti:
Ma nelle notti angosciate, nei pleniluni tragici, quando oscure minacce sconvolgo-
no la terra e nuovi dolori e nuove lotte attendono i vivi, si schiudono lentamente le
pietre dei sepolcri e le larve si chiamano ad una ad una in una loro incognita favel-
la149.
Solo a chi può comprendere l’autrice potrà svelare «il sogno di una bimba che rom-
peva per gioco un fiore», il cui «gemito» ancora la tormenta150.
Compare, più episodicamente, anche qualche poemetto a firma maschile: tra il
1897 e il 1898 si trovano Roccatagliata-Ceccardi, con una Piccola prosa di sogno151,
147 Neera, La vecchia, «Il Marzocco», I, 41, 8 novembre 1896.
148 Ead., La chiave, cit.; la prosa è riportata in P. Zambon, Letteratura e stampa nel secondo Ottocento, cit.,
pp. 89-90.
149 Ead., La notte dei morti, cit.
150 Ead., Il fiore piange, cit.
151 C. Roccatagliata Ceccardi, Piccola prosa di sogno, «Il Marzocco», I, 53, 31 gennaio 1897 (dedicata «A
colei che amerò»; in calce: «Nella mia villa d’Ortonovo, estate ‘96»). Si riporta una citazione come esem-
pio: «Oh amarsi e ricordare; ricordare e non amarsi; lievi ricordi tra lievi ombre d’oro nella pace della
notte estiva […]. Amarsi e ricordare; non ricordare ed amarsi, lo stesso; lo stesso come le anime che non
si amavano e che ricordano». Egli è appunto autore di un Libro di frammenti, che contiene poemetti in
prosa propri e traduzioni (Id., Il libro dei frammenti. Versi, Aliprandi, Milano 1895).
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 259
Ricciotto Canudo in panni femminili e Flavio Arvalo con alcune Piccole prose152. La
piccola prosa, però, si tinge più volentieri di rosa; Jolanda, in particolare, elaborerà un
tipo di prosa breve che suggerirà anche a Canudo e, oltre le pagine della rivista, avrà
ampio sviluppo in volume.
Maria Majocchi153, cresciuta in una famiglia colta e prestigiosa, incoraggiata ad
una collaborazione, con «Cordelia», che divenne un destino, aveva acquisito lo pseu-
donimo di Jolanda e aveva fatto, proprio sul periodico del De Gubernatis, le prime
prove di scrittrice; soprattutto, si era lì inserita in un ambiente culturale che propu-
gnava il modello di un «femminismo al tempo stesso “pratico” e intensamente reli-
gioso»154, per certi versi contiguo agli obiettivi del “movimento neo-cristiano” 155.
Ricordiamo quel che scrive Simonetta Soldani a proposito del circolo che Ida
Baccini aveva riunito intorno a «Cordelia»:
Ida Baccini «nel corso degli anni Novanta venne ospitando non occasionalmente su
“Cordelia” non poche delle donne coinvolte nel progetto – da Luisa Anzoletti ad An-
tonietta Giacomelli fino alla stessa Jolanda-, esponenti di un “femminismo cristiano”
che era in primo luogo adesione ai motivi di un risveglio religioso deciso a contrasta-
re bizantinismi, formalismi e trasformismi di un’Italia che - almeno sul versante delle
classi dirigenti – pareva diventata impermeabile alle ragioni dei grandi ideali»156.
Il conservatorismo della Majocchi Plattis appare chiaro anche alla luce del fatto che,
alla morte di Ida, l’editore preferì affidare «Cordelia» proprio a lei piuttosto che al fi-
glio della Baccini, proprio per «mettere in sordina i “temi scabrosi” cari a Manfre-
do»157, ovvero le questioni di più scottante attualità. Il femminismo moderato di Jo-
landa si concentra, in ultima analisi, su una difesa della donna letterata, dei suoi dirit-
ti di presentarsi da pari sul panorama artistico; una concezione che Jolanda pratica
dedicandosi a vari generi letterari, ed escludendo di proposito la “minore” letteratura
per l’infanzia.
152 F. Arvalo, Piccole prose (Pensiero chinese, L’asino, Il baco, L’onda e lo scoglio), «Il Marzocco», II, 12, 24
aprile 1898.
153 Maria Majocchi (poi in Plattis) era nata a Cento (Bologna) il 23 aprile 1864 da Antonio e Lavinia A-
gnoletti.
154 Cfr. S. Soldani, Donne educanti, donne da educare. Un profilo della stampa femminile toscana (1770-
1945), in S. Franchini e S. Soldani (a cura di), Donne e giornalismo. Percorsi e presenze di una storia di
genere, Angeli, Milano 2004, p. 345.
155 Si veda a proposito R. Fossati, Élites e nuovi modelli religiosi nell’Italia tra Otto e Novecento, Quattro-
Venti, Urbino, 1997.
156 Soldani, Donne educanti, donne da educare, cit., p. 344.
157 Ivi, p. 347.
260 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
La concezione piuttosto fatalista e pessimistica che informa l’attività di Jolanda
trova rifugio proprio nella letteratura, come ha rilevato Verdirame, con «la certezza
che medicina al male di vivere sia la scrittura, sciamanica guaritrice: “Vengo al luogo
del convegno, alla / piccola scrivania: / al porto donde tante volte salpai / incerta, tre-
pida, faticando / per la terra delle Chimère” (si legge nei “piccoli motivi poetici” del
Rosario d’ametiste)»158. Questi, ancora secondo Verdirame, i temi prediletti da Jolan-
da:
La propensione di Jolanda per le tradizionali scorribande nei variopinti domini
dell’amore, indagato nella sua fugace veemenza e nella gamma delle gradazioni ora
drammatiche ora condite di malinconico spleen è sovrastata dalla coscienza di genere
della narratrice, che la spinge alla trattazione di fabulae che investigano storie fem-
minili di disillusioni e traumi emotivi159.
La fiducia e il rifugio nella scrittura, unita alla volontà di sperimentare vari generi
letterari, senza confinarsi nell’ambito femminile della letteratura per l’infanzia, spinge
Jolanda ad aggiornarsi alle più moderne istanze letterarie, avvicinandosi dunque al
poemetto in prosa. Nell’ambito del «Marzocco», Jolanda conia una formula che recu-
pera almeno un tratto del poemetto in prosa: «Piccoli motivi poetici» sono denomi-
nate le piccole prose pubblicate in rivista dal 1896 in poi, evocando un rapporto con
la poesia.
Un’indiretta informazione sulle letture e sui modelli della scrittrice è fornita
dall’introduzione che ella fornì ad un libro di poemetti in prosa che si pubblicava nel
1898, l’esordio di un giovane scrittore che si era formato accanto a lei e nell’ideale di
una scrittura femminile, tanto da assumere lo pseudonimo di Karola Edina. Secondo
Dotoli, nel dicembre 1896 Ricciotto Canudo (nato nel 1877, dunque ben più giovane
della sua “protettrice”) «risulta già legato a Jolanda Plattis Maiocchi […] che lo aiute-
rà molto e di cui si innamorerà. I loro rapporti si interrompono alla fine del 1900»160.
L’introduzione di Jolanda alle Piccole anime senza corpo161, che contiene giudizi posi-
tivi e lievi critiche, finisce per delineare i tratti essenziali delle «brevi e poetiche pro-
se», individuando le ascendenze di un genere che si propone come innovativo e non
può non dialogare con i Piccoli motivi poetici che Jolanda andava pubblicando sul
158 Jolanda, La lettera non scritta, in Id., Il Rosario d’ametiste, Cappelli, Rocca S. Casciano 1909, p. 61. Cfr.
R. Verdirame, Narratrici e lettrici (1850-1950). Le letture della nonna dalla Contessa Lara a Luciana Peve-
relli, con testi rari e documenti inediti, Libreriauniversitaria.it, Limena 2009, p. 146.
159 Ivi, p. 143.
160 Cfr. Dotoli, Bibliografia critica di Ricciotto Canudo, cit., p. 28.
161 Cfr. più avanti il paragrafo II.4.2 (Nel segno di Jolanda: «Qualchecosa di un po’ insolito», ma nessuna
«stravaganza» o «analisi del patologico»), dedicato appunto a questa introduzione.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 261
«Marzocco», dove peraltro Canudo anticipò, nell’agosto 1897, due poemetti della
raccolta162.
Dall’introduzione si intuisce almeno un carattere significativo dei poemetti in
prosa nello stile di Canudo e Jolanda: si tratta di una poetica delle piccole cose, che
pone al centro di una prosa poetica «la materia più umile e inetta», trasformandola
però «in lucente e prezioso oro». Vengono in mente Une pendule di Verlaine, tradot-
to da Pica nel 1885, oppure Une pipe di Mallarmé, presentato, insieme ad altri poe-
metti, nel 1888, esaltando l’autore come «osservatore minuzioso dei piccoli fatti della
nostra esistenza quotidiana», capace di «esprimere la soave melanconia delle cose e le
nostalgie indomabili, che esse risvegliano nell’anima»163.
Così, i piccoli motivi poetici di Jolanda fanno riferimento ora ad un Vecchio pa-
ravento, ora ad una Ciocca di capelli biondi164, a un Ombrellino spezzato o a
un’Àncora. Sul «Marzocco», a partire dal 1896, Jolanda pubblicò vari Piccoli motivi
poetici165, poi raccolti nel volume Il rosario d'ametiste. Piccoli motivi poetici, pubblica-
to a Palermo nel 1901166 e, in un’edizione più diffusa, nel 1909 da Cappelli167. Il volu-
metto è composto da due parti, divise da un Intermezzo, e si conclude con un Poemet-
to della spiaggia. La prima parte, come poi la seconda, è formata da componimenti in
prosa poetica ed è aperta da Mano bianca e penna d’oro, pubblicata nel «Marzocco»
dell’8 maggio 1898, che inscena un dialogo tra la penna e la mano, volto a descrivere
il mestiere di scrittrice, non senza rivelare le angustie di una condizione prettamente
femminile:
- […] Io sono stanca, ma tu dovresti essere più stanca di me. Per raccontare tante co-
se, per aver conosciuta tanta gente, tu devi aver vissute almeno dieci vite. Come hai
fatto?
- Io non ho vissuto nemmeno una vita e non esco da queste pareti – disse la bianca
mano.
- […] Come hai tu potuto distillare tanta passione? Tu devi essere ammaestrata da
cento amori e da cento cuori.
162 Per informazioni dettagliate si rimanda al paragrafo che tratta di Ricciotto Canudo (II.4).
163 Pica, Poemucci in prosa. Aloïsius Bertrand, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé, cit., p. 374.
164 Jolanda, Ad una ciocca di capelli biondi, «Il Marzocco», II, 50, 15 gennaio 1899.
165 Yolanda, Piccoli motivi poetici. Il filo d’argento; Il viale; Il fiore eterno; L’Àncora; La pagina;
L’ombrellino spezzato; Il sogno, «Il Marzocco», I, 38, 18 ottobre 1896; Jolanda, Le scarpine, ivi, I, 52, 24
gennaio 1897.
166 Jolanda, Il rosario d'ametiste. Piccoli motivi poetici, Palermo, Tip. F. Barravecchia & Figlio, 1901; non si
è potuto controllare, però, la sussistenza e il contenuto preciso del volume.
167 Ead., Il rosario d'ametiste. Piccoli motivi poetici, Rocca S. Casciano, Cappelli, 1909. Si trova anche una
seconda edizione, sempre per Cappelli, 1918, e una terza, Bologna-Trieste 1921 (con ristampa nel 1931), a
testimonianza della diffusione degli scritti di Jolanda.
262 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
- Da un piccolo e deserto cuore che per sé non ha un sogno – disse la mano168.
Sovente si troverà il segnale di una mano femminile che testimonia un disagio
dovuto anche alle rigide convenzioni sociali, a cui si risponde con l’arma della scrittu-
ra, capace di testimoniare una voce e di portare in un universo altro, tra la fantasia e i
ricordi. Così accade in Armonia, pubblicata sul «Marzocco» il 27 giugno 1897169, dove
la scrittrice siede tra le sorelle, «nell’angolo più appartato della stanza»170, ascoltando-
le suonare una musica che esprime l’indicibile: «aspirazioni occulte, ignote quasi a voi
stesse – malinconie amare non confessate mai – ribellioni ed ire e stanchezze che mai
vi uscirono in accenti dalle labbra, per tutto ciò che la giovinezza e la vita promisero e
non concessero»171. Persino «la materia più umile e inetta» esprime, come Jolanda
diceva per Canudo, «la soave melanconia delle cose e le nostalgie indomabili»: Il vec-
chio paravento (in «Marzocco», 8 agosto 1897), «memoria d’infanzia», nasconde in
segreto «le speranze e le illusioni di tre sorelle», «le visioni di tre paesaggi di favo-
la»172.
Se l’analisi non si sviluppa a partire da piccoli oggetti trasfigurati, sono in gioco
immagini e sentimenti di un tenue romanticismo dai toni disperati: amore, morte,
naufragio, speranze abbandonate173. Una speranza (in «Marzocco», 13 ottobre 1896),
ad esempio, descrive il mirabile circolo per cui la speranza rinasce ogni mattina, «così
grande che pare una promessa», per richiudersi lentamente ogni sera, quando ormai
«la solitudine vasta, il silenzio alto, l’hanno vinta»174. A volte la prosa prende le mo-
venze della narrazione breve, come per La dormiente («Il Marzocco», 26 giugno
1898), compresa nella seconda parte del volume: ad allineare un’altra figura di fem-
minile immobilità, si ritrae una donna addormentata «da quattro secoli»175, «chiusa
ermeticamente nello stretto vano tra le pareti lapidee», ma con un sonno «trasparente
168 Ead., Mano bianca e penna d’oro, «Il Marzocco», II, 14, 8 maggio 1898; poi in Ead., Il rosario d'ameti-
ste. Piccoli motivi poetici, Cappelli, Rocca S. Casciano 1909, pp. 10-11.
169 Ead., Piccoli motivi poetici. Armonia, «Il Marzocco», II, 21, 27 giugno 1897, poi in Ead., Il rosario d'a-
metiste, cit.
170 Il sintagma è ripetuto; cfr. ivi, pp. 23-24.
171 Ivi, pp. 25-26.
172 Ead., Il vecchio paravento, «Marzocco», II, 27, 8 agosto 1897; poi in Ead., Il rosario d'ametiste, cit., pp.
37-38.
173 È stata recentemente riportata all’attenzione anche la lettura, da parte di Jolanda, di Tasso e Leopardi;
la considerazione verso «gli sventurati ingegni» testimonia di un «ideale romantico» che sopravvive, alle
ultime battute dell’Ottocento, e presta le proprie immagini più cupe per tratteggiare, ancora, la sfiducia e
la crisi contemporanee, vissute per lo più dallo svantaggiato “sesso debole”. Cfr. G. Muscardini, Gli "sven-
turati ingegni ". Ascendenze leopardiane e amore per il Tasso in Maria Majocchi in arte Jolanda (1864-
1917), «Italianistica», 2005, 2, pp. 81-87.
174 Jolanda, Il rosario d'ametiste, cit., p. 35.
175 Ead., La dormiente, «Il Marzocco», II, 21, 26 giugno 1898; poi in Ead., Il rosario d'ametiste, cit., p. 76.
Semiritmi e poemetti in prosa “al femminile” 263
così da lasciarle udire tutto quello che accadeva nel luogo»176. La prima e la seconda
parte, che contengono per lo più le prose pubblicate sul «Marzocco», sono dunque
legate ad una prosa poetica, chiamata «piccolo motivo poetico» piuttosto che poe-
metto in prosa, che corrisponde alla forma descritta in occasione dell’introduzione a
Canudo; una forma minore, adatta ad una poesia appartata come quella femminile,
esclusa dall’ufficialità del verso, ma ben accolta nella scrittura di prose di rivista e din-
torni. La volontà di eversione è moderata, il modello baudelairiano è ormai citato
quasi pro forma, anzi allontanato nella dirompenza, mentre la prosa poetica si assesta
su una linea intimista minore, a vantaggio di uno spazio poetico femminile.
La parte dell’Intermezzo (poesia libera) contiene invece, come specifica il titolo,
tentativi di poesia liberata dai ritmi; anche in questo caso, la prima prova, L’ignaro,
risale al «Marzocco» («Il Marzocco», agosto 1898); in rivista l’indicazione di genere
era «prosa poetica», poi meglio specificata in volume tenendo conto della forte
frammentazione del verso:
Piccole onde
d’un immenso dolore vennero a sciogliersi
in fredde lacrime
a te.
E tu le deludesti, tu
Le lasciasti sole sull’orme
Tue…
E tutto fu invano177.
Non ha torto, dunque, Finotti, ad affermare che «il genere del “poema in prosa”
era sempre più praticato e diveniva un punto di partenza o di passaggio quasi obbli-
gato per giovani esordienti»178, tanto più quando si trattava di giovani scrittrici. Le
innovazioni diffuse per merito non secondario di Vittorio Pica venivano in qualche
modo portate avanti, si trattasse di aprire spiragli a tematiche “decadenti”, o di ipo-
tizzare la possibilità di un contatto tra poesia e prosa, che, specificamente, schiudeva
a giovani autrici il mondo della lirica (non versificata).
176 Ivi, p. 77.
177 Ead., L’ignaro (prosa poetica) in «Il Marzocco», II, 27, 7 agosto 1898; poi solo come L’ignaro, in Ead., Il
rosario d'ametiste, cit., p. 52.
178 Finotti, Sistema letterario e diffusione del decadentismo nell'Italia di fine ‘800, cit., p. 88.
4. Ricciotto Canudo: Piccole anime senza corpo
4.1 L’esordio letterario, tra poesia e prosa (1895-1898)
Ricciotto nasce a Gioia del Colle nel 1877 e trascorre un’infanzia caratterizzata da
frequenti spostamenti, nel sud d’Italia, dovuti al lavoro del padre, che svolgeva le
mansioni di agente delle imposte dirette. Nel 1890 la famiglia si trasferisce a Palermo,
dove Canudo di iscrive all’Istituto tecnico, sezione fisico-matematica, che prosegue
poi a Messina a partire dal 1892. Conseguito il diploma nel 1895, si allontana dagli
studi di ingegneria e diviene allievo ufficiale, prima a Palermo, poi, nel 1896, a Bari,
nel 1897 a Potenza e infine a Padova (sicuramente almeno da gennaio a marzo; in
questi mesi pubblica i primi scritti su «Cordelia» e alcune lettere alla «Scena illustra-
ta» di Firenze); nel luglio del 1897 torna a Bari per la nomina a sottotenente, dove ri-
marrà fino all’agosto 1898. A partire da quella data, in congedo, Canudo si sposta,
dopo un passaggio a Roma, a Firenze (in novembre): qui frequenta l’Istituto di Studi
Superiori Pratici e di Perfezionamento, per i corsi di ebraico, cinese, storia e geografia
dell’Estremo Oriente; segue anche i corsi di Mazzoni e Rajna. Ancora a Firenze nel
1899, accostatosi al protestantesimo entra nel Collegio luterano. A partire da luglio
torna a Bari, spostandosi poi eventualmente a Firenze per gli esami di lingue orientali
e a Roma, dove si trasferisce nel dicembre, partecipando attivamente alla vita univer-
sitaria e culturale della città. Abbandoniamo il percorso di Canudo nel 1901, anno in
cui la vita del barisien ha una svolta significativa: il suo progetto di trasferimento a
Parigi («Ah, se non mi sarà dato di andare a Parigi, io lo so bene, io lo so bene che Ba-
ri sarò la mia rovina»)1 inizia a prendere forma: a giugno lo troviamo all’Hôtel de
Cluny, rue Saint-Jacques, stessa sistemazione di Ardengo Soffici.
A ragione Finotti richiama l’attenzione sul fatto che la conoscenza del simboli-
smo da parte di Canudo avvenga in quell’ambiente siciliano, tra Palermo e Messina,
1 Lettera al fratello Raimondo, 24 giugno 1899; cfr. Cfr. G. Dotoli, Bibliografia critica di Ricciotto Canudo,
con prefazione di M. Décaudin, Schena, Fasano 1983, p. 29.
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
266 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
che lo aveva visto crescere appassionandosi alla letteratura2. La Sicilia era territorio di
Pica, con il tramite di Pipitone Federico, di Capuana, che vi dettava la poetica del ve-
rismo a cui aggiungeva l’episodio dei Semiritmi, e infine di Ragusa Moleti, che pub-
blicava dal 1897 una serie di articoli e traduzioni dai decadenti francesi, dopo aver
contribuito a diffondere il Baudelaire dei poemetti in prosa.
Canudo esordì nel 1895, a diciotto anni, con tre poesie e una novella, introdu-
cendo praticamente fin da subito lo pseudonimo femminile di Kàrola Olga Edina.
Come Sorrenti spiega, esso è «composto dai nomi di due sue intime amiche (Karola
N. e Dina N.) e da O.L.G.A., cioè le iniziali di Onore, Lavoro, Gloria, Amore, che egli
intuisce saranno la uniforme di tutta la sua vita»3. Il fatto che le prime prove
dell’autore si muovano in direzione della poesia e della prosa breve è di per sé signifi-
cativo, poiché verosimilmente è proprio attraverso una riflessione sugli espedienti e-
spressivi dei due generi che Canudo approderà al poemetto in prosa. Le poesie anda-
vano costituendo due raccolte, intitolate Intima, scritta nel 1894, e Le Chimere
dell’alba, terminata nel 1898, e mai pubblicate4; in effetti, l’unico volume pubblicato
in italiano da Canudo è appunto le Piccole anime senza corpo.
Il termine «anima», che a quest’altezza si alterna ancora, frequentemente, ad «al-
ma», compare già nel titolo della prosa pubblicata sulla «Galleria letteraria illustrata»
di Milano nel 18955, Brano di anima. Il lacerto viene definito «brano di anima o do-
cumento umano – come direbbero i moderni», ed è presentato nella veste di «alcuni
fogli da me trovati nella vecchia Bibbia di mio padre, tra molti appunti di viaggio»:
proviene da «un ospizio di pazzi» ed è «espressione dolorosissima di mente malata».
Si tratta di un racconto in prima persona: è una donna che parla, Agata, descrivendo
la morte dell’amato Lucio, in un’atmosfera gotica, con visioni notturne, incubi e stra-
ne apparizioni; come spesso accade, il fantastico è giustificato dalla pazzia. Ci sono
tuttavia alcune immagini interessanti, che ritroveremo nelle Piccole anime, seppur in
contesti diversi, ovvero l’ossessiva comparizione del colore bianco, connesso al sogno
e alla morte, e una diafana processione:
2 «La conoscenza del simbolismo di Ricciotto Canudo si ricollegava a quell’ambiente palermitano che ne
aveva segnato la formazione e la vocazione letteraria» (Finotti, Sistema letterario e diffusione del decaden-
tismo nell'Italia di fine '800. Il carteggio Vittorio Pica - Neera, cit., p. 89).
3 P. Sorrenti, R. C. (le Barisien) fondatore dell’estetica cinematografica, Laterza e Polo, Bari 1967, p. 12. Si
tratta di Carola Novello, di cui Canudo si era innamorato nel 1894, e dell’amica Titina Zerbo.
4 Cfr. Dotoli, Bibliografia critica di Ricciotto Canudo, cit., p. 28.
5 Dotoli afferma: «impossibile conoscere il mese: copertine non conservate; forse novembre, come da let-
tera di Carola a C. del 27-11-1895» (Dotoli, Bibliografia critica di Ricciotto Canudo, cit., p. 75). L’ipotesi di
Dotoli è verosimile, visto che il racconto si trova a p. 325 del vol. che raccoglie le due annate 1895 e 1896,
di 400 pagine ciascuna; si tratta della dispensa XLI su cinquanta pubblicate (formate da otto pagine cia-
scuna, come conferma la dichiarazione d’intenti contenuta nella copertina del primo numero, 17 febbraio
1895, conservata presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze).
Canudo: Piccole anime senza corpo 267
Era l’alba (o il tramonto?). La camera di Lucio era tutta bianca. […] A quell’ora la
luce entrava assai blanda ne la camera, quasi ad affogare il bianco in una pallida tinta
celeste. Era l’ora in cui mi ridestavo dal letargo in cui volli vincere il fascino che mi
avvinceva e volli pensare che su quel piccolo letto basso, tutto candido, era l’amor
mio che moriva. […]
Era una processione di ombre bianche, salmodianti.
Fin dalla prima poesia, edita nel settembre del 1895 e intitolata Intima6, Canudo
si inserisce in un clima tra tardo-romantico e decadente, come accenna giustamente
la Mossetto Campra7 citando alcuni versi: «Perché vuol la mente scrutare / l’occulto,
lo arcano, lo ignoto, / e vinta e rapita nei suoi strani deliri, / è mesta per quanto
d’intorno le sta?». Tra i settenari della Mattinata8, pubblicata nel dicembre, non si
troveranno particolari evoluzioni e la tematica sembra dettata da un’esercitazione
non molto interessante su un tema tradizionale. Sarà da notare, semmai, l’immagine
del fumo che sale verso l’alto, su cui l’attenzione si sofferma senza intenzioni mimeti-
che (non è chiaro se esso provenga dall’opificio o dal camino di qualche casa), ma per
introdurre la verticalità e la leggerezza di qualcosa che «sale» verso l’alto. Il fumo ver-
rà ripreso, insieme alla simbologia dell’ascensione, nelle Piccole anime, dove vi si ac-
cenna senza nominarlo («fondermi in quella magnifica essenza luminosa e salire, sali-
re, salire!»)9, o collegandolo, appunto, al mattino («Nel mattino, anche il fumo azzur-
rognolo de’ comignoli si fondeva, ed io vedevo un’immensa bragiera di olibano ar-
dente, come in una adorazione»)10. Altri elementi della Mattinata riemergono nelle
Piccole anime («l’onde», il «suono di campane»), a volte leggermente modificati (il
lavoro dei campi si ripresenta sotto le spoglie di pagano rito sensuale), o del tutto ro-
vesciati (i «passeri giulivi» divengono partecipi di un dolore universale), a testimonia-
re una maturazione.
Nel 1896 Edina pubblicò ancora tre poesie, in «Yorik» (Bari), «settimanale della
domenica diretto dal fratello Raimondo»11: Il Canto del dolore, Il Fascino e La Bara12.
6 R. E. Canudo Stampacchia, Intima, «Fior di pietà», 20 settembre 1895. L’altra poesia edita in questo nu-
mero unico, redatto a beneficio degli istituti filantropici di Bari in occasione delle celebrazioni per l’Unità
d’Italia, è Roma tornò, ibid. Cfr. Dotoli, Bibliografia critica di Ricciotto Canudo, cit., p. 75.
7 Cfr. A. P. Mossetto Campra, Decadentismo e modernità nell’itinerario estetico di Ricciotto Canudo, in M.
Décaudin et al., Canudo, con presentazione di M. Décaudin, Bulzoni, Roma / Nizet, Paris 1976, p. 105.
8 K. O. Edina, Mattinata, «L’Arte illustrata», I, 12, dicembre 1895.
9 [R. Canudo], Piccole anime senza corpo. Prose di Kàrola Olga Edina, con prefazione di Jolanda, Amilcare
Barboni, Castrocaro 1898, III, p. 4.
10 Ivi, XXXV, p. 36.
11 Cfr. Dotoli, Bibliografia critica di Ricciotto Canudo, cit., p. 75.
268 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Ma, fatto interessante e sfuggito al Dotoli, sempre nel 1896 Canudo proseguì la colla-
borazione con la «Galleria letteraria illustrata» di Milano, presentando stavolta una
poesia, Ne l’ora antelucana13. La descrizione dell’apparire della luna, nei suoi giochi di
luce, presenta qualche presagio delle Piccole anime: «Vanno i raggi lunari a scindere il
tutto in un gioco / strano di luci e di ombre, che dona aspetti nôvi». Compaiono poi
immagini di ascensione, che forniscono la semantica preponderante della lirica:
«…Bianca luna, t’innalza ne ‘l pallido cielo, / che ti segue lo ardente corso de’ miei
pensieri». Nelle altezze del cielo, il poeta abbandona «il cäos» del «mondo», ritrova
«le larve de ‘l passato», poi incontra le «bianche visioni de l’Arte». Sono presenti an-
che immagini che anticipano la folla e la carovana di alcuni poemetti in prosa:
«S’odon echi lontani di gemiti fievoli, lunghi, / e di voci doloranti e di grida angoscia-
te»; «e lungi comparisce candida, sterminata / carovana di spettri, fuggenti de ‘l si-
mun a l’ira / ne l’immenso deserto da l’infocate arene…».
Per il 1897 si rilevano sette poesie (una di esse già presentata due anni prima)
pubblicate su «Cordelia», tre lettere pubblicate sulla «Scena illustrata» di Firenze e i
primi lacerti delle Piccole anime senza corpo (sulla «Rivista romagnola di scienze, let-
tere ed arti» di Forlì e sul «Marzocco» di Firenze). La poesia Il ritorno14, in endecasil-
labi sciolti, dedicata «a mia madre», racconta il ritorno alla casa materna, funestato da
immagini di morte che impregnano le pareti, aventi «il colore de’ fiori disseccati e de
l’edera morta», segno della disperazione dell’io poetico («Forse leggevi tu in me lon-
tana, / ne l’alma mia, il triste impallidire / de la speranza, assai triste, continuo, / sen-
za il sollievo d’una mano amica?»), fino al finale: «E’ dunque ver che tutto muore /
d’intorno a me, che tutto è morto, e sola, / come una larva solitaria io passo / tra le
reliquie, come pregustando / a voluttà suprema del morire?». È da rimarcare la com-
parizione di frequenti interrogative, che diventerà tratto peculiare delle Piccole anime,
e la ripetizione di due versi («Io più non voglio oltrepassar la soglia / de la mia stanza!
Troppo essa mi opprime!»), che inaugura il gusto dell’iterazione.
Se Motivi mattinali15 riprende Mattinata, seppur con l’aggiunta di due strofe, Ve-
spertina16 è dedicata al «vespero», introducendo un motivo caro ai poemetti in prosa;
l’immagine del vespro non racchiude qui l’intera gamma di significati che verrà ad
12 Rispett. in «Yorik», I, 2, 29 marzo 1896; ivi, I, 3, 5 aprile 1896; ivi, I, 8, 25 agosto 1896. Il Canto del dolo-
re presenta alcuni versi di d’Annunzio nell’intestazione (cfr. Dotoli, Bibliografia critica di Ricciotto Canu-
do, cit., p. 75).
13 K. O. Edina, Ne l’ora antelucana, «Galleria letteraria illustrata», 1896, vol. II, p. 41 (come prima, difficile
la datazione esatta: dovrebbe trattarsi però del sesto fascicolo e dovrebbe perciò risalire agli inizi del
1896).
14 Id., Il ritorno, «Cordelia», XVI, 18, 21 febbraio 1897.
15 Id., Motivi mattinali, ivi, XVI, 23, 28 marzo 1897.
16 Id., Vespertina, da «Le Chimere de’ l’alba», ivi, XVI, 26, 18 aprile 1897.
Canudo: Piccole anime senza corpo 269
assumere in seguito, ma è più genericamente momento di «pace» (il termine è ripetu-
to più volte). È semmai da segnalare la presenza delle «paranze», che inaugurano il
tema della nave-viaggio, pur ancora immerso in un’aura di speranza e possibilità:
«Sul mar placido vagano / candide le paranze / - come vaghe speranze / ne l’alma ap-
passionata - // e sembrano fantastiche / sognanti creature, / spinte da dolci cure / sovra
il ceruleo piano». Compare anche un «melanconico canto» che proviene dalla campa-
gna, destinato a ripresentarsi.
La profonda stanchezza17, che è divisa in due parti (Malata, Convalescente), tratta
dello sfinimento fisico e morale dell’io poetico: va rilevata la presenza del tema
dell’ascensione al monte, tentativo impossibile («[…] Più mai / io tenterò l’ascesa a-
spra del Monte») e, ancora, di «un canto soavissimo» proveniente dalla campagna che
ispira pace. Verso l’Ideale18 permette di misurare la distanza che ancora separa le poe-
sie dai poemetti in prosa, dove l’Ideale assume altre figurazioni e simbologie rispetto
a questa breve lirica dal romanticismo nero: si incontra un «destriero» che «tronca»
«la fatal corsa fremente» sull’orlo di un burrone che lo attira.
Le lettere pubblicate sulla «Scena illustrata» di Firenze presentano un qualche in-
teresse, testimoniando come Canudo, assumendo un’identità di donna, si prendesse
carico delle questioni che riguardavano il genere femminile e l’emancipazione. Si
tratta, in particolare, della seconda e della terza lettera (1 marzo e 1 giugno 1897)19,
indirizzate al direttore Pilade Pollazzi ed inserite nella rubrica «Buca delle lettere»,
che vertono su uno stessa tema e portano il comune titolo Le Donne medichesse, in
risposta ad un articolo20 in cui un certo Giangualano si poneva varie domande a pro-
posito della natura della donna e della sua possibilità di emanciparsi. Il Giangualano
non dimostrava una totale chiusura, criticava anzi lo «stato presente sociale in cui es-
sa giace triste retaggio delle epoche precedenti» e sosteneva che ci fosse una possibili-
tà, per la donna, di dedicarsi a varie «branche della medicina». In termini generali,
però, l’inferiorità muliebre era fuori discussione: «la capacità intellettuale della donna
è eguale a quella dell’uomo? Quando altri vuole appassionatamente sostenere la per-
17 Id., La profonda stanchezza, «dal III libro de Le Chimere de l’Alba», «a Jolanda», ivi, XVI, 32, 30 maggio
1897.
18 Id., Verso l’Ideale, «dal I libro de Le Chimere de l’Alba», ivi, XVI, 38, 11 luglio 1897.
19 La prima lettera, senza titolo (in «La Scena Illustrata», XXXIII, 3, 1 febbraio 1897), è da questo punto di
vista meno interessante; Edina risponde ad una discussione sull’arte, e le si dà il primo spazio perché di-
mostra che «non l’ultimo bucato né l’ultimo figurino sono i soli argomenti che possano interessare anche
il sesso muliebre». Di qualche interesse è solo il rapporto individuato da Edina tra Genio e popolo: «Ciò
che era nella coscienza del Genio, non è forse nella coscienza del popolo?».
20 N. Giangualano, La donna medichessa, «La Scena Illustrata», XXXIII, 3, 1 febbraio 1897.
270 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
fetta eguaglianza, la risposta è naturalmente negativa»21. Insomma, la donna indossi
pure i panni della lavoratrice, ma di gareggiare con l’uomo non se ne parla.
Nel primo intervento, Edina si dichiara completamente in disaccordo con la de-
finizione del genere femminile sostenuta da Giangualano:
Ma – dite, in cortesia – appaga voi, gentiluomo intellettuale, quella che oggi (dico:
fine del secolo XIX) può dare de le donne un signor medico, quando trascina le facol-
tà intellettive di esse sino all’espressione: esigue, e – come in una concessione magna-
nima – accorda loro solo un certo tal quale addestramento intellettuale unicamente
per raggiungere, in parte, il suo stato d’emancipazione, elevarsi? Elevarsi? […] O dove
l’è, dunque, questa che ha bisogno di elevarsi? Alla fine della ricerca, mi sono accorta
che essa era aldisopra de li uomini22.
Nel secondo, rispondendo ancora sulla questione, si scaglia contro la presunta
scientificità con cui il medico sostiene l’inferiorità della donna; la breve lettera con-
tiene considerazioni interessanti sull’educazione, che è unica ragione della condizio-
ne subalterna della donna e, insieme, mezzo per mantenerla:
Permettetemi che io – rappresentante de la donna di capacità intellettuale inferiore
a quella del tipo comune di donna – inneggi a lo Scienziato Novissimo […] capace
[…] di olimpicamente sprezzare di mirare il cammino fatto da una creatura – che era
a’piedi de l’uomo –, ora che vanno infrangendosi i ceppi di una educazione, altrettan-
to errata e sciocca, quanto secolare; i ceppi: unica cagione di una forse agognata ma
inesistente inferiorità23.
La posizione che emerge dalle lettere non è di secondaria importanza, se si tiene con-
to che il giovane barisien stava appunto lavorando a un libretto di poemetti in prosa
che avrebbe presentato sotto uno pseudonimo femminile; lo stesso titolo è una sco-
perta citazione di ambito femminile, alludendo ad un libro di bozzetti della Serao,
Piccole anime.
21 Le prove, per il Giangualano, sono evidenti a tutti: «Senza addurre in proposito le autorità tecniche di
anatomi, fisiologi e psichiatri e ricorrere quindi all’anatomia, alla fisiologia, alla psichiatria, l’ingegno più
volgare potrebbe trarre dalla vita pratica la nessuna perfetta eguaglianza di queste due capacità (quale sia
la minore ben si capisce). Con ciò non vogliamo venire a quella maledetta conclusione che la missione
della Donna quaggiù non debba comprendere le sue benché esigue facoltà intellettuali» (ibid.).
22 K. O. Edina, Le donne medichesse, «La Scena Illustrata», XXXIII, 5, 1 marzo 1897.
23 Id., Le donne medichesse, ivi, XXXIII, 11, 1 giugno 1897.
Canudo: Piccole anime senza corpo 271
Tra il 1897 e il 1898 Canudo pubblica i primi lacerti delle Piccole anime senza
corpo, talvolta con l’indicazione «poemetti in prosa»24. Sempre nel gennaio del 1898,
vengono pubblicate, in «Per l’Arte (Parma giovine)», alcune poesie che testimoniano,
almeno in parte, un cambiamento e si avvicinano alle tematiche dei poemetti in pro-
sa. In uno dei Rondels de le Stagioni, Inverno25, si presenta l’immagine della neve, che
«co’ l manto immenso e greve / tutto copre, silente», più volte ripresa nelle Piccole a-
nime. Il Canto degli annoiati26 è ancor più interessante, perché affronta il tema della
noia, una sorta di «Morte» che elimina la percezione di ogni presente e futuro («[…]
Ed è con noi / e in noi quel riso aperto su la Sorte / umana, e che il Presente sfida e il
Poi»); il verso «mattoidi oggi, dimani forse eroi», ripetuto, apre un dialogo polemico
con le categorie della scuola lombrosiana. Inoltre, la cadenza della poesia, che è rit-
mata dalla anafora di «Noi siamo» («li annoiati», «i fidanzati de la Morte», e così via),
ricorda la lirica-manifesto di Emilio Praga, che esordisce proprio con il noto «Noi
siamo i figli dei padri ammalati»; dettaglio non secondario, il poeta del Preludio can-
tava appunto la noia («O nemico lettor, canto la Noia, / l’eredità del dubbio e
dell’ignoto»); peraltro immagini e lessico scapigliato registrano numerose occorrenze,
dall’«Orrida […] Vita» alla «smorfia d’un riso atra e infinita». L’altro modello, pale-
semente presente, è Baudelaire, con i Fiori del male ma anche con Le Spleen de Paris
se, come sembra, il Canto echeggia l’Étranger. Alla domanda «Qui aimes-tu le mieux,
homme enigmatique, dis? ton père, ta mère, ta soeur ou ton frère?», Canudo sembra
voler rispondere a suo modo: «Un amore ? oh miseria per un core / che non lo sente e
non lo può sentire. / E la gloria? Oh fantasma di dolore / che certe anime in sue tre-
mende spire / attira e uccide. Oh tutto, tutto vano. / Tutto irrisorio e puerile / Ara,
famiglia – il palese, l’arcano […]». E ancora ricorda, come a chiosare Baudelaire: «Noi
qui siamo stranieri. E non abbiamo / paese. E non abbiamo casa. […]». A fronte dello
scarso interesse artistico della lirica, Il Canto degli annoiati testimonia dunque un
importante tappa: sappiamo già dalle Piccole anime edite in rivista (e la pubblicazione
in volume è imminente) che, a quest’altezza cronologica, Canudo ha avuto modo di
comprendere e abbracciare alcune tematiche baudelairiane, ma qui ne troviamo trac-
cia anche nella lirica; inoltre, prende corpo l’ipotesi, molto plausibile, che tale imma-
24 Il 30 giugno 1897 Edina pubblica sulla «Rivista romagnola di scienze, lettere ed arti» di Forlì due prose
intitolate Piccole anime senza corpo (poemetti in prosa), che corrispondono alla I e alla III pièces del volu-
metto. Sulla stessa rivista si pubblicano, sotto il titolo di Poemetti in prosa, altri quattro frammenti, pre-
sentati in nota come estratti «Dal volume Piccole anime senza corpo, di prossima pubblicazione: Ed. A.
Barboni, Castrocaro». Il 30 gennaio 1898 vengono pubblicati estratti da “Piccole anime senza corpo”. Prose
di imminente pubblicazione su «Cordelia» di Firenze.
25 Id., I Rondels de le Stagioni. Inverno, «dal II libro de Le Chimère de l’Alba», «Per l’Arte (Parma giovi-
ne)», X, 2, 9 gennaio 1898.
26 Id., Il Canto degli annoiati, ivi, X, 5, 30 gennaio 1898.
272 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
ginario fosse mediato con l’ausilio della poesia scapigliata, che era la prima ad aver
introdotto, attraverso la lettura delle Fleurs du Mal, alcuni topoi baudelairiani.
Nel marzo 1898 viene infine pubblicato il volumetto27; nel corso del 1899 e del
1900 vari poemetti in prosa vengono proposti sull’«Uovo di Colombo», testata diret-
ta, a partire dal 7 maggio ’99, dal fratello di Ricciotto, Raimondo. Riguardo a queste
pubblicazioni in rivista, è da notare che alcune prose presentano un titolo esplicativo,
che manca nel volume, e talvolta perfino un’indicazione del luogo di composizione28,
forse per analogia con le modalità tipiche di pubblicazione di racconti, poesie e boz-
zetti su periodico.
Al 1904 risale la pubblicazione di Poèmes en prose di K. O. Edina su «L’Europe ar-
tiste» (ns, I, 3, août 1904), tradotti in francese da Valentine de Saint-Point29. È dun-
que lecito ipotizzare che Canudo guardasse ancora con interesse, sei anni dopo, pur
essendo immerso ormai in tutt’altro ambiente culturale e dedito ad altri tipi di speri-
mentazione artistica, a quel libretto giovanile, rivendicandolo come innovazione che
avesse il diritto di essere tradotta e presentata anche a Parigi. I poemetti ripresentati
sono di varia tipologia, ma vi si possono trovare alcuni tra gli stilemi più diffusi della
cultura fin de siècle: escursioni nel regno dell’Infinito, immagini di degenerazione
nella storia dell’uomo (La lotta de’ Nani co’ gli Dei, XXIV), bagliori lunari mortiferi
(XXXVI), crepuscoli, figurazioni di amore e morte (XXXIV)30.
Alcune recensioni salutarono, positivamente, la pubblicazione delle Piccole ani-
me, prima, nel 1898, in ambito meridionale («Gazzettino siciliano di lettere ed arti»,
Caltagirone, e «Psiche», Palermo), poi, nel 1899, in coincidenza con gli spostamenti
dell’autore, anche nel nord («La Vita internazionale» di Milano)31. Questi interventi,
27 Dotoli afferma che, malgrado altre due bibliografie canudiane riportino informazioni diverse, riferen-
dosi ad edizioni precedenti (addirittura una Cappelli 1896), il volume risulta «senz’altro uscito nel marzo
1898» presso Castrocaro (Dotoli, Bibliografia critica di Ricciotto Canudo, p. 78).
28 In una notte perduta nell’infinito, in calce «Da Olevano Romano»; A la vetta; Ossessione felina, per
XLVIII; Nebbia per XX e XLIX.
29 Si tratta dei poemetti XII, XXII, XLIII, XXIV, XXXVI, XXXIII e XXXIV della raccolta. Secondo Dotoli,
Canudo conosce Valentine tra il novembre e il dicembre 1903, «da Rodin, durante una seduta spiritica,
oppure, secondo Les Transpantés, a teatro», e si lega a lei «fino al termine della prima guerra mondiale»
(cfr. Dotoli, Bibliografia critica di Ricciotto Canudo, cit., p. 32).
30 Sarà da notare che tra i poemetti scelti figura anche il XLIII, che svolge una tematica per il resto assente
dalla raccolta, ovvero la «sublime voluttà del Distruggere»; può darsi che il testo sia stato selezionato pro-
prio per un cambiamento nei gusti e nelle riflessioni dell’autore, che risulta, ad esempio, dai suoi compo-
nimenti poetici.
31 [Anonimo], Cronaca letteraria, «Gazzettino siciliano di lettere ed arti», 16 febbraio 1898; F. P. Mulé,
Poeti e prosatori. Kàrola Olga, «Psiche», XV, 5, 1 marzo 1898; P. Baronchelli Grosson, Kàrola Olga Edina.
«Piccole anime senza corpo», «La Vita internazionale», II, 11, 5 giugno 1899; Id., Kàrola Olga Edina. «Pic-
cole anime senza corpo», «L’Uovo di Colombo», II, 26, 25 giugno 1899. A proposito della rivista «Psiche»,
si ricordi che aveva ospitato la traduzione dei Paradisi artificiali curata da Ragusa Moleti (G. Ragusa Mo-
Canudo: Piccole anime senza corpo 273
che, tolto il primo (anonimo), vanno attribuiti rispettivamente a Francesco Paolo
Mulé e a Paola Baronchelli Grosson, sottolineano l’originalità del volume e il rappor-
to con i Poemetti in prosa di Baudelaire (incalza il lettore, ad esempio, Mulé: «Non c’è
qualcosa che ricorda i fascini sottili del Baudelaire?»), testimoniando una condivisio-
ne, tra autore e destinatario, riguardo all’orizzonte d’attesa legato al termine «poe-
metto in prosa»: «pagine piene di sentimenti, di poesia, talvolta di segni e di visioni,
talvolta di filosofia»32; «bozzettini, macchiette, impressioni»33; «un seguito di quadret-
ti, strani e possenti, misteriosi e delicati»34. In teoria, dunque, parlando di «poemetti
in prosa» di gusto baudelairiano ci si aspetta una commistione tra vari tipi di scrittu-
ra, come la poesia, lo schizzo («quadretti») “strano” e la prosa sapienziale («filosofi-
a»). Per conoscere, in pratica, il risultato ottenuto da Canudo, conviene spostarsi
all’analisi delle Piccole anime, non senza passare attraverso l’introduzione di Jolanda,
portale utile, ancora una volta, per una definizione del genere, in dialettica con i Petits
poèmes en prose di Baudelaire.
4.2 Qualchecosa di un po’ insolito», ma nessuna «stravaganza» o «analisi del patolo-
gico»
È bene dirlo subito: chi apre questo libro dovrà prepararsi a qualchecosa di un po’ in-
solito. Quantunque l’inesplorato sia oggi, nei regni dell’arte, un caso così raro da pa-
rere inverosimile, certi temperamenti originali e intuitivi lo trovano ancora, rilevando
per mezzo della loro impressione personale un qualunque episodio che alla maggio-
ranza presenta soltanto un carattere comune – mentre a questi privilegiati è fecondo
di simboli, di suggestioni, di miraggi. Essi hanno il potere del re della favola: di tra-
sformare in lucente e prezioso oro la materia più umile e più inetta35.
Jolanda36 presenta il volumetto di Canudo sotto il segno dell’«insolito» e
dell’«inesplorato», risultanti di un «temperamento originale e intuitivo», e mette in
leti, Dai Paradisi artificiali di C. Baudelaire. Il vino e l’haschisch, «Psiche», VII, 2-3, 1891) e sei poesie dei
Fiori del male tradotte da Gualtiero Petrucci (G. Petrucci, Ombre e riflessi, «Psiche», V, 29, 28 luglio 1889;
Id., Spleen e ideale (Da Baudelaire), ivi, V, 15, 31 marzo 1891). Petrucci fu forse autore di un libro dal tito-
lo Poemetti in prosa (Palermo, 1890) andato perduto (la questione è trattata da Giusti, L’instaurazione del
poemetto in prosa, cit.); pubblicò invece sicuramente Album, con prefazione di E. Simonatti, Casa Editrice
della Cronaca Rossa, Milano 1889, un libretto che mescola poesie, prose brevi, aforismi e traduzioni.
32 [Anonimo], Cronaca letteraria, cit.
33 Mulé, Poeti e prosatori. Kàrola Olga, cit.
34 Baronchelli Grosson, Kàrola Olga Edina. «Piccole anime senza corpo», cit.
35 Jolanda, Prefazione, in Piccole anime senza corpo, cit, p. VII.
36 Secondo Dotoli, nel dic. 1896 «risulta già legato a Jolanda Plattis Malocchi […] che lo aiuterà molto e di
cui si innamorerà. I loro rapporti sin interrompono alla fine del 1900» (cfr. Dotoli, Bibliografia critica di
Ricciotto Canudo, p. 28).
274 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
evidenza una sorta di “principio gnoseologico” su cui quest’arte si fonderebbe: occor-
re rilevare, con l’ausilio di un’acuta sensibilità personale, «un qualunque episodio» di
«carattere comune» per svelarne la simbologia nascosta. È dunque una “poetica delle
piccole cose”, ma di sapore lirico piuttosto che realistico, in quanto «la materia più
umile e inetta» viene trasformata «in lucente e prezioso oro» tramite una pratica arti-
stica di sapore lontanamente parnassiano. «Essi hanno il potere del re della favola»:
sembrerebbe un’opposizione, più o meno conscia, con il poeta «triste alchimiste» di
Baudelaire.
E così fiorisce l’arte superiore, l’arte aristocratica, l’arte compresa da pochi: quella che
si compiace del tenue perché conosce in sé la rigogliosa forza di sollevarlo ad
un’altezza luminosa e di coronarlo d’un nimbo indimenticabile; quella che suscita
l’ammirazione nelle menti raffinate, e l’emozione nelle anime elette. Quell’arte che
con diversi sistemi in Francia fu seguita da Pierre Loti, da Maupassant - da Maeter-
linck; da Sully Prudhomme, da Alfredo de Musset, per dirne alla rinfusa alcuni, e fra i
principali; l’arte della squisita Carmen Sylva, e da noi, in Italia, seguita e intesa così da
pochi se togliamo fra i giovani il Roggero, il Giorgieri-Contri, l’Orvieto, e prima di
tutti il Pascoli37.
Si dichiara fin da subito l’appartenenza ad un’«arte aristocratica», riprendendo
apertamente la formula utilizzata da Vittorio Pica38, indirizzata ad un pubblico ri-
stretto di iniziati, capaci di ammirare «il tenue», l’oggetto umile trasfigurato. Segue
un’indicazione «alla rinfusa» dei modelli, appartenenti alla cultura fin de siècle france-
se, e dei compagni di strada italiani: accanto a Egisto Roggero39, Cosimo Giorgieri-
Contri40 e Angiolo Orvieto41, spicca il nome del Pascoli, letto come poeta dalla sensi-
37 Jolanda, Prefazione, in Piccole anime senza corpo, cit, pp. VII-VIII.
38 Si ricordino ad esempio Arte aristocratica: conferenza letta li 3 aprile 1892 nel Circolo filologico di Na-
poli, o il vol. collettaneo Arte aristocratica e altri scritti su naturalismo, sibaritismo e giapponismo, 1881-
1892.
39 Egisto Roggero (Genova 1867 - Milano 1930), scrittore dai molteplici interessi, si occupò di scienze,
come divulgatore, filosofia, sociologia e teatro. Ha scritto libri per ragazzi e pubblicato molti racconti su
riviste letterarie (come «Liguria», «Iride», «Marzocco»), poi raccolti in vari volumi; nel 1896 aveva pub-
blicato una raccolta dal titolo significativo, I racconti della quiete (Milano, Galli, 1896). Quando il «Fortu-
nio» cominciò a pubblicare alcune traduzioni «dai Poemucci in prosa di Mallarmé» curate da Pica (prima
nel 1888, poi nel 1890), fecero seguito, nel corso del 1890, prose di vari autori riconducibili all’etichetta di
“poemetto in prosa”; tra queste, ne figurano alcune del Roggero (Vergine, «Fortunio», 10, 16 marzo 1890;
Storiella di primavera. Per l’album di Mimì…, ivi, 19, 18 maggio; Serenata, ivi, 30, 3 agosto 1890). A tale
proposito cfr. Giusti, L’instaurazione del poemetto in prosa, cit. Per le prime informazioni su Roggero si
può consultare la voce a lui dedicata in D. Cinti, Dizionario degli scrittori italiani classici, moderni e con-
temporanei, Sonzogno, Milano 1939, p. 213.
40 Nato a Lucca nel 1870, di famiglia aristocratica, esordì con la raccolta poetica Versi tristi (1887), dove
già anticipava modi della successiva poesia crepuscolare, gettando le fondamenta di una poetica delle
Canudo: Piccole anime senza corpo 275
bilità delicata e citato in funzione “anti-patologica”, come risulta immediatamente
chiaro:
Il nuovo, l’inedito essi non cercano convulsamente nella stravaganza d’un soggetto o
nell’analisi del patologico, ma lo guardano tranquillamente zampillare dall’anima lo-
ro delicata e profonda, che in tutto ciò che sperano, in tutto ciò che piangono, in tutto
ciò che contemplano filtra l’incanto d’un profumo non mai respirato, d’un’armonìa
non mai intesa, d’una luce non mai veduta42.
Jolanda sottolinea dunque l’importanza di cercare «l’inedito» fuori dalla «strava-
ganza d’un soggetto» e dall’«analisi del patologico», plaudendo all’atmosfera delicata
e rarefatta che presiede alla maggior parte delle Piccole anime. Questo tipo di simboli-
smo “sano”, antidecadente, sarà poi abbandonato da Canudo, che si avvicina a ben
altre tematiche attraverso una solida ascendenza dannunziana e letture di ambito
francese. Tra eros, morte e sadismo si muovono le poesie pubblicate tra il 1906 e il
1907 sulla marinettiana «Poesia», precisamente due gruppi di quattro sonetti, i Sonet-
ti dell’Androgine e i Sonetti fallici all’Androgine, «più chiaramente simbolista il primo,
con accentuazioni esasperate di sadismo, più decisamente erotico il secondo», a giu-
dizio di Bàrberi Squarotti43.
Si arriva poi alla presentazione dell’«autrice» delle Piccole anime senza corpo che,
evidentemente, tra i «diversi sistemi» per «seguire» questo tipo di arte, ha scelto la via
«piccole cose» e di delicato intimismo. Subì poi l’influenza di Panzacchi, dei parnassiani e dei tardo-
simbolisti francesi; nel 1894 pubblica la raccolta più nota, Il convegno dei cipressi, in seguito ampliata. A
partire dal 1897 collabora assiduamente a varie riviste (tra le quali «Il Marzocco»). Per un primo raggua-
glio sull’autore e sulla bibliografia si può consultare la voce curata da D. Proietti nel Dizionario biografico
degli italiani, vol. 55, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2000, pp. 328-31. Al Giorgieri-Contri è
dedicata una scheda dal Lucini nell’ambito della rassegna di autori che conclude il Verso libero.
41 Angiolo Orvieto è il noto direttore del «Marzocco», periodico sul quale Canudo pubblicò alcuni lacerti
delle Piccole anime.
42 Jolanda, Prefazione, in Piccole anime senza corpo, cit, p. VIII.
43 G. Bàrberi Squarotti, La poesia di Canudo, in Ricciotto Canudo 1877-1977. Atti del congresso internazio-
nale nel centenario della nascita (Bari-Gioia del Colle, 24-27 novembre 1977), a c. di G. Dotoli, Grafische-
na, Fasano 1978, p. 291. I Sonetti vanno considerati, secondo Bàrberi Squarotti, «un fatto poetico non
proprio irrilevante nell’ambito di un periodo, qual è il primo decennio del novecento, pieno di tensioni,
esperimenti, intenzioni, progetti diversi e anche estremamente contraddittori» (ivi, pp. 291-292). Si veda,
ad esempio, Le Metamorfosi (in Sonetti all’Androgine): «Su le mie braccia tese in faccia al Sole / io reggo
un corpo dalla testa mozza. / Gorgoglia rossa la recisa strozza / fiottando le sue ultime parole». Riguardo
alla «frammentaria e dispersa scrittura in versi» di Canudo, Viazzi afferma: «la motivazione si sposterà
verso l’erotico non più rimosso, assumendo il sessuale come strumento iniziatico di conoscenza, fino alle
inerenze, e conseguenze, mistico-alchemiche del mito dell’androgine (magari con una intermediazione
rosacruciana; Péladan) nel quale la furia fallica si risolverà» (Dal simbolismo al Déco. Antologia poetica
cronologicamente disposta, a c. di G. Viazzi, Einaudi, Torino 1981, v. 1, p. 115).
276 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
delle «brevi e poetiche prose»44. In corrispondenza con il titolo, l’anonima scrittrice
viene tratteggiata attraverso l’immagine diafana della sua «anima», quale la si ricava
dai suoi scritti:
traspare una mente agile e immaginosa, un’anima irrequieta e ardente, che, come le
anime a lei simili, ripaga con altrettante lagrime, con altrettante lotte, con altrettanto
soffrire, i suoi slanci e le sue ebrezze nelle regioni abbaglianti del pensiero e del sogno.
Ma appunto qui, in questa specie d’angoscia ch’ella pare trarre dalle sue stesse visioni
leggiadre: in una specie di sbigottimento che sembra assalirla a certi perché a cui la
sua folleggiante fantasìa si arresta come all’orlo d’un abisso – appunto in quest’ansia e
in questo scontento che mettono un fondo nero all’aurata e variopinta e ideale trama,
sta il principio di forza e di superiorità di questo ingegno che non si appaga dei suoi
limiti, né del cognito: che anela a salire, a indovinare ancora: che prova insieme la no-
stagìa e la vertigine dell’infinito45.
Le «regioni» in cui Edina si spinge sono, a detta di Jolanda, quelle «del pensiero e
del sogno», in una sorta di commistione tra visione e riflessione. Il mistero di una tra-
scendenza indagata nelle forme areligiose dell’«infinito» provoca lo «sbigottimento»
della «fantasia», che «si arresta come all’orlo d’un abisso». L’immagine presenta una
chiara derivazione dall’Infinito di Leopardi, al cui nome sarà anche da riportare il
«fondo nero» di queste «aurate» prose, l’«ansia» e lo «scontento» di un «ingegno che
non si appaga dei suoi limiti, né del cognito», ed è volto verso «la nostalgia e la verti-
gine dell’infinito». Tra l’altro, ragionando di Lettres italiennes nell’omonima cronaca
del «Mercure de France», Canudo ebbe ad affermare nel 1906, recensendo
L’Esposizione del Sistema filosofico di Giacomo Leopardi di Pasquale Gatti, che Leo-
pardi è, come chiosa Sergio Zoppi, «baluardo contro il sentimentalismo della vita e
dell’arte»46:
L’acuité de son analyse, la terrible logique de ses déductions jettent une lumière as-
sez brutale sur la plupart des acceptions sentimentales de la vie de son temps et du
nôtre […]47.
Jolanda aveva definito le Piccole anime «brevi e poetiche prose»; avvicinandosi ai
testi, li presenta come «carte» di un «colorito Albo di schizzi poetici»: l’incontro tra
prosa e poesia è messo in rilievo, ma è accompagnato da un riferimento agli «schizzi»,
44 Jolanda, Prefazione, in Piccole anime senza corpo, cit, p. VIII.
45 Ibid.
46 S. Zoppi, Ricciotto Canudo al «Mercure de France», in M. Décaudin et al., Canudo, cit., p. 206.
47 R. Canudo, Lettres italiennes, «Mercure de France», 15 ottobre 1906, p. 625.
Canudo: Piccole anime senza corpo 277
che rimanda ad una tradizione di bozzetti che aveva avuto fortuna nel nord “scapi-
gliato” e nella Toscana macchiaiola. Gli oggetti di questa poesia in prosa sono elencati
ponendo l’accento sulla loro trasfigurazione simbolica e riprendendo la comparazio-
ne con i sopraccennati Prudhomme (La Voie lactée, Le vase brisé), De Musset e Mae-
terlinck:
Mille volte noi abbiamo guardato dei ninnoli di vetro, delle legna da ardere, dei fiori
sulle roccie, dei pali telegrafici attraversati da un frèmito, dei tramonti, delle fiamme
di candela, delle navi all’orizzonte, dei lumi sulle montagne, ma non vedemmo in loro
che delle forme, non ne divinammo il simbolo, non ne intendemmo la parola occulta,
non ne comprendemmo la vera, la spirituale poesia. Infatti, quante centinaia di pupil-
le si levarono al cielo stellato, si posarono sull’incrinatura d’un vaso di fiori, si abbas-
sarono su tre gradini di marmo prima degli sguardi di quei veggenti che intesero e
scrissero: La voie lactée, Le vase brisé, Sur trois marches de marbre rose? E quanti rèto-
ri inneggiarono accademicamente al Silenzio! Ma chi lo sentì e lo rese nella sua gran-
diosità severa e misteriosa, se non il solo Maeterlinck in un capitolo divino?48.
Infine, specificando il «genere» delle Piccole anime senza corpo, si cita Baudelaire
come grande modello di riferimento, nella «mano», nello «stile» e nella maniera di
percepire la realtà («fantasia fusa all’osservazione»); per le tematiche e per una più
generale visione del mondo e della poesia, rimane valido, implicitamente, il riferi-
mento agli altri sovracitati “compagni di strada”:
Le «Piccole anime senza corpo» come volle intitolare sapientemente l’autrice le sue
prose per avvertire che hanno uno sviluppo e una vita tutta spirituale – si collegano a
quel genere che predilesse Baudelaire nei suoi Poemetti in prosa: genere che è privile-
gio di pochi, perché richiede una fantasia fusa all’osservazione nel medesimo grado,
mano leggiera e sobria, stile agile, poetico e semplice insieme49.
Il poemetto in prosa è caratterizzato dunque, secondo Jolanda, dall’attitudine
verso un’arte aristocratica, nata dall’equilibrio tra «fantasia», termine che ricorda il
sottotitolo del Gaspard de la nuit, e «osservazione», stile «poetico» ma «semplice».
Il difetto che l’autrice della Prefazione nota nelle prose di Edina è, ancora secondo
un gusto parnassiano, la «mancanza di equilibrio»50. Rapidi accenni mostrano a quali
poèmes si accorda il maggior plauso: criticando i punti dove «la fantasia dilaga»51, do-
48 Jolanda, Prefazione, in Piccole anime senza corpo, cit, p. IX.
49 Ibid.
50 Ibid.
51 Sono citati a proposito La morte di re Thor e La lotta dei Nani con gli Dei.
278 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
ve l’autrice si perde «un po’ troppo nelle nebulosità del simbolo»52, «osserva solamen-
te, e riesce un po’ arida»53 o trascura «la limpidità della lingua e dello stile», Jolanda
approva invece pienamente «quelle piccole gemme composte dal suo pensiero cesel-
latore»54. Dalle critiche emerge, per contrasto, l’ideale poemetto in prosa secondo Jo-
landa: sapiente equilibrio tra fantasia e osservazione, rievocati attraverso un controllo
stilistico «cesellatore». È una definizione che non si distanzia, sotto certi aspetti, da
quella felice commistione tra «impression» tratta dalla realtà e «rêverie», che, secondo
Roumette, caratterizza, in termini generali, il poème en prose55. Resta il fatto che la di-
rompente novità, per così dire, “contenutistica” di Baudelaire viene messa da parte, se
non allontanata. Infine, le «mende» vengono attribuite a un’«inesperienza» di sapore
giovanile; in toni leopardiani, Jolanda smussa il giudizio negativo prevedendo che
presto «le ombre fredde della ragione» cancelleranno le «lucenti chimère dell’alba» di
Kàrola Olga Edina, scrittrice con cui uno «spirito» eletto potrà entrare «subito in co-
municazione»56.
4.3 Piccole anime senza corpo
«Tu sei moribonda. […] Finché mi seguirai vivrai». […] Io la seguii febbrilmente, de-
lirando: la seguo sempre, traverso ai precipizî immensurabili, ne l’aurora, nel sole, ne
le tenebre…57.
Il primo componimento delle Piccole anime senza corpo assume i caratteri di un pre-
ludio e presenta un titolo (inserito nel testo, in corsivo) significativo (Rivelazione); in
esso, si impostano i termini di una mortifera predestinazione all’arte, che si declina in
una sorta di patto con il diavolo. Quest’ossessione dell’arte rappresentata nelle vesti di
un contatto con il diabolico ricorda le pagine che Bertrand aveva premesso al Ga-
spard de la nuit, dove il misterioso autore delle fantasies assumeva i connotati di un
diabolico «rosacroce dell’arte»58.
L’ultima prosa59, che chiude circolarmente Le piccole anime a costruire una sorta
di cornice (a differenza di ciò che era accaduto per i Petits poèmes en prose), riprende
il primo componimento alludendo di nuovo al legame maledetto tra l’artista e la sua
52 Sono citate le prose XII, XIV, XX.
53 Si fa riferimento alle prose VI, VIII, XVII.
54 Jolanda, Prefazione, in Piccole anime senza corpo, cit., p. X.
55 J. Roumette, Les poèmes en prose, Ellipses, Paris 2001, p. 11.
56 Jolanda, Prefazione, in Piccole anime senza corpo, cit, p. XI.
57 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., pp. 2-3.
58 Bertrand, Gaspard de la nuit. Fantasie alla maniera di Rembrandt e di Callot, Introduzione, traduzione
e note di L. Binni, cit., p. 14.
59 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., LVI, pp. 62-63.
Canudo: Piccole anime senza corpo 279
musa («l’orrida mia Sovrana»): pronto ad affrontare il proprio destino, il poeta insce-
na un vero e proprio martirio per l’arte («Ma vo’ comporre una corona pel mio capo,
e vo’ stringere, con un serto, il mio seno»). L’esordio sembra rendere omaggio a Les
Fleurs du Mal («Oh datemi, datemi i fiori più selvaggiamente odorosi, e le spine più
acute de le siepi») e vi ricorrono i luoghi più percorsi nel libro (il vespro, il bian-
co/candido, la notte). La frase che apriva la prima prosa ed era ripetuta più volte («Oh
la mia melanconia potrà ben rassegnarsi, ma non mai consolarsi») è variata in manie-
ra significativa, segnalando un cambiamento nell’animo del poeta: «la mia melanco-
nia opprimente, accasciante, nonché consolarsi, non può più rassegnarsi». Si tratta di
una ribellione alla schiavitù dell’arte che determina la morte, «la fine agognata» dello
«spirito» e, fuor di metafora, del libro.
Fin dal primo componimento, si trovano dichiarazioni di poetica simbolista («vi-
ta interiore» prima di tutto, indovinare il linguaggio delle cose):
Però che, come certi eremiti di un tempo lontano, io pure ho avuto, col nascere, il
melanconico dono de la vita interiore trionfante su tutti gli spettacoli de la vita ester-
na.
Anche qui fanali, quelle esistenze pure, fatte di luce, di cui io indovinavo (per quale
raffinatezza di percezione?) il linguaggio, lo spirito, anche quei fanali non erano per
me ne la realtà, erano passati nel regno de la mia anima60.
L’importanza del simbolo per Baudelaire, che, com’è noto, aveva dichiarato in
una poesia dedicata a Hugo «tout pour moi devient allégorie»61, non manca di emer-
gere nei Petits poèmes en prose, dove vale il principio secondo cui, per usare parole di
Macchia, la realtà richiede «non la molle contemplazione, ma l’interpretazione agile e
luminosa»62.
Dans certains états presque surnaturels, la profondeur de la vie se révèle tout en-
tière dans le spectacle, si ordinaire qu'il soit, qu'on a sous les yeux. Il en devient le
symbole63.
60 Ivi, I, pp. 1-2.
61 Le Cygne, in C. Baudelaire, Tutte le poesie e i capolavori in prosa, a cura di M. Colesanti, Newton &
Compton, Roma 1998, p. 220. Macchia osserva: «A Voltaire, “le pauvre grand’homme”, difettava quella
cecità indispensabile per un poeta. Egli era l’antipoeta proprio in quanto non vedeva il buio in niente,
mentre Hugo forse si salvava perché vedeva il mistero dovunque» (G. Macchia, Baudelaire e la poetica
della malinconia, ESI, Napoli 19612, p. 76).
62 Ivi, p. 72.
63 C. Baudelaire, Fusées, XI, in Id., Tutte le poesie e i capolavori in prosa, cit., p. 896.
280 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
La difficoltà di una lettura profonda della teoria delle corrispondenze in territorio
italiano è chiaramente rilevabile in Canudo, come si evince fin da una superficiale let-
tura di un poemetto come l’XI:
Vi è un palo telegrafico dinanzi alla mia finestra. […]
Ne la notte silente e profonda, vive una strana vita, questo palo. La sua voce che si
propaga unica, nel mistero della notte illune, sembra chiamare ad un misterioso ap-
pello: sembra che invochi, che implori, che gema. E niente altro veglia, fuor de
l’anima mia. E solo la mia anima ode quella voce, e risponde invocando, implorando,
gemendo64.
In questo caso l’interpretazione simbolica si incontra con un oggetto della mo-
dernità, secondo una modalità che compare raramente nella raccolta. La compren-
sione del simbolo che solo al poeta è dato di cogliere non è univoca, ed esso rimane
piuttosto vago, tra sentimenti di vita e di morte, in una successione incalzante di in-
terrogative:
In questo istante – dite! – che cosa passa attraverso quei tentacoli? La voce del palo
è cupa. Passa, forse, un pianto di vergine ferita, passa un singhiozzo di martire? passa
una maledizione? passa una preghiera, una supplica o una minaccia? Che cosa passa?
La voce del palo è sempre più cupa. Certo qualche cosa muore: un corpo, un’anima,
un Sogno. Qualcosa muore. Ma dove? In una lontanissima regione? O vicino, vicino a
me? […]65.
La difficoltà di interpretare una realtà parlante, coniugata alla modernità, si ripre-
senta nella prosa XXXVIII:
Forse la vaporiera conosce il mio strazio? […]
Oppure il suo ritmo si accorda anche al riso dei gaudenti che mi circondano: si ac-
corda al pianto e al riso, come la parola dei mostri umani che fingono? […]
Non si saprà mai, dunque, la significazione reale di ciò che li occhi nostri vedono?
quale aspetto, dunque, prenderebbero tutte le cose create se, per una sconfinata e ra-
pida raffinatezza nostra, potessimo vederle nel loro aspetto intimo e ideale?66
Al poeta è dato di approssimarsi alla dimensione «ideale», noumenica,
dell’universo, senza però poterla cogliere con chiarezza, forse proprio per la mancan-
za, nella scrittura del giovane Canudo, di una «sconfinata e rapida raffinatezza». Così
64 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XI, p.8.
65 Ivi, p. 9.
66 Ivi, XXXVIII, pp. 38-39.
Canudo: Piccole anime senza corpo 281
la vista di uno scoglio che assomiglia alla pietrificazione di un mostro non si sviluppa
oltre lo «spavento» di fronte ad una potenziale «vita fatale» (XLVI)67, ben lontana da
“emblematiche” pietrificazioni novecentesche di là da venire (si ricordi il Palinuro di
Ungaretti: «Ma nelle vene già impietriva furia»68). La simbologia è spesso troppo pa-
lese, dichiarata perfino attraverso l’uso del corsivo ed evidenziata dall’uso della simili-
tudine: «Ho un ninnolo di cristallo sul tavolo […] esso è il simbolo de la perennità»
(II); «la mia anima è uguale a un uccello» (XII); «la tua anima è come una candela ar-
dente» (XIX); «de le fronde altra non amo che quella dell’edera, […] per la sua signi-
ficazione profonda del perenne» (XX); «la mia anima è come la mia stanza» (XXVII);
«io vidi il simbolo di quella notte […]. Non forse quel monte raffigurava l’erta de
l’Ideale sognato ne’ Sogni vasti di certe anime?» (XLI).
Ciononostante, la presenza del simbolo, unita alla necessità, per il poeta, di co-
gliere le segrete implicazioni delle cose, è il principio cardine che regge la raccolta,
come notava già la Perrone, affermando che i poemetti canudiani sono «scritti in una
prosa tipicamente simbolista, basata sulla tecnica espressiva delle correspondances»69.
Quello che manca nell’analisi della Perrone è, semmai, un rilevamento della precisa
volontà di Canudo di allontanare alcuni cardini della poetica baudelairiana, ribaltan-
do quell’interpretazione in chiave maudit dell’opera di Baudelaire che, nell’ambito
della Scapigliatura, era stata difesa e tradotta in una pratica scrittoria, con l’intento di
allontanarsi dai paludamenti del tardo-romanticismo nostrano. Jolanda,
nell’Introduzione, dimostra proprio di apprezzare questa presa di distanza dai temi e
dalla visione del mondo di un’arte “degenerata” (si ricordi il passo citato: «Il nuovo,
l’inedito essi non cercano convulsamente nella stravaganza d’un soggetto o
nell’analisi del patologico»). Uno dei componimenti delle Piccole anime è espressa-
mente dedicato al caffè, bevanda più «generosa» di ogni «haschich», «oppio» o «vi-
no», rimedio alla «prostrazione», alla «nausea de l’esistenza», capace di destare «i So-
gni, le Imagini, le Idee»:
Ed io t’invoco, o caffè, o nero e magnifico caffè, più generoso dell’haschich, più ge-
neroso dell’oppio, più generoso del vino! più soave de’ baci! più dolce della gioia!
Quando m’invade la prostrazione più profonda, la più profonda nausea de
l’esistenza, e ricorro a te, mio unico, mio fedele amico, e lo spirito tuo scende lungo i
fili molli de’ miei nervi, come onda di linfa lungo le vene arse di una pianta, e corre e
s’indugia ne’ solchi contorti e rosi – come strade di una città divorata da un incendio
67 Ivi, XLVI, p. 47.
68 G. Ungaretti, Recitativo di Palinuro (La Terra Promessa), in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a c. di
L. Piccioni, Mondadori, Milano 1992, p. 250-51.
69 F. Perrone, Ricciotto Canudo e il “poème en prose”: «Piccole anime senza corpo», in Ricciotto Canudo
1877-1977, cit., p. 277.
282 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
– del mio cervello; e sento la mia fronte, come attirata da un magnete invisibile, vol-
gersi a l’Alto, ed il mio sguardo cercare, sfidandolo, il Sole; […]70.
Il caffè permette all’io di indagare «esultante il caos, spingendomi ne le oscure
bellezze e ne’ neri splendori de l’Arcano», e rende la “scrittrice” «ebra»: potrebbe trat-
tarsi di una parodia, se il tono non fosse così serio. Altre scoperte citazioni baudelai-
riane non approfondiscono particolarmente il rapporto con l’autore dello Spleen: «si
stendono a’ tuoi piedi i miei pensieri, come il gatto voluttuoso di Baudelaire a piedi
de la sua signora, lucenti de la tua luce, anzi, del riflesso de la tua luce»71. Più interes-
sante, semmai, può essere la ripresa del termine baudelairiano «straniero», sottolinea-
to tramite il corsivo, che caratterizza il personaggio immaginato di un’opera d’arte, in
cui l’io si identifica («Ho ritrovato la mia imagine […]»):
Un uomo curvo sotto il peso immane de la decrepitezza e de la condanna implaca-
bile, che si trascina da secoli, e per secoli, come l’Ebreo o come l’Olandese, traverso a
la Vita in cui è straniero, cercando la morte che si nasconde ridendo […]72.
Il ruolo che Canudo scrittore ricava per se stesso, nelle Piccole anime, di fronte al-
la contemporaneità, è profondamente diverso da quello che emerge nei Petits poèmes
en prose. Se per Baudelaire si può affermare, con Montesano, che «il tragico si avvia
ormai ad essere leggibile solo come farsa»73, con Canudo siamo piuttosto di fronte al
«poeta che è entrato nel mondo per un “decreto delle supreme forze”, e che com-
prende “il linguaggio dei fiori e delle cose mute”»74, insomma ad un artista non anco-
ra dilaniato dal proprio doppio, il «vieux saltimbanque» coperto di stracci. Nello
Spleen de Paris «lo sguardo in Baudelaire si fissava ormai al livello del marciapiede»,
da dove si muoveva in direzione di una «fantasticheria coatta»75. Nelle Piccole anime,
invece, la fantasticheria nasce ancora da una fiducia nel ruolo del poeta, vate e visio-
nario, al di sopra della «bassura tenebrosa» della folla, come risulta chiaro in questa
immagine:
70 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XXXV, p. 24.
71 Ivi, IX, p. 7.
72 Ivi, XXVI, p. 26.
73 G. Montesano, Introduzione a Lo Spleen di Parigi, in Ch. Baudelaire, Opere, Mondadori, Milano 1996,
p. 384.
74 Ibid.
75 «Il personaggio che si aggirava sotto diversi travestimenti nello Spleen de Paris, si identificava sempre di
più con la figura del povero: e, attraverso di essa, oltre di essa, con quel vinto mai arreso che era il Satana
rivoltoso di Milton e delle Litanies de Satan. Per questo disadattato sociale e metafisico la fuga era vietata
dalla forma sociale subita, che lo spingeva verso una fantasticheria coatta» (ivi, p. 381).
Canudo: Piccole anime senza corpo 283
Solo, dalla grande penombra emerge altiero e bellissimo – simile a uno spirito ri-
belle e sublime – il campanile del Duomo.
E il Sole lo avvolge in una gloria di luce, quasi a premiarlo.
… Così, come a gli Spiriti ribelli e sublimi, che si ergono dalla bassura tenebrosa del
volgo76.
Si noterà anche, a margine, che in queste poche righe ricorrono diversi termini
tipicamente “scapigliati”, provenienti in origine da suggestioni baudelairiane: «pe-
nombra» (si ricordi il titolo della seconda raccolta di Praga), «altiero» (si vedano Li-
bertas e Nox di Penombre)77, «ribelle», «sublime». Il contrasto luce/tenebra è però ri-
solto a favore di un sole che premia le ribellioni, chiudendo il poemetto con
l’affermazione di una possibile rivalsa poetica sulla «tristezza», sulla «oppressura in-
sopportabile» che apriva il componimento.
Queste prime prove letterarie di Canudo si inseriscono in quella «crepuscolarità»
che egli stesso attribuiva al «primo quarto del nostro secolo», come rileva Dotoli fa-
cendo riferimento a uno scritto del 190878. Ma già nel 1904 Canudo descriveva così,
in apertura della rubrica Lettres italiennes del «Mercure de France», l’«homme crépu-
sculaire»:
Le poète ne souffre d’aucun mal, il ne fait à la vie aucun reproche. Tous le maux de
l’«homme crépusculaire», l’homme qui meurt à sa religion et à son culte et ne voit pas
l’aube d’un religion et d’un culte nouveau sont dans son cœur sans un nom précis79.
In tale momento di transizione, occorre secondo Canudo che l’artista riaffermi la
propria centralità, proponendosi come «colui che dà all’arte una nuova funzione mi-
stica, una sorta di profeta del sogno e dell’azione, “représentant pur de la puissance
76 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XXX, p. 29.
77 In Nox, si tratta di una connotazione dello stato di prepotente incertezza che assedia poeta: «torvo pian-
tossi e altiero / il dubbio, in manto nero. / E da quel dì mi seguita, / mi seguita indefesso: […]» (Praga,
Poesie, cit., p. 128). In Libertas, è l’io poetico a dichiararsi «altiero» perché ribelle: «me libero, me forte e
me guerriero / crebbe il genio materno, / e i passaporti sdegno, ospite altiero, / del padre eterno!» (ivi, p.
95).
78 Si tratta di R. Canudo, Littérateurs symphonistes, «Mercure musical», 15 marzo 1908, p. 303; cfr. G. Do-
toli, Proposte di Ricciotto Canudo per un nuovo linguaggio poetico, in Id., Lo scrittore totale. Saggi su Ric-
ciotto Canudo, Schena, Fasano 1986, p. 82: «Canudo sottolinea a più riprese la “crepuscolarità” del primo
quarto del nostro secolo, intendendo per “crepuscolarità” la certezza della transizione, della mancanza di
dogmi, della pluralità, della variabilità, in cui contorni, colori e forme non sono più netti, ma si confon-
dono, si mescolano in un meraviglioso caleidoscopio da cui usciranno nuove tendenze».
79 R. Canudo, Lettres italiennes, «Mercure de France», LII, dicembre 1904, p. 819.
284 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
animique du monde”»80; la costruzione di questa figura di poeta-vate inizia, a ben ve-
dere, a partire dalle Piccole anime, dove l’io poetico porta già i segni di una geniale
singolarità. Il poeta si pone tra gli spiriti che si sforzano di salire la china del monte, la
quale simboleggia «l’erta de l’Ideale sognato ne’ Sogni vasti di certe anime», in con-
trapposizione alla folla «torbida» che vive nella valle:
Io vidi, nel fondo de la vallèa, miriadi di esseri agitantisi, palpitanti, e oscuri come
onde torbide; e solo quelle luci sollevarsi, trionfare, e salire l’Erta, e tendere a la lumi-
nosa bianchissima Vetta81.
Scorrendo le Piccole anime senza corpo, ci si rende presto conto del fatto che, pri-
vo di una solida base estetico-letteraria, il giovane Canudo si ispira a Baudelaire stabi-
lendosi, però, in un clima pre-baudelairiano, lungi dall’ammettere in territorio poeti-
co «il brutto, il riso, il comico»82. Se la Scapigliatura aveva colto e ripreso il dualismo
insanabile tra Reale e Ideale, oltre ad aver ampliato l’immaginario poetico quasi se-
guendo alla lettera i “precetti” dell’Estetica del brutto di Rosenkranz, Canudo taglia
praticamente i ponti, con il plauso di Jolanda, con la «laideur morale et physique»
contemporanea, complice il clima instaurato alla fine del secolo da Degenerazione di
Nordau e simili pubblicazioni. Lontano dal comprendere l’«umanesimo malinconi-
co»83 di Baudelaire, l’autore delle Piccole anime rientra ancora nella schiera degli al-
chimisti che credono nella necessità e possibilità di trasformare il ferro in oro84; come
aveva rilevato, nell’Introduzione, Jolanda, «essi hanno il potere del re della favola: di
trasformare in lucente e prezioso oro la materia più umile e più inetta».
80 Dotoli, Proposte di Ricciotto Canudo per un nuovo linguaggio poetico, cit., p. 83; Dotoli fa riferimento a
R. Canudo, Essai sur la musique comme religion de l’avenir. Lettre aux “fidèles” de la musique, «La Renais-
sance contemporaine», V, 22, 25 novembre 1911, p. 1361.
81 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XLI, p. 42.
82 Cfr. Macchia, Baudelaire e la poetica della malinconia, cit., p. 51.
83 «Il vaso prezioso del Parnasse rivela nelle mani di Baudelaire profonde incrinature. Per la definizione
dell’opera d’arte, i sostantivi dell’Invitation au voyage non bastano. Bisogna aggiungerne un altro, poco
parnassiano» (ivi, p. 47). Così Macchia introduce l’analisi della «malinconia baudelairiana», «stato spiri-
tuale associato a questa condizione di non possesso, di inappagamento» che provocava l’ingresso
dell’«imperfetto» «nel regno categorico della perfezione, nel regno della bellezza», sotto i nomi di «étran-
geté, bizzarria, stravaganza» (ivi, p. 51). Macchia scrive anche riguardo all’umanesimo baudelairiano: «È
l’essenza malinconica di codesto umanesimo, un umanesimo che non intende rinnovare con nuovi mezzi
un processo antico, risuscitare una visione del mondo (l’umanesimo rinascimentale), ma è alleato fedele
dell’idea di decadenza» (ivi, p. 98).
84 Macchia afferma giustamente riguardo a Baudelaire: «Ma, al contrario di D’Annunzio, dei poeti panici,
ottimisti e dei poeti parnassiani, quasi tutti dei piccoli Mida («le plus triste des alchimistes»), egli si mo-
strò pronto a mutare l’oro in ferro, e il paradiso in inferno: a scoprire nel cielo cadaveri e sarcofaghi» (ivi,
pp. 58-59).
Canudo: Piccole anime senza corpo 285
Il legame di Baudelaire con la realtà si esprime spesso, nei Petits poèmes en prose,
come coinvolgimento forte e diretto nelle scene rappresentate: come afferma Rou-
mette, «l’ironie, la colère, l’ivresse sous-tendent la plupart des poèmes du Spleen de
Paris»85. Un tale sentimento di partecipazione è per lo più assente dalle Piccole anime,
che fanno invece del distacco il proprio carattere dominante. Non è un caso che Ca-
nudo citi apertamente il Baudelaire di «Enivrez-vous» (XXXIII)86: occorre ubriacarsi,
ovvero distaccarsi dalla realtà per porsi dalla parte del sogno e della visione; poco in-
teressato alla «muse citadine» de Les Bons chiens, il barisien è piuttosto attratto dalle
possibilità della fantasticheria, cogliendo solo una delle strade percorse nello Spleen
de Paris.
Tra le rêveries canudiane si troverà un tratto ricorrente, giustamente sottolineato
dalla Perrone come indizio di «molteplicità espressiva, unità di ispirazione»:
«l’aspirazione continua a superare i limiti di una condizione umana angusta, segnata
dal tempo e dalla noia»87. Questa poetica dell’ascesa si basa sulla contrapposizione,
enunciata fin dal titolo, tra anima e corpo, a svantaggio del secondo e in direzione di
una trascendentalità a cui occorre mirare, pur nell’impossibilità di raggiungerla; non
è possibile attingere alla verità dei simboli, ma si può intuirne, attraverso una sensibi-
lità speciale, alcune implicazioni. Si tratta, magari, di una fusione con il fumo che sale
verso l’alto:
E penso: Fondermi anch’io, come un granello bruciante, in quella corsa vertiginosa
a l’alto, fondermi in quella magnifica essenza luminosa e salire, salire, salire!88.
L’immagine del monte da scalare, la cui vetta è in fondo irraggiungibile, è ricorrente:
Giunta al cùlmine, spinsi con un atto trionfante, lo sguardo innanzi, per scorgere la
vetta estrema.
O me! essa era tanto lontana!89.
Si rintracceranno poi molteplici figure di pellegrini, o processioni che ricordano la
carovana baudelairiana90:
85 Roumette, Les poèmes en prose, cit., p. 34.
86 «Il faut être toujours ivre. Tout est là: c'est l'unique question. Pour ne pas sentir l'horrible fardeau du
Temps qui brise vos épaules et vous penche vers la terre, il faut vous enivrer sans trêve. Mais de quoi? De
vin, de poésie ou de vertu, à votre guise. Mais enivrez-vous» (Baudelaire, Tutte le poesie e i capolavori in
prosa, cit., p. 546).
87 Perrone, Ricciotto Canudo e il “poème en prose”: «Piccole anime senza corpo», cit., p. 281.
88 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., III, p. 4.
89 Ivi, XLII, p. 43.
90 «Quand vers toi mes désirs partent en caravane, / Tes yeux sont la citerne où boivent mes ennuis» (Sed
non satiata, XXVI, in Baudelaire, Tutte le poesie e i capolavori in prosa, cit., p. 106). Anche nella seconda
Dama elegante (Praga, Poesie, cit., pp. 143-44) di Praga, la donna rappresenta la meta finale di tutti i desi-
286 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Da la vallèa, seguiva il fascio delle strade, svelte e contorte come colùbri, slanciante-
si a la Vetta. Spiccavano, in un bianco di latte, su le tinte scure de l’erta, e pareva che
ad altro non anelassero che a l’alto, a la Vetta splendente.
[…] Ma avevano per me un aspetto così strano di dolore, ch’io le vedevo popolate
da lunghe teorie di pellegrini, lunghe teorie perdute, ignote, remotissime, tendenti a
l’alto, e in vano, come in una suprema e disperata aspirazione91.
Se l’ascesa non si presenta sotto le spoglie di una peregrinazione verso il monte, si
tratta comunque di un percorso verso la «Purificazione» dell’anima, a discapito im-
plicito dell’universo terreno del corpo:
E si presentava al mio cervello, calpestando le Memorie e i Sogni, la divina bianca
figura de la Purificazione, verso cui tende e per cui piange, anche incoscientemente, la
mia misera anima92.
Altrove, si tratta di processioni di vergini verso la Bellezza ideale:
Io vidi la lunga teoria delle vergini, che si estendeva su la pianura e saliva sul mon-
te, lunghissima, come una striscia di neve, o come un filone di puro argento, irradiato
da la Luna.
Io non so che cosa di fatale fosse in quella processione che sembrava senza termine,
e che si allungava traverso i ginepri, a’rovi, a’tronchi, o tra le ginestre e le primule,
sempre uguale, sempre uniforme, sempre monotona e fredda. […]
- Noi siamo le vergini senza amore. E andiamo cercando l’erta de la Bellezza Perfet-
ta -93.
La ricerca ossessiva della Bellezza, con un fondo di imperitura fiducia nel ruolo
dell’arte nella società, non è destinata a tramontare nel percorso artistico di Canudo;
deri, raffigurati da una carovana in eterno viaggio di ascesa, capitanata dalla noia, in un sistema lontana-
mente leopardiano (la noia genera desiderio, mai appagato, e viceversa) che si tinge dell’influsso baudelai-
riano: «La caravana dei desiri miei / verso di voi salìa, donna divina, / come una fila di cammelli ebrei / al
limitar di mistica piscina. // Oh se giungeva ad attaccar la briglia / alle fossette delle vostre spalle, / la noia,
il condottier della famiglia, / si dipingea di ciel le guancie gialle». L’immagine della carovana viene accolta
e ripresa da Camerana, che la offre a Boito quasi come simbolo del viaggio comune dei tre amici: «Su ca-
valli ponemmo e dromedari; / tu l’alte fantasie; / Praga le seti eccelse; io la speranza / e le lacrime mie»
(cfr. G. Camerana, Ad Arrigo Boito in Id., Poesie, cit., pp. 83-85).
91 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., V, p. 5.
92 Ivi, XVII, p. 17.
93 Ivi, XXXI, pp. 29-32.
Canudo: Piccole anime senza corpo 287
non sarà un caso se, mezzo secolo dopo, André Billy lo ricorderà come «un des der-
niers adorateurs de la Beauté, avec un B majuscule»94.
In un’altra prosa, il poeta tenta di sollevarsi, forse per amore, all’altezza di un «tu»
che è simboleggiato dalla fiamma di una candela, pur essendo consapevole di vivere
nella «bassura» dove le gocce di cera si mutano in «lacrime gelide»:
Però che nella bassura da cui vengo verso te, per te, la mia anima si leva, appena
cadute, le tue lacrime cocenti, diventano gelide95.
Le luci che sembrano ascendere verso la vetta della montagna corrispondono agli
«Spiriti solinghi e grandi»:
Non pareva, forse, che quelle luci, come anime tendessero a l’alto, a quella vetta al-
tissima e candida, a quella vetta che luceva unica e solenne ne la tenebra, e in cui
sembrava concentrata tutta una vita superumana e grandiosa, tutta la bellezza miste-
riosa di una notte?
E pensai gli Spiriti solinghi e grandi, ardenti come fiamme, perenni come fiamme,
di vergini lampadofole, che rompono la profonda tenebra che li involge, anelanti a
l’alto, a l’alto, a l’alto, a una vetta di Luce intraveduta, in cui vedono concentrata tutta
la bellezza, tutta la sola bellezza de la mistica notte in cui vivono96.
La solitudine dell’io poetico attraversa l’intera raccolta, diventando un vero e proprio
isolamento rispetto al mondo, che sembra ben corrispondere all’«elitarismo» che ca-
ratterizza, secondo Viazzi, una cospicua parte del simbolismo97.
L’umanità si presenta, nelle Piccole anime, nelle vesti di una clamorosa assenza:
non un componimento è dedicato a persone e a sentimenti che non coinvolgano di-
94 A. Billy, L’Epoque Contemporaine, Tallandier, Paris 1956, p. 140; il passo è citato da Mossetto Campra,
Decadentismo e modernità nell’itinerario estetico di Ricciotto Canudo, cit., p. 115.
95 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XIX, pp. 18-19.
96 Ivi, XLI, p. 42.
97 «Essendosi ormai tramutato in “non-lettore” l’“ipocrita lettore simile e fratello”, il poeta, in quanto ope-
ratore culturale subisce, all’epoca della Rivoluzione industriale e del capitalismo avanzato, una vera e pro-
pria, e traumatica dimolto, crisi d’identità, per congiunta mancanza e di funzione e di interlocutore.
Donde il tendere da un lato a sostituire il siffattamente sostituito funzionariato di classe con un ruolo
profetico-sacerdotale, oppure, sull’opposto versante, l’annullamento, la accettata, anche voluta, riduzione
a non-poeta, in entrambi i casi finendo con l’istituzionalizzare la non-comunicazione o meglio il non-
scambio intenzionale, sia che si persegua l’elitarismo più estremo e severo, sia che si pratichi il perdersi
nel magma del demotico visto come equivalente del Tutto eppertanto della dimensione cosmico-sacrale
(la calata agli inferi della quotidianità ovviamente coincidendo con l’ascesa all’empireo del sovrasensibile,
come i mistici ben sanno)». Cfr. G. Viazzi, Le Figurazioni (ideali) e le Imagini (terrene), in Dal simbolismo
al Déco, cit., vol. I, p. XXVII.
288 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
rettamente l’io, che è il vero, unico protagonista e centro d’irradiazione dei poemetti.
La folla appare qualche volta, nelle vesti di una massa minacciosa e inquietante, e, a
ben vedere, non è composta da persone, ma da luci (forse case) o alberi mossi dal
vento nella notte:
I mille lumi disseminati su la montagna, lucevano di una luce singolare: e pareva
che in essi fosse concentrata – come in mille occhi – la vitalità conscia e terribile di
una massa, inerte ed enorme, resa ancor più enorme dalla notte illune98.
Tale massa conscia e terribile, enorme e inerte, dai mille occhi, sembra la figurazione
di un rimosso terrore verso la folla delle città moderne.
Sotto a la montagna, sembrava si agitassero infinite Erinnidi, o irrompessero onde
infinite, nel querceto che fremeva.
E allora si plasmò di una vita reale e profonda la parola de la mia anima: - Così, con
occhi lucidi e terribili, guarda e attira l’Ignoto, mentre, ne la tenebra de la vallèa, si a-
gitano, gridano, urlano, fremono, infiniti esseri!99.
Il componimento termina nella riaffermazione dell’unicità e solitudine del poeta,
che «guarda e attira l’Ignoto», contrapponendosi (il «mentre» avrà un valore opposi-
tivo) ad una sorta di turba infernale che si agita nella «tenebra de la vallèa». Nella So-
litude (Le Spleen de Paris, XXIII)100, Baudelaire rivendicava il diritto alla solitudine
contro una «prostitution que je pourrai appeller fraternitaire, si je voulais parler la
belle langue de mon siècle», rispondendo a un «gazetier philanthrope». Ma nelle Pic-
cole anime la solitudine è rivendicata in maniera meno pungente, ed è piuttosto legata
ad una concezione quasi mistica del ruolo del poeta, che, esule forzato dalla società,
trova riscatto in una sensibilità d’eccezione.
Nelle Piccole anime si intravedono diversi contatti con la pittura e la musica,
primi segnali degli eclettici interessi canudiani, che, col passare del tempo, divente-
ranno sempre più dettati da una concezione di “arte totale”, nata da una fusione delle
arti del tempo con quelle dello spazio, che poteva essere operata, secondo Canudo,
dal cinema101. La musicalità, sotto forma di voci o suoni in lontananza che ricordano
98 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., IV, p. 4.
99 Ibid.
100 Cfr. Baudelaire, Tutte le poesie e i capolavori in prosa, cit., pp. 512-14.
101 A questo proposito nota Rondolino: «In ogni caso, come ormai è accertato, non soltanto sulla base di
uno scritto di Abel Gance Canudo definì “sesta arte” il cinematografo e in essa vide, fin dal 1911, la pro-
messa di quella “grande conciliazione non solo fra la Scienza e l’Arte, ma fra i Ritmi del Tempo ed i Ritmi
dello Spazio”, che costituiva per lui la generale tendenza dell’arte contemporanea» (G. Rondolino, La teo-
ria cinematografica di Ricciotto Canudo, in M. Décaudin et al., Canudo, cit., p. 128).
Canudo: Piccole anime senza corpo 289
la poetica leopardiana, suscita piacere potenziando la facoltà d’interpretazione simbo-
lica; Canudo non sembra, semmai, sfruttare fino in fondo le risorse musicali per una
tramatura fono-simbolica della prosa, che rimane per lo più legata a elementari pro-
cedimenti ritmici sottratti alla poesia (allitterazioni, assonanze, ripetizioni). Tuttavia
l’attenzione alla musica e al suono rivela come l’autore avesse intuito una delle con-
quiste baudelairiane e poi, più latamente, simboliste, secondo quella predilezione per
la musica che aveva probabilmente le sue radici nell’immagine del poète-musicien di
Nerval102.
Si tratta, a volte, della canzone lontana che viene dai campi, ricca di reminescenze
leopardiane; quando il poeta si avvicina, però, la scena che si presenta ai suoi occhi si
colora di sensualismo dannunziano:
A un tratto, ruppe il silenzio enorme che opprimeva l’anima di tutto il creato, una
voce fresca di fanciulla. Io trasalii a quel canto. […]
Poi, la voce tornò a svolgersi nel ritmo. Oh, era tanto triste quel ritmo! Io sentivo la
voce di una fanciulla. Ma era tanto tanto stanca quella voce! Chi piangeva, e che cosa
piangeva mai? De la canzone io non potevo percepire il linguaggio fatto di parole, ma
percepivo solo quello fatto di suoni, e mi invadeva tutto il mistero – profondo come
quello de la Vita – tutto il mistero non mai penetrato, e impenetrabile de la Musica.
A tratti, come in un ritornello, si levava la voce, assai più fresca, di un bambino,
mentre l’altra taceva. Io non potevo scorgere i cantatori. Ed ancora mi opprimeva il
Mistero.
Poi, a poco a poco, come la voce si avvicinava, io scorsi due esseri, una fanciulla e
un ragazzo, curvi sul campo arato, a profondere il seme fecondatore103.
Altrove, la musica è utilizzata per esprimere una «sensazione», quella di una
«grande melanconia», che è veicolata da una notte di «plenilunio» come dal suono
della «fanfara»; si noterà che, ancora una volta, il suono è caratterizzato da un leopar-
diana lontananza:
Io ho provato questa sensazione un giorno di Sole, ascoltando i suoni di una fanfa-
ra lontana.
In verità, non so precisamente perché i suoni di una fanfara mi riempiano di così
grande melanconia. Dipende ciò, forse, da la povertà di quegli accordi, da l’assenza di
102 Cfr. G. Dotoli, Proposte di Ricciotto Canudo per un nuovo linguaggio poetico, in Id., Lo scrittore totale.
Saggi su Ricciotto Canudo, Schena, Fasano 1986, p. 94.
103 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XXIII, pp. 21-22. Si noti il cambiamento rispetto
all’immagine del lavoro dei campi che era presente nella poesia Mattinata («Chiede la vanga provvida / a
la Gran Madre il pane»).
290 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
sfumature, di penombre, di tinte minime? Ed è pur questa la cagione de la mestizia di
una notte lunare?104
La musica viene anche accostata all’immagine del mare, riprendendo, seppur in
maniera semplificata, una riflessione che Baudelaire aveva svolto nella lirica dedicata
a La musique («La musique souvent me prend comme une mer»), nella quale, come
rileva Macchia, «l’accostamento musica-mare illumina l’essenza spaziale, numerica,
contenuta nel suono e moltiplicata all’infinito, sin a perdersi in un’instancabile gene-
razione di orizzonti»105:
In questo accingersi al sonno di tutte le cose la vita di tutte le cose sembra sospesa
ne la meraviglia. E le campane vibrano come corde incitate da la mano di un musico
sublime. Vibrano in un’armonia infinitamente vasta e semplice come il mare, in cui il
mio cervello, quasi inconsciamente, fonde accordi infiniti, infiniti suoni, che sorgono
dal ricordo, o da la sua sostanza106.
«Un’armonia infinitamente vasta e semplice come il mare», «accordi infiniti, infiniti
suoni» ricordano l’atmosfera della lirica baudelairiana; qui, però, la melodia si risolve
essenzialmente in una semplice armonia della vita:
Oh, questa è la Vita, è la significazione de la Vita, in cui miriadi di azioni, ad ogni
attimo, si fondono ne l’armonia (che possiamo ben intravedere, ma non mai deter-
minare) immensa ed unica, de l’Universo107.
Il confine labile tra le arti è apertamente dichiarato nella XXVIIa pièce: «Ho nella
mente non so se un Poema o una Sinfonia, se una Statua o una Tela»; il soggetto della
composizione, qualunque sia il mezzo espressivo, ha a che vedere con l’ignoto:
Il soggetto è opprimente come l’eternità, orrido e affascinante come l’Ignoto. E ha
tutte le attrattive terribili e tetre del dolore per un’anima esausta che tinge, goccia a
goccia, del suo sangue, le punte aguzze del sentiero del Sogno108.
104 Ivi, XLIV, p. 45.
105 Macchia, Baudelaire e la poetica della malinconia, cit., p. 85.
106 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., L, p. 53.
107 Ibid. Sarà giusto accennare come il termine «armonia», più volte presente nelle Piccole anime, sia de-
stinato a riempirsi di significazioni sempre più profonde per Canudo, che dalle colonne di «Europe arti-
ste» dichiarerà, nel 1904, la necessità di «saisir le lien harmonieux de toutes les énormes et hideuses dé-
sharmonies de l’existence humaine», formulando poi la teoria dell’«Episynthèse» di tutti i sistemi di co-
noscenza (R. Canudo, Ruit hora, «Europe artiste», settembre 1904; cfr. Dotoli, Bibliografia critica di Ric-
ciotto Canudo, cit., p. 90; a tale proposito cfr. Mossetto Campra, Decadentismo e modernità nell’itinerario
estetico di Ricciotto Canudo, cit., p. 67).
Canudo: Piccole anime senza corpo 291
Alla pittura Canudo guarda con eguale interesse che alla musica, utilizzando
spesso i mezzi di un colorismo di sapore simbolista. Capita anche che pittura e musi-
ca si incontrino, nella rappresentazione di una sorgente che sembra alludere alla cele-
bre Ophelia di Millais (1852):
La vena, sgorgando, aveva voci cupe, e disperate come un pianto di bimbo, e som-
messe come un tacito pianto di vergine, e strazianti come un pianto di vecchio.
Io ascoltavo tutte quelle voci ritmiche come una musica, e vedevo tutti gli aspetti
che assumeva la ghirlanda. Sembrava che un’armonia misteriosa tenesse quella picco-
la vasca, un’armonia di un significato profondo, ch’io sentivo ma che non arrivavo a
comprendere.
D’improvviso, sorse nel mio cervello l’imagine di Ofelia pallida, impazzita di amo-
re109.
Un tramonto visto «in treno» su «una grande pianura» assume una significazione
a partire dalle colorazioni del paesaggio, derivate dal «Sole calante»; gli alberi, prota-
gonisti di questo “schizzo” antirealistico, sono tratteggiati a partire da un paragone
con Rossetti, che fa da tramite per introdurre un interscambio tra «visione» e «real-
tà»: «li alberi dritti e allineati, stranamente viventi, come certe figura di Dante Gabrie-
le Rossetti, oscillanti tra la visione e la realtà»110. La luce del tramonto suggerisce un
movimento di astrazione dalla materialità, con un bagno di colori preraffaelliti, mu-
tando il paesaggio in «bassorilievo lavorato da un artefice maraviglioso e materiato di
argento caldo, liquido, in un immenso bacino». Con la fine del tramonto e la scom-
parsa della luce solare, il nero diventa dominante, riportando gli alberi ad una simbo-
logia di morte e «mestizia»: «la gran pianura vasta e unita come un mare, che aveva,
per quegli alberi, figurazione di uno sterminato cimitero».
«Tinte» di vario tipo ricorrono nelle prose, variamente specificate: «le tinte diven-
tarono sempre più lievi, sempre più tenere» (XVI); «La neve ha una tinta cinerina.
Tutte le tinte sono smorte» (XXXIX); «una polvere d’oro, fine e calda, involgeva le
alture» (XLII). Si troverà anche una sorta di “ecfrasi” di un «antichissimo e anonimo
dipinto», il quale è descritto con i toni di una tela preraffaellita:
La scena de l’antichissimo e anonimo dipinto, raffigurava una giovane donna, di
una singolare bellezza, pallida, discinta e piangente a’piedi del catafalco, su cui giace-
va un giovinetto estinto. E la coppia (di una essenza eterna e sublime) era attorniata
108 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XXVII, p. 25.
109 Ivi, XXXIV, p. 35.
110 Ivi, XIV, p. 14.
292 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
da fanciulle da’ pepli lunghissimi e candidi e da’ volti meravigliosamente belli nel do-
lor vago che le dominava; e da fanciulle abbrunate, livide, co’ lo sguardo fisso nel ca-
davere, lo sguardo cupo, che dava una espressione di felicità amara a que’ volti111.
Oltre alla musica e alla pittura, fa una comparizione anche la fotografia, a testi-
moniare gli interessi molteplici di Canudo e la sua capacità di trarre riflessioni non
scontate sull’arte «nell’epoca della sua riproducibilità tecnica», come direbbe Benja-
min. La prosa si presenta in una forma tra il rêve e il conte fantastique:
Ho sognato di un fotografo immaginario, piccolo, nervoso e misantropo, che pos-
siede una sola macchina maledetta, e non ha clienti, e patisce la fame, la febbre e tutte
le angoscie possibili, perché nessuno vuol farsi ritrarre da quella sua macchina male-
detta112.
Ciò che suscita la curiosità del lettore moderno, certo ancor più dopo La chambre
claire, è il modo in cui Canudo sembra aver colto un carattere inquietante
dell’immagine fotografica, ovvero il suo potere di rappresentare qualcosa che, imme-
diatamente dopo, non è più tale, e di produrre perciò immagini di morte113. In più,
lungi dall’essere realistica, la fotografia di questo maudit si tinge di tonalità fantasti-
che, simboliche e misteriose, sia che si dedichi ai ritratti, sia che si rivolga ai paesaggi:
Su le lenti di quella macchina, grava una strana malìa. Tutto ciò che passa traverso
ad essa, si capovolge, perde le forme e le tinte primitive, ed assume un aspetto – sem-
pre identico – di morte.
[…] Anche i più bei paesaggi, magnificati da la solitudine, hanno assunto, sul vetro
di quella macchina, figurazioni strane, popolandosi di larve, di scheletri, di animali
mostruosi, forse mai esistiti, di vegetazioni ignote a Linneo e che emanano profumi
così acuti e così malefici, che dànno le vertigini114.
Il pubblico lo condanna con timore e rifiuto («è sempre deriso e rifiutato»); infi-
ne, il fotografo dalla «macchina maledetta» viene identificato con l’anima del poeta:
111 Ivi, XXXII, pp. 32-33.
112 Ivi, XLV, p. 46.
113 «La pittura, dal canto suo, può simulare la realtà senza averla vista. […] Nella Fotografia, contraria-
mente a quanto è per tali imitazioni, io non posso mai negare che la cosa è stata là. Vi è una doppia posi-
zione congiunta: di realtà e di passato. E siccome tale costrizione non esiste che per essa, la si deve consi-
derare, per riduzione, come l’essenza stessa, come il noema della Fotografia» (R. Barthes, La camera chia-
ra, trad. di R. Guidieri, Einaudi, Torino 1980, p. 78).
114 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XLV, p. 46.
Canudo: Piccole anime senza corpo 293
«E la mia anima è come quel povero essere melanconico e torturato»115. Come il foto-
grafo, il poeta dunque, attingendo le proprie figurazioni al di là del reale e cercando
di fissare in immagini il mistero simbolico che è celato dalla realtà, “fissa” il referente
in un’interpretazione statica, che diventa immagine di morte. In più, malinconia e
morte sono i “pensieri dominanti” che condizionano il poeta: «a pena egli vi pone
l’occhio ogni spettacolo di lietezza si trasforma in uno spettacolo così lugubre che uc-
cide»116.
Il vespro è il momento preferito del poeta delle Piccole anime, in quanto la luce
del crepuscolo ha il dono di rivelare aspetti nascosti della realtà, secondo una conce-
zione che Canudo sembra aver derivato da Baudelaire, riguardo al quale afferma
Macchia: «È poesia che non nasce a mezzogiorno, nel furente mezzogiorno che sco-
pre le cose con fragore. Ama le ombre lunghe del crepuscolo, e le custodisce come
memorie di un sole sfolgorante che già brillò al centro del cielo»117. Si ricordi anche le
coucher de soleil descritto da Baudelaire ragionando di «Littérature de décadence» a
proposito di Poe:
Ce soleil qui, il y a quelques heures, écrasait toutes choses de sa lumière droite et
blanche, va bientôt inonder l’horizon occidental de couleurs variées. Dans les jeux de
ce soleil agonisant, certains esprits poétiques trouveront des délices nouvelles, ils y
découvriront des colonnades éblouissantes, des cascades de métal fondu, des paradis
de feu, une splendeur triste, la volupté du regret, toutes les magies du rêve, tous les
souvenirs de l’opium. Et le coucher du soleil leur apparaîtra en effet comme la mer-
veilleuse allégorie d’une âme chargée de vie, qui descend derrière l’horizon avec une
magnifique provision de pensées et de rêves118.
A confronto con questo celebre passo baudelairiano, riprendiamo, nelle Piccole
anime, il sovracitato tramonto scorto dai finestrini di un treno, in una «grande pianu-
ra»119, e troveremo interessanti rispondenze. Afferma Baudelaire, in questa pagina,
che «le coucher de soleil» appare, a chi sa vedere, come la meravigliosa allegoria di
un’anima carica di vita, di pensieri e di sogni; in Canudo la vista del tramonto suscita
sensazioni simili e si candida a tempo della visione per eccellenza (insieme, per altri
versi, alla notte):
115 Ivi, p. 47.
116 Ivi, p. 46.
117 Macchia, Baudelaire e la poetica della malinconia, cit., p. 99.
118 Ch. Baudelaire, Notes nouvelles sur Edgar Poe, in Curiosités esthétiques. L’Art Romantique et autres
Œuvres critiques, textes établis avec introduction, relevé de variantes, notes et sommaire biographique par
H. Lemaitre, Classiques Garnier, Paris 1999, p. 620. Il testo delle Notes apparve nel marzo 1857 conte-
stualmente alla traduzione delle Nouvelles Histoires extraordinaires di Poe.
119 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XIV, pp. 14-16.
294 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Dapprima tutto il paesaggio, verso Ponente, era magnificato dalla luce bianca e lu-
minosa del Sole calante, ma ancora alto. […] e ai cùlmini de lo sfondo, nebbiati di
bianco e di celeste tenerissimo, quella luce dava quasi l’aspetto di un bassorilievo la-
vorato da un artefice maraviglioso e materiato di argento caldo, liquido, in un im-
menso bacino.
Il mare, lontanissimo, presentava un’incantevole varietà di tinte, passando dal cele-
ste de la riva al viola molle de l’orizzonte, per una gradazione mirabile di giallo e di
turchino.
E l’incanto era suscitato dal Sole, il gran Divo celeste, che sfiorava, con un velo soa-
vissima mante roseo, certi cùlmini, certi alberi, certe erbe, certe case ne’ cui vetri con-
centrava una tinta di fuoco vivo. […]
Oh, non mai la vista de la Natura mi ha suscitato, come in quel momento mi susci-
tò, sensazione più profonda di mestizia.
La «luce bianca e luminosa» si trasforma in «un’incantevole varietà di tinte», co-
me la «lumière droite et blanche» si muta in «couleurs variées»; «des cascades de mé-
tal fondu» si riversano in «argento caldo, liquido»; ai «paradis de feu» sembra corri-
spondere «una tinta di fuoco vivo»; «une splendeur triste, la volupté du regret» si in-
contrano con la «sensazione più profonda di mestizia». Altrove, un simile colorismo
vespertino prepara un’apparizione simbolica: tra «le nubi distese come lingue di
fiamma a lunghe strisce di oro caldo» (ancora metallo fuso), il verde e l’azzurro si
presenta «la bianca figura de la Purificazione»120.
Il crepuscolo è più volte presentato come un momento in cui la realtà, sospesa in
una luce che la rende irreale («si sospende»), quasi impalpabile e prossima a scivolare
nell’oscurità e nel nulla della notte, sembra rivelare il proprio segreto, suscitando una
meraviglia contemplativa («solennità», «solenne», «contemplazione estatica»), pur
nell’impossibilità di comprendere fino in fondo il senso di tale disvelamento:
Oh, non mai hanno un aspetto più bello, più mirabile, le stelle, di quello senza
troppo fulgore, che dà loro un limpido vespero.
È in quest’ora che sfoggiano tutto l’incanto sovrano, inestinguibile, eterno, de le co-
se nascoste121.
Era un crepuscolo. L’ora in cui tutta la vita si sospende come in una contemplazio-
ne estatica, come per un avvenimento di cui si sente la solennità; o come sommersa
nel vapore azzurro e quasi sensibile al tatto, che scende da l’etere122.
120 Ivi, XVII, p. 17.
121 Ivi, XVI, p. 17.
122 Ivi, XXXIII, p. 34.
Canudo: Piccole anime senza corpo 295
È l’ora solenne in cui li Elementi ci parlano e si uniscono a noi in miriadi di fila. La
neve ha una tinta cinerina. Tutte le tinte sono smorte. È l’ora solenne in cui le cose
create comunicano tra loro. Ed io invano tendo l’orecchio, assuefatto a le più com-
plesse armonie. L’armonia di quest’ora io non posso comprenderla? Che cosa mi ri-
velerebbe essa? Non, forse, se giungessi a percepirla, saprei tutto il mistero della crea-
zione? E chi potrà, chi potrà, nel tempo, comprendere questa voce?
È l’ora solenne in cui li Elementi si uniscono a noi in miriadi di fila, come svelare
tutto. E noi non siamo ancor atti a intenderli123.
«L’armonia di quest’ora io non posso comprenderla?»: ci vorrà un più solido ba-
gaglio poetico-filosofico per scoprire quel che il mistero dell’ora solenne comunica.
Per le Piccole anime, si rilevi l’intuizione che la «sospensione» vespertina della realtà
sarà uno dei momenti in cui, nella poesia successiva, cercare una risposta sull’essenza
del finito e dell’infinito. In questo senso il «vespero» è contrapposto a volte alla sera,
intesa come momento in cui il buio è già calato sulle cose, eliminando lo sguardo pri-
vilegiato del tramonto.
Poi, quando la Sera salì da la Vallèa, tutto finì. […] quando salì la sera, serrando so-
lennemente tutte le cose create nel suo nero mantello, tutto il meraviglioso mondo,
che il vespero benigno mi aveva mostrato, scomparve124.
Talvolta può capitare che al poeta sembri di comprendere la significazione insita
nell’«accingersi al sonno di tutte le cose», relativa la momento in cui «la vita di tutte le
cose sembra sospesa ne la maraviglia»; ma il senso non va oltre al riconoscimento
dell’«armonia» dell’«Universo»:
È sera. Le campane che suonano la preghiera pe’ fedeli, il monito pe’ gaudenti, e
l’inizio de l’estati pe’ poeti, rompono l’aria tranquillissima in un ritmo armonico e so-
ave.
In questo accingersi al sonno di tutte le cose la vita di tutte le cose sembra sospesa
ne la maraviglia. E le campane vibrano come corde incitate da la mano di un musico
sublime. Vibrano in un’armonia infinitamente vasta e semplice come il mare, in cui il
mio cervello, quasi inconsciamente, fonde accordi infiniti, infiniti suoni, che sorgono
dal ricordo, o da la sua sostanza.
Oh, questa è la Vita, è la significazione de la Vita, in cui miriadi di azioni, ad ogni
attimo si fondono ne l’armonia (che possiamo ben intravedere, ma non mai determi-
nare) immensa ed unica, de l’Universo125.
123 Ivi, XXXIX, p. 39.
124 Ivi, XLIX, p. 52.
296 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Canudo, pur cogliendo alcuni risvolti della simbologia del crepuscolo e pur pren-
dendo in prestito alcuni tratti figurativi di Baudelaire, non sa ben difendersi dalla
«tristezza dolciastra così insidiosamente legata a simili spettacoli», da cui, afferma
Macchia, l’autore delle Fleurs ben si tutela ponendosi «dietro “la muraille immense de
brouillard”, dietro la compattezza di un paesaggio di cenere e di fango»126.
Altro momento d’elezione del poeta delle Piccole anime è la notte, la piena oscu-
rità rischiarata eventualmente dalla luna e dalle stelle. Promeneur notturno alla ma-
niera romantica, Canudo non si aggira per i vicoli malfamati della «ville tentaculaire»
come Baudelaire; benché si trovi qualche traccia di passeggiate notturne, la notte è
preminentemente lo spazio del rêve e della rêverie:
Non c’è cosa che mi irriti più di un meriggio di Sole. Non c’è cosa ch’io odî più de’
fiori. […] Amo il Sole a l’alba e al tramonto, perché allora sorge da la tenèbra o si do-
na a la tenèbra. Imperocché io cerco la tenèbra, in cui la mia anima può fingere di es-
sere in un universo plasmato a suo piacimento
[…] E solo m’inebrio nel Sogno in una tenebra senza fine127.
Perché [queste statue] si trasformano ne le tenebre? È dunque vero che si deve ma-
ledire il Sole che svela tutta la povertà nostra?128.
La contemplazione notturna trova una soglia tra l’io e il mondo, come in Baudelaire,
nella finestra:
È notte. La mia stanza è illuminata. E non posso distinguere nulla traverso a la mia
finestra, fuori de la mia finestra. Questa finestra sembra aperta, in verità, su le tenebre
de l’Universo.
La mia candela muore. E la mia stanza è invasa da le tenebre. Come per uno strano
e rapido irradiamento, fuori l’oscurità si rompe. Ed io posso scorgere la cima de li al-
beri e il cielo luminoso di miriadi di occhi lucenti129.
Alla dimensione notturna andranno accostate, come diverse declinazioni di uno
stesso tema, anche la neve e la nebbia, figure di un annientamento che introduce nel
paesaggio una nota d’immobilità, di smemoramento e di contatto con l’infinito.
125 Ivi, L, p. 53. Si noti che in questo caso il temine «sera» non designa un momento di buio già completo
come in XLIX, bensì il vespro (ricorre infatti la “sospensione” della realtà).
126 Macchia, Baudelaire e la poetica della malinconia, cit., p. 119.
127 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., LII, pp. 54-55.
128 Ivi, LIII, p. 56.
129 Ivi, XXVIII, p. 27.
Canudo: Piccole anime senza corpo 297
Ho sempre avuto l’ansia di perdermi in un giorno di fitta nebbia, ne la nebbia.
Oh, sentire ogni romore e non vederne la cagione, e non vedere nemmeno la cagio-
ne di nulla, e non vedere nulla, né persona, né cosa, e non sentire nemmeno l’anima
delle cose. Sentirsi sola e perduta, come nel fondo di un mare. E non saper la vita che
si svolge a dieci passi da me, né quella che si svolge sul mio capo. E camminare lun-
gamente, infinitamente, sempre in mezzo a la nebbia, sempre sola. Poi, popolare a
poco a poco, di fantasime candidissime e silenti, il cammino, fantasime dai pepli assai
lunghi e pioventi rose bianche, mammole bianche e gigli sul sentiero. E non sentire
nulla, nemmeno la voce de la propria anima; obliare tutto, cose e sensazioni, tutto,
tutto, in un regno di profondo silenzio, e trascinarsi, così, da l’Infinito, a
l’Infinito…130.
Il nulla della nebbia, come il nero della notte, può essere “popolato” di «fantasi-
me»; d’altro canto, il «profondo silenzio», l’assenza di ogni voce e segno (dunque an-
che la fine della poesia) può condurre all’«Infinito», che è appunto raggiungibile solo
nel momento in cui si smette di nominarlo e ci si “perde”.
All’infinito si può ricongiungersi infatti solo con la morte, come suggerisce
l’immagine della campagna, della città e del monte innevati: «Cade la neve. Ed oltre il
viale del giardino tutto è involto dal candore, tutto è affogato, tutto è sopito nel can-
dore enorme: il cielo, le campagne, il monte su cui giace la piccola città. Tutto!»131. Lo
spazio e il tempo sono i primi a subire una sospensione, un «dissolvimento»: «Cade la
neve. Da un’ora, da un mese, da un anno, cade? da un tempo immemoriale? io non
so»132. Un tale annullamento suggerisce l’immagine dell’infinito e di una «purifica-
zione» dopo la morte:
Non avete mai provato il sentimento di una nostalgia profonda fatta di lacrime, (la
nostalgia di qualchecosa d’ignoto e di puro, che ora tiene la mia anima) quando ci
circonda un candore, come questo, senza fine?
Tutto bianco! Sembra estinto il gran Tutto, estinto completamente e completamen-
te purificato. È, forse, un avvertimento? Sarà così di noi, dopo la morte? Tutte le for-
me, le tinte, tutto ciò che distingue la nostra sostanza, e la sostanza di tutte le cose, si
fonderà così, dopo la morte, purificato, in un candore senza fine?133
Il caso in cui la neve è portatrice di visioni fantastiche sembra verificarsi soprat-
tutto quando il poeta si concentra sulla natura luminosa del bianco:
130 Ivi, XXII, pp. 20-21.
131 Ivi, XXIX, p. 28.
132 Ibid.
133 Ibid.
298 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
La neve, sul culmine più alto del monte, figurava un grande concentramento di
bianchissima luce. Ne la penombra de la cupa giornata jemale, era l’unica nota viven-
te de la Natura. Però che tutto sembrava sopito, in un sopore profondo, come annien-
tato.
Da la vallèa, saliva il fascio de le strade, svelte e contorte come colùbri, slanciantesi
a la Vetta. Spiccavano, in un bianco di latte, su le tinte scure de l’erta, e pareva che ad
altro non anelassero che a l’alto, a la Vetta splendente. […]
E ripensai a certi sogni de l’adolescenza, tendenti in vano a una Vetta intraveduta,
splendente in un concentramento vasto di bianchissima luce134.
Capita anche che la nebbia si distanzi dalla notte, diventando tema distinto e ap-
portando immagini differenti:
Questa mattina jemale è assai triste. È triste, perocché una nebbia pesante, bianca-
stra, opprime le cose. Pare che trionfi ancora la notte, tanto la Luce è vinta. Ma ne la
tenebra notturna sorgono e vagano a torme i Sogni, mentre, in questa penombra,
l’anima si accascia e si lamenta, come per una delusione grande, la delusione del Sole
che doveva scaldarla e avvivarla.
E i Sogni sono assenti. Domina solo una tristezza, una oppressura insopportabile,
come derivante da la nostalgia135.
In questo caso, la nebbia non è regno del sogno e della fantasticheria, ma «pe-
nombra» in cui l’anima «si accascia», in una «oppressura insopportabile, come deri-
vante da la nostalgia»: siamo di fronte a una definizione della noia, che ha qualcosa in
comune con quelle leopardiane. Questa nebbia dalle «spire fumose e soffocanti», op-
primente, «pesante», «letale e orribile», condivide alcuni caratteri con il tedio leopar-
diano, se si pensa che, come è specificato, essa sembra derivare dalla «nostalgia», ov-
vero da un rimpianto inguaribile verso un rapporto attivo con la realtà. Al contrario
di quel che Leopardi arrivò, abbastanza presto, a sostenere (l’impossibilità, in tempi
moderni, di svincolarsi dalla noia), «gli Spiriti ribelli e sublimi», rappresentati dal
«campanile del Duomo», possono affrancarsi, secondo Canudo, da un tale stato di
abbrutimento.
Il nome di Leopardi non appare improprio per le Piccole anime, che sembrano
riprendere immagini dal poeta dei Canti, a volte sfruttate per costruire un universo
semantico diverso da quello del recanatese. Un ricordo della ginestra sembra suggeri-
re l’immagine del fiore che è cresciuto sulla roccia più impervia: «Su la roccia che si
levava vasta e piana come un muro, a specchio del mare, sorgeva una sola pianta con
134 Ivi, V, pp. 4-5.
135 Ivi, XXX, p. 29.
Canudo: Piccole anime senza corpo 299
un sol fiore»; «il fiore era la sola nota vivente di quella roccia austera»136. Pur identifi-
cando la propria condizione umana nel fiore nato sulla pietra, l’io poetico si lascia poi
andare a riflessioni di natura opposta rispetto a quelle della Ginestra, per cui la soli-
tudine viene rivendicata come posizione di forza dell’animo grande, non mitigata
dalla «social catena»:
Verso quel fiore protesa l’anima mia, mi assalse la poesia magnifica de la solitudine.
Ne l’alto di una roccia colossale e inaccessibile, a specchio del mare. Su la Forza, al
conspetto de la Forza! E sola, sola, sola!137
Gli uccelli, che avevano mosso la fantasia leopardiana a poetiche ed aspre rifles-
sioni, sono oggetto di numerose prose, dove diventano i rappresentanti di uno stato
di dolore:
La mia anima è uguale a un uccello, pigro, triste, che, chiuse le ali, si abbandona,
senza speranza di sollievo, indolentemente, a la monotonia lenta e tormentosa del
Tempo, appollajato in alto de l’albero maestro di una nave138.
A gli animali fortunati, la Natura, nel donare ciò che v’ha di più bello donando le
ali per sollevarsi, non ha dato anche, come prima cagione di ogni dolore, la Vita? […]
Di nuovo pensai allora: la Morte è la Liberazione da la miseria umana!139
Leopardianamente, l’alba è foriera del triste inizio di un nuovo giorno:
Era l’alba. Un’alba troppo calma per la mia anima martirizzata da la insonnia.
Un’alba che strappò da le mie labbra l’anatema al Giorno, che fugava le care imagini
intravedete ne le tenebre140.
Alcune prose sono impregnate, come si è già rilevato, da una sensazione di profondo
tedio, di cui si può dare un altro esempio:
Né saprei dire se sia il giorno o la notte eterna che qui regni. Però che la luce palli-
da, opaca, monotona, diffusa, non cangia mai. Né so se questa piova da l’alto o salga
da l’orizzonte, poiché essa è uniforme dovunque141.
136 Ivi, VII, p. 6.
137 Ibid.
138 Ivi, XII, p. 10.
139 Ivi, XXXIII, p. 35. Si noti il cambiamento rispetto alla poesia del 1895, Mattinata, in cui si parlava di
«passeri giulivi».
140 Ivi, XLVII, p. 48.
300 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Come si è accennato, Canudo prende le distanze, sulla scia di Jolanda, da atteg-
giamenti “decadenti” o “degenerati”; si dovranno però rilevare alcune piccole falle
nell’impianto di “sanità” delle Piccole anime. Capita infatti di intravedere un fascino
per la violenza intesa come purificazione e di imbattersi in un episodio di “necrofili-
a”. Si tratta, in un caso, della forza devastatrice di una valanga che sradica «gli alberi
vetusti» (in una sorta di preludio all’anatema contro il «passatismo»), ed è salutata
con esaltazione dall’io poetico:
La valanga precipita, e squassa gli alberi vetusti e divelle le piante, come un mostro
bianco e invincibile. […]
Io grido esaltata: O valanga! o Simbolo de la Forza veemente e invincibile, vorrei
venirmene a perdermi con te! provare con te l’acre e sublime voluttà del Distruggere,
l’acre e sublime voluttà del sentire tutto piegarsi sotto di me, e gli umani implorare
pietà de la loro miseria, e gli Elementi incitarci, cantando l’inno de la nostra corsa tri-
onfante! Vorrei, o sublime valanga!142.
La stessa «acre e sublime voluttà del Distruggere» anima il protagonista della pro-
sa LIV, che si presenta sotto la forma di un dialogo tra l’autrice e un uomo condanna-
to a morte per «l’incendio de l’opificio meccanico Plink», che si dice aver provocato
più di cinquanta vittime. L’«incendiario» racconta «l’orgia di fuoco» con «voluttà»,
dichiarandosi sostenitore di una teoria della Purificazione:
«Oh quella notte, io non potrò più mai scordarla. È stata la notte più bella de la mia
vita. E tutta la voluttà pensata io volli assaporarla, gustarla lentamente, sino a la spos-
satezza, sino al languore. L’orgia si svolse con tutti i dettagli da me preveduti, e non
poteva essere più bella. Le lingue di fiamma gigantesche, indomabili, il torrente caldo
e luminosissimo che calava incessante da la cereria, le grida, gli urli, gli strilli acutis-
simi, musicali, come suono di una fanfare oltreumana, il fragore sordo, a tratti, di
qualche pezzo de l’edificio che diroccava, l’odore acre e’l fumo delle cose brucianti,
che inebriavano come l’onda di certi vini dall’odore troppo acuto; e poi il rombo so-
lenne, inarrivabilmente magnifico, sublime, de le caldaje, ne lo scoppio; […].
Io avevo ben serrato tutte le uscite, però che ben sapevo come questi miserabili si
ostinano a bera a la fonte unica di ambascie, a la Vita, ed io volevo offrirli tutti a la
Purificazione. […]
Ed ora, quando io me ne sarò andato, vi prego, cancellate voi il puerile punto
d’interrogazione che è nel cervello di chi si è occupato di me. Potete dire così: che se
141 Ivi, XII, p. 11.
142 Ivi, XLIII, pp. 44-45.
Canudo: Piccole anime senza corpo 301
essi non riescono a godere del godimento ideato e procurato da me, essi sono da me
indietro ancora di parecchi Secoli»143.
Insieme al «palo del telegrafo», l’opificio rappresenta un’apertura sulla modernità
dai toni futuristi ante litteram; a livello contenutistico, ci sono corrispondenze con
alcune voci di quell’eterogeneo futurismo che fu presentato da Marinetti
nell’Antologia del 1912, in parte legato a un’adesione esteriore a tematiche “antipassa-
tiste”; si pensi ai titoli delle liriche dello stesso Luciano Folgore, come Incendio
all’opificio o Elettricità (tra l’altro, in quest’ultima ricorre, come per il telegrafo di Ca-
nudo, l’immagine dei «tentacoli»144). Con ciò, non si vuole certo affermare che Canu-
do presentisse, all’altezza delle Piccole anime, la contestazione tematica di un certo
futurismo, ma rilevare come il giovane autore fosse in grado di raccogliere influenze
svariate in direzione di una letteratura «originale» e «aristocratica».
Infine, si ricorderà un episodio di amore e morte di cui l’io poetico si rende pro-
tagonista:
E ancora: adorarlo morto, intero, intero, come non posso adorarlo in Vita! –
Io ti comporrei sul mio letto. E tutte le sere e tutte le mattine coprirei di baci e di
lacrime le tue mani, né tu potresti un solo istante ribellarti a le mie carezze; né una so-
la idea potrebbe nascondersi nel tuo cervello. Io ti saprei mio, mio, mio, in ogni più
recondita cellula, e ti adorerei sempre, con una voluttà di trionfo e di conquista145.
Si tratta di avvisaglie di una modalità che Canudo svolgerà, qualche anno dopo,
nell’ambito della poesia, dove darà sfogo, secondo Viazzi, ad un «erotico non più ri-
mosso»146. Si veda, ad esempio, come cambia la figura della nave nel passaggio dalle
Piccole anime alle poesie. La barca, immagine del viaggio e dunque della vita, compa-
re più volte nei poemetti in prosa; nella prosa XV, ad esempio, la nave-anima viaggia
in una «notte illune», su un mare «infestato di Najadi e di Mostri atroci»147. Nella
prosa XXI, a metafora identica corrisponde alla possibilità di porsi nel punto «limite»
in cui l’incontro, all’orizzonte, tra cielo e mare, trasporta la barca nel dominio
143 Ivi, LIV, pp. 60-61.
144 «Festoni di sole polverizzanti le ombre. / Tentacoli violetti / solcanti il catrame dei cieli» (L. Folgore,
L’Elettricità, in I poeti futuristi, con un proclama di F. T. Marinetti e uno studio sul verso libero di P. Buz-
zi, Edizioni Futuriste di «Poesia», Milano 1912). Si ricordi che, più avanti, Canudo seguì con attenzione la
poesia futurista e dedicò l’intera cronaca Lettres italiennes all’antologia dei poeti futuristi curata da Mari-
netti (in «Mercure de France», 16 dicembre 1912, pp. 857-863); si veda F. Livi, Canudo e i poeti futuristi,
in Ricciotto Canudo 1877-1977, cit., pp. 424-38.
145 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XXXII, pp. 33-34.
146 Viazzi, Dal simbolismo al Déco, I, cit., p. 115.
147 Ivi, XV, pp. 16-17.
302 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
dell’infinito, con qualche richiamo alla «petite voile frissonnante» del baudelairiano
Confiteor de l’artiste:
Il mare, a l’estremo limite, sembra fondersi nel cielo, e ’l cielo nel mare. Un gran ve-
lo cilestre e tenerissimo è disteso su essi. E quella nave, il solo punto vivente de
l’infinito, mi sembrava sospesa in mezzo a quel velo, come uno strano fermaglio o un
arabesco bizzarro. E per un attimo, io ho trasportato l’anima mia in quel punto nero,
obliando, sognando, inebriata da l’etere celeste148.
Nella XIIa pièce, si tratta della navigazione lungo un percorso sconosciuto, che il
poeta osserva come «uccello» dall’«albero maestro», sospeso in un tempo e in uno
spazio che sembrano bloccati, «uniformi», ma sono «ritmicamente» scanditi dalle a-
zioni che si ripetono («le catene che si svolgono e si avvolgono»):
La nave è tutta nera, ed ha nere anche le vele. E le vele sono spiegate e gonfie, ma io
non so da qual vento, perché la mia anima non percepisce spiro di vento, su la glauca
intensità che l’attornia. Ed io non so nemmeno se sia di acqua o di etere, questa im-
mensità che la nave che io chiamerò la mia nave, attraversa da anni (o da secoli?).
[…]
Tutto è ignoto. Anche gli abitatori de la mia nave sono ignoti a la mia anima. Però
che il Silenzio impera su la tolda, ne le vele, ne’ cordami, ne le catene che si svolgono
e si avvolgono, ritmicamente nel tempo; e si estende su tutto lo spazio, perennemente
uniforme, di cui la mia nave e la mia anima sono perennemente il centro.
Il primo dei Sonetti dell’Androgine, intitolato Fallico («ma che non ha proprio
nessun rapporto se non nel titolo con il secondo gruppo»)149, riprende la figura della
nave, con un’aumentata carica simbolista e sadica, che si accompagna ad
un’«esasperazione della spettacolarità»150: la «nave nera» diventa «nave fiorita picciola
e lucente»; le tonalità scure del poemetto in prosa si colorano di riflessi dorati («La
sabbia molle è tutta d’oro e ardente»); «la luce pallida e opaca, monotona, diffusa»,
che «non cangia mai» («Né saprei dire se sia il giorno o la notte eterna»), si muta in
148 Ivi, XXI, p. 20. Cfr. Le Confiteor de l’artiste, in Baudelaire, Tutte le poesie e i capolavori i prosa, cit., p.
466: «Grand délice que celui de noyer son regard dans l'immensité du ciel et de la mer! Solitude, silence,
incomparable chasteté de l'azur! une petite voile frissonnante à l'horizon, et qui par sa petitesse et son iso-
lement imite mon irrémédiable existence, mélodie monotone de la houle, toutes ces choses pensent par
moi, ou je pense par elles (car dans la grandeur de la rêverie, le moi se perd vite!); elles pensent, dis-je,
mais musicalement et pittoresquement, sans arguties, sans syllogismes, sans déductions».
149 Bàrberi Squarotti, La poesia di Canudo, cit., p. 292.
150 Ivi, p. 294.
Canudo: Piccole anime senza corpo 303
«ansietà vespertina», che «vibra ed è silente»151. Nella prosa si trattava di oggettivare
lo stato di permanente immobilità di cui è prigioniera l’anima del poeta («come un
uccello pigro e triste che ha chiuse, nella stanchezza, le ali»), solo a momenti interrot-
to dalla «musica magnifica e solenne» di una processione di «figure incorporee». Nel-
la poesia, invece, l’immagine della nave, che si accompagna a quella della sabbia e
dell’acqua, si presenta come «scenario di un’apparizione»152, che consisterà in «un
nodo umano» che «torce sulla sabbia la sua duplice carne», «le carni accende alla luce
che fugge / e lancia un alto grido al Sol che muore»: come chiosa giustamente Bàrberi
Squarotti, si tratta di «amore e morte, cioè l’archetipo romantico risolto in spettaco-
lo»153.
4.4 Visioni, oggetti-simbolo e paesaggi trasfigurati
La varietas che presiede ai Petits poèmes en prose è richiamata quasi sempre dalla cri-
tica e tende a porre non poche difficoltà a chi si propone una definizione del genere
“inaugurato” da Baudelaire cercandone le costanti, come sottolinea Steinmets
nell’introduzione allo Spleen de Paris154. La Perrone si richiama a quest’impianto mu-
tevole per sottolineare la «fisionomia complessa delle Piccole anime»155; in effetti si
può notare come la forma del poemetto in prosa venga svolta in maniere differenti,
benché una più limitata consapevolezza stilistica e una minore profondità di pensiero
non permettano a Canudo di esplorare le molteplici direzioni baudelairiane.
151 «Nave fiorita picciola e lucente / su le acque tramanti il Sol trascina. / Non è il vespero, eppure è ve-
spertina / quell’ansietà che vibra ed è silente. / La sabbia molle è tutta d’oro e ardente / qual di un tempio
di luce ampia rovina, / l’acqua ora lontana ora vicina / tocca la terra col suo molle dente». Cfr. ivi, p. 292.
152 Ibid.
153 «Un nodo umano torce sulla sabbia / la sua duplice carne, e colla rabbia / della sua fiera voluttà che
rugge / stringe tutta la vita, e in grande ardore / le carni accende alla luce che fugge / e lancia un alto grido
al Sol che muore». Cfr. ivi, p. 293.
154 «Nombreux sont les critiques qui se sont empressés d’anatomiser le poème en prose (unité, densité,
gratuité), avec l’illusion de pouvoir en déduire des règles et des invariants, alors que s’impose en pareil
case (je veux dire, pour ce qui regarde Baudelaire) une variabilité remarquable contredisant toute visée
unitaire (quelle que soit l’unité finale obtenue sous le titre de Spleen de Paris)» (J.-L. Steinmets, Préface, in
Ch. Baudelaire, Le Spleen de Paris, Librairie Générale Française, Paris 2003, p. 23).
155 Scrive la Perrone: «accanto a componimenti brevissimi, che sembrano illuminazioni istantanee, schizzi
rapidissimi (ad es. le prose IX, XVI, XVIII, dove le frasi, ridotte all’essenziale, raggruppate in due blocchi
simili a strofe, sono coestensive alla momentaneità dell’impressione, della sensazione, della visione, o fis-
sano un attimo di vita spirituale), ve ne sono di più estesi, in cui il discorso si fa più meditativo, accompa-
gna le divagazioni della mente, segue le costruzioni della fantasia, indugia nelle pieghe più nascoste di
quelle piccole anime» (Perrone, Ricciotto Canudo e il “poème en prose”: «Piccole anime senza corpo», cit.,
p. 280).
304 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Le modalità praticate nelle Piccole anime possono essere ricondotte ad alcune ca-
tegorie. La prima di esse, presentata nel componimento d’esordio, può essere indicata
con il termine di «visione», utilizzato talvolta dallo stesso Canudo156, e potrebbe avere
qualche corrispondenza con la rêverie di ambito francese. Lo scrittore fornisce ridotte
coordinate spazio-temporali, indicando, solitamente, il momento del giorno (alba,
meriggio, vespero, notte) e una vaga ambientazione (città, campagna, mare, monta-
gna), per poi raccontare ciò che, con gli occhi della «vista interiore», gli è capitato di
percepire: si tratta solitamente di figure simboliche, o, per usare un termine caro a
Lucini e utilizzato anche nelle Piccole anime, di «figurazioni»157 dal significato a volte
ignoto o molteplice (I: «la figura di donna, alta, bellissima, tutta bianca, che io avevo
sognato tante notti»; IV: «infinite Erinnidi»; V: «pellegrini»; VI: «una bianca e atletica
figura»; X: «la imagine pallida e sovrana di Ugo Foscolo»; XII: «una schiera lunghis-
sima di figure incorporee»; XIV: «giganti», «scheletri»; XXXIV: «l’imagine di Ofelia»;
XLI: «miriadi di esseri agitantisi»). La visione è introdotta dai verbi «vedere» (I, XIV,
XXXI, XLI: «vidi»; V, XXXIV, «vedevo»), «sembrare» o «parere» (IV: «pareva»,
«sembrava»; VII: «parevano»; XIV, «pareva») e, a volte, «pensare», usato però come
verbo di percezione (VI, «pensai una bianca figura»; XLI: «pensai gli Spiriti solinghi e
grandi»; anche XXXIV: «sorse nel mio cervello l’imagine di Ofelia»).
Come sottocategoria della «visione», più che come gruppo autonomo di prose,
andranno segnalate quelle pièces in cui l’io, piuttosto che guardare ed essere testimo-
ne di un’apparizione simbolica, è protagonista di un fatto irreale e insolito, come ac-
cade nei sogni: si potrebbe parlare di «fantasticherie». In X, ad esempio, l’io è vittima
di un’allucinazione uditiva; in XXXII, si tratta di una fantasticheria macabra, ricono-
scibile anche dall’uso del condizionale («ti comporrei […] coprirei di baci […] né tu
potresti», e così via); in XLII, l’io poetico è attore di un’ascesa fantasiosa («mi accinsi
a salire quelle rampe enormi e fantastiche, di una enorme, fantastica scala»); in
XLVIII, si presta ascolto al racconto di un’amica, pazza.
La seconda tipologia di poemetto in prosa è invece legata al comparire di un «og-
getto-simbolo», che è latore di una qualche riflessione dell’autore, istituendo parago-
ni più o meno usuali, scontati o bizzarri: il «ninnolo di cristallo», «così fragile e pur
perenne» (II); il focolare in «corsa vertiginosa a l’alto» (III); la «sola pianta con un sol
fiore», «poesia magnifica de la solitudine» (VII); il «palo telegrafico» (XI); «la vela de
la piccola paranza», come «il Sogno eretto su la mia Anima» (XV); «la candela»
156 Cfr. ad es. VIII e XIV. «E alla pianura co’ li alberi dritti e allineati, stranamente viventi, come certe fi-
gure di Dante Gabriele Rossetti, oscillanti tra la visione e la realtà […]»; «quelle voci fragorose […] conti-
nuarono la mia visione tormentata e funesta» ([Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., XIV, pp. 14-16;
corsivi nostri).
157 «Quall’era il significato velato di questa figurazione?» (ivi, XIV, p. 15).
Canudo: Piccole anime senza corpo 305
(XIX); l’«edera», «significazione profonda del perenne» (XX); la «nave», «solo punto
vivente de l’infinito» (XXI); il caffè (XXV); la «stanza», figura della «mia anima»
(XXVIII); «la vaporiera» (XXXVIII); «la valanga» (XLIII); il suono della fanfara, «mi-
sterioso» (XLIV); le campane, «armonia» (L).
Una terza categoria di componimenti può essere compresa sotto l’etichetta di
«paesaggi trasfigurati»: in essi la componente del paesaggio, presente in parte, ovvia-
mente, anche nelle prime due, diventa preponderante e suggerisce direttamente, sen-
za l’intermediazione di una visione o di un oggetto-simbolo, ma piuttosto attraverso
variazioni di luce e di colore, un significato simbolico. Il paesaggio atto a comunicare
segrete corrispondenze è solitamente naturale, raramente cittadino, ed è legato ad al-
cune immagini ricorrenti: la montagna, spesso innevata (XXXV, XXXIX), la campa-
gna (XXXIII; in XXIII compaiono anche l’immagine domestica di una gallina con i
pulcini e il campo arato), il mare (XXVI; XLVI; XLVII; XLIX), la pianura (XVII), lo
stagno (XVI), la città (in particolare, Padova in LI e in LIII). Spesso sono gli elementi
presenti nel paesaggio, visti in un momento particolare o sotto una luce singolare, a
perdere la loro materialità (anch’esse anime, appunto, «senza corpo») e ad assumere
la natura di «visione»: «In fondo, le bellissime cupole di S. Giustina e del Santo, com-
pletamente avvolte ne la nebbia azzurrognola, quasi bianca, sembrano visioni sorte ad
un tratto, che ad un tratto dovranno scomparire»158. In generale, il paesaggio è stiliz-
zato in una o più figure, che spesso si mescolano o funzionano come coppie oppositi-
ve (il monte e la città, la città e la campagna, e così via), tanto da rendere impensabile
una collocazione spaziale precisa (ad esclusione di Padova o delle coste dell’Adriatico
che si affacciano sulla Dalmazia); all’autore interessa cogliere, soprattutto, le varia-
zioni di luce e di colore (legate al calare o al sorgere del sole, alla presenza della neve o
della nebbia), che suscitano sensazioni e pensieri. A rendere l’idea, basterà qualche
esempio:
I grandi pini che si ergevano in lunga fila, congiungendo in alto le chiome sempre
verdi, davano l’immagine di una galleria interminata e strana, sorretta da pilastri di
un marmo rarissimo.
Ne l’enorme silenzio de la campagna in cui io m’indugiai, assalita dal languore che
mi uccide, io non volevo vedere altro che quella verde galleria che sembrava attirarmi
[…]159.
Nel mattino, anche il fumo azzurrognolo de’ comignoli si fondeva, ed io vedevo
un’immensa bragiera di olibano ardente, come in una adorazione.
E divenni triste160.
158 Ivi, LI, p. 54.
159 Ivi, XXXIII, p. 34.
306 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Il mare non aveva in tutta la sua estensione che una chiazza lucida e scintillante, in
cui le paranze passavano bianchissime, come trasfigurate. Pareva fossero concentrate
in quella chiazza tutte le vite invisibili de l’Oceano dormiente161.
Infine, vanno citate a parte, come propone anche la Perrone162, le prose che si
presentano sotto forma di breve narrazione, che portano solitamente un titolo e sono
dedicate a personaggi della storia o del mito: La morte di re Thor (XIII), racconto di
una tremenda agonia da romanticismo nero; La lotta de’ Nani co’ gli Dei (XXIV), fa-
vola moralistica con ovvio apologo (secondo una sfiducia nelle «magnifiche sorti e
progressive» già presentita nell’ambito della Scapigliatura: «lunge, lunge dai ruderi
romani, / o progenie di nani»163); Matelda (XL), canto fortemente ritmato; in LIV,
l’incontro con un condannato a morte (quest’ultima prosa, infatti, fu pubblicata
sull’«Uovo di Colombo» nel 1899 con il titolo significativo di La Novella
dell’incendiario164, riconoscendo la predominante natura narrativa della pièce).
Per quanto riguarda un’analisi delle Piccole anime dal punto di vista tecnico-
stilistico, le prime ricognizioni si trovano nella Perrone, che rileva un impianto com-
positivo simile a quello dei Petits poèmes en prose nell’assenza di «successione spaziale
o logica» e nella varietas che ne deriva165. La studiosa ha rilevato giustamente
«l’organizzazione delle frasi, per lo più brevi, in strutture ellittiche, in periodi somi-
glianti a strofe o versetti», la frequenza di interrogazioni ed esclamazioni, «l’uso fre-
160 Ivi, XXXV, p. 36.
161 Ivi, XLVII, p. 48.
162 Nota giustamente la Perrone: «altri ancora, i più estesi, sono dei veri e propri racconti e hanno un tito-
lo […]. Mai però la descrizione, l’aneddoto o la narrazione sono fini a se stessi, ma sono incorporati
nell’universo del poema, hanno anch’essi una funzione simbolica» (Perrone, Ricciotto Canudo e il “poème
en prose”: «Piccole anime senza corpo», cit., p. 281).
163 E. Praga, Il tempio romano (XI, Tavolozza), in Id., Poesie, cit., pp. 28-30; si veda anche Spes unica di
Penombre: «E a noi mutar coi secoli / è legge e forma e ingegno; / or giganti magnanimi, / or fantocci di
legno; / poch’anzi io stesso un angelo, / presto un verme dormente / una preda del niente / un uom che
vaneggiò!» (ivi, pp. 180-84).
164 K. O. Edina, La Novella dell’incendiario, «L’Uovo di Colombo», II, 36, 3 settembre 1899.
165 «Già l’impianto architettonico sembra rispondere al criterio compositivo che Baudelaire indica nella
«lettre-préface» attraverso la nota immagine delle vertebre del serpente […] La numerazione, anche qui
in cifre romane, ha solo una funzione di praticità, non risponde a un criterio di successine spaziale o logi-
ca. Ogni brano può essere avulso dal tutto […] Da qui anche la fisionomia complessa delle Piccole anime:
accanto a componimenti brevissimi, che sembrano illuminazioni istantanee, schizzi rapidissimi (ad es. le
prose IX, XVI, XVIII, dove le frasi, ridotte all’essenziale, raggruppate in due blocchi simili a strofe, sono
coestensive alla momentaneità dell’impressione, della sensazione, della visione, o fissano un attimo di vita
spirituale), ve ne sono di più estesi, in cui il discorso si fa più meditativo, Accompagna le divagazioni della
mente, segue le costruzioni della fantasia, indugia nelle pieghe più nascoste di quelle piccole anime» (Per-
rone, Ricciotto Canudo e il “poème en prose”: «Piccole anime senza corpo», cit., p. 280).
Canudo: Piccole anime senza corpo 307
quentissimo di ripetizioni, nella forma di refrains ripresi, identici o appena variati,
[…] oppure nella forma di simmetrie tematiche, sintattiche, lessicali, di simmetrie
logiche o ritmiche, oppure ancora nella forma di semplice ritorno di immagini, e-
spressioni, parole, nella ripresa di assonanze, di allitterazioni che accentuano
l’andamento ritmico del linguaggio»166.
La struttura del singolo testo in paragrafi che sembrano strofe, quale procedi-
mento cardine, e tutto sommato facilmente attuabile nella sua forma più semplice,
caratterizza in effetti, fin da una prima occhiata, le Piccole anime. Al tessuto ritmico-
tematico della raccolta contribuiscono a volte anche la ripetizione di refrains, identici
o lievemente variati. La più evidente realizzazione di una tale modalità andrà notata
nella ripetizione di una formula che, dalla prosa Ia, giunge alla XXVa, ossia alla metà
quasi esatta del libro, per approdare infine all’ultimo componimento (LVI), quasi a
proporsi ad epigrafe del libro:
Oh la mia melanconia potrà ben rassegnarsi, ma non mai consolarsi!167
[…] la mia melanconia opprimente, accasciante, nonché consolarsi, non può più
rassegnarsi168.
In alcuni casi, l’uso della ripetizione corrisponde ad un tentativo di sovrapporre
proficuamente il tessuto stilistico alla trama simbolica della prosa; ciò avviene, ad e-
sempio, nella prosa V169: ci troviamo immersi in una giornata invernale, dominata
dalla «penombra» e dal senso di annientamento veicolato dalla luce «cupa»; unico
punto di luce è la vetta innevata del monte, simbolo di un’altezza a cui perfino le
strade sembrano tendere, «perennemente» e «in vano». La ripetizione
dell’ambientazione («ne la penombra de la cupa giornata jemale»), due volte opposta
alla vetta («concentramento di bianchissima luce») sembrano suggerire il perpetuarsi
di questa condizione di ascesa impossibile, poi esplicitata dall’avverbio «perennemen-
te»; la presenza ripetuta del termine «in vano» suggerisce ancora l’invarianza di que-
sta immagine simbolica, che assedia l’io poetico nel presente come lo tormentava nel
passato («E ripensai a certi sogni de l’adolescenza»).
In generale, si noterà poi che la ripetizione di uno o più termini all’interno di una
prosa (o anche, per dilatazione, ad altre) è legata alla sua estensione semantica in sen-
so simbolico: ad esempio, nella prosa VII170, il termine «sola» viene reiterato in modo
166 Ivi, p. 282.
167 [Canudo], Piccole anime senza corpo, cit., I, p. 1; XXV, p. 24.
168 Ivi, LVI, p. 63.
169 Ivi, V, pp. 4-5.
170 Ivi, VII, p. 6.
308 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
da contagiare il fiore, il suo riflesso e infine la condizione del poeta: «Su la roccia […]
sorgeva una sola pianta con un sol fiore»; «il riflesso di quel fiore» era «la sola nota
vivente di quell’acqua solitaria e cinerea»; «Verso quel fiore protesa l’anima mia, mi
assalse la poesia magnifica de la solitudine»; «Su la Forza, al cospetto de la Forza! e
sola, sola, sola!».
L’uso frequente dell’interrogazione introduce una sospensione, senza rendere pe-
rò il dettato particolarmente franto; la prosa di Canudo rimane infatti, tendenzial-
mente, musicale, fluida e lenta, più che nervosa e scattosa; la brevità folgorante non le
appartiene, anche per una deficienza nella teoria dei simboli che vi è contenuta, ben
lontana da certe elaborazioni d’oltralpe. L’uso delle interrogative è piuttosto legata
all’intuizione che il «mistero», ovvero la valenza profonda dei simboli, non si può at-
tingere: dunque, la questione incalzante permette di “nominare” il mistero senza tra-
dirlo, prospettando una molteplicità di risposte che è impossibile, spesso, risolvere in
maniera univoca. Si veda, ad esempio, la prosa X: «Ho ne gli orecchi un interminato e
vasto gorgheggio di uccelli. […] Oh cosa è mai? Di dove mi vengono queste voci? So-
no, forse, nel mio cervello? dentro al mio cervello? È forse l’eco di un’armonia lonta-
nissima che io non posso comprendere?». Infatti un altro stilema delle Piccole anime,
corrispondente, nella funzione, all’interrogazione, è il «non so», che ricorre
all’interno di numerose prose, come emblema di una posizione gnoseologica fondata
sull’incertezza.
Altrove l’iterazione contribuisce a comunicare un senso di oppressione, come av-
viene per quest’immagine del telegrafo, che, “tentacolare”, avvolge «la notte silente e
profonda»: «Tutto dorme. Veglio io solo. E veglio su l’anima palpitante de l’uomo,
tendendo, da un capo a l’altro del mondo, i miei tentacoli che stringono, che avvin-
cono, […]. Passa nei miei tentacoli tutta la loro vita, […] ed io in quei tentacoli li al-
laccio»171. La ripetizione può avvolgere una singola prosa, creando una struttura ad
anello che contribuisce a mimare l’incedere, o meglio l’immobilità, del tempo e dello
spazio del poeta; è il caso, ad esempio, della prosa XII172, che si apre e si chiude in un
senso di tremenda noia e fissità, con lievi variazioni, o della prosa XXV173, che è inca-
stonata nell’immagine della melanconia sconsolata.
171 Ivi, XI, p. 9.
172 Ivi, XII, pp. 10-11.
173 Cfr. ivi, XXV, pp. 24-25:
«La mia anima è uguale a un uccello, pigro, triste, che, chiuse le ali, si abbandona, senza speranza di sol-
lievo, indolentemente, a la monotonia lenta e tormentosa del Tempo, appollajato in alto de l’albero mae-
stro di una nave. […]
E la mia anima, come un uccello pigro e triste che ha chiuse, ne la stanchezza, le ali, si posa da un tempo
incalcolabile, per un tempo incalcolabile, in alto de l’albero maestro di una nave, ricca soltanto di miste-
ro.
Canudo: Piccole anime senza corpo 309
Un altro stilema che si ripresenta più volte nel corso della raccolta è «a poco a po-
co»: spesso in apertura di paragrafo (XIV), se non proprio all’esordio della pièce
(XVI), l’espressione diventa un modo per caratterizzare la vista d’eccezione propria
dell’io poetico, che è in grado di cogliere minime variazioni nei suoni e nei colori e la
graduale trasfigurazione simbolica degli oggetti: «A poco a poco, poi, verso
l’orizzonte, ai lati, gli alberi si agitavano, diventavano giganti»174; «A poco a poco, le
tinte diventarono sempre più lievi, sempre più tenere»175; «Poi, popolare a poco a po-
co, di fantasime candidissime e silenti il cammino»176. Al fil rouge della vista
d’eccezione, si contrappone una percezione della vanità di ogni azione umana, veico-
lata attraverso la reiterazione di «in vano», che segna molte prose (dalla già citata V
fino alle XXXV, XL, XLV).
La ripetizione assume poi spesso il ruolo di introdurre un ritmo cadenzato di
continuità: «Camminavamo sempre, senza soffermarci un istante […] Camminava-
mo sempre, senza soffermarci un istante»177; «Cade la neve […] Cade la neve […]
questa neve che cade»178. Il verbo pensare è oggetto di particolare reiterazione, indi-
cando l’angoscioso e martellante lavoro della mente, che non implica un ragionamen-
to di tipo logico-razionale, ma piuttosto immaginativo («Pensai intere istorie di amo-
re tessute tra quelle ramaglie; pensai che là dentro si era agitata, o forse si agitava, tut-
ta una vita […]»)179.
Una scrittura particolarmente cadenzata viene adottata quando si immagina il
canto di Matelda, che, alla stregua di una canzone popolare, è ricca di riprese e di re-
frains:
Canta: «Astretta a vagare, da tempo antico, perduto nel mare de’ Secoli, smarrito da
la memoria de li uomini! astretta a vagare in eterno, in eterno, senza posa, senza tre-
gua, senza un attimo di tregua, in vano esprimendo il mio lamento che nessuno ode,
nemmeno lo scarafaggio nero e ributtante, nemmeno la fronda, nemmeno la roccia
che il mare bacia! nulla che sia della terra ode: però che su la terra tutto è amore, ed io
sono la pallida Matelda, vissuta senza amore. […]».
Oh, la mia melanconia potrà ben rassegnarsi, ma non mai consolarsi!
[…] inviti alla rassegnazione la mia anima, che non potrà mai consolarsi».
174 Ivi, XIV, p. 15.
175 Ivi, XVI, p. 17.
176 Ivi, XXII, p. 21.
177 Ivi, XXVIII, p. 31.
178 Ivi, XXIX, p. 28.
179 Ivi, XXXIII, p. 34.
310 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Il tono di leggenda sembra autorizzare, in questo caso, un ricorso ai modelli della tra-
smissione orale. In generale, si potrà notare come Canudo non ricerchi lo stridore dei
toni, ma piuttosto un’armonica fluidità, e dunque, ad esempio, preferisca il paralleli-
smo alla variatio; si troveranno allora serie consecutive come questa: «La vena, sgor-
gando, aveva voci cupe, e disperate come un pianto di bimbo, e sommesse come un
tacito pianto di vergine, e strazianti come un pianto di vecchio»180. Il linguaggio è
dominato, nonostante gli intenti simbolico-allegorici, da una tendenza alla specifica-
zione piuttosto che all’allusività; infatti ricorre spesso la similitudine, piuttosto che la
metafora. Non mancano certo le frasi frantumate e i costrutti sintattici ellittici, che
intendono avvicinare la prosa ai modi della poesia; fin dalle prime pagine del libro,
infatti, ci si imbatte in frasi nominali dove, con il verbo, sono eliminati azioni e mo-
vimenti, instaurando un clima che favorisce l’apparizione («Una notte assi mite: una
tenera luce di luna, ed un odore di ginestra nell’aria. Uno schianto di vinto morituro
ne l’anima»)181. Se sono i verbi, invece, a prevalere, si tratta di azioni metaforiche, di
ascese o fusioni di sapore panico: «Fondermi anch’io […], fondermi un quella magni-
fica essenza luminosa e salire, salire, salire»182.
In conclusione, l’impressione generale che si ricava dalla lettura delle Piccole a-
nime può essere in parte comparata alla reazione che i lettori di poèmes en prose più o
meno recenti (Bernard e Roumette concordano) hanno avuto di fronte all’evoluzione
del genere in ambito simbolista, ovvero nelle mani di autori che, nell’ultimo quindi-
cennio dell’Ottocento, hanno ripreso i caratteri più esteriori di una forma innovativa
non riempiendola, in effetti, di una ricerca formale e contenutistica di valore compiu-
to: «le poème en prose littéraire est prêt à se figer, à se dessécher, coupé de ses racines
vivantes qui étaient la révolte, la recherche, l’esprit d’aventure»183.
180 Ivi, XXXIV, p. 35.
181 Ivi, I, p. 1.
182 Ivi, III, p. 4.
183 Bernard, Le Poème en prose de Baudelaire jusqu'à nos jours, cit., p. 482.
Parte terza
Per un’indagine sullo «scritto vociano»: «La Voce» 1908-1913
1. Primi passi verso il “frammento vociano” (1908-1911)
1.1 Una rivista non letteraria, con collaboratori «sciaguratamente artisti»
Il petit poème en prose è frutto di forti esigenze di rinnovamento di temi e forme della
letteratura; Susanne Bernard non manca di notare come esso rimanga, in ambito
francese, sostanzialmente legato ad esperienze d’avanguardia, fino a René Char e
Saint-John Perse. In Italia, seguendo le tracce dello sperimentalismo che caratterizza
gli ultimi decenni dell’Ottocento, si è visto lo sviluppo del gusto della poesia in prosa:
più o meno timide aperture verso Baudelaire, alcuni tentativi autonomi di rottura
delle consuetudini poetiche, la ricezione di un “simbolismo debole” attraverso il Mal-
larmé dei petits poèmes en prose e l’introduzione di temi e modi “simbolisti” proprio
per mezzo di una prosa breve tendente alla poesia. Agli albori del primo Novecento,
nell’ambito della «Voce» di Prezzolini, tali tensioni di rinnovamento tematico e for-
male esplodono in maniera forte e multiforme, contribuendo a modificare, stavolta
radicalmente e senza mezze misure, la concezione della prosa, della poesia e della loro
frontiera.
La prima risultante della pressione innovatrice esercitata dalla «Voce» prezzoli-
niana è proprio la «Voce» di De Robertis, nell’ambito della quale il “frammento” vie-
ne definendosi per caratteri intrinseci. De Michelis, nel 1938 (in occasione dei Capi-
toli di Falqui), leggeva in questi termini l’evoluzione dalla «Voce» alla «Ronda»: i
«nuovi frammentisti» avevano svolto quell’«abbozzo, o appunto, o parte incompiuta
[…] con finitezza e preziosità, non più come frammento di un’altra forma spezzata,
ma come nuova forma compiuta e perfetta in sé»; avevano preso «coscienza di
quell’attimo di sensazione o di brivido che i vociani avevano salvato, sotto forma e-
splicita di frammento, dal rovinío di un’architettura diventata macchinosa ed ester-
na»1. Ferrata individua un analogo passaggio tra la «Voce» prezzoliniana e quella de-
robertisiana: «il frammento in prosa lirica maturava ormai come genere letterario ri-
producendosi per energia - anche - di elementi formali»2. Lo stesso Donato Valli, che
1 E. De Michelis, Falqui e il frammentismo (1938), in Id., Narratori al quadrato, Nistri-Lischi, Pisa 1962,
pp. 44-45.
2 G. Ferrata, Prefazione, in La Voce 1908-1916, Landi, Roma 1961, pp. 52-53.
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
314 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
ad un tentativo di definizione del “frammento” ha dedicato uno studio, riprende tale
distinzione e sceglie di delimitare l’ambito di ricerca alla seconda «Voce», madrina di
scritture più pacate e preziose.
Si ricordi però che la «Voce» bianca, se rappresenta un atto di fede nella letteratu-
ra in tempi di guerra e confusione, forse non corrisponde pienamente al progetto di
riforma morale e culturale del vocianesimo, ma è il risultato dell’orientamento in una
diversa direzione3. Per questo percorso abbiamo prediletto un’indagine sulla prima
«Voce», ricercando la gestazione di un frammentismo disomogeneo, praticato rara-
mente ed episodicamente nell’ambito della rivista, eppure in un certo senso radicato
nelle discussioni che, su quella testata, si andavano facendo. Analizzando qualche te-
sto, con l’esigenza di una scelta, di alcuni tra gli autori “vociani”, è possibile vedere se
l’opzione di una scrittura frammentaria abbia radice in riflessioni comuni o compa-
rabili e come ognuno abbia indirizzato i propri tentativi in direzione di una “poesia
in prosa”. Un’ampia «libertà di movimenti e di indirizzi» caratterizzò, secondo Anna
Nozzoli, almeno gli anni 1908-1911, per i quali si rilevano forti differenze rispetto a
esperienze contigue o simili, nonché l’insufficienza della formula continiana di “e-
spressionismo vociano”4.
Rileggere le annate della «Voce» interrogandosi sulla gestazione di una o più poe-
tiche del “frammento”, sull’idea di letteratura che, nel clima di riforma generale, ci si
proponeva, può apparire una pratica, se non inutile, per lo meno secondaria. Come è
stato più volte detto, e recentemente ripetuto nel Convegno che ha ricordato, a Firen-
ze, il centenario della nascita della rivista, il fulcro attivo dell’esperienza vociana sta
nelle questioni civili e politiche, in quel progetto di «primato politico degli intellet-
tuali», più che nelle “prove letterarie” dei singoli, poi ampiamente studiate, appunto,
per personalità distinte5. È il motivo per cui, ancora oggi, si apprezza e si legge volen-
tieri, tra tutte, l’antologia di Romanò, che aveva individuato con sicura orientazione
3 Cfr. E. Ghidetti, «La Voce» bianca: vita breve di una rivista letteraria, «La Voce» 1908-2008 (Atti del
Convegno internazionale di Studi, Firenze, 5-6 dicembre 2008), a c. di S. Gentili, Morlacchi, Perugia
2010, p. 139.
4 Cfr. A. Nozzoli, Forme e generi delle scritture vociane, in «La Voce» 1908-2008, cit., p. 499: «Ma se quella
del Dacci oggi la nostra poesia quotidiana o quella che Giovanni Boine designerà con supremo fastidio
come “La Civiltà cattolica dell’idealismo italiano” saranno inseparabili dall’impronta dei rispettivi diretto-
ri, altro discorso sembra convenire alla Voce degli anni 1908-1911 […]».
5 Cfr. la relazione d’apertura di Umberto Carpi: «Né la “Voce” di Prezzolini, lo dico una volta per tutte,
rappresentò mai un gran caso letterario: fu sempre, da subito, un controverso caso politico» (U. Carpi,
«La Voce» nel dibattito culturale del Novecento, in «La Voce» 1908-2008, cit., p. 18).
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 315
le linee più progressiste della rivista e dava, per lacerti, testimonianza di una «radice
della cultura democratica»6 del primo Novecento.
Eppure se quell’esperienza comune, al crocevia tra personalità così diverse, vale
ancora per le “questioni”7 che era riuscita a porre ad una classe media italiana, aveva
forse rappresentato anche un luogo d’incontro dove, discutendo di riforme sociali e
culturali, si sottintendeva che ad esse si sarebbe accompagnata una revisione delle i-
dee intorno alla letteratura. In quel progetto di riforma, che Prezzolini si ostinava ad
allontanare da esigenze poetico-letterarie, in realtà rientrava ampiamente anche una
“questione letteraria”; anzi, proprio per aver sottovalutato i contrasti e le ideologie
che si andavano creando anche attraverso la letteratura, Prezzolini si ritroverà nel
1912, esploso l’esaurimento nervoso, sbalzato fuori dalla cabina di comando.
C’era, nel rifiuto iniziale di ospitare ampiamente la letteratura, una rigidità che
proveniva dal piglio serio e autocosciente con cui si tendeva ad affrontare ogni que-
stione e, insieme, un sospetto verso la “debolezza” del contemporaneo, che era soste-
nuto anche da Emilio Cecchi, ed è oggetto di una lettera di Prezzolini a Papini del
1909:
Non è possibile mettere cose artistiche nella Voce, perché non ci sono. Non ci sono
tali da giustificarci con la maniera critica con la quale trattiamo gente come Pascoli
d’Annunzio Beltramelli ecc. Siamo, siete ancora immaturi o altro, ma non avete an-
cora un’opera grande, tale da poter sopportare la critica che movete agli altri8.
Eppure lo stesso titolo, prediletto dopo lunga selezione, aveva in sé, come considera
Prezzolini a posteriori, il sentore di una romantica esigenza poetica e filosofica a cui
occorreva dar seguito:
La Voce è il titolo di un capitolo de Il Sarto Spirituale di Prezzolini e vi stava a signifi-
care, in modo un po’ troppo letterario per dei futuri «vociani», quella ispirazione poe-
tica o filosofica che è una incomoda compagna degli uomini segnati dal destino a
6 Ivi, p. 34; «ne risultava una “Voce” sorprendentemente posta all’origine della successiva cultura demo-
cratica ed antifascista, con un suggerimento di lettura della rivista come suscitatrice di problemi politici e
culturali, di indagini ed inchieste sociali ed amministrative, di dibattiti etici ed estetici» (ibid.).
7 Si osservi che il termine “questione” fu proprio «parola vociana (poi gramsciana)», come nota Biondi,
emblema del problematismo implicito alla rivista (M. Biondi, «Non è la nostra una rivista di lucro o di
vanità». Appunti su voci e versioni della critica nella «Voce», in «La Voce» 1908-2008, cit., p. 129).
8 Prezzolini a Papini, 24 ottobre 1909, in G. Papini, G. Prezzolini, Carteggio, II, 1908-1915, Dalla nascita
della «Voce» alla fine di «Lacerba», a c. di S. Gentili e G. Manghetti, Edizioni di Storia e Letteratura, Bi-
blioteca Cantonale Lugano Archivio Prezzolini, Roma 2008, cit., pp. 300-01.
316 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
tormentarsi per la libertà, il sogno, la lotta, la gloria, lo scavo interiore e per altre dia-
volerie romantiche dello stesso genere9.
L’ostinazione di Prezzolini nell’ordinare le tensioni centrifughe della «Voce» sot-
to un’egida anti-letteraria ha allora forse, come accenna Ghidetti, il sapore di
un’occasione perduta:
il Prezzolini della «Voce», pur nel suo intellettualistico svariare, aveva individuato nel
patronage idealistico una prospettiva di orientamento e controllo, un ancoraggio per
la grande riforma morale e culturale che aveva in mente, senza peraltro riuscire a ot-
tenere il consenso dai compagni di avventura, per aver sottovalutato, se non l’alta ca-
ratura letteraria del loro contributo, la funzione che la letteratura avrebbe potuto
svolgere nella realizzazione di quel progetto […]10.
Ricostruire dunque la storia dell’affacciarsi della letteratura sulla «Voce», per indivi-
duare luoghi d’incontro o di totale diffrazione tra i collaboratori, può forse avere an-
cora un senso. In più, partire dalle colonne della rivista è forse l’unico modo per ri-
comporre il retroterra culturale del “frammento” vociano, le ragioni comuni di poeti-
ca per cui i collaboratori, «sciaguratamente artisti»11, si trovarono a condividere idee
simili sulla letteratura, prima che le strade si dividessero in maniere magari opposte.
Prezzolini stesso manifestò l’esigenza, a posteriori, in sedi di bilancio non scevre da
polemiche con la «Voce» di De Robertis (poco più di uno studente, che aveva ricevu-
to un bel «regalo»), di rivendicare un primato anche letterario alla propria rivista, in-
sistendo su tre ordini di considerazioni: l’importanza dell’esperienza in rivista per gli
autori veramente “vociani” («molti furono trasformati dal clima che trovarono […].
Pigliate gli scritti di Slataper nel “Palvese” a Trieste […]. Confrontate gli scritti di Sof-
fici nella “Plume” o in altre rivistine francesi […]»)12; la corrispondenza tra
l’esperienza vociana e il loro apice letterario («la “Voce” n. 1 rappresentò per quegli
scrittori, anche dal punto di vista artistico, si noti bene! il climax della loro poten-
za»)13; il compito di “rivelazione” di talenti della prima «Voce» («Le scoperte della
9 G. Prezzolini, Cronaca de «La Voce», in Id., La Voce 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivi-
sta, con la coll. di E. Gentile e di V. Scheiwiller, Rusconi, Milano 1974, p. 44.
10 Ghidetti, «La Voce» bianca: vita breve di una rivista letteraria, cit., p. 525. Più duro il giudizio di Jahier,
nelle Contromemorie, sull’«intransigenza» di Prezzolini: «Tu volevi essere unicamente “riformatore” della
vita e del costume italiano, ed è risaputo che tutti i riformatori, da Platone a Mussolini, diffidano a buon
diritto di arte ed artisti, amenoché questi non consentano a farsi instrumenta regni» (P. Jahier, Contro-
memorie vociane, in Id., Con me, a c. di O. Cecchi e E. Ghidetti, Editori Riuntiti, Roma 1983, p. 262).
11 Ibid.
12 G. Prezzolini, L’italiano inutile, Rusconi, Milano 1983, p. 141.
13 Ibid.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 317
“Voce” n. 1 si chiamano Slataper, Jahier, Boine, Rebora, Sbarbaro, Serra ecc»)14. Se la
prima affermazione di Prezzolini sembra avere un indubbio contenuto di verità, la
seconda e la terza si prestano a ragionevoli obiezioni. Rimane, come dato significati-
vo, il senso di una rivendicazione “letteraria” di chi, ripensando ad un’esperienza lon-
tana, vi scorge anche un’urgenza creativa che in passato scoraggiava e, anche nel pre-
sente, ritiene di per sé “incompleta”15, ma che va recuperata per non perderne lo spi-
rito più autentico: l’esigenza di verità, coniugata, secondo Prezzolini, nella formula
dell’autobiografismo.
1.2 Alcune definizioni per lo “scritto vociano”
Per “scritto” o “frammento vociano” si intende solitamente un brano d’invenzione, o
al limite all’incrocio tra la comunicazione giornalistica e l’espressione letteraria, che è
identificato innanzi tutto proprio dalla sua collocazione: si tratta degli scritti pubbli-
cati sulle colonne della «Voce», e, per estensione, delle pubblicazioni dei «Quaderni»,
dove, la dimensione del frammento non è più connessa alla misura dell’intervento
giornalistico, ma assume caratteri sostanziali. Allo “scritto vociano” appartiene però,
come al termine “vocianesimo”, un’assenza di precise frontiere che rischia di essere
disarmante: se al secondo sono stati ascritti intellettuali e scrittori che ebbero ben po-
chi rapporti tangibili con la rivista o che non vi pubblicarono mai nemmeno una riga,
il primo non presenta problemi minori, primo fra tutti quell’interscambio con la «Ri-
viera ligure» per cui, spesso, collaboratori che si occupavano di questioni pratiche
sulla «Voce» (in linea con il rigorismo antiletterario della “creatura prezzoliniana”)
riservavano i propri scritti d’arte alla rivista di Mario Novaro16. Si scopre così che un
vocianesimo inteso come maniera di interpretare la realtà e l’arte tende a tralignare
l’insieme dei collaboratori stricto sensu, e che i frammenti vociani andrebbero cercati
anche “nei dintorni” della «Voce».
14 Ibid.
15 «L’arte ha qualche aspetto di verità, ma si direbbe meglio che è una quasi-verità, se non altro per distin-
guerla dalla verità della filosofia o della scienza o della religione…» (ivi, p. 138).
16 Osserva anche la Martignoni, giustamente: «per avere un quadro della produzione letteraria vociana
non basta scandagliare le annate della rivista e i relativi e paralleli “Quaderni” della Libreria, ma occorre
anche tenere ben aperta sul tavolo la solidale e tranquilla “Riviera Ligure”, nonché la dissidente e liberta-
ria “Lacerba”» (C. Martignoni, Sulla letteratura vociana: la riforma dei generi e dello stile, «Strumenti cri-
tici», VIII (n.s.), 72(2), maggio 1993, pp. 192-93). Rammenta la questione anche Jahier dialogando con
Prezzolini: «La conversione al mondo reale, si era in te compiuta con tanta teologica intransigenza che,
per tuo volere, anche l’arte fu bandita da quella prima “Voce” […] e i tuoi collaboratori, sciaguratamente
artisti, dovettero rifugiarsi nell’ospitale “Riviera Ligure” di Mario Novaro» (Jahier, Contromemorie vocia-
ne, cit., p. 262).
318 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Ciononostante, varie volte nel corso del tempo è emersa la volontà di definire i
tratti fondamentali di uno “scritto vociano”, proprio a partire dalla rivista che, bene o
male, fu il fulcro di quell’esperienza, tra il 1909 e il 1913: se è vero che uno dei lasciti
più importanti, malgré lui, di una «Voce» che aveva quasi bandito la letteratura, sono
le opere letterarie nate nell’ambito di quel progetto di revisione della cultura, non è di
secondaria importanza capire come e se fosse nata una scrittura con alcuni caratteri
comuni.
Occorre prima di tutto interpellare sull’argomento i tre antologisti della «Voce»,
che si sono interrogati, quando non proprio sulla nozione di “scritto vociano”, sui
rapporti tra la rivista e la letteratura proprio a partire dagli interventi dei collaborato-
ri. La prima opinione che occorre vagliare, sempre con uno sguardo alle questioni let-
terarie, è quella di Angelo Romanò, il quale afferma che, sebbene la «Voce» non nasca
come rivista di sperimentazione letteraria, «l’esigenza di una rinnovata moralità, mu-
tuata da Croce», si accompagna al «consenso critico e psicologico ai testi della poesia
europea fondata essenzialmente su una peculiare attenzione alla vita individuale e in-
teriore»17, per cui non esiste un vero contrasto tra problema culturale, ideologico e
letterario. Romanò esclude che possa essere produttivo un ragionamento troppo in-
clusivo alla ricerca del gruppo («Asserire […] che […] sorga la possibilità di delineare
i connotati di una civiltà letteraria è cosa non vera»)18, eppure non rinuncia ad un
tentativo di individuazione dei “vociani” in letteratura (ipotizza che solo per Boine,
Jahier, Rebora, Sbarbaro sia «legittimo parlare, e sia pure con le dovute cautele, di let-
teratura vociana»)19. Il critico, dunque, indica una linea ideale di ricerca: occorre veri-
ficare i contatti tra questione culturale, letteraria e politica nei collaboratori “lettera-
ti”, ricordando che le poche prose d’invenzione pubblicate in rivista siano proprio il
frutto di questa concatenazione di elementi.
Un'altra definizione della prosa vociana arriva da Giansiro Ferrata, ripreso poi
anche da Prezzolini antologista:
Fresca immediatezza nel sentire, e motivi critici, spesso, associati a simile freschezza;
lingua in grande arricchimento dalle fonti più diverse; relazione od osmosi frequente
tra poesia e prosa, sono alcuni caratteri propri a questa nuova letteratura che andò
poi sotto il segno del frammentismo20.
A ragione Ferrata afferma che, sulla rivista, «quando gli elementi spirituali e morali
seguono un ritmo inquieto di ispirazione, le parentele con la letteratura sono eviden-
17 A. Romanò, Introduzione, in «La Voce» (1908-1914), a c. di A. Romanò, Einaudi, Torino 1960, p. 23.
18 Ivi, p. 70.
19 Ivi, p. 71.
20 G. Ferrata, Prefazione, in La Voce 1908-1916, cit., p. 35.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 319
ti». I caratteri dello scritto vociano stanno dunque nella, vera o pretesa, «immediatez-
za» di sentimento, nella ricerca linguistica, nell’osmosi innovativa tra poesia e prosa.
L’antologista fa poi riferimento alla già accennata distinzione tra il frammentismo
della prima e della seconda «Voce»21.
Lo stesso Prezzolini, all’epoca sostenitore del basso tenore di sincerità e utilità
della letteratura, non tralascia di rivendicare, a posteriori, il merito della prima «Vo-
ce» in ambito letterario e tenta, nel 1974, una definizione dello “scritto vociano”:
Che cosa poi voglia dire uno scritto «vociano» è difficile definire. È un componi-
mento, prima di tutto ben concepito ed organico, con un suo tono da principio fino
in fondo, esaltazione di qualche momento di libertà o di satira o di comunicazione
con gli uomini o con la natura dove idee, non espresse in forma filosofiche e tuttavia
frutto di una visione generale della vita, si sentono aver trovato una veste
d’entusiasmo poetico che convenientemente al contenuto le copre e le rivela nello
stesso tempo22.
La definizione merita attenzione per aver colto alcuni tratti che effettivamente pon-
gono sotto un comune denominatore gli scritti d’invenzione dei collaboratori, come
la riflessione e l’esposizione di idee, per una letteratura non prettamente filosofica ma
frutto di una “visione” sulla vita dell’uomo; in altri termini si potrebbe appunto dire
che si tratta di “pensieri” appartenenti all’ambito della filosofia morale, dove la veste
poetica è importante quanto l’oggetto della meditazione. La definizione di Prezzolini
sembra tralasciare volutamente notazioni di tipo stilistico, puntando invece
all’individuazione degli elementi di una “riforma contenutistica” dello scritto vocia-
no, corrispondente nel porre al centro dell’arte una riflessione “filosofica”. In tal mo-
do, Prezzolini sembra voler sgombrare il campo dalla percezione che lo scritto vocia-
no sia essenzialmente un episodio di “arte per l’arte”, un esercizio di bravura o un ca-
priccio stilistico, affermando che esso origina dalla necessità di scolpire un’idea.
Gli esempi di “scritti vociani” citati sembrano voler corrispondere ai “toni” indi-
cati, i quali in effetti individuano immediatamente, per il lettore della «Voce», firme e
titoli diversi: «qualche momento di libertà» (si ricordi che Primavera si apre con una
fuga dalla redazione), «satira» (si pensa subito al Lattaio e la cavalla di Agnoletti),
21 Ivi, p. 52-53: «Dove stava la novità? In un distacco dal gusto sperimentale e liberamente (licenziosa-
mente, spesso) diaristico della poesia vicina alla prosa, della prosa vicina alla poesia negli anni precedenti;
il frammento in prosa lirica maturava ormai come genere letterario riproducendosi per energia – anche -
di elementi formali, mentre la lirica in versi fitta di contenuto intellettuale e d’immediata sensibilità, veni-
va decidendo a sua volta una misura espressiva, una coscienza, un rigore prima sconosciuti».
22 Prezzolini, Cronaca de «La Voce», cit., p. 53.
320 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
«comunicazione con gli uomini» (sovvengono i Valdesi di Jahier, gli olivi liguri di
Boine) «o con la natura» (Slataper, oppure Soffici).
Le parole impiegate da Prezzolini per definire, invece, i libri vociani, sono poche
e non particolarmente discriminanti, come lamenta la Martignoni:
confessioni, aperture di orizzonte, eccitamenti all’azione, fatterelli sentiti e allargati a
simbolo di vita indipendente, e un misto di ragione e di fantasia, di realtà e di imma-
ginazione, il tutto scelto con energia, semplicità, chiarezza, spontaneità, pulitezza e
con uno zinzino di sorriso e di corbellatura, di compassione e di fratellanza, e magari,
per giunta, di grazia23.
La rosa dei testi contemplati include i classici Il mio carso, Ragazzo, Frammenti lirici,
Un uomo finito.
Un maggiore approfondimento si troverà però nei paragrafi che riguardano Le
dottrine letterarie dei “vociani” e Il frammentismo; sincerità, esame di coscienza e ri-
cerca di una lingua “volgare e sublime” sono allora individuati quali tratti comuni del
vocianesimo letterario:
Rinnovarsi attraverso la sincerità, esaminare la propria coscienza (Serra), trovare il
nuovo linguaggio degli incolti (Soffici), rifarsi ignoranti come montanari e ricordarsi
della Bibbia letta da piccini (Jahier), ecco vie per far crescere una lingua aristocratica
che non fosse artificialmente tratta dai dizionari (D’Annunzio), o che non paresse
cinguettare come un bambino (Pascoli)24.
La misura del frammento è riportata ad una concezione di tipo crociano
dell’ispirazione e della poesia, con l’accenno non secondario a Leopardi25, il quale,
specialmente con uno sguardo retrospettivo, non poteva che apparire a Prezzolini
come perno fondamentale per la prosa, eminentemente non romanzesca, della prima
metà del Novecento:
23 Ivi, p. 54.
24 Ivi, p. 106.
25 Sarebbe interessante sapere se, al di là di questo sguardo retrospettivo, il Leopardi che diventerà model-
lo di prosa per la «Ronda» fosse già considerato come uno tra i punti di partenza per una nuova letteratu-
ra in ambito vociano; in quella sorta di rilettura della «Voce» sub specie litterarum che seguirà, tenteremo
di carpire segnali di letture leopardiane nell’ambito di articoli di varia paternità. Nel frattempo, la lettura
di Leopardi si diffondeva anche in ambito europeo e specificamente francese, fenomeno al quale la stessa
«Voce» presta attenzione; oltre al giudizio di Barbey d’Aurevilly, sul quale si esprime in modo sufficien-
temente negativo Soffici (in «La Voce», I, 3, 3 gennaio 1909), è da rammentare la segnalazione del Leo-
pardi di Paul Hazard, ben diversamente apprezzato (G. Muoni, Rec. a P. Hazard, Leopardi, Bloud, Paris
1913, ivi, V, 31, 31 luglio 1913, p. 1132).
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 321
Il gusto del «frammento», da molti critici giudicato tipico del gruppo de La Voce,
che cos’è altro se non il riconoscimento che un’ispirazione artistica non dura per
molto tempo? Questo principio fu avvertito dal Leopardi, e messo in pratica dal Cro-
ce […].
Fedel[i] a questa iniziale verità, piccola ma immediata, i principali «vociani» cerca-
rono nell’autobiografia o nel frammento la forma più adatta alla loro vocazione: dove
trovare una verità più autentica che nel proprio intimo per poco momento?26
Un «verismo interiore e analitico» è, in conclusione, secondo Prezzolini, la misura del
frammento nei volumetti vociani.
Pare poi necessario ricordare un altro intervento di Prezzolini dedicato al “fram-
mentismo” vociano, contenuto nell’Italiano inutile ed intitolato, in maniera significa-
tiva, Sentimento della verità. A Prezzolini, com’è noto, preme separare la “ventura”
della propria rivista da quella della «Voce» di De Robertis:
Una rivista che aveva intenti di rinnovamento morale e sociale, e che voleva affermar-
si in Italia con riforme, di cui studiava i piani, e non si contentava di scrivere il bel
«pezzo», appare diversa da una che s’impegnava soltanto in una bella scrittura, che
quasi sempre ha un carattere puramente descrittivo. Tutte e due sono state belle e
importanti riviste ma ciascuna a suo modo27.
La differenziazione degli intenti gli preme tanto da tagliare i confini anche troppo
bruscamente, ad esempio prendendo le distanze da una modifica nella maniera di
“fare critica” che già in qualche modo si andava compiendo (ed era un merito) sulla
prima «Voce»28.
Prezzolini si interroga sulla categoria di “frammentismo”, per lo più adottata per
designare la pratica letteraria degli autori legati alla «Voce» 1908-1913, riconoscen-
done la valenza, ed anzi spiegandola con ragioni di estetica (crociana):
Molti di noi consideravano l’arte come uno sforzo lirico; e ci pareva che uno sforzo
lirico non potesse durare a lungo, anzi che non fosse mai durato a lungo in nessuna
delle cosiddette opere d’arte del passato; ci pareva di seguire una delle direttive più
chiare e suscitatrici del Croce, in questo: andavamo alla ricerca dei «brani» o dei
«momenti» lirici di un autore, considerando il resto come un tessuto connettivo
[…]29.
26 Prezzolini, Cronaca de «La Voce», cit., p. 107.
27 Id., L’italiano inutile, cit., p. 142.
28 Cfr. ivi, pp. 138-39.
29 Ivi, p. 144.
322 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Per contro, Prezzolini si dissocia dal corollario spesso implicito a tali considerazioni;
molti ne deducono che il «tentativo di ridurre l’inspirazione poetica ad un momento
di “purezza”, in cui non ci sia mescolanza di morale o di praticità o di eloquenza» sia
il tratto caratterizzante dell’esperienza letteraria vociana: «Ora, riguardando indietro,
non ritengo che questo sia interamente esatto»30.
Per l’ex-direttore, questa valutazione deriva, in realtà, da un’impropria estensione
della poetica della seconda «Voce» a quella della prima: «il frammentismo venne do-
po, quando il Serra incominciò ad avere influenza e la “Voce” fu regalata a De Rober-
tis»31. Il termine “frammento” è connesso da Prezzolini alla “bella scrittura”, e punta
il dito sui caratteri “formali” dell’esperienza, assurti invece a principi guida solo dopo
il 1914: «Il culto del “frammento” e della “bella scrittura” o “d’impegno” verrà dopo,
dimenticando la verità e l’autobiografia».
La prima «Voce» puntava, invece, sul «sentimento della verità», in tutti gli ambiti,
che conduceva, in letteratura, all’autobiografia:
Ora, letterariamente parlando, questo sentimento della verità condusse quelli che
erano tra noi degli scrittori ad una forma d’arte che non si può chiudere nel fram-
mentismo. […] nei primi anni, il culto della verità ad ogni costo mi pare che portasse
piuttosto ad un indirizzo differente, ossia all’autobiografia. […] Perché? Ma è natura-
le. Dove si può trovare maggior verità nell’arte, se non raccontando di se stessi? Quale
materia, quale sensibilità più vicina, quali esperienze più dirette e più vere di quelle
della propria vità? […] Non erano «frammenti» pubblicati come belle scritture. Non
erano «pezzi». Erano «verità»32.
L’etichetta di autobiografia si basa sull’intento di accentuare, come carattere sostan-
ziale dell’esperienza vociana, la ricerca della verità: se essa prende le forme del
“frammento”, non è quest’elemento che permette di “storicizzare” in modo corretto
l’esperienza letteraria della prima «Voce»; né è lecito demandare, secondo Prezzolini,
interamente alla seconda «Voce» il compito di dare il senso delle poetiche “vociane”
tout court. Occorre separare, proprio al livello letterario, che è quello dove ha pro-
priamente agito la rivista di De Robertis, la poetica della prima «Voce» da quella della
seconda. Al di là delle rivendicazioni di Prezzolini a favore della propria direzione,
alcune osservazioni andrebbero forse riprese in esame; è una realtà, quella di Prezzo-
lini, forse parziale (questa ricerca della verità, questa «obiettività», che era la sua ban-
30 Ibid.
31 Ivi, p. 146.
32 Ibid.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 323
diera, non fu quella di altri importanti collaboratori), ma che merita una riconsidera-
zione.
Del resto anche chi legga il paragrafo dedicato, trattando di narrativa novecente-
sca, da Giorgio Luti a Frammento, prosa d’arte e nuova struttura del romanzo troverà
che, a caratterizzare la prosa vociana, si preferisce in realtà porre l’accento sulla «con-
figurazione autobiografica», sulla «necessità della confessione e dello sfogo» intesa
come esigenza di rinnovamento33, individuando nel “frammento” piuttosto un “ap-
prodo” consequenziale. Riguardo all’autobiografismo vociano sarà da tener conto,
come nota Paolo Briganti, una semplice ma interessante considerazione, che avremo
modo di verificare in seguito: stesa a trent’anni, essa «non può avere il carattere defi-
nitivo del bilancio consuntivo […], ma piuttosto quello transitorio di tappa. Forse
anche per questo […] il carattere dominante appare l’intento di ri-costruzione,
l’intento del riconoscimento morale (metafisico) della personalità, del carattere,
dell’io»34.
Ampliando l’orizzonte al di là delle antologie, pur non avendo la pretesa di va-
gliare in questa sede tutte le voci disponibili, è interessante ricordare, tra le molte,
l’opinione di Arnaldo Bocelli; il critico aveva tentato, in una voce per l’Enciclopedia
italiana del 1938, di definire e riconoscere l’importanza del frammentismo vociano
nella letteratura italiana, individuando in esso il risultato di attitudini contrapposte
elaborate nel corso del Romanticismo e del Decadentismo: «la tendenza a considerare
l’arte come effusione del proprio io, e quindi la lirica come il “genere” per eccellen-
za», e «la tendenza a risolvere la lirica in prosa», come dimostravano mirabilmente i
poemetti in prosa di Baudelaire, secondo un’esigenza di «affrancare la poesia dal lin-
guaggio “poetico”»35. Bocelli avverte il tentativo di trovare un «tono medio» tra «il
fasto di D’Annunzio» e «la sciatteria di certa narrativa veristica», elevando la prosa
all’intensità e al tono della poesia senza sconfinare nel «troppo poetico»: proprio in
questa ricerca, per Bocelli, il frammentismo vociano assume «nel quadro del deca-
33 «Nasce così, con l’affermazione del “vocianesimo”, intorno agli anni Dieci, la configurazione autobio-
grafica della nuova prosa italiana, la necessità della confessione e dello sfogo in prima persona a cui lo
scrittore dei primi anni del secolo affida la divulgazione del nuovo “verbo”, il bisogno di un rinnovamen-
to totale in sede sociale, politica e culturale. […] Lo spazio narrativo si riduce notevolmente fino ad ap-
prodare alla prosa lirica, alla bella pagina antologica, al frammento come testimonianza della nuova poe-
tica» (G. Luti, Introduzione alla letteratura italiana del Novecento, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1985,
p. 46). Naturalmente, va considerata la distinzione di Paolo Briganti: se le «“scritture autobiografiche”
sono innumeri in questo arco primonovecentesco, quelle che forse davvero si possono chiamare strictu
sensu autobiografie sono – mi pare – ben poche» (P. Briganti, I trentenni alla prova: l’autobiografia dei
vociani, «Quaderni di retorica e poetica», II, 1, 1986, p. 165).
34 Ivi, pp. 173-74.
35 A. Bocelli, Il «frammentismo» (1938), in Novecento, ideazione e direzione di G. Grana, II, Marzorati,
Milano 1982, p. 1243.
324 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
dentismo europeo una fisionomia inconfondibile»36. Quest’accento posto sul “tono
medio” è passibile di sviluppi interessanti, e potrebbe meglio restituire il quadro delle
prime annate vociane, laddove la formula di espressionismo non sembra poter essere
utilizzata con grande vantaggio per individuare i tratti degli articoli vociani. Una tale
scrittura, per Bocelli, è affascinata dal gusto della parola, ma la sottomette ad una ri-
cerca di tipo umanistico piuttosto che edonistico; l’«esigenza di superare il proprio
atomismo spirituale in una ordinata visione morale» è indicata come tratto comune
dell’esperienza del frammentismo vociano.
A questa lettura si potrebbe affiancare, per passare al dibattito critico contempo-
raneo, l’elaborazione di Clelia Martignoni, che ha così riassunto, appoggiandosi a
Gianfranco Contini per quanto riguarda la definizione di “autobiografia metafisica
vociana” e a Romano Luperini per l’inserimento del vocianesimo nell’espressionismo
storico europeo, «i principi costitutivi della riforma stilistica vociana»: «autobiografi-
smo generale e tenacissimo; frammentismo altrettanto persistente; equivalenza, rivo-
luzionaria, dei registri di prosa e poesia; rinnovamento delle strutture linguistiche
(difforme variamente inteso a seconda degli autori)»37. La schematizzazione nasce pe-
rò da una considerazione rivolta alle «varie scritture vociane in volume tra il ’12 e il
‘16»38; è dunque interessante domandarsi, più dettagliatamente, se e come le prose
d’invenzione pubblicate nella rivista prezzoliniana si vanno orientando verso qualcu-
no di quei «principi».
Chi ha tentato di enucleare i caratteri del “frammento” vociano ha spesso so-
vrapposto, affiancato le due riviste o prediletto la seconda, in quanto esperienza lette-
raria39. Le categorie che tendono a definire il movimento letterario vociano in genere
provengono in gran parte, e non a torto, dalla lettura comparata dei volumi degli
scrittori o da un’analisi della «Voce» derobertisiana; eppure la “gestazione” del
frammento vociano avviene, in teoria e in pratica (seppur con poche prove),
nell’ambito della «Voce» di Prezzolini, dal primo numero in poi. Vale la pena, dun-
que, rileggere le annate di una rivista fondamentale per il Novecento, anche letterario,
alla ricerca di dichiarazioni di poetica e prose d’invenzione, per verificare, ad esem-
pio, l’eventuale coesistenza di una tendenza espressionista e di un “rivoluzionario”
tono medio, o per vagliare l’emergere dell’elemento autobiografico (come convinta
messa in gioco di sincerità e immediatezza), o per vedere dove le strade dei collabora-
36 Di questa fisionomia risentì anche il d’Annunzio stesso, se è vero che «il cesellatore raffinato della prosa
poetica nei suoi romanzi, accanto alla magniloquenza di questa prosa, presenta i modi semplificati e ab-
breviati […] delle sue “faville”» (ivi, p. 1244).
37 Martignoni, Sulla letteratura vociana: la riforma dei generi e dello stile, cit., p. 193.
38 Ivi, p. 199.
39 Si veda in particolare lo studio di Donato Valli, Vita e morte del “frammento” in Italia (Milella, Lecce
1980) con cui ci si confronterà in seguito.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 325
tori convergano in elementi di poetica e dove, in letteratura e ideologia, divergano
fatalmente.
1.3 La letteratura, nel «senso dispregiativo che basta pienamente ad esprimere quella
ch’essa è in Italia»
Tra le molteplici direzioni di ricerca che una rilettura della «Voce» prezzoliniana può
offrire oggi, agli albori del secolo successivo, l’indagine letteraria non è, a prima vista,
delle più esaltanti: com’è noto, la «Voce» non nasce come rivista di sperimentazione
letteraria e, con parole di Croce riprese da Romanò, si può affermare che fosse in gio-
co non «un’arte a preferenza di un’altra», ma «una realtà morale a preferenza di
un’altra»40. Ma essa non esclude, anzi comprende e prelude ad una riforma anche let-
teraria; come avrebbe detto Gramsci la «lotta per una nuova cultura» avrebbe prodot-
to necessariamente «una nuova arte»:
Il movimento della «Voce» non poteva creare artisti, ut sic, è evidente; ma lottando
per una nuova cultura, per un nuovo modo di vivere, indirettamente promuoveva
anche la formazione di temperamenti artistici originali, poiché nella vita c'è anche
l'arte41.
Queste riflessioni di Gramsci prendono le mosse da una riconsiderazione dell’attività
di De Sanctis, suscitata da un intervento di Gentile («Cosa significa e cosa può e do-
vrebbe significare la parola d'ordine di Giovanni Gentile: “Torniamo al De San-
ctis!”?»); in pratica, suggerisce Gramsci, De Sanctis offre «il tipo di critica letteraria
propria della filosofia della prassi»: «in essa devono fondersi la lotta per una nuova
cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle
concezioni del mondo con la critica estetica o puramente artistica». Da questo quadro
sull’attività desanctisiana, il passaggio al concetto di “critica” nella «Voce» è quasi na-
turale («In un tempo recente alla fase De Sanctis ha corrisposto, su un piano subal-
terno, la fase della “Voce”»): il risultato dell’attività vociana corrisponde, secondo
Gramsci, a una «divulgazione» di cultura «in uno strato intermedio», a una pratica di
civiltà estesa «agli ufficiali subalterni»; a livello letterario, la rivista fiorentina «suscitò
correnti artistiche, nel senso che aiutò molti a ritrovare se stessi, suscitò un maggior
bisogno di interiorità e di espressione sincera di essa, anche se dal movimento non fu
espresso nessun grande artista».
40 Romanò, Introduzione, cit., p. 22.
41 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950, p. 9.
326 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Il vocianesimo ben si prestava a esemplificare una riflessione che Gramsci svolge
qualche riga dopo, appunto a proposito di «Arte e cultura»:
Arte e cultura. Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una «nuova cultura»
e non per una «nuova arte» (in senso immediato) pare evidente. Forse non si può ne-
anche dire, per essere esatti, che si lotta per un nuovo contenuto dell'arte, perché que-
sto non può essere pensato astrattamente, separato dalla forma. Lottare per una nuo-
va arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali, ciò che è assurdo,
poiché non si possono creare artificiosamente gli artisti. Si deve parlare di lotta per
una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intima-
mente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo
di sentire e di vedere la realtà e quindi mondo intimamente connaturato con gli «arti-
sti possibili» e con le «opere d'arte possibili»42.
La «lotta per una nuova cultura», «per una nuova vita morale», fu all’apice delle pre-
occupazioni di Prezzolini, che si apprestava ad inaugurare l’esperienza della «Voce», e
figura tra i principi fondativi della rivista; si potrebbe però affermare che,
nell’esigenza di allontanare lo spettro di «artisti individuali» (di valore magari discu-
tibile), la letteratura fosse fin troppo separata da questo progetto di creazione e diffu-
sione di cultura civile.
Non c’è un vero contrasto tra “questione letteraria” e “questione morale”, ma di
certo si tratta, per così dire, di priorità; per scongiurare il prevalere della prima, il di-
rettore sembra volerla tenere fin troppo ai margini. Davvero la letteratura è confinata
a pochi interventi, di critica come di scrittura artistica, soprattutto (ma non solo) fino
al 1911-1243. A ben vedere, si incontrerà anzi, perfino negli interventi meno letterari,
un ripetitivo uso negativo del termine “letteratura”, da parte di collaboratori vari. Da
una parte si tratta di un’accusa scagliata contro certi vizi tipicamente italiani,
dall’altra ci si chiede invece proprio come sarebbe possibile rifondare l’universo lette-
rario.
Prezzolini, con l’autorità della direzione, non nasconde il proprio sospetto nei
confronti della letteratura, sempre perdente a paragone dell’attività “pratica”; è una
42 Ibid.
43 Come è rifiutata sulla «Voce», la letteratura è spesso praticata dai vociani nell’ambito della «Riviera li-
gure» di Mario Novaro, a proposito della quale si trova scritto, alla fine del 1911: «il criterio è: libertà, e il
mezzo è: pagare subito gli articoli; due cose che si escludono troppo spesso. Molti di noi ci collaborano:
Papini, Soffici, Cecchi, Slataper, Jahier […]. Ma insomma la Riviera è oggi l’unica rivista d’Italia in cui un
giovane sia accolto con affetto, e senza obblighi o di castrazione o di programma, e senza arie di degna-
zione o di pietosa accondiscendenza» (cfr. «La Voce», III, 50, 14 dicembre 1911, p. 708). Le citazioni dalla
«Voce» si intendono tratte, qui e per tutta questa terza parte, dalla ristampa anastatica procurata
dall’editore Forni (Bologna 1985).
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 327
questione che gli preme ribadire, mettendosi «una mano sul cuore», «dopo quasi die-
ci numeri» della rivista di via della Robbia 4244:
Ci si propone qui di trattare tutte le questioni pratiche che hanno riflessi nel mondo
intellettuale e religioso ed artistico; di reagire alla retorica degli italiani obbligandoli a
veder da vicino la loro realtà sociale; di educarci a risolvere le piccole questioni e i
piccoli problemi, per trovarci più preparati un giorno a quelli grandi; di migliorare il
terreno dove deve vivere e fiorire la vita dello spirito. O bravi ragazzi che mi spedite
versi in vario metro, o piccoli omiciattoli che mi invitate con gran sfoggio di parole e
scarsezza di fatti ad attaccare questo o quel piccolo personaggio della vostra vita loca-
le, decidetevi a ripulir la vostra mente dalle gonfiezze e il vostro cuore dagli odi per-
sonali, e lavorate con noi, perché spesso non vi manca l’ingegno ma soltanto una
buona volontà45.
Questo noto programma dell’11 febbraio 1909 ribadisce le finalità della «Voce», sot-
tolineando la guerra aperta alla «retorica degli italiani», e scoraggia con decisione e
studiata noncuranza i giovani autori di «versi in vario metro», accostandoli agli «o-
miciattoli» che propongono sterili polemiche personali «con gran sfoggio di parole e
scarsezza di fatti». Agli uni e agli altri Prezzolini consiglia di ripulire la mente «dalle
gonfiezze», per allontanare il pericolo di creare un’«Accademia spirituale», «regni
perfetti nelle nuvole»: per favorire «un momento di altezza della coscienza italiana»,
la letteratura non serve ed è anzi, potenzialmente, dannosa. Quanto di retorico ci fos-
se anche in questa professione di praticità sottolinea, ironicamente, Jahier in sede di
Contromemorie, rammentando «la rubrica alfabetica dei sottoscrittori alla “Libreria”,
lorda di inchiostro da non capirci più nulla»46.
La Relazione del primo anno conferma, a scampo di equivoci, una scelta opposta
alla «scioperataggine letteraria», nell’esigenza di seguire una «via» «razionale e prati-
ca», abbandonando le questioni di «gusto»47:
44 «Tre stanze con cucina (ed un’oscura anticameretta)», «sedici rampe di, credo, ottanta scalini in tutto» e
il «sistema del panierino che si calava dalla finestra», strumento prezioso di un «movimento internaziona-
le di posta e di persone» (Prezzolini, L’italiano inutile, cit., pp. 129-30).
45 g. pr.[ezzolini], Al lettore, «La Voce», I, 9, 11 febbraio 1909, p. 33.
46 «Pratici, ci dicevamo, perché pratico si era detto il cipresso di guida. La pratica, è risaputo, si acquista
facendo. […] E praticissimo poi, doveva essere quel gerente che si era presentato con umiltà, attratto
dall’atmosfera spirituale nuova, nascondendo nella bolgetta la poesia, sotto il panino gravido. Anche se
qualche dubbio gli si era destato, quando il cipresso guida, che non sapeva più dove battere il capo, con
tutta quella carnea la fuoco, gli aveva consegnato la rubrica alfabetica dei sottoscrittori alla “Liberia”, lor-
da di inchiostro da non capirci più nulla (Fortuna che liquidar cottimi a fornitori e fucinatori aveva inse-
gnato qualcosa)» (Jahier, Contromemorie vociane, cit., p. 279).
47 Si ricordi quanto scrisse Prezzolini, in conflitto con Papini e con altri collaboratori, nel luglio 1909, in
sede privata: «Abbiamo un concetto molto diverso del giornale: per voi è un’opera arbitraria e poetica –
328 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Ho escluso, anzitutto, ogni scritto puramente artistico, e alle questioni letterarie in
genere ho dato un posto secondario, rompendola così con l’abitudine di tutti i setti-
manali che sorgevano e sorgono in Italia48.
Avrebbero concordato pienamente, Prezzolini ed altri collaboratori della «Voce»,
a quest’altezza cronologica, con le parole scritte dal Manzoni al giovane Marco Coen
quasi un secolo prima, che senz’altro, benché note, è interessante riascoltare in questa
circostanza:
Ma che lettere son codeste, che non lasciano aver bene un uomo nell'adempimento
del suo dovere, e in una occupazione che ha uno scopo utile, e che presta pure un
continuo esercizio alla riflessione ed alla sagacità dell'ingegno? Sono elle le buone let-
tere? Le cose buone e vere si amano con un ardore tranquillo e paziente; non portano
a non volere, se non ciò che è incompatibile con esse, né ad abborrire così fortemente,
se non il loro contrario, cioè le cose false e malvagie. Io temo che codeste lettere, di
cui Ella è tanto accesa, sien quelle appunto che vivon di sé e da sé e non veggono che
ci sia qualcosa da fare per loro, dove non si tratti di giocare colla fantasia; temo, anzi
credo, che codesta tanto violenta avversione al commercio sia cagionata in Lei, per
gran parte, dalle impressioni che Le hanno fatta quelle massime, quelle dottrine che
esaltano, consacrano certi esercizi della intelligenza e della attività umana, e ne svili-
scono altri, senza tener conto della ragion delle cose, del sentimento comune degli
uomini, e delle condizioni essenziali della società. Ma si franchi un momento da que-
ste dottrine, ne esca, e le guardi dal di fuori; e pensi di che sarebbe più impacciato il
mondo, del trovarsi senza banchieri o senza poeti; quali di queste due professioni ser-
va di più, non dico al comodo, ma alla coltura dell'umanità49.
Nel 1909 Slataper, rivolgendosi Ai giovani intelligenti d’Italia50 e rispondendo
all’intervento di Papini intitolato La campagna (tra i primi a rivelare connotazione
artistica), ribadisce una critica nei confronti della poesia:
per me è razionale e pratica. Finché si combacia, e in tante cose si combacia, va bene; ma poi io seguo la
mia via, e voi il vostro gusto. Bisogna che voi vi rassegnate a essere urtati da certe cose, e io mi rassegni ai
vostri lamenti, e io mi rassegnerò forse più tardi di voi, perché ho più simpatia per il vostro arbitrio di
quel che voi non abbiate per la mia ragione» (Prezzolini a Papini, 25 luglio 1909, in G. Papini, G. Prezzo-
lini, Carteggio, II, 1908-1915, Dalla nascita della «Voce» alla fine di «Lacerba», a c. di S. Gentili e G. Man-
ghetti, Biblioteca Cantonale Lugano Archivio Prezzolini, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, p.
261).
48 G. Prezzolini, Relazione del primo anno della «Voce», «La Voce», I, 48, 11 novembre 1909, p. 201.
49 A. Manzoni, Lettera a M. Coen, Milano, 2 giugno 1832, in Id., Lettere, a c. di C. Arieti, Mondadori, Mi-
lano 1970, I, pp. 666-67.
50 S. Slataper, Ai giovani intelligenti d’Italia, «La Voce», I, 37, 26 agosto 1909, p. 149.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 329
Cotesta, che il verso o in generale la letteratura spontanea sia la parola propria della
gioventù come il pappo e i dindi dell’infanzia, è un’apparenza di verità incoronata
della dignità assiomatica dall’interesse nostro e dei vecchi: noi pensiamo a scusare il
pubblicaturo, essi il pubblicato.
La scrittura va praticata, prima di tutto, «per noi e per i compagni», non va pubblica-
ta, perché «la poesia dei vent’anni non fa vibrar nessuno»; occorrerà frequentare, in
privato, un’«arte intima» per migliorare se stessi, e intanto pubblicare articoli
d’attualità per denunciare e cambiare la realtà:
O allora? Scriviamo ma per far chiaro dentro di noi. E poiché pubblicare e farsi co-
noscere è più necessario del pane per noi giovani, a lato di quest’arte nostra, intima,
che noi soli conosciamo e gustiamo come stimolo a miglioramento, facciamo
dell’opera pratica.
Ho appena pronunziato la parola «pratica» che già sento un rimescolio collettivo di
stomaci: […]. È strano, parrebbe che la giovane Italia sia una generazione di mercanti
di nuvole e solidificatori del vuoto!51
Questa esortazione del giovane triestino, richiamo alla disciplina rivolto in primis
a se stesso, potrebbe racchiudere la modalità con cui viene gestita la «Voce» almeno
fino agli albori del 1912: la rivista si propone di affrontare i problemi di un’Italia da
riformare, mentre scorre e si prepara parallelamente, sotterranea, una letteratura che,
in questo articolo, ha già uno dei caratteri della scrittura “vociana”: «arte intima»,
scritta per se stessi prima di tutto, con una forte potenzialità moralistica («come sti-
molo a miglioramento»). La rivista è il terreno, collettivo (ma basato su amicizie che
difficilmente sconfinano su un piano davvero intimo e personale), dove si intende
combattere una battaglia per riformare l’Italia; nella letteratura, invece, si gioca la
partita di una rivoluzione etica, personale, di una riflessione che coinvolge i senti-
menti e le angosce più intime. Il «mercante di nuvole» di baudelairiana memoria,
lungi dall’essere poeticamente recuperato (come faceva Ragusa Moleti, a suggello del-
le sue Miniature), è drasticamente invitato a “mangiare la sua zuppa”; certo, però, sa-
rà sottinteso, senza diventare un uomo «incapace di gustare altro che la zuppa quoti-
diana»52. È necessario, se non stravolgere, ironizza Slataper, almeno intaccare «la no-
51 Il ritratto del «solidificatore del vuoto» era già stato presentato da Slataper (Ritratti. Il solidificatore del
vuoto, ivi, I, 14, 18 marzo 1909, p. 55).
52 Quando si tratta, però, di difendere Baudelaire, Soffici si scaglia così contro Faguet: «È la solita scappa-
toia di chiunque incapace di gustare altro che la zuppa quotidiana, taccia di perversione chi ha un più fine
palato del suo» (A. Soffici, Faguet contro Baudelaire, ivi, II, 55, 29 dicembre 1910, p. 475).
330 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
stra qualità di letteratucci, cioè di persone viventi in un mondo speciale d’idee che –
bisogna dirlo – comincia a puzzare».
La campagna assurge a simbolo del ritiro individuale e dell’«arte intima» che ne
deriva, ma la città deve essere il luogo dell’azione «pratica», necessaria alla comple-
tezza dell’uomo; come emerge in questo passo, il rapporto campagna-città è già im-
postato da Slataper in maniera non dissimile dal Mio Carso:
La campagna è il concentrarsi in sé, certo: ma come preparazione, bagno: al contatto
delle cose primitive rinselvatichirsi, noi gattini di cucina o di sofà. Per sentire vera-
mente con senso di stupore, di rabbia, di venerazione, di amore, la vita di oggi.
L’arte, svincolata da condizioni esteriori ed elaborata in una dimensione totalmente
intima, dovrebbe, finalmente, essere “sincera”:
Ma anche l’arte ha una moralità tutta sua, specifica, al di sopra della morale umana,
perché la supera, e la precede: sincerità, liberazione dello spirito di tutti i giudizi mo-
rali del suo tempo, espansione dell’inconscio, come vapore soprariscaldato, contro
l’attorcigliamento ostacolante delle necessità materiali, dei criteri-bavagli, della sma-
nia individuale di grandi baldorie ebbre d’incenso e di oro.
«Essere moderni!», esclama Slataper, richiamando l’affermazione dell’Adieu di
Rimbaud; in cosa consisterebbe questa modernità? La risposta si trova forse in quella
stessa pièce della Saison: «Moi! moi qui me suis dit mage ou ange, dispensé de toute
morale, je suis rendu au sol, avec un devoir à chercher, et la réalité rugueuse à
étreindre! Paysan!»; tale affermazione, se intesa come discesa dagli elisi della lettera-
tura al «suolo» della realtà «pratica», poteva ben avere un senso anche per I giovani
intelligenti d’Italia.
Nel corso del 1909, 1910 e 1911 il binomio tra letteratura e tronfia retorica è ri-
proposto più volte, assumendo i tratti di un luogo comune. Prezzolini, presentando
«un altro numero doppio» dedicato «alla questione della scuola media», afferma inci-
dentalmente: «chi non ha voglia di imparare, chi cerca roba da digerir leggermente,
chi ama le cose vaghe eteree dei letterati, ha il cinematografo da cinquanta, da venti-
cinque e da dieci centesimi»53. Angelo Vivante dimostra come Trieste sia «legata a
paesi slavi e tedeschi assai più che ad italiani», adducendo prove storiche che dimo-
strano la loro validità proprio in contrasto con ogni «tesi artistico-letteraria» o «vola-
ta retorico-sentimentale». Contro retori ed esteti, si chiede in conclusione se un certo
«irredentismo parolaio» non serva solo a «circonfonder di poesia l’aumento delle spe-
53 g. pr.[ezzolini], Per il Congresso dei Professori, ivi, I, 41, 23 settembre 1909, p. 165.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 331
se militari e gli affari di qualche gruppo di politicanti»54. Mario Girardon, concluden-
do il secondo reportage su Venezia povera55 non manca di scagliarsi contro la «Vene-
zia nel sogno dei poeti», «l’isola incantata dove si naviga con angioli d’oro», dove, al
colmo del paradosso, la povertà sarebbe «necessaria»: contro «fantasie di marmi ro-
sa», propone piuttosto dati storici ed economici. La letteratura, per lo stesso potere di
propaganda e contraffazione che è proprio della parola, è il simbolo di una mancata
considerazione analitica e razionale dei problemi.
Nel 1911, da posizioni pro e contro l’impresa tripolina si attacca la «retorica» di
Corradini, con un utilizzo sempre negativo del termine letteratura. Prezzolini intende
dimostrare, con un lungo articolo del maggio 1911, che L’illusione tripolina56 ha sen-
so solo nell’ambito della letteratura: «Quanto a prove il poetico Corradini non ha bi-
sogno di molto e a proposito della Cirenaica di oggi, “la parte più feconda della re-
gione”, cita il motto erodoteo: “Quelli di Cirene per tre stagioni non fanno che racco-
gliere”». Contro le fole di Erodoto, viene citata un’inchiesta compiuta dalla Jewish
territorial organization, che dipinge una situazione ben diversa. Scarsa nozione della
realtà e cattiva letteratura vanno insomma di pari passo: «Ma per un nazionalista che
cosa è la nazione, se non un pretesto per far della letteratura?». Il concetto è ribadito
nel novembre57, quando la «Voce» si scaglia contro «quella marmaglia di scribacchia-
tori incoscienti e ignoranti», plaudendo invece al «giovane letterato» che sceglie, tra i
mestieri possibili, «quello del giornalista d’opposizione» ed ancora resiste. Boine, ri-
spondendo a Prezzolini con Che fare?, si interroga, tra le altre cose, sul vero valore del
nazionalismo francese dei Cahiers, auspicando un’interpretazione assennata della let-
teratura di ambito peguyano: «non è, in Romain Rolland che viene fuori dal gruppo
umanitario dei Cahiers peguyani, un incitamento alla guerra, è una controprova per
così dire, è un incitamento a prender coscienza di quella profonda unità di tradizione,
di quell’organica anima che permane vigorosa e viva, sotto la frammentarietà egoisti-
ca della superficie»58.
Anche Papini, favorevole all’impresa di Tripoli, si scontra con «il mito della guer-
ra vittoriosa di Corradini», eroica, di popolo, «educatrice e risvegliatrice»; la prolife-
razione di «aquile romane» e «glorie di Cirene» sulle testate giornalistiche non aiuta
l’Italia a liberarsi del suo peggior malanno, tutto “letterario”:
54 A. Vivante, Il fattore economico e l’irredentismo triestino, ivi, II, 52, 8 dicembre 1910, pp. 452-54.
55 M. Girardon, Venezia povera, ivi, III, 29, 20 luglio 1911, pp. 612-13.
56 La voce, L’illusione tripolina, ivi, III, 20, 18 maggio 1911, p. 574.
57 Ead., Gli arabi ci aspettano…, ivi, III, 44, 2 novembre 1911, p. 679.
58 G. Boine, Che fare?, ivi, II, 37, 25 agosto 1910, pp. 383-84.
332 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Mai come questa volta s’è vista a nudo la malattia nazionale italiana che non è né il
colera né la camorra né la questione meridionale, ma l’infatuazione, la mascheratura
letteraria, l’intrampolatura poeticante59.
Già nel 1909 Papini aveva stigmatizzato, tra i vari tipi di nazionalismo, «quello dei
letterati che, contaminando Giulio Cesare e Maurizio Barrès, un mezzo verso latino e
un ritornello francese, spronano l’Italia alla conquista della Tripolitania»60. E alla fine
del 1910, nell’ambito di un numero dedicato all’irredentismo, chiede, «prima della
guerra vittoriosa contro l’Austria», «un eccellente libro sull’Austria», al fine di sfatare
facili miti nazionalisti e conoscere «fatti», «cifre», «informazioni»61.
Nel novembre del 1911, quando ormai la rottura con Salvemini è consumata (e, si
badi, con «dolore infinito»)62, Prezzolini descriverà La politica de «La Voce»63 auspi-
cando una riconciliazione, già altrove indicata, tra politica e cultura, deprecando una
«separazione che appare veramente strana quando si pensa alla parte che la cultura, e
la stessa letteratura, hanno avuto nel far risorgere l’Italia».
La politica infatti, quando non vi aliti dentro lo spirito della nazione ricco di tutte
quelle orientazioni ideali che si chiamano cultura, diventa una mediocre faccenda
composta di piccole cose quotidiane – più vicina assai alla pratica minuta degli affari
di un mercante che non alla complessità vasta e concitata della storia. E la cultura, se-
gregata dalla politica, - e in generale dalla vita vissuta, immiserisce nella «letteratura»:
usiamo questa parola nel senso dispregiativo che basta pienamente ad esprimere
quella ch’essa è in Italia. E così, da un lato vi sono i politicanti della giornata spicciola,
ignoranti, grossolani e prosaici; dall’altra i letterati melensi ed inutili, giustamente
privi di qualsiasi autorità morale e civile, e tutti intenti a ricamare la piccola bugiola
della loro vita verseggiata, - che emigra talvolta dai volumetti di sciocchezzuole poeti-
che e va ad alimentare la retorica gialla di certi quotidiani.
Se la politica è dipinta, con parole che non esigono commenti o esemplificazioni per
il lettore odierno, come una «mediocre faccenda» simile alla pratica «degli affari di un
mercante», la letteratura appare come il frutto cattivo di una cultura che ha perso la
propria dimensione umanistica più profonda. Quei letterati, «melensi ed inutili», so-
no «giustamente privi di qualsiasi autorità morale e civile» e risultano forse meno
dannosi nei loro «volumetti di sciocchezzuole poetiche» che non negli articoli diffusi
tramite «certi quotidiani».
59 G. Papini, La guerra vittoriosa, ivi, II, 42, 19 ottobre 1911, p. 669.
60 Id., Nazionalismo, ivi, I, 19, 22 aprile 1909, p. 73.
61 Id., Un libro su l’Austria, ivi, II, 53, 15 dicembre 1910, p. 462.
62 Così scrive Salvemini a Prezzolini il 6 ottobre 1911.
63 La Voce, La politica de «La Voce», «La Voce», II, 48, 30 novembre 1911, p. 697.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 333
Se il direttore della «Voce» sembra riferirsi spesso, nei suoi interventi, a quelle
“lettere” che, manzonianamente, «vivon di sé e da sé e non veggono che ci sia qualco-
sa da fare per loro, dove non si tratti di giocare colla fantasia», egli non appare, però,
mai particolarmente interessato a rifondare la letteratura stessa su presupposti diversi
(quali quelli indicati, ad esempio, da Slataper); gli preme invece, con forza, additare
una nuova direzione per l’intellettuale nella società. Come suggerisce l’ironica imma-
gine fornita rievocando la nascita della «Voce» (in cammino tra la Consuma e la Ver-
na, con il pittore Ghiglia), la sua natura era quella del “camminatore”, ostile a certe
inventiones artistiche come ad una sosta o un ritardo sulla tabella di marcia: «Io ero
un esatto ed esigente camminatore; avevo la responsabilità di arrivare per la sera alla
Consuma, dove la mia Dolores mi aspettava e sarebbe stata in pensiero; sicché fui
senza pietà, e probabilmente interruppi un magnifico soggetto di invenzioni pittori-
che, che non sarà ritrovato mai più»64.
Questa necessità, condivisa, seppur in maniere diverse, da molti dei collaboratori,
si sposava in uno Slataper o in un Papini anche nell’esigenza di lavorare ad una nuova
letteratura, con un bisogno che mantenne sempre, tra loro e Prezzolini, una certa di-
stanza, e condusse al progetto di una pubblicazione letteraria parallela, «Lirica», che,
rivista mancata, rimane il segno di un contrasto profondo. Come nota Romanò, si fa
sentire fin dal principio «la sfiducia personale del Prezzolini nella letteratura in se
stessa, e nell’opportunità e utilità di una coltivazione e sperimentazione diretta dei
linguaggi letterari»65; il pericolo era, con parole di Ghidetti, «una regressione verso
quella formula “antologica” che aveva caratterizzato il giornalismo letterario tra Otto
e Novecento fino a costituire il precedente più significativo della Ronda»66. La diffi-
coltà di trovare i modelli di riferimento della «Voce», oltre che nell’ambito dei perio-
dici italiani, tra quelli francesi, è legata a questo rifiuto; così, come ha rilevato Franç-
ois Livi, la scelta cadrà piuttosto sui «Cahiers de la Quinzaine» di Péguy, che, «aperti
ai problemi sociali, politici e culturali della Francia dell’epoca, […] sono, se non la
negazione, il superamento della letteratura per la letteratura»67.
64 Prezzolini, L’italiano inutile, cit., p. 121. L’antefatto è costituito da una sosta del Ghiglia, dovuta in teo-
ria ad una elucubrazione artistica, in pratica, secondo Prezzolini, a stanchezza: «Il Ghiglia, da pittore qual
era, si mostrava ancor miglior scopritore di me, ma a un certo punto dovetti accorgermi che l’eloquenza
del mio amico non era del tutto disinteressata; e fu quando, in un’ora delle più canicolari, giunto sotto un
ombroso quercione, di quelli che tanto si fan desiderare quando si cammina sotto il sole, volle fermarmi
oer mostrarmi le bellezze d’uno sterco di vacca. […] Però lo interruppi quando capii ch’egli voleva schi-
vare un poco il solleone, anche a costo di ritardare il ritorno» (ibid.).
65 Romanò, Introduzione, cit., p. 49.
66 Ghidetti, «La Voce» bianca: vita breve di una rivista letteraria, in «La Voce» 1908-2008, cit., p. 525.
67 Livi, I Francesi nella «Voce», ivi, p. 537.
334 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
1.4 L’anno 1909
Interessato a combattere quel «particolare carattere della vita italiana» che consiste
nella «poca influenza esercitata dagli ambienti colti sullo svolgimento della politica
nazionale», Prezzolini contribuisce comunque a diffondere un nuovo tipo di scrittu-
ra, che si realizza appunto sulle colonne della «Voce» fin dagli esordi: un giornalismo
dai toni pratici, contro la retorica alla Corradini, ma spesso caratterizzato da una
commistione tra dati reali e poetici, sul modello di Péguy; qui davvero, come ha so-
stenuto Anna Nozzoli, vediamo in opera un “frammento” giornalistico di tipo nuovo,
con le sue regole, condivise dai vari collaboratori, che contribuiscono in varia misura
alla «codificazione della forma saggio»68. Una prova della diffusione di una tale scrit-
tura giornalistica nell’ambito della rivista è costituita, ad esempio, dal Salvemini di
Cocò all’Università di Napoli o la scuola della malavita69, un articolo ironico e feroce,
pubblicato peraltro in un momento assolutamente tragico, dopo «la catastrofe di
Messina» a cui l’autore dell’articolo poteva non essere sopravvissuto. La veste leggera
delle avventure di Cocò, che si lascia inghiottire nelle sabbie mobili del Meridione,
tende a sposare dati reali e letteratura; se è concesso utilizzare un’immagine di Cec-
chi, il personaggio entra «discretamente per una porticciuola che si schiude sul vicolo
della vita comune. Il vicolo della prosa quotidiana»70. Non è questo l’articolo più rap-
presentativo di una forma “saggio” elaborata nella «Voce», ma è indicativo per rileva-
re come questo tipo di scrittura coinvolgesse, fin dal principio, anche collaboratori
“non artisti”, come Salvemini.
Soprattutto gli interventi dei primi tre anni, si avvicinano molto alla forma “sag-
gio” delineata da Cecchi a partire da Montaigne: una commistione tra «appunti di
letture» e improvvise aperture su «visuali lontanissime di paesaggi d’anima»71, una
fusione tra idea e immagine, dove «la cucitura […] è fatta così addentro che non la si
scorge»72. A proposito di Montaigne si trattava, secondo Cecchi, di una prosa in cui,
ad un certo punto, si levava una «fulminea energia» quasi destinata a far parte di «e-
sempi creati addirittura apposta per il primo capitolo dello pseudo-Longino; dove si
tocca dello stacco e divario da persuasione ad estasi, ed appunto di “una sublimità che
68 Nozzoli, Forme e generi delle scritture vociane, cit., p. 505: «dopo avere accuratamente distinto Prezzoli-
ni e Salvemini da Boine, andrà detto che le prove degli uni e dell’altro trovano poi un punto di unificazio-
ne non estrinseco in quello che a me sembra sul terreno stilistico l’aspetto decisivo della Voce-rivista (an-
che letteraria): la codificazione della forma saggio».
69 In «La Voce», I, 3, 3 gennaio 1909, p. 9.
70 E. Cecchi, «Saggio» e «prosa d’arte», in Id., Corse al trotto e altre cose, Firenze, Sansoni, 1952, p. 334.
71 Ivi, p. 330.
72 Ivi, p. 331.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 335
si accende come il guizzo d’un lampo, e rivela d’un tratto nella sua pienezza la forza
dell’oratore”»73.
A queste forme di “saggio”, vanno affiancati gli interventi di altri protagonisti
dell’esperienza vociana, che rivelano un sotterraneo lavoro letterario, spesso masche-
rato proprio dall’adesione ad uno degli spazi offerti dal “saggio” vociano; così la “let-
tera dalla provincia” può diventare (ad esempio, con il Jahier dei Valdesi), “frammen-
to” non privo di “velleità letterarie”. Una carrellata sul primo anno della «Voce» potrà
fornire esempi e verifiche anche in tal senso.
Oltre al citato intervento di Slataper, occorre soffermarsi dunque su un articolo
di Papini, La campagna74, pubblicato nel 1909 in agosto, quasi a sfruttare un mese di
pausa e relativa calma in ambito socio-politico per introdursi diversamente nella rivi-
sta. Nel corso del 1909 Papini si era occupato sulla «Voce» di letteratura e, in senso
lato, di cultura, misurando apporti e rapporti con le culture straniere (a partire dal
primo numero, con L’Italia risponde, poi con Complimenti agli italiani), soppesando
il valore poetico e civile di un grande scomparso (Il carduccianismo)75, valutando il
problema dell’arte in stretta connessione con la realtà pratica del sostentamento e
dell’editoria (Il giovane scrittore italiano76, Lo Stato editore77), intervenendo sulle que-
stioni d’attualità (Nazionalismo78, E la scuola elementare?79), difendendo l’operato
della «Voce» (Noi troppo odiammo…80, Noi, gli ingiuriatori81) e condividendone gli
intenti (Il Risorgimento)82. In più, recensiva volumi appena usciti riflettendo sulle
73 Ibid.
74 G. Papini, La campagna, «La Voce», I, 34, 5 agosto 1909, p. 137.
75 Ivi, I, 14, 18 marzo 1909, p. 53. Scrive Papini su Carducci: «Il suo valore, cioè, appare a me più morale
che letterario, e mi piace di vederlo piuttosto in aspetto di involontario apostolo di virilità che in quello di
poeta fazioso e amoroso. Non è che io non riconosca nel Carducci un artista superiore a tutti i suoi con-
temporanei. Tre o quattro delle sue poesie, anche se aspre e poco leccate, son piene del respiro di una po-
esia più potente di quel che non si senta ansimare in tutti i volumi di D’Annunzio o di Pascoli; e certe
pagine della sua prosa, che spesso è accademica composta e ad effetto più del bisogno, sono dei capolavori
di semplicità espressiva e di forza appena rattenuta dall’ironia». Conclude ponendosi sulla linea del magi-
stero carducciano: «noi soltanto, forse, tentiamo di continuare per altre vie, lo spirito carducciano e cer-
chiamo di collaborare col morto al suo ideale più caro, alla resurrezione della cultura e dell’anima italia-
na».
76 Ivi, I, 10, 18 febbraio 1909, p. 37.
77 Ivi, I, 30, 8 luglio 1909, p. 122.
78 Ivi, I, 19, 22 aprile 1909, p. 73.
79 Ivi, I, 25, 3 giugno 1909, p. 101.
80 Ivi, I, 6, 21 gennaio 1909, p. 21; qui Papini difende i vociani dall’accusa di essere «malcontenti inconten-
tabili».
81 Ivi, I, 27, 17 giugno 1909, p. 109.
82 Ivi, I, 29, 1 luglio 1909, p. 117; si legge nell’articolo, che propone una valutazione problematica del Ri-
sorgimento italiano e della sua eredità: «Ma la più grave e dolorosa eredità del Risorgimento è ch’esso non
336 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
mode artistico-culturali (L’ignoranza degli specialisti, Inchieste sulla religione, Car-
ducciani traditori, Edgar Poe).
Papini aveva però anche trovato occasione per rivendicare, appellandosi a Baude-
laire, la solitudine del genio in contrasto con i mestieranti della penna.
E allora? moriremo di fame? E si muoia pure! Non sapete che il genio è, per sua na-
tura, una vittima offerta all’appetito dell’enorme bestialità, perché questa, ingoiando-
la, diventi, di secolo in secolo meno bestiale? La vita del grande dev’essere un martirio
– bisogna pagare la grandezza interna e la gloria eterna con la miseria esterna. Eppure
uno di voialtri, Baudelaire, vi disse quali maledizioni son pronunziate quando nasce
un poeta83.
La visione quasi cristologica dell’artista, appoggiata all’idea baudelairiana dell’arte
come maledizione (ripresa, in ambito italiano, da Emilio Praga e qualche altro), è
piuttosto vaga e ben poco “pratica”. Questo articolo rivela come, accanto al proposito
di considerare la cultura calata nella società e la letteratura nel suo valore sociale, Pa-
pini mantenga anche una visione di radicale scollamento tra lo scrittore e la realtà
contemporanea (la direttrice educativa è valida, ma per un futuro), che non è esente
da elementi in contrasto con la visione propugnata da Prezzolini sulla rivista. Nella
Promessa del dicembre 1908, il direttore aveva scommesso su «carattere», «sincerità»,
«apertezza», «serietà», non su «intelligenza» e «spirito», allontanando un culto del
genio diffuso tra i leonardiani.
Tale contrasto riemerge proprio con l’articolo di agosto, La campagna, il quale si
apre con la constatazione piuttosto pacifica che «qua dentro, nei giornali e nelle città,
si stianta, si soffoca, si affoga e si muore dal caldo»; d’altra parte, si capisce subito che
l’afa cittadina non è data solamente dai calori agostani. La fuga in campagna è propo-
sta infatti come risoluzione a «tutto questo armeggìo di macchine e di teorie, questo
bollore di cervelli e di chiacchiere», come pausa salutare alla furia di «riformare
l’Italia» che vizia l’aria delle redazioni: parole più antivociane non si potevano trova-
re. L’accusa stessa, che Papini immagina gli verrebbe rivolta da «qualche imbecille»
(«Séguita la tua sonatine, rancido scrittorello, ma finiscila presto»), ha qualcosa di
quell’avversione per una letteratura “inutile” che si respirava nella rivista.
è stato compiuto […]. L’unità d’Italia aveva nelle menti di Gioberti e di Mazzini la sua giustificazione in
una missione di civiltà e di cultura che il nostro paese doveva avere nel mondo. […] La parte più nobile
del programma nazionale fu messa in disparte e a noi tocca oggi riprendere l’opera lasciata in tronco».
83 G. Papini, Il genio alla fiera, ivi, I, 17, 8 aprile 1909, p. 65. Sull’argomento Papini tornerà con L’Anima
in poltrona, ivi, I, 39, 9 settembre 1909, p. 157.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 337
Sgombrato il campo dall’immaginario della campagna come villeggiatura da «ti-
tolati e non titolati borghesucci e borghesoni», Papini delinea la propria idea di cam-
pagna:
Quando io parlo di campagna intendo un’altra cosa; intendo il rituffamento, sia
pur di un momento, nella natura e nella poesia; un abbandono, sia pur soltanto idea-
le, delle abitudini e delle concezioni cittadinesche e cerebrali, dei libri e dei concetti, e
delle polemiche e delle discussioni, delle arie catoniane, censorie, puritane e rivolu-
zionarie, per tornare, come bambini, a stendersi in terra senza pensieri, a guardare il
grande cielo sereno con serenità, ad ascoltare con amore il rosignuolo che ripete la
sua frase amorosa e melodiosa, a voler bene al pulcino senza coda che becca e si prova
a cantare, alla lucertola che scodinzola sui sassi, al ciuco che gira gli occhi neri ed alla
lucertola che scodinzola sui sassi, al ciuco che gira gli occhi neri ed enormi e seguita il
suo paziente cammino, a tutte le cose più antiche, più semplici, più care e più ripo-
santi dei sistemi e delle frasi.
La campagna è «natura» e «poesia», tornare «come bambini» per godere di un uni-
verso incontaminato di animali e piante piuttosto banalmente delineato (qui il pulci-
no, la lucertola, il ciuco, più avanti pecore, boschi e torrenti). Il concetto, però, è di-
rompente: in opposizione alla città, alla «Voce» delle «polemiche» e delle «discussio-
ni», si rivendica una posizione già “irrazionalistica”, nel fastidio dei «concetti», scal-
zati da una sensibilità intuitiva e poetica: «Ma qui non si tratta di sapere: si tratta di
sentire, di intuire, di godere, di amare».
La conseguenza di questo ritorno alla campagna ricade prima di tutto sulla scrit-
tura: non si tratta di «rinnovare l’articolo d’attualità» (secondo la probabile accusa
dell’«imbecille»); la lezione della campagna, intesa come «contravveleno»
all’«artificio», al «linguaggio castrato e purgato» e anche alle «finzioni letterarie», por-
ta con sé una concezione del mondo più autentica e, di conseguenza, conduce forse a
un nuovo tipo di poesia, come afferma Papini con malcelata civetteria:
Mi pareva che in tutti ci fosse una gran pesantezza, una gran secchezza oppure quel
dolciume o tenerume infioccato e guarnito che oggi forma la materia prima di gran
parte della nostra letteratura. O non potrebbe darsi che baciando un parto umido o
facendosi arruffare i capelli da un fiato di vento o arrampicandosi a forza di lividi su
per una montagnaccia, rifacessero un po’ di sangue e di muscolo e tornassero più fre-
schi e meno effeminati all’usate faccende? Questo pensavo e penso anche ora. Però,
scrivendo queste cose, m’accorgo che anch’esse son poesia e che forse la mia idea del-
la campagna è un concetto fantastico e la mia speranza una pia e lirica aspirazione.
L’articolo stesso si propone, diversamente dai precedenti di Papini che rientravano,
semmai, in quell’innovativa scrittura giornalistica che si propagava dalla «Voce» nelle
338 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
forme del “saggio”, come una prosa lirica volta a esplorare le implicazioni di un topos
letterario, l’opposizione campagna-città, in modo nuovo.
La già citata risposta di Slataper, seppur in polemica con Papini nel rovesciare la
medaglia a favore della città come luogo della vita «pratica», con una difesa della mo-
rale vociana, dimostra con La campagna almeno due affinità. Da un lato emerge una
concezione simile di letteratura che, se proprio deve essere praticata, dovrà essere
un’«arte intima», dall’altro anche il triestino non manca di dare spazio ad una prosa
poetica; si legga questo accumulo serrato di immagini della modernità:
Essere moderni!: comprendere in sé le forme vitali proprie del nostro tempo: cioè –
non torcete il bocchino, coetanei cari – un tipo neutro di donna che si schifa al con-
tatto dell’uomo; un operaio che estrae dalla sua miseria esasperata un nuovo mito fe-
roce, un’idealità di violenza; un prete che la vita nostra ha percosso a sangue, lui infa-
gottato di stole e pianete e trapunte d’oro dal passato e dai secoli rosicchiate; una na-
zione, un’altra, un’altra che si levano al sole; corrusche di angoscia e di anelito due
popoli che tentan reciprocamente di buttarsi giù dal trono della terra a forza di
sprangate di ferro e palate di carbone; […] e anche noi, sì, noi, ritorno alla purità
dell’assoluto, alla brutalità campagnola per fuggire questa tragedia di case che
s’oscurano il sole a vicenda, e aspettarlo fra i roveri perché il nostro spirito scintilli
come quell’aratro lucido che sta per intaccare il novale84.
Il «ritorno alla purità dell’assoluto, alla brutalità campagnola» caratterizza la campa-
gna di Slataper, che appare, similmente a quella di Papini, come un mondo disabita-
to, una sorta di deserto adatto al ritiro dell’asceta in meditazione; essa è una prepara-
zione, però, all’esigenza di «sentire la vita di oggi».
È questa la prima volta che Slataper si espone direttamente su questioni letterarie.
Fino ad allora con le Lettere triestine aveva praticato il ruolo “vociano” del corrispon-
dente da varie parti d’Italia e non solo (Boine aveva scritto da Ginevra)85, che confe-
zionava articoli volti a presentare, tra dati sensibili e godibile veste letteraria, città e
regioni lontane, per metterle in comunicazione con il centro fiorentino che invocava
una nuova unità nazionale. Oltre ad alcune recensioni, sono suoi diversi ritratti, dove
già Slataper può mettere in pratica una scrittura ironica e moralista contro i “tipi”
contemporanei.
84 Slataper, Ai giovani intelligenti d’Italia, cit.
85 G. Boine, Lettere ginevrine. Ginevra e l’Italia, ivi, I, 10, 18 febbraio 1909, p. 39; è questo l’unico interven-
to di Boine sulla «Voce» nel primo anno della rivista. Riguardo alle corrispondenze dalle varie realtà re-
gionali d’Italia cfr. G. Prezzolini, Regioni e città d’Italia, ivi, I, 42, 30 settembre 1909, p. 173 e, per quanto
dichiara in seguito Prezzolini nella Cronaca de La Voce, cit., p. 80.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 339
Per quanto concerne Soffici, la sua sigla compare il 20 dicembre 1908 sotto una
recensione ai Racconti di Tournebroche di Anatole France; essa rivela un gusto lette-
rario che, in accordo con la linea della rivista, è contrario alla «rettorica» che non ha
«il sangue e l’ossa»86; nel gennaio, espone le sue riserve su Barbey d’Aurevilly critico
citando, per il lettore italiano, un impresentabile giudizio su Leopardi87; Consigli be-
nevoli88 testimoniano, con la scusa di Luisa Giaconi, della distanza dal «Marzocco».
Come Papini, e in linea con le riflessioni della rivista, Soffici si interroga sulle figure
di “letterato” che la contemporaneità offre, escludendo innanzi tutto modelli più che
obsoleti, come la Bohème dorata89: si fanno i conti la vie bohémienne, esplosa in Italia
con la Scapigliatura, oggetto di discussione fino alla fine dell’Ottocento, come hanno
dimostrato gli interventi di Ragusa Moleti e Pica, per aprire giustamente un’altra pa-
gina della vita intellettuale.
Il bohème è una specie di verme umano […]; fannullone e impotente, un cialtrone
che passa le sue giornate fantasticucchiando e fumendo e che s’ubriaca di parole.
Torpido d’intelletto non è ancora riuscito a rendersi conto che l’arte è vita e – igno-
randolo – resta ancora aggrappato ai vecchi pregiudizi scolastici delle vecchie acca-
demie pur dicendosi rivoluzionario. […] È un martire buffo dell’anacronismo90.
Contro il piglio falsamente e forzatamente rivoluzionario in arte, Soffici sembra
schierarsi, anche a proposito di Medardo Rosso91, apprezzando proprio il felice con-
nubio tra tradizione, ricerca intima e modernità: «è arrivato a risolvere naturalmente
uno dei più complicati problemi estetici, e cioè a ricollegarsi alla tradizione a forza di
sincerità».
Accanto al «solidificatore del vuoto» di Slataper, troviamo Il bel tenebroso92 di
Soffici, relativista in tutto e in preda alla noia, a cui si risponde, con un immagine a
sua volta ripresa da Slataper93: « - Impiccati! – o lavora, mercante di nuvole!». Si di-
86 A. Soffici, I racconti di Tournebroche, «La Voce», I, 1, 20 dicembre 1908, p. 3: «Quando in un libro si
cercano i belletti, le ciprie, i ricami e i fiorellini d’una rettorica rimessa a nuovo piuttosto che il sangue e
l’ossa, e il pensiero compressovi come l’aria in un esplosivo, le scritture simili a quelle di questo francese
piacciono».
87 Ivi, I, 3, 3 gennaio 1909, p. 11: «questo elegiaco artificiale [Leopardi], dalla disperazione moscia e opaca,
ripugnava al popolo italiano, innamorato di concetti e di parole tonanti…».
88 Ivi, I, 11, 25 febbraio 1909, p. 43.
89 Ivi, p. 44.
90 Ancor più degno di riprovazione è, per Soffici, il «bohème ricco», «un essere ambiguo, repellente, orri-
bile» (ibid.).
91 A. Soffici, Italiani all’Estero. Medardo Rosso, ivi, I, 12, 4 marzo 1909, p. 47.
92 Ivi, I, 14, 18 marzo 1909, p. 55.
93 Cfr. Ai giovani intelligenti d’Italia, cit.
340 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
rebbe che ci sia una piena condivisione, da parte di Soffici, della linea della rivista,
almeno sulla distruzione dei cattivi maestri della letteratura94, che continua con gli
agguerriti e celebri Caratteri della penultima pagina (Il giornalista re, La ricetta di Ri-
bi buffone, Il puro Poeta95; Il Quidlibetario96; Il soliloquio di don Abbondio97; Narsete
scrittore98). La forma del “carattere”, aspra ed ironica, ricorda, in ambito toscano, una
tradizione di poesia civile e satirica che ha il suo più insigne rappresentante ottocen-
tesco in Giusti. Anche questo è un tipo di articolo caratteristico della «Voce», volto al
disvelamento divertente e mordace dei falsi miti contemporanei, con riferimenti ge-
nerici o chiaramente personali. Rispetto a Boine e Jahier99, Papini, Slataper e Soffici
hanno già detto qualcosa, riguardo alla letteratura, nel primo anno di vita della rivista
fiorentina.
1.5 L’anno 1910
Indagando l’anno 1910, troviamo il celebre intervento di Jahier dal titolo I Valdesi
nelle valli100, dove la dimensione poetico-letteraria si mescola con l’analisi, in prospet-
tiva storica, della vita e delle prospettive di una minoranza italiana dimenticata, cre-
ando una prosa diversa, ad esempio, da quella del successivo I protestanti in Italia101.
“Vociano” per la “praticità” di una relazione che mira a far luce su un popolo cono-
sciuto dai fiorentini, magari, solo attraverso quei pastori che «vengono a fare gli stu-
di» alla Scuola di teologia, ma «hanno più il carattere di funzionari che di consiglieri»,
l’articolo parla attraverso uno stile poetico, nel presentimento di certe immagini di
Conversione al mondo e di Ragazzo102.
La prima parte, separata tipograficamente dal resto, non nasconde una compo-
nente autobiografica: l’autore parla in prima persona («Barba Barthélemy viene a
prendermi») per partecipare al ritrovo collettivo della domenica. Qui l’ingrediente
94 Soffici non dipinge però solo «caratteri» letterari; si pensi, ad esempio, al Sobillatore (6 maggio 1909),
all’Arrivato (28 ottobre 1909) e ad altri.
95 Ivi, I, 16, 1 aprile 1909, p. 63.
96 Ivi, I, 18, 15 aprile 1909, p. 71.
97 Ivi, I, 19, 22 aprile 1909, p. 75.
98 Ivi, I, 29, 1 luglio 1909, p. 119.
99 Per il 1909, la collaborazione Jahier è ridotta a Quel che rimane di Calvino (ivi, I, 35, 12 agosto 1909).
100 P. Jahier, I Valdesi nelle valli, ivi, II, 8, 3 febbraio 1910, pp. 255-56.
101 Id., I protestanti in Italia, ivi, II, 28, 23 giugno 1910, pp. 344-45.
102 Francesca Petrocchi, ricostruendo l’iter germinativo di Ragazzo, mette in luce come «l’inchiesta di Ja-
hier si offra ad essere considerata come una non sfocata premessa della storia dell’io di Conversione al
mondo», com’è «ben testimoniato dalla presenza di due personaggi chiave», il bambino e l’oncle Barthé-
lemy (F. Petrocchi, Conversione al mondo. Studi su Piero Jahier, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
1989, p. 18).
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 341
“informativo” è quasi assente, mentre ritratti, luci e colori intessono una prosa lirica,
che procede tramite frasi nominali, fermando in un’istantanea un quadro fuori dal
tempo:
Gli uomini alti, traversi, colla andatura lunga dei montanari che non flettono mai le
ginocchia, parchi di parole e di atti, ma arguti come il vinetto aspro delle loro colline
ventose. Le ragazze coi capelli tirati sotto la cuffietta nera da cui sfugge qualche ric-
ciolo e qualche ciuffo ribelle, il corpo stretto nelle vesti sguarnite e nude, colla vita su-
bito sotto il piccolo seno, uno scialletto vivace sopra, la gonna lunga e schioccante.
I ragazzi già vestiti da uomo, col corpetto attaccato alle trombe dei calzoni tutti
lunghi o stretti fino a mezza gamba e i grossi calzerotti di lana filata in casa103.
A paragrafi ampi si alternano capoversi di brevità fulminea: «Ascoltano, raccolti; ac-
cordano semplicemente le loro anime schiette al ritmo di quell’arpa infinita».
La seconda parte dell’articolo, con il passaggio ad un tono più impersonale («que-
sta gente»), contiene invece informazioni sulla terra e sul popolo valdese nel tempo,
dall’«Editto di emancipazione del Re Carlo Alberto», agli aiuti di Svizzera e Inghilter-
ra, all’emigrazione in Uruguay, senza abbandonare però il linguaggio poetico evoca-
tivo:
Un paese aspro e severo il loro: tre vallate strette, solcate profondamente da torren-
ti impetuosi che rodono i fianchi dei monti incombenti; una terra sorrisa al basso di
prati irrigui, di frutteti dai meli ricurvi sotto il carico dei frutti odorosi, vigilata da una
folta corona di castagni, ma più in alto magra, arida e pietrosa, con alcuni grami
campielli in pendio che si vestono appena dei fiori violacei della patata e nutrono
scarsamente il granetto saraceno dalle spighe avare; terra che chiede più che non ren-
da e concede solo quello che vuole; le alte erbe ondanti docili alla frullana corrusca e
la forza viva delle sue acque104.
Il gusto per il ritratto si realizza, ancora, nell’incontro con «la padrona di casa, rima-
sta zitella», emblema di «una vita mista di occupazioni agricole e di abitudini borghe-
si». Il profilo della comunità valdese qui tratteggiato si smarca volutamente dal capi-
tolo di De Amicis in Alle porte d’Italia, «brillante e superficiale»: attraverso personag-
gi e paesaggi Jahier intende andare più in profondità, rivelando anche i difetti di una
gente orfana, troppo tardi riconosciuta dall’Italia che se, vocianamente, è ancora da
103 Jahier, I Valdesi nelle valli, cit.
104 Ibid. Sarà superfluo notare che le costruzioni sintattiche e il lessico (si notino, ad esempio, la «terra
sorrisa al basso di prati», le erbe «ondanti docili alla frullana corrusca») innalzano la resa minuta
dell’ambiente al di là di una prosa semplicemente realistico-descrittiva.
342 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
farsi, dovrà pensare ad un modo per sostenere «il piccolo popolo valdese», che rischia
di disperdersi in forzate emigrazioni e di perdere le proprie radici.
Del resto, proprio in ambito vociano potevano suscitare simpatia quei contadini
«incapaci di industrializzare quella poca produzione che hanno e lanciarla sul merca-
to delle menzogne commerciali». A Jahier preme denunciare le mancanze dimostrate
da questa amata comunità («I Valdesi non si sono rinnovati») e dalla sua classe diri-
gente, colpevole di non aver compreso che «l’avvenire dei Valdesi […] era lì nelle val-
li». Sulle pagine della «Voce», Jahier ha voluto dare testimonianza di un’esperienza
dal forte carattere morale, non nascondendo la propria partecipazione, raccontando
una spiritualità intesa come viaggio interiore attraverso immagini a forte connotazio-
ne letteraria: «Le pareti sono un po’ anguste, lo so; e le finestre piccole e scardinate;
ma, se le tocchi appena, un cielo senza fine entrerà in te con tutte le sue ombre, con
tutte le sue luci»105. La forma “saggio” ha già ospitato ampi lacerti (soprattutto,
l’intera prima parte) indirizzati ad un tipo di prosa lirica che mette in gioco gli ele-
menti del cosiddetto “frammentismo” vociano, dall’autobiografia alla tensione della
prosa in direzione della poesia.
Un articolo del marzo 1910, seppur dedicato specificamente al ritratto del «ribel-
le» Augusto Forel106, e dunque privo di quel substrato memoriale che aveva informato
l’articolo sui valdesi, fornisce ancora la prova di una tendenza a piegare l’impegno
documentario ad elementi letterari, nonché a rivelare il primo nucleo di problemati-
che proprie dell’autore. La grandezza del personaggio si palesa, come nel ritratto
dell’oncle, fin dalla salda apparenza nella figura: «Di ribelle egli ha anche la figura: la
persona eretta ed aitante, il petto ampio, le spalle robuste, l’occhio vigile e scrutato-
re»107. «Le mani pulite e il cuore saldo»: la prima operazione intellettuale che va rico-
nosciuta al Forel, e che tanto conterà anche per il Jahier di Ragazzo, è l’abbandono
della propria educazione pregressa, in un superamento continuo di se stessi:
semplificarsi scrollando dietro le spalle forti il carico di quello che si è ricevuto e cre-
duto, cercare un nuovo affiatamento colle cose e colle creature, una comunione più
intima col reale e poi spezzare coll’azione creatrice la prigione costruita dalle nostre
mani108.
105 Ibid.
106 Id., Augusto Forel, ivi, II, 12, 3 marzo 1910, pp. 276-77. Di Augusto Forel furono tradotti tra il 1909 e il
1910 Etica sessuale (F.lli Bocca, Torino 1909) e L' Unione libera (Libero amore) dal punto di vista della
morale sociale e del diritto (Coscienza Nuova, Milano 1910).
107 Jahier, Augusto Forel, cit., p. 276.
108 Ibid.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 343
Il ritratto indugia anche sull’aneddoto, che non è fine a se stesso ma intende di-
mostrare, per dare «un’idea chiara della fisionomia morale di Forel», la vita anticon-
venzionale, mai per esibizione, che lo studioso si trova a condurre:
Convenienze, riguardi, abitudini non esistono allora per lui. Un amico ricorda di a-
verlo veduto, studente, scendere dal treno tornando per le vacanze in abito da fatica,
calzato di pesanti scarponi chiodati, ma colla tuba in testa (se ne scusava dicendo che
era ridicolo pretendere di metterla nella valigia); sotto il braccio un enorme fagotto
rinvoltato in una veste da camera e legato collo spago109.
L’amore per la vita “pratica”, magari in mezzo alla popolazione della terra vinicola
svizzera, colpita dalla piaga dell’alcoolismo, si concretizza in una lapidaria notazione
di Jahier, già carica di presagi: «Studiare non basta, scrivere non basta, vivere biso-
gna»110. Ancora, il letterato, nella veste di «facile umanista», viene citato a modello
negativo:
Mi par di vedere il risolino, a fior di labbra, del facile umanista […] e udirlo centelli-
nare la sua rotonda eloquenza sul valore morale della passione e dei dissidi interni
[…]. Oh! la lumaca che sorte dal buco e si azzarda a far capolino dal guscio, per sba-
vare la sua argentea contemplazione sull’albero schiantato dal fulmine! Ci vuol al-
tro111.
Occorre piuttosto, afferma Jahier su pretesto di Forel, «ritrovare la freschezza di una
coscienza sotto i molti strati di vernice individuale e sociale».
Nel corso del 1910, incontriamo un intervento di Slataper112, in apertura del pri-
mo numero di marzo, che ha qualcosa di simile alla fuga in campagna di Papini. An-
che questa prosa è condotta all’insegna di una doppia evasione, che combina la fuga
materiale dalla città e dalla redazione («qui tu non respiri») all’abbandono momenta-
neo della scrittura giornalistica («LO SVILUPPO DI UN’ANIMA A TRIESTE. Comincio a
scrivere; lacero; di nuovo; e altro strappo»), a vantaggio di qualcosa di diverso: Sul
Secchieta c’è la neve113. I caratteri principali del “frammento” vociano vi sono già e-
109 Ivi, p. 277.
110 Ibid.
111 Ibid.
112 Tra l’altro, Slataper dichiara la propria simpatia per Jahier in una lettera a Prezzolini del marzo 1910, la
stessa in cui esprime apprezzamento per Primavera di Soffici: «Domenica sono stato a pranzo da Jahier:
caro e forte ragazzo con cui ce l’intendiamo bene» (Slataper a Prezzolini, Firenze, senza data [ma fa segui-
to alla precedente del 10 marzo 1910], in S. Slataper, Epistolario, a c. di G. Stuparich, Mondadori, Milano
1950, p. 195).
113 In «La Voce», II, 12, 3 marzo 1910, p. 275.
344 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
semplificati: si tratta di un’esperienza personale che non ha valore di testimonianza
“pratica”, come hanno ad esempio le Lettere triestine, quanto, piuttosto, di documen-
to intimo, autobiografico, riflessivo, che richiama l’universo simbolico dell’ascesa al
monte e dell’immersione nella natura; ingredienti di forte letterarietà condizionano il
dettato e il loro utilizzo non è volto a rendere lo schizzo di un “carattere” più avvin-
cente o un quadro triestino più vivo. Si percepisce un’attenzione al ritmo (con figure
della ripetizione) e un gusto dell’immagine che denotano la messa in campo di pro-
cedimenti studiati in un “laboratorio d’artista”, con quel «turbinio di poesia, intimo,
che traluce nelle sue continue immagini»114, come scrisse Prezzolini.
E lassù – non sai dove, perché forse tu non cammini verso la cima reale, delle carte
geografiche – e il tuo lassù è greve di nebbia, forse; onde tu raggiuntolo, non vedrai
più niente: non gli Appennini indorarsi come giovane carne sotto il sole, né la neve
immensa che accende i colori, né lontano, in basso, Firenze. Ma tu, amico mio, ti sei
levato da tavolino per salire sul Secchieta; e s’anche tutte le opinioni della strada, che
ti si son infiltrate nell’orecchio, dalla finestra, col frastuono dei barrocci scampanel-
lanti e le canzoni sporche di vino non digerito, s’anche tutta la vita degli altri è pre-
sente in te anche ora e tenta, come una ventata polverosa, di storcerti il collo verso
quello che hai già superato, a rimirarlo, e accosciarti, tra l’alto e il basso, sulle tue
gambe stanche – niente, non importa: tu vai in su: questo solo è vero; tu devi: questo
solo è bello115.
Questa prosa, per la sua letterarietà, si discosta dalla linea del direttore; in più, in
quell’oscillazione tra campagna e città, natura e civiltà, già espressa in occasione
dell’articolo di Papini, siamo di fronte ad un movimento opposto a quello di Ai gio-
vani intelligenti d’Italia. Qui ci si allontana dal frastuono e dalle «canzoni sporche di
vino» (forse allusione ad un facile maledettismo), per un’esperienza di solitudine che
ha i tratti di una strenua educazione morale: «pianta dritte le pedate»; «tutto è pura
sensazione di ostacolo che bisogna vincere»; «non devo esser che io, in vetta»; «tutte
le cose indispensabili tentan d’impedirti ciò che devi; agguanta coi denti la lingua che
vorrebbe imprecare, e cammina».
La ripetizione della domanda «Stanco?» suggerisce che la fuga sia legata alla stan-
chezza psicologica dell’attività in rivista; per ritrovare la verità dello «spirito» («Che
ha da che fare con la vita dello spirito cotesta improvvisa scampagnata?») occorre for-
se ritirarsi, da soli, a contatto con la natura, con la propria umanità primigenia:
«Scendo dal treno: e sono un animale irrazionale. Scampagnata, gita, fuga, pazzia,
sciocchezza; non so: so che vado sul Secchieta dove c’è la neve». Può darsi anche che,
114 G. Prezzolini, Amici, Vallecchi, Firenze 1922, p. 139.
115 Slataper, Sul Secchieta c’è la neve, cit.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 345
su questa vetta da raggiungere, s’incontri, alla fine, l’umiltà, se è vero che, impuntan-
dosi di superare un dirupo nevoso senza deviazioni, si “ruzzola” sotto la madonnina.
Resta il fatto che questo scritto “vociano”, punta dell’iceberg letterario sommerso, te-
stimonia il lavoro di Slataper su una scrittura che va acquisendo temi e caratteri pro-
pri, parallela e convivente, come egli aveva già auspicato in Ai giovani intelligenti
d’Italia, con l’attività “pratica”, di cui dà prova anche nel medesimo numero116. Al
contrario, chiedendosi Che fare, Prezzolini avrebbe ribadito, di lì a poco, la scelta dei
«solitari» come opzione rinunciataria: «starsene solitari: ma allora è una purezza ac-
quistata troppo facilmente»117.
Per quanto riguarda Slataper critico, sarà da segnalare l’articolo breve e mordace
indirizzato ai futuristi, che sottolinea l’eterogeneità di un gruppo sconnesso, uniti da
«un lusso di letterati»118. Slataper non vi trova «una visione intima» né
un’interpretazione nuova della «realtà presente» (si ricordi che lui stesso auspicava:
«Essere moderni!»), ridotta piuttosto alla «sua apparenza esteriore»119. Pur concorde
con un «presupposto critico diffuso», secondo cui in Italia mancano «le opere libera-
trici, che spalancano l’anima intarmolita e ingrommata», il triestino condanna «il
movimento di Marinetti» perché non vi trova quella «visione intima» che tanto gli
preme: «Ma i futuristi di Marinetti non si rendono affatto conto del dramma interio-
re; anzi per non sentirlo, urlano». Con atteggiamento simile si pone Soffici, al mo-
mento di prendere le distanze dal gruppo marinettiano: «A me pare, in sostanza, che
la loro smania di novità e di modernità sia piuttosto un atteggiamento esteriore che
un bisogno profondo del loro spirito ansioso d’incarnarsi in creazioni originali»120.
Nelle critiche si legge, al contrario, l’emergere dell’esigenza di portare alla luce il
«dramma interiore» in letteratura.
116 Nello stesso numero Slataper firma Il giornalista da Gemito e Bianca Segantini. È da ricordare che
sempre nel numero 12, Cecchi indicava ai “vociani”, en passant, ragionando di “Forse che sì forse che no”
di d’Annunzio, che occorreva rileggere Leopardi, anche alla luce degli Scritti vari inediti editi nel 1906,
perché si sarebbe potuto scoprire «un Leopardi nuovo, un Leopardi che tende la mano alla lirica più natu-
ralisticamente moderna che poeta abbia mai immaginato» (E. Cecchi, “Forse che sì forse che no”, «La Vo-
ce», II, 12, 3 marzo 1910, p. 275).
117 G. Prezzolini, Che fare, ivi, II, 28, 23 giugno 1910, pp. 343-44.
118 S. S.[lataper], Il futurismo, ivi, II, 16, 31 marzo 1910, p. 295: «Ma in realtà solo la comune copertina sa
metter assieme un tisichino spirituale, come per esempio il Palazzeschi, con il Buzzi, per esempio, giovane
dai polmoni tanto sani che si sforza a tutti i costi di guastarseli tirando fiatate più larghe del petto».
119 «Il loro mondo storico è in fondo estetismo tumefatto a bubbone con poco opportune, frequentissime,
iniezioni di formule francesi che in Francia son coronamenti teorici di edifici già da lungo esistenti. Ri-
dotta a sincerità, ad arte, la loro arte sarebbe intrisa d’un sentimento nostalgico a terre lontane, dove son
possibili le avventure di terra e di mare: un romanticismo decadente. L'amore da loro professato per la
realtà moderna non è che un tentar di soffocare cotesto contenuto che sentono sorpassato buttandogli
addosso automobili, aeroplani, torpediniere» (Ibid.).
120 A. Soffici, Risposta ai futuristi, ivi, II, 23, 19 maggio 1910, p. 324.
346 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Nel corso del 1910, Slataper si occupa poi, in particolare, di Friedrich Hebbel, in-
teso come «il presupposto critico e drammatico di Nietzsche, e il punto dove
s’annoda il romanticismo, filtrato traverso Goethe, con lo spirito d’oggi»121. Il percor-
so artistico di Hebbel (1813-1863) è descritto nei termini di una tormentata ricerca,
per una vita non dissimile da quella abbozzata in Sul Secchieta, come ascesa faticosa e
solitaria:
La natura di Hebbel è dura, tormentata, inquietante. È uno di quegli uomini che
sforzano la vita a inasprirsi e acuminarsi di continui ostacoli, perché ogni loro paso in
avanti debba essere una conquista contro sé e contro tutto il mondo122.
Non c’è dubbio che Slataper ritrovi, con fervore giovanile, alcuni dei propri nodi irri-
solti in questo profeta del “pantragismo”; si pensi, ad esempio, ai molteplici conflitti,
tra istinto e morale (già emerso nel contrasto città/campagna), tra il sé e l’altro, tra
forma e contenuto:
In «Golo» (nella tragedia Genoveffa) è confessata questa disperazione tragica nelle sue
forze morali, che spinta fino all’ultimo diventa affermazione e quasi autorizzazione al
comportamento istintivo123. […]
Per lui il concetto di «facoltà» è uguale a quello di «forza», e forza significa capacità di
lotta. La vita è un saccheggio dell’uomo interno. L’amore è u conquistarsi in altrui. La
soddisfazione dà disgusto: la voluttà è solo nella tensione e nello sforzo. C’è perfino
conflitto tra forma e contenuto: e il bello non ne è la pace, ma l’armistizio. […] La
forza umana esiste solo per combattere non per vincere. Ma no; probabilmente c’è
una vittoria: lo sviluppo dell’individuo124.
La durezza (definita “calvinistica”) del mondo tragico di Hebbel richiama a Slataper
l’immagine del Carso, con il suo «impietramento» raramente interrotto da subitanee
dolcezze:
Il suo è un mondo di durezza calvinistica. […] E quando un soffio di dolce amore ali-
ta su cotesto impietramento, scoppia al sole una parola semplice e meravigliosa come
una genziana dal Carso: […]125.
121 S. Slataper, Friedrich Hebbel, ivi, II, 44, 13 ottobre 1910, pp. 411-12. Su Hebbel, Slataper ritorna a pro-
posito di Giuditta (Id., «Giuditta» di F. Hebbel, ivi, II, 50, 24 novembre 1910, p. 442).
122 Id., Friedrich Hebbel, cit., p. 411.
123 Ibid.
124 Ivi, pp. 411-12.
125 Ivi, p. 412.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 347
È qui che si affaccia, per la prima volta, l’immagine del Carso come correlativo poeti-
co ed esistenziale.
Sempre nel marzo 1910, compare uno scritto di Soffici che rientra, anch’esso, nel-
la definizione di “vociano” data da Prezzolini nel 1974, Primavera126. Afa d’agosto,
neve ed ora primavera: sembra che gli spiragli per una “prosa d’arte” si aprano sulla
«Voce» in corrispondenza di “variazioni climatiche”, che determinano l’uscita dalle
redazioni per riflessioni en plein air. L’articolo piacque, chiaramente, a Slataper: «Bel-
lo bello l’articolo di Soffici! M’ho preso ossigeno per tutta la corsa oltre il deserto ca-
labrese»127. Per sapere di cosa si tratti, si può interrogare lo stesso Soffici, che scrive
rispondendo alle lodi di Prezzolini: «la mia intenzione sarebbe di scriverne una ogni
anno a mo’ di bilancio lirico-spirituale»128. Questo carattere “lirico-spirituale”, ben
rappresentato dal moto di fuga e d’ascesa che dà inizio alla prosa («Via su per i pog-
gi»), apparenta l’articolo a quello di Slataper; si tratta di un momento di felicità, nella
solitudine, di «Menalio, il disgraziato dalle tre tragedie – filosofica, sentimentale e fi-
nanziaria».
Il paesaggio che si offre alla vista del sole non ha la densità rappresentativa delle
montagne e delle valli di Jahier, degna sede del popolo valdese129, ma nemmeno la in-
sistita carica simbolica del Secchieta di Slataper, che accompagna l’io nell’ascesa; la
mano di Soffici sembra piuttosto farsi guidare dalle impressioni che gli offre la pri-
mavera:
Ho visto la margherita bianca sullo stelo tremante, il giallo pisciacane fra il paleo sec-
co, e per tutto, fra le zolle, fra’ sassi e fra’ pruni, questo odoroso fiore paonazzo dal
nome sconosciuto. Ho visto anche qualche violammammola metter fuori, zitta zitta,
126 A. Soffici, Primavera, ivi, II, 14, 17 marzo 1910, p. 285. Tra gli altri scritti comparsi nel 1910 a firma di
Soffici andranno citati Gioventù (compresa nei Caratteri, ivi, II, 6, 20 gennaio 1910, p. 248), dove si trat-
teggia il «lercio ragazzotto che facea scandali letterari»; Lettera a un giovane pittore (ivi, II, 7, 27 gennaio
1910, pp. 251-52), dove si esprime una necessità di rinnovamento per l’arte valida anche per la letteratura
(«Son cose che accadono ai pittori come ai poeti. Guarda Carducci, D’Annunzio e Pascoli quando non
sono grandi e fanno […] il greco, il latino o il medioevale!»); Scritti e lettere di Giovanni Segantini, (ivi, II,
11, 24 febbraio 1910, pp. 271-72), dove si auspica, tra l’altro, la pubblicazione di epistolari e scritti teorici
di artisti come impegno “pratico” nella critica d’arte.
127 Slataper a Prezzolini, Firenze, senza data [ma fa seguito alla precedente del 10 marzo 1910], cit..
All’articolo di Soffici seguiva l’articolo di Guglielmo Zagari intitolato La Calabria, accompagnato da una
nota, siglata «S. S.», che esprimeva disaccordo su alcune questioni.
128 Soffici a Prezzolini, lett. in., 23 maggio 1910, in Prezzolini, La Voce 1908-1913, cit., p. 323.
129 Anche lo sguardo sui lavoratori dei campi è per Soffici intriso di «tenerezza fraterna», ma non c’è
l’attenzione al lavoro come emblema di una condizione socio-economica che si trovava, invece, nei valde-
si di Jahier: «Io guardo il nonno, il nipote e i cinque uomini affaticarsi in un lavoro magnifico e sento il
mio cuore struggersi di tenerezza fraterna» (Soffici, Primavera, cit.).
348 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
la testolina terrosa, e la foglia del narciso selvatico è tutta filante di vischio se tu la
strappi.
A confronto con la serietà con cui sono trattati animali, persone e cose della campa-
gna, la «tragedia filosofica» e quella «sentimentale» dell’uomo sono attaccate invece
dal pungolo dell’ironia:
Ma, obbiettavo io, se l’essere e il non essere si risolvono nel divenire, che cos’è que-
sta individualità di cui mi si parla? Un’individualità che diviene e che quindi non è, o
non è di già più quando si afferma!
Ero arrivato a negare me stesso quando andai a letto.
Ora mi ritrovo.
Ora il capanno è vuoto; ma ci sono ancora le quattro pietre dove i giovanotti si se-
dettero per l’ultima partita, e su l’una d’esse qualcuno (un ladro? un fanciullo?) ha
fatto qualcosa che non sa d’ambra. […] Dio mio! perché far lo schizzinoso? uno di
questi giorni puzzeremo anche noi: anche tu, Arianna, che amo e che mi fai tanto a-
spettare e soffrire!..
Alle domande sull’“essere” e sull’amore, la natura e la vita sono le più serie rispo-
ste; la conclusione più degna della riflessione è, per Soffici, un riconoscimento della
crisi di ogni certezza per affrontare la «tragedia» dell’uomo contemporaneo, in un so-
litario squilibrio che non tende tanto all’umiltà, quanto a forme nietzscheane di soli-
taria grandezza o pazzia:
Gli altri uomini hanno sempre avuto bisogno, per vivere ed essere grandi, di appog-
giarsi a qualche cosa che fosse ferma e stabile. Gli uni si sono appoggiati a Dio, gli al-
tri alla Ragione che è un’altra sorta di Dio, altri infine al dovere sociale. Io do un cal-
cio a tutte le basi, butto via tutti i puntelli e resto solo, in bilico sur un filo di ragno,
sopra un abisso buio. È la nuova grandezza? è la pazzia che viene? – È la novissima
tragedia.
È interessante notare come, ancora una volta, il carattere letterario dell’articolo si ac-
compagni all’espressione di convinzioni piuttosto eversive rispetto alla linea domi-
nante della rivista, secondo la quale il «dovere sociale» fa parte dei compiti del nuovo
intellettuale in formazione. Inoltre, il rapporto tra l’io e il mondo si risolve, nel rifiuto
di ogni “sistema”, in un individualismo marcato:
Come l’essere e il non essere si risolvono nel divenire, tutte queste cose lontane, dis-
simili e opposte si risolvono in me in un’ebbra melodia, in un flusso rapace di gioia,
che monta e scende, s’allarga e si restringe; tocca il cielo ed è tutto e io non son più;
mi ripiomba nel cuore e non c’è nulla al di fuori di me.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 349
Tra le segnalazioni letterarie d Soffici, spicca la Nota per un libro di versi, dedicata
a Ceccardo Roccatagliata-Ceccardi, per la pubblicazione di Sonetti e poemi (1898-
1909): pur con le dovute riserve, Soffici esprime, provocatoriamente, la propria «sim-
patia per questo bohème delle lettere»:
In Italia dove si mettono ai sette cieli i peggiori rettoricumi mitologici del
D’Annunzio, i Poemi conviviali e le Canzoni di re Enzio e del Carroccio del Pascoli
[…] non deve, se si vuol essere onesti, restare ignoto chi come Ceccardo Roccataglia-
ta-Ceccardi ha, come ho detto in principio, oltre agli altri molti meriti, quello raris-
simo fra noi, d’esser sincero130.
Ceccardo stesso si dipingeva, scrivendo a Prezzolini nel 1912, come «un povero uomo
triste malato disperato»131; questa sincera bohème, condotta quasi fino
all’autodistruzione, non dissimile dalla commistione tra arte e vita consumata nella
Milano della Scapigliatura, poteva suscitare ammirazione proprio nell’ambito della
rivista che aveva condannato le pose dei letterati di professione. Citando alcune poe-
sie a sostegno della propria tesi, Soffici sceglie i primi versi della lunga poesia Il vian-
dante, dedicati all’esplorazione primaverile della campagna, al tempo monotono del
ripetersi delle stagioni, disegnato attraverso il recupero di immagini leopardiane e pa-
scoliane, «luoghi comuni […] nutriti di nuova realtà e rinsanguati»: «O Primavera, gli
alberi dell’orto / pendevano origliando a la finestra, / ne l’umida quïete de la sera /
lusingatrice di melanconia»132. Questa «sincerità», dunque, ha una qualche parentela
con la vena impressionistica e campagnola del toscano Ardengo, coniugata ad un re-
cupero dei topoi della tradizione italiana, pretesto per nuove riflessioni esistenziali133.
Spostandosi ad altro ambito, la sincerità di sentimento nel porsi di fronte alla re-
altà sembra essere per Soffici il punto di leva per presentare al pubblico l’arte di
Henry Rousseau:
130 Id., Nota per un libro di versi [Rec. a Ceccardo Roccatagliata-Ceccardi, Sonetti e poemi (1898-1909),
Società ligure-apuana, 1910], «La Voce», II, 31, 14 luglio 1910, p. 359.
131 Cartolina postale illustrata, datata La Spezia Li 12 dic. 1912, citata in C. Roccatagliata Ceccardi, Tutte le
poesie (1891-1919), a c. di F. Corvi, De Ferrari, Genova 2005, p. 9. Dalla recensione di Soffici non si può
evincere una sua conoscenza della prima raccolta di Ceccardo, il Libro dei Frammenti, che pur conteneva,
tra l’altro, riprese e traduzioni da Rimbaud e Verlaine (secondo Francesca Corvi, Soffici «sembrava non
conoscere» quella prima raccolta; cfr. ivi, p. 14).
132 Soffici, Nota per un libro di versi, cit. Il viandante si può leggere, con le altre poesie di Ceccardo, in
Roccatagliata Ceccardi, Tutte le poesie (1891-1919), cit., pp. 185-204.
133 Così avviene anche per la figura stessa del viandante, per le soste ai «cimiteri in sui remoti varchi
d’Appennino», per la fratellanza del poeta con i «piccoli re di macchia», i «reatini».
350 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Ed è giustappunto questa potenza di sentimento, malgrado tutto, (cosciente o casu-
ale, che importa?) che conta per me. Io trovo in tali opere l’espressione nuda e cruda
di un’anima disadorna ma sincera, priva di armonia ma penetrata di realtà e – come
ho detto – le adoro134.
A giugno, in concomitanza con la questione sessuale (si veda l’articolo di Prezzo-
lini che apre questo numero), compare come collaboratore Carlo Dossi, con la Ricetta
per farsi illustri135, estrapolata dai Ritratti umani (Campionario), pubblicati, insieme a
Perelli, nel 1885 a Milano presso i fratelli Dumolard, per interessamento di Camero-
ni136. Nel 1965, Angelini scriverà a Prezzolini di aver notato e apprezzato la segnala-
zione delle Note azzurre sul «Borghese», ricordandogli quella collaborazione dossiana
alla «Voce»137. L’ammirazione di Prezzolini verso Dossi era ancora salda:
Caro Angelini,
grazie per il testo della commemorazione del Dossi, per il quale noi della Voce fum-
mo legati da viva simpatia, ma non soltanto per il suo stile, bensì per le sue idee origi-
nali, per il suo carattere indipendente, per la sua ricerca personale e impopolare138.
Originalità nello stile e, soprattutto, nelle idee, indipendenza di giudizio e impo-
polarità: questi i pregi di Dossi in ambiente “vociano”, a detta di Prezzolini, meriti
che possiamo verificare direttamente con una lettura della Ricetta. La comparsa di
questo scritto dossiano sulla «Voce» del 1910, non meglio chiarita dai ricordi prezzo-
liniani, è piuttosto importante, a cominciare dall’anomalia che essa rappresenta: su
questa rivista “non letteraria” non si pubblicano, praticamente mai, lacerti di opere
letterarie appena uscite, magari di importanza e rilevanza “mediatica” ben maggiore
134 A. Soffici, Henry Rousseau, «La Voce», II, 40, 15 settembre 1910, p. 395.
135 C. Dossi, Ricetta per farsi illustri (dai Ritratti umani), ivi, II, 26, 9 giugno 1910, p. 337.
136 Cfr. D. Isella, Note ai testi, in Dossi, Opere, cit., p. 1507-1511. Il titolo nel Campionario è Ricetta per
farsi illustre; la pièce era apparsa sulla «Riforma» del 23 agosto 1884.
137 Angelini a Prezzolini, 1 aprile 1965, in G. Prezzolini, C. Angelini, Carteggio 1919-1976, a c. di M. Mar-
chione e G. Mussini, prefazione di G. Prezzolini, in appendice scritti su R. Serra di Angelini e Prezzolini,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1983, p. 106. Prezzolini risponde in modo piuttosto vago: «Caro
Angelini, tu conosci la Voce meglio di me! M’ero proprio dimenticato che avevamo pubblicato un brano
del Dossi dalla sua ristampa del 1910! E chi lo sa? Probabilmente col suo consenso. O per mezzo del Lina-
ti? Chi lo sa? Non trovo traccia di lettere sue nel mio “archivio” – la sola cosa che sia riuscito a salvare da
tante peregrinazioni» (Prezzolini a Angelini, 8 aprile 1965, ivi, pp. 106-07).
138 Prezzolini a Angelini, [Lugano], 6 aprile 1970, ivi, pp. 199-200. Angelini aveva parlato di Dossi
all’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere nel 1970 e aveva perciò ricontattato Prezzolini (Angelini a Prez-
zolini, 19 gennaio 1970, ivi, p. 188). Come ricordano in nota i curatori del carteggio, un capitolo dossiano
è presente anche nelle Cronachette di letteratura contemporanea dell’Angelini (Boni, Bologna 1971, pp.
211-29).
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 351
(ad esse si riservano, invece, le letture mordaci di un Cecchi). Dossi è inoltre uno dei
pochi autori di prosa essenzialmente ottocenteschi a cui sia dedicata attenzione,
complice la nuova edizione delle opere139; una nota spiega: «Dai Ritratti umani di Al-
berto Pisani (Carlo Dossi) riproduciamo questa pagina, in segno di stima e di ammi-
razione»140.
Le ragioni sono rintracciabili nel testo, che assomiglia, sotto molti aspetti, ai «Ca-
ratteri» sui quali si andavano esercitando i vociani, che, coniugando satira sociale,
moralismo e vena artistica, confezionavano prodotti a volte degni di una spiritosa
“prosa d’arte”. La Ricetta per farsi illustri si coniuga poi perfettamente con le rifles-
sioni vociane sull’artista nella società, e sulla necessità di estirpare quella categoria di
pseudo-intellettuali disposti a scrivere di tutto, su libri e riviste, pur di acquisire un
po’ di notorietà e agiatezza. «Persecuzione, fame, ospedale, ecco il terno de’ condan-
nati alla gloria. Colla riputazione, invece, la tua vanità avrà scappellate, la tua gola tar-
tufi, il tuo sedere càttedre», scrive Dossi; Papini si era preoccupato più volte, in ter-
mini simili, della questione, con i citati Il genio alla fiera, L’Anima in poltrona. Anche
la condanna verso il gusto della polemica sterile, tanto più su questioni letterarie, ap-
parenta questo scritto dossiano alla linea della «Voce»; a chi va in cerca di riputazione
Dossi consiglia, ad esempio, di coltivare discussioni futili e «qualche pettegolezzo po-
lìtico»:
Se qualche sconclusionata polèmica, qualche isterismo di letteratura balocca l’ozio del
pùblico, come avvenne jer l’altro, quando in lingua italiana si disputava se Italia pos-
sedesse una lingua, o come avviene oggi tra questi gatti idealisti miagolanti dai i tetti
ad una luna dipinta e bòtoli realisti che fiùtano estasiati, quali rose, lo sterco, - e tu
compila il tuo opùscolo, toscasineggia, caccia fuori il tuo «grido»: dieci cattivi sonetti
ti daranno buon nome141.
Il ritratto è completo di consigli su come vestire e portarsi in pubblico, ricordan-
do il bohème di Soffici:
139 Si ricordi, ad esempio, la nota Agli editori pubblicata sulla «Voce» il 24 marzo 1910 (II, 15, p. 292): «A-
gli editori preghiamo ancora una volta di non mandarci quei soliti romanzi e libri di versi di cui – ormai
devono comprendere – noi non ci occuperemo mai mai mai, finché mondo sarà mondo e noi saremo noi.
[…] Ci mandino gli editori poco, pochissimo ma buono […]. Di cose buone, anche se non recenti, noi
siamo pronti a parlare molto volentieri».
140 Vi si legge anche: «Le opere di questo scrittore dimenticate da tanti anni – ma abbastanza conosciute
verso l’80 – sono ora introvabili e si ristampano presso i F.lli Treves (I volume, Milano, 1909, L. 5.00).
Abbiamo rispettato interamente la punteggiatura voluta dal Dossi, per la quale si vedano le ragioni espo-
ste nella Nota grammaticale che segue a La Colonia Felice (Roma, Sommaruga, 1883)» (Dossi, Ricetta per
farsi illustri, cit.).
141 Ibid.
352 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Una barba non pettinata, degli occhialacci, vesti e unghie nere, sostituìscono a suffi-
cienza un diploma. Bada di camminare con gravità, un fascio di carte sotto le ascelle,
intervieni ai sotterramenti degli altri chiarìssimi, màssime se ti fùrono avversi, màs-
sime se desti loro in capo la zappa, nel qual caso ti attaccherài ad un fiocco della lor
bara e ne dirài lacrimando l’elogio […]142.
Scrittore in controtendenza già nel tardo Ottocento, Dossi continuava ad essere, so-
prattutto in alcuni dei più riusciti Ritratti umani, un castigatore dei cattivi mores con-
temporanei; la prosa piuttosto carica di ingredienti difformi si poteva accordare con il
tentativo di espressività presente anche nei Caratteri “vociani”.
Ancora nel 1910, compare sulla «Voce» un articolo che ripercorre La fortuna del
Dossi143, citando i giudizi tardo-ottocenteschi, il pregiudizio carducciano, il ricono-
scimento di Capuana, e facendo riferimento alla radice lombarda della «forma con-
centrata» e della «ingegnosa oscurità» dossiane. È importante segnalare come il bol-
lettino bibliografico vociano invitasse alla lettura di questo autore isolato, confidando
nel giudizio crociano sulle prime opere ma avvisando anche che «gli intelligenti mal
si adatteranno […] a non rilegger i libri della seconda giovinezza e della maturità».
Uno scrittore formatosi in ambito vociano, Boine, si occuperà di Dossi nel 1914,
recensendo il terzo volume delle Opere144 pubblicate da Treves, rendendo i dovuti
omaggi a chi «ci riviene a far visita»: «ammucchio in un canto la suddetta immondi-
zia perché… entra un signore»145. Il giudizio sui Ritratti umani è però abbastanza du-
ro, trattandosi (Boine non ha del tutto torto) di esercitazioni su temi satirici di tutti i
tempi svolti in uno stile ostentatamente bizzarro:
Specie Ritratti umani: esercitazioni satiriche in bizzaria di stile. Non dicono molti di
nuovo né di acuto; rispecchiano una tal quale bonaria sanità morale all’antica in un
caracollio pittoresco di fraseggiare tra lo strano e il lombardo, un poco ostentato146.
La preferenza viene accordata senza tentennamenti alla Desinenza in a, «curioso
intreccio di gustosissime scene», dove lo stilismo si coniuga, per Boine, ad un umori-
smo davvero riuscito:
142 Ibid.
143 A. C., La fortuna del Dossi, ivi, II, 54, 22 dicembre 1910, pp. 471-72.
144 G. Boine, Rec. a C. Dossi, Opere, III vol. (Ritratti umani. Desinenza in a), Treves 1914, «La Riviera Li-
gure», aprile 1914; poi in Id., Plausi e botte, Ed. della «Voce», Firenze 1918, pp. 85-87. Si cita da Id., Il pec-
cato, Plausi e botte, Frantumi, Altri scritti, a c. di D. Puccini, Garzanti, Milano 1983, pp. 89-90.
145 Ivi, p. 89.
146 Ibid.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 353
Sono scene staccate in cui i personaggi che tornan qua e là, ed un unico tono, fan da
cemento; scene, ambienti, personaggi che nessuno scorda più […] – Qui lo strano, il
pittoresco stilismo dei Ritratti diventa fusa originalità, intensità d’espressione, vivaci-
tà, violenza, realistica comicità d’imagine, umorismo crudo da maschio, scandito in
un curioso martellamento di ritmi appena celati. Porcherie della vita descritte senza
compiacimenti e senza sentimentalismi: né amarezze né fatalismi rassegnati147.
Non sarà un caso se la comprensione e l’apprezzamento dell’architettura frammenta-
ria del libro dossiano, scandita da stacchi, ritorni, ritmi appena celati e una, a volte
fastidiosa, intonazione monocorde («un unico tono») vengono proprio da Boine, che,
anche tramite la «Voce», aveva avuto modo di riflettere sui vantaggi dei libri di
frammenti in confronto ai romanzi dalla solida impalcatura.
È da rilevare anche che Boine apprezzi il modo aggressivo di affrontare la realtà,
«senza compiacimenti e senza sentimentalismi», ma anche privo di fatalismo rasse-
gnato; il lettore è positivamente impressionato dal moralismo tagliente dossiano, sen-
za veli, ai danni della donna, che, se non fa «buona figura» (attaccata con un accani-
mento perlopiù sospetto), è però anche sottratta a certe figurazioni romantiche e de-
cadenti (Boine cita, appunto, la «sfrenata Messalina romantica […] che da ultimo si
fa bigotta e guardiana dell’altrui moralità»)148. Quel che lascia Boine dubbioso, fatto
che va ancora a testimonianza del suo acume critico, è un punto non ulteriormente
sviluppato: «ma v’è in Dossi un bizzarro contrasto tra la sostanza e la forma; tra la
crudezza quasi dolorosa delle cose dette e la fantasiosa stranezza quasi allegra con cui
sono dette»149. Boine coglie qui un elemento che risulta per lui spiazzante: il morali-
smo dossiano, dalla sostanza cruda e dolorosa, si combina in modo inedito con
l’allegria dello stile, con una «fantasiosa stranezza» che supera l’intento moralistico
ponendo al centro della prosa, spesse volte, la sperimentazione formale. Questo oblio
del nucleo doloroso dei fatti nella fantasticheria dello stile non potrebbe trovare con-
corde l’autore dei Frammenti lirici e di Peccato, che tende invece ad affrontare di pet-
to, sulla scia delle esperienze del “moralismo vociano”, questo fondo tragico della re-
altà.
147 Ivi, p. 90.
148 Ibid.
149 Tale «bizzarro contrasto» è spiegato da Boine tramite la presenza di tradizioni molteplici, da quella
moralistica e dialettale milanese, a quella tragica e “romantica” scapigliata, alla reazione “antiromantica”
di Carducci (a rigore, successiva alla prima produzione dossiana): « – Tuttociò analizzato nei suoi ingre-
dienti storici lascia intravedere, un po’ cozzanti fra loro a metterli in carta la tradizione milanese del Por-
ta, del Raiberti, del Rovani; il romanticismo magico-tragico del Boito; ed infine la stessa reazione antiro-
mantica a cui appartiene l’intermezzo del Carducci» (ibid.).
354 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
È chiaro il limite, dunque, oltre il quale il frammento dossiano non può parlare
agli uomini della «Voce»: esso risulta adeguato finché, come in Ricetta per farsi illu-
stri, si tratta di castigare i difetti di un’Italia da rifondare tramite una satira ben scrit-
ta, ma non va oltre un «orizzonte […] un po’ fissato per sempre», «un po’ stretto»150,
sia a livello morale che letterario. La componente stilistica diventa, nei Ritratti e nella
Desinenza in a, il corrispettivo di una dichiarazione dell’impossibilità di cambiare il
mondo e la natura umana, con un fondo di acuto pessimismo che si traduce in forte
conservatorismo. I “moralisti vociani”, invece, sostengono la necessità di un’azione
nella realtà, pur tenendosi lontani dagli imbrogli della politica ufficiale, e la possibilità
di una letteratura che indaghi la realtà a partire dall’orizzonte della propria coscienza
per cambiare, prima di tutto, se stessi. È interessante accennare, a margine, che, a ben
vedere, è il primo volume della ristampa di Treves (pubblicato nel 1909) che potrebbe
presentare punti di contatto con la ricerca vociana: L’Altrieri e la Vita di Alberto Pi-
sani sono libri di (pseudo) autobiografia per frammenti, dove l’infanzia e
l’adolescenza vengono poste al centro di un racconto anomalo, ben diverso dai toni
di Cuore. Purtroppo, i pochi dati in nostro possesso non permettono di indicare con
precisione un interesse verso queste prime opere dossiane; rimane il fatto che, molto
probabilmente, vari autori che gravitavano intorno alla «Voce» si trovarono a scorre-
re i volumi dell’edizione Treves segnalati dalla rivista.
Papini interviene con diversi articoli nel 1910, ma la sua sperimentazione lettera-
ria stenta ad emergere sulla «Voce», mentre risulta chiaro che sono in atto letture e
riletture filosofiche (ma non solo), visti gli articoli dedicati a Nietzsche, William Ja-
mes, Galilei e Leone Tolstoi151. L’avvicinamento a Nietzsche, autore da riconsiderare
e meditare proprio dopo gli schiamazzi della moda, è indice di una modalità di lettu-
ra volta a superare gli aspetti più esteriori di un estetismo decadente, a favore di
«un’anima malata da nutrire e da salvare»:
Prima, anni fa, mille vespe pettegole ballavano intorno al dolce paralitico di Weimar e
quando un raggio di sole faceva scintillar loro le ali esse dicevano d’esser diventate
d’oro e che il mondo s’è rovesciato e che il cielo era disceso all’inferno perché l’uomo
aveva finalmente rubate agli arcangeli le chiavi del Paradiso terrestre. Allora, no, non
era da gentiluomini trovarsi in simile compagnia152.
150 Ibid.
151 G. Papini, William James, «La Voce», II, 39, 8 settembre 1910; Id., Studi galileiani, ivi, II, 48, 10 no-
vembre 1910; Id., Preghiera per Leone Tolstoi (prima della morte), ivi, II, 50, 24 novembre 1910, p. 441.
152 Id., Preghiera per Nietzsche, ivi, II, 6, 20 gennaio 1910, p. 247.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 355
Di letteratura Papini parlerà, oltre che in Le querce e i funghi153, in Miele e pietra,
tacciando di “femminilità” (intendendo «la mollezza, la dolcezza, la voluttuosità
blanda, il tono minore, le lacrime facili, il pettegolìo spiritosetto e la musicalità sva-
niente ed estenuante»)154 gran parte della produzione italiana contemporanea. Si
rimpiangono «le corde aspre e forti» del Dante petroso o del Petrarca che parla «in
rim’aspre», mentre si condanna una prosa che, tra Manzoni e d’Annunzio, stenta a
rinnovarsi:
La prosa loro è tutta pregna ed unta di balsami e aromi odorosi e di sapori profumati,
e si spappola e sminuzzola appena qualcuno vi si accosta non colla mano aperta alla
carezza ma col pugno chiuso alla percossa […]. Sospiri e non tuoni; minuetti e non
sarabande; sfumature e non colori; toni bassi e dolci ma non gravi ed acuti.
[…] Dalla prosettuccia lemme lemme e slombata e appiccicosa degli arfasatti manzo-
niani siamo sdrucciolati nell’armonioso eloquio dannunziano, in quella prosa tutta
carne morbida, senza muscoli e senz’ossi […]155.
Se a Carducci riconosce il merito di aver dato «alcuni buoni esempi di prosa italiana
schietta e baliosa, viva di scorci spiritosi e di mosse gagliarde», Papini indica come
miglior rimedio a simile situazione un cambiamento nell’«animo» e nella «vita»
dell’intellettuale, per «una vita in maggior comunione con le cose semplici, forti, du-
re, interne». La vita “interna”, dunque, deve soccorrere ai difetti di stile, ribadendo
uno dei principi cardine di una “letteratura vociana” in fieri; inoltre, Papini sostiene
ancora, liricamente, la necessità della fuga espressa nella Campagna:
E andate un po’ in alto, scappate dalle città e dalle colline, riconciliatevi colla gran
madre terra, battete il crudo sasso de’ monti col tacco e il bastone ferrato, abbracciate
i vecchi cerri nodosi mentre il vento montagnolo vi soffia sul viso e vi fischia agli o-
recchi e la solitudine del crepuscolo par fatta sacra dal suono lento delle campane e
dei campani156.
Tra gli articoli citati come “vociani” da Prezzolini, nel 1974, figura anche Il lattaio
e la cavalla157 di Fernando Agnoletti, collaboratore saltuario ma, a detta di Prezzolini,
con «il suo speciale profumo», che scriveva «con incisiva e nervosa chiarezza»158.
Frammento autobiografico, il suo articolo racconta con tono ironico il giro mattinie-
153 Id., Le querce e i funghi, ivi, II, 43, 6 ottobre 1910, pp. 407-08.
154 Id., Miele e pietra, ivi, II, 35, 11 agosto 1910, p. 373.
155 Ibid.
156 Ibid.
157 F. Agnoletti, Il lattaio e la cavalla, II, 48, 10 novembre 1910, pp. 429-30.
158 G. Prezzolini, Il tempo della Voce, Longanesi, Milano; Vallecchi, Firenze 1960, p. 199.
356 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
ro di un lattaio che rivendica il proprio mestiere pratico: «Spremer le mucche è fatica;
ma mungersi il cervello per campar di parole era peggio». La sua prosa racconta un
episodio di realtà vissuta e una scelta di vita, che si augura in chiusura anche al figlio:
«Dei della stirpe catarrosa, possa egli amare e disprezzare. […] Col callo alle mani e
con l’anima alata». È superfluo sottolineare la differenza dagli articoli d’impronta let-
teraria degli altri autori citati; Agnoletti non perde di vista quella realtà “pratica” a cui
Prezzolini sembrava voler indirizzare la «Voce». Infatti, l’articolo potrebbe essere ac-
costato a Ventiquattrore in Italia di Prezzolini (come sembra proposto nell’antologia
del 1974), racconto «tipografico ed esatto»159 di una giornata passata sui mezzi di tra-
sporto italiani, piuttosto che ad ipotetiche “primavere”.
Per concludere una panoramica sul 1910, volta a rintracciare “indizi” di letteratu-
ra, pur circoscrivendo il campo ad alcune firme, è d’obbligo la citazione di un articolo
di Renato Serra, che, com’è noto, manteneva le debite distanze dall’esperienza fioren-
tina, movendo in direzione ostinatamente solitaria i propri passi. L’esigua quantità
dei suoi interventi sulla «Voce» è riscattata dalla qualità di una penna che, appena si
impegna, affronta, da un punto di vista originale, questioni scottanti quali Carducci e
Croce160. Di questo intervento ci preme segnalare in particolare alcune parti; intanto,
si veda la “scelta” a favore di Carducci:
Non si tratta di un maestro, che potevamo anche non avere o di un libro che pote-
vamo anche non leggere. Ma io mi rifiuto di abbandonare insieme con lui la ragione
più profonda del mio sentire, la comunione col passato e la conversazione con tutti i
grandi e cari e umani spiriti, e il culto della loro parola cara al mio cuore sopra tutte le
cose. Io voglio sapere che c’è nella mia adorazione qualche cosa di vano; che l’amore
delle belle parole, con tutto quel che reca di sacrifizio nel cercarle e nel custodirle e
nell’imitarle, è vano; […] voglio saper tutto questo per avere la gioia di affrontare con
occhi aperti il pericolo mio dolce.
Passano i giorni e scema la luce e il tempo dell’amore se n’è andato e l’ombra si av-
vicina a noi lunga e nera. Noi facciamo dei libri. Anzi non ne facciamo nemmeno; ci
contentiamo di leggere e di fare qualche segno sui margini. Ma questo basta, e la
compagnia dei nostri padri e fratelli161.
Attraverso Carducci, Serra difende il «culto» della letteratura, come baluardo esisten-
ziale e colloquio con la parte migliore dell’uomo; nella consapevolezza della sua in-
trinseca vanità, la letteratura ha il valore di un mezzo per affrontare, «ad occhi aper-
ti», le esperienze della vita fino alla frontiera ultima. La preferenza accordata a Car-
159 Id., Ventiquattrore in Italia, ivi, II, 38, 1 settembre 1910, p. 385.
160 R. Serra, Carducci e Croce, ivi, II, 54, 22 dicembre 1910, p. 467-68.
161 Ivi, p. 468.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 357
ducci, ai danni di De Sanctis, si ritroverà, tra l’altro, anche in De Robertis; è dunque
indizio non secondario di una strategia critica che «affondava le sue radici nel puri-
smo ottocentesco»162.
Questa è la figura di critico tratteggiata da Serra attraverso Carducci, carica di
prospettive se si pensa alla «Voce» derobertisiana:
Spesso non sa criticare; ma sa leggere, sempre. Il punto di vista da cui egli muove
verso un libro è il più giusto. Poiché non è quello dello storico o del descrittore di in-
ventari o del definitore di giudizi; ma è quello proprio dell’uomo dell’arte. Io penso a
quest’uomo come fu in realtà; a questo professore, che ha passato tutta la vita sua in
mezzo ai libri e che solo dalle finestre del suo studio ha potuto vedere gli uomini e le
donne e l’universo163.
Il «saper leggere» trova qui le sue origini164, fondate nell’umiltà di chi non posa «da
eroe o da vate», ma ama «i libri» e si sente di «fare della loro consuetudine la consola-
zione e il fine della vita».
L’ultimo numero del 1910 merita di essere ricordato almeno per l’articolo di Sof-
fici contro Faguet, o, per meglio dire, in difesa di Baudelaire165. Nel corso dei lunghi
scambi epistolari, Soffici aveva già dichiarato a Papini la propria predilezione per
Baudelaire, ed aveva promesso di difenderlo «a spada tratta» non solo con l’amico,
ma, alla buona occasione, pubblicamente: «e se avessimo una buona rivista, sarebbe
una bella allegrezza per me potere scodellare in diversi articoli tutta questa mia svi-
scerata ammirazione»166. Il progetto si realizza in occasione di un intervento di Emile
Faguet «contro Baudelaire», pubblicato in Francia il 1 settembre 1910 in seguito
162 Cfr. Ghidetti, «La Voce» bianca: vita breve di una rivista letteraria, cit., pp. 530-31.
163 Serra, Carducci e Croce, cit., p. 468.
164 Infatti Antonicelli, trattando del Carducci di Tommaso Parodi, faceva riferimento, per distinzione, an-
che a questo articolo di Serra, riconoscendone il valore di “ritratto” ma non di “analisi” critica: «Ma che
cosa era questo confronto? Un segno dell’anima certo, un modo di distinguere significativo, quasi simbo-
lico, e di ritrovare le affinità, le alleanze, ma, o fondo, non più che una patetica confessione sentimentale
[…]. Ma […] le pagine del Serra […] riescono, radunate di qua e di là, a un ritratto psicologico dei più
belli e dei più suggestivi: non saprei realmente immaginarmi un’analisi storico-estetica dell’opera carduc-
ciana da parte di chi, così sottilmente e sensualmente umanista, derivava certo nelle sue linee generali, di
gusto e d’impostazione, (il famoso saper leggere!) dal carduccianesimo, ma, come fu detto bene, da un
carduccianesimo pascolinizzato» (F. Antonicelli, Prefazione, in T. Parodi, Giosuè Carducci e la letteratura
della nuova Italia, saggi raccolti da F. Antonicelli, Einaudi, Torino 1939, p. XV).
165 A. Soffici, Faguet contro Baudelaire, «La Voce», II, 55, 29 dicembre 1910, p. 475.
166 Soffici a Papini, 8 agosto 1908, Poggio a Caiano, in G. Papini, A. Soffici, Carteggio, I, 1903-08, Dal «Le-
onardo» alla «Voce», a c. di M. Richter, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1991, p. 287.
358 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
all’uscita di «un libretto» di Alphonse Séché e Jules Bertaut167. Ad introdurre tale po-
lemica, Soffici schizza un quadro della ricezione francese di Baudelaire, con cui in-
tende già gettare i ponti per una reinterpretazione:
No, ché anzi se Baudelaire è mal compreso un pò [sic] dappertutto, in Francia è capi-
to per avventura ancor meno; e il solo associare che si fa al suo nome, da parte di
scrittori francesi, delle idee di decadentismo, di satanismo, di dandysmo, di morbosi-
tà, di nevrosi, d’isteria e d’altrettali frottole, quando si dovrebbe invece parlare uni-
camente di austerità, di salute spirituale e di genio, lo prova168.
Si respira dunque, dalle pagine della «Voce», l’aria di un’inversione di tendenza che,
se era in parte iniziata con la diffusione dello Spleen de Paris, è arrivata adesso alla sua
piena realizzazione: occorre non dimenticare la personalità che ha traghettato il Ro-
manticismo francese nel Decadentismo, ma farne una rilettura «austera», sulle tracce
del «genio». Ciò implica una rimozione di quelle «frottole» critiche che hanno finito
per nascondere il poeta, «fermandosi alle false apparenze, alla maschera che lo stesso
poeta si compiacque a volte di mettersi sul viso per nascondere agli occhi del borghe-
se odiato il suo essere profondo e la sua tragedia».
La «salute spirituale» con la quale Baudelaire ha indagato gli abissi della coscienza
moderna potrà essere dunque un modello non trascurabile per il presente; obliteran-
do gli aspetti più eclatanti del maudit, si troverà una letteratura che incontra la filoso-
fia (proprio in questo articolo Soffici avvisa Faguet che «non si può far critica seria se
non si possiede una certa attitudine filosofica», affermazione che vale reciprocamen-
te: l’artista è anche filosofo) ed è necessariamente “espressivista”:
poiché un accoppiamento ortodosso, ragionevole, naturale, ordinario di parole non
renderebbe la profondità e il carattere irragionevoli, straordinari della visione innatu-
rale, egli si sforza di suggerire con un urto, con una stortura, con una risa del verbo, la
risonanza ineffabile, lo sprazzo abbacinante che l’ha colpito.
Le principali argomentazioni di Faguet vengono puntualmente smentite da Soffi-
ci, che propone tra le righe la propria lettura di Baudelaire: contro l’affermazione che
il poeta francese è privo di imagination, Soffici sostiene il “realismo” di Baudelaire,
che «sentiva e rendeva i suoi particolari stati d’animo», accostandosi alle cose non
come «meri riflessi o simboli di un’Idea trascendente, immagini apparenti di una ve-
rità fuori dello spirito umano»:
167 A. Séché, J. Bertaut, La vie anecdotique et pittoresque des grands écrivains. Charles Baudelaire, Mi-
chaud, Paris 1910.
168 Soffici, Faguet contro Baudelaire, cit., p. 475.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 359
Tutta la sua opera è una dissezione della realtà, un assalto incessante al vero per suc-
ciarne il midollo sostanzioso, un abbrancar sanguinante del fatto interno e esterno af-
fine di penetrarne e farne penetrare agli altri l’immarcescibile bellezza, grandezza e
tragicità.
Dove Faguet afferma che Baudelaire non è affatto novateur, Soffici ribatte che il poeta
non è un marinista suscitatore di “meraviglia”, ma ritorna anzi sui «luoghi comuni»
dell’umanità, che «consistono in tante verità eterne, radicate nel più profondo
dell’anima umana», essendo «la materia esclusiva di ogni poesia lirica». Anche quella
di Baudelaire, a ben vedere, è un’“arte interna”, tesa allo scandaglio dell’«inferno dei
nostri cuori moderni» (laddove, oltre a Dante, viene in mente la Saison rimbaudiana):
se aveste potuto comprendere che la grandezza di Baudelaire consiste invece
nell’essersi tuffato, fino a toccarne il fondo, nel gorgo misterioso della vita, nell’aver
tradotto in forma di bellezza la particolare angoscia dei nostri tempi, nell’aver, come
Dante l’inferno cattolico, visitato e descritto l’inferno dei nostri cuori moderni, coi lo-
ro dubbi, con le lor grandi domande senza risposta, con le lor passioni e la loro ironi-
a; e se nello steso tempo aveste potuto intravedere anche per un attimo che «le goût
du néant» non è l’appannaggio dei nevrastenici, non sareste stato un così cattivo pro-
feta e oggi non vi meravigliereste di vedere ancor vivo uno che non morirà mai.
Soffici risulta appassionato lettore di Baudelaire anche dalle occasioni impreve-
dute in cui lo cita a sostegno delle proprie tesi, come nella recensione al volume di un
professore siciliano dedicato a Carducci:
Oh! che non ha egli pensato, prima di accingersi a un’impresa tanto pericolosa, a
queste parole di Baudelaire: «Una stroncatura fallita è un accidente deplorevole; è una
freccia che si rivolta o per lo meno vi scortica la mano partendo, una palla il cui ri-
storno può uccidervi»169.
Inoltre, Soffici è ammiratore del Baudelaire critico d’arte, e lo ricorda infatti parlando
di Gustave Courbet170; davvero Baudelaire sembra essere per lui la pietra di paragone
della modernità, e i suoi versi sovvengono anche quando si tratta di descrivere le na-
ture morte e i «paesaggi granitici» di Picasso, quel «terribile paysage, / que jamais œil
mortel ne vit»171. Altrove, Soffici avrà modo di osservare, en passant, che, se «i lettera-
169 Id., Giosuè Carducci, «La Voce», II, 54, 22 dicembre 1910, p. 471.
170 Id., Gustave Courbet, ivi, III, 20, 18 maggio 1911, p. 572.
171 Id., Picasso e Braque, ivi, III, 34, 24 agosto 1911, p. 637; la citazione baudelairiana proviene da Rêve
parisien (Fleurs du Mal, Tableaux parisiens).
360 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
ti non capiscon nulla delle arti figurative», ci sono mirabili eccezioni, come Laforgue
e Baudelaire, «gli unici scrittori d’arte competenti che mi conosca io fra i moderni»172.
Infine, in occasione di un intervento su Renoir, Soffici cita Baudelaire definendosi
«ultimo ed indegno discepolo suo»173.
Del resto, era arrivato il momento di rivedere le teorie di Lombroso, portate agli
eccessi tramite Nordau, sulla corrispondenza tra genio e follia; sulla «Voce» Alberto
Vedrani si sofferma a più puntate sul padre della “Nuova Scuola”174, affermando
l’infondatezza di certi giudizi, non ultimo in campo artistico: «Applicazioni meno
utili, ma più innocenti, meno tragiche, ma più comiche ha avuto la Nuova Scienza,
voi avete capito che intendo accennare a la cosiddetta critica psicoantropologica ap-
plicata a la letteratura»175. Soffici stesso, recensendo il libro che raccontava Les der-
nier jours de Paul Verlaine, allontana d’un colpo ogni pregiudizio moralistico su una
vita sregolata:
Siamo dunque, o specchi di virtù, ancora a questi ferri, che chi, per celebrar la sua
gioia o affogar la sua pena, beve […] debba esser detto per forza una canaglia, un
brutto tipo, una specie di delinquente, un essere insomma che il ciarlatano, ebreo, te-
desco Max Nordau si crede in diritto di definire «uno spaventoso degenerato, un va-
gabondo impulsivo, un dipsomane, un ringiucchito»?176
Nell’occasione, Soffici propone il proprio giudizio su Verlaine: «fu soprattutto un po-
eta dall’anima infantile e un pover uomo».
La disputa senza punti d’incontro consumatasi epistolarmente nell’agosto 1908
con Papini proprio riguardo a Baudelaire, contribuisce a spiegare l’interpretazione di
Soffici, ad esempio riguardo al significato di “satanismo”:
Io per satanismo intendo quella specie di zibaldone mistico-occultistico – simboli-
co-stregonesco e sadico di cui sono esempio, per il vulgo, i romanzi di Huysmans, per
l’élite le novelle di Barbey d’Aurevilly e certe buffonate di Péladan – e, con un altro
spirito, la letteratura Swenderborghiana a uso Strindberg etc. – e di questo non trovo
nessuna traccia in Baudelaire.
Quello che ci trovo […] è la concezione pessimistica che Baudelaire ha del mondo e
della vita […]. Charles Baudelaire crede, secondo me e secondo appare da molti suoi
172 Id., El Greco (Divagazione), ivi, III, 38, 21 settembre 1911, p. 654. Alle eccezioni non appartiene invece
Barrès, aspramente criticato per il suo libro su El Greco.
173 Id., Auguste Renoir, ivi, IV, 7, 15 febbraio 1912, p. 755.
174 A. Vedrani, Cesare Lombroso III, ivi, II, 2, 23 dicembre 1909, pp. 230-31.
175 Ivi, p. 230.
176 A. Soffici, Verlaine [Rec. a F.-A. Cazals - G. Le Rouge, Les dernier jours de Paul Verlaine, Paris, Société
du «Mercure de France»], ivi, III, 52, 28 dicembre 1911, p. 724.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 361
versi e poemi, che l’universo vivente, il movimento, la successione del tempo e la va-
riabilità dei fenomeni sono l’opera del Diavolo, vale a dire di una forza ribelle che si
oppone a Dio il quale viene concepito dal poeta come l’assoluta pace e l’eterna im-
mobilità. Questa concezione, come sai, circola per l’anima di certuni, ed è per via di
questa che si giunge facilmente a pensare e a sentire che il mondo è retto dal male, e
tanto più lo sentono i grandi e i buoni – quelli cioè che hanno dentro di loro come un
presentimento e un sentore della perfezione del Nulla eterno177.
Baudelaire è riportato ad un pessimismo cosmico che si ribalta nella concezione che il
mondo sia retto dalle potenze del Male piuttosto che dal Bene, una percezione che
accompagna «i grandi e i buoni»; e chissà che Soffici non alluda, apostrofando Papini
con un «come sai»178, ad un riferimento italiano a Leopardi, il cui nome ricorre più
volte tra le letture dei due amici. Tanto più che, poco più avanti, Soffici suggerisce a-
pertamente questo parallelo, a proposito dell’umorismo tragico di Baudelaire:
La sproporzione fra la tua aspirazione e l’attitudine del tuo prossimo a fronte di quel-
la crea il comico e dà il senso della caricatura; ma di una caricatura punto allegra. Ca-
pisci cosa voglio dire? Nei Fleurs du Mal ci sono molte tracce di questa buffoneria –
tragica che gli inglesi specialmente posseggono e comprendono e che in Italia, tranne
forse Carducci e un po’ Leopardi, nessuno mi pare abbia capita e praticata179.
Riguardo alle letture leopardiane, proprio la lettera successiva di Papini lo ritrae
con gli occhi chini sulle «prose del Leopardi»180, anzi desideroso di leggere con
l’amico «quel meraviglioso Elogio degli Uccelli»; per tutta risposta, Soffici «avvisa»,
due lettere dopo, di aver risposto alla lettera papianiana del 16 agosto «dopo la lettura
dell’Elogio degli uccelli di Leopardi»181 e la stessa lettera è ricca di stilemi leopardiani
(ad esempio: «E sì che dovrei esser guarito da un pezzo di questo balordo “falso im-
maginar”»)182. Al di là delle coincidenze, forse non è un caso che sul tavolo dei due
toscani si trovino, in concomitanza, Baudelaire e il Leopardi delle «prose», anzi quello
dell’Elogio degli uccelli, che è poi una delle Operette morali più assimilabili ad una in-
novativa commistione di poesia e prosa.
177 Soffici a Papini, Poggio a Caiano, 16 agosto 1908, in Papini, Soffici, Carteggio, I, cit., p. 297-98.
178 Più avanti Soffici specifica parzialmente il riferimento facendo il nome di Shakespeare, lasciando però
nell’ombra i nomi dei “poeti del sud”: «se si dovesse dir satanico […] chiunque parla di diavolo, vede la
vita come un frutto del male, o rappresenta Diavoli, bisognerebbe appiccicare questo epiteto a quasi tutti i
poeti del nord primo fra i quali Shakespeare, e a moltissimi, e fra i migliori del sud» (ivi, p. 308).
179 Ivi, p. 306.
180 Papini a Soffici, Pieve S. Stefano, 16 agosto 1908, ivi, p. 311.
181 Soffici a Papini, Poggio a Caiano, 23 agosto 1908, ivi, p. 321.
182 Ivi, p. 323.
362 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
La disputa Soffici-Papini su Baudelaire sembra, dalle lettere che preludono
all’esperienza vociana, profonda e irrisolta; negli anni vociani, il nome di Baudelaire
compare ancora tra gli scambi epistolari degli amici, ma non in termini che possano
indicare un cambiamento delle reciproche posizioni. Sarà Papini però a rileggere
Baudelaire in una maniera più vicina a Soffici, forse già prima di quella definizione
nel Dizionario dell’Omo Salvatico183, se, come suggerisce Richter, si potrebbe vedere,
in quella dichiarazione di completa solitudine in conclusione dell’Uomo finito, un’eco
del poemetto in prosa L’Etranger184. A partire dagli anni ‘20, poi, come testimonia
l’epistolario, i due toscani si erano ormai accordati su una rimozione concorde dei
modelli francesi, in nome di un’autarchia culturale italiana, trovandosi piuttosto con-
senzienti sul rilancio del neoclassico e toscano Carducci185. Ai tempi della «Voce», pe-
rò, proprio Soffici, come afferma Livi, era stato tra i portatori della «“linea alta” del
simbolismo francese, pietra di paragone della modernità della poesia europea: Baude-
laire, Verlaine, Rimbaud, senza trascurare l’aureo saggio su Moréas e i riferimenti a
Mallarmé»186; lettura che si opponevano a quella “linea bassa”, rappresentata ad e-
sempio da Jammes, che aveva invece conquistato Jahier.
1.6 L’anno 1911
Il 1911 si inaugura, per Papini, con un articolo ben confacente alle esigenze della
rivista disegnata da Prezzolini: si tratta infatti di cultura “in pratica”, in due delle sue
istituzioni più importanti e bistrattate, Università e Biblioteche187, la cui sfortuna è a-
nalizzata con impeto riformatore. Entrambe dovrebbero essere modificate con
l’“eccitazione dell’attività personale”: «far lavorare i giovani da sé», caricando sulle
loro spalle la responsabilità ma anche la soddisfazione del «lavoro personale, aiutato
dai più competenti»188. Ciascuno può misurare la differenza rispetto al grido icono-
clasta che inciterà a distruggere le vecchie case del sapere. Alle biblioteche è dedicato
183 «Gli scrivanelli tardìoli che scorrazzano su per le gazzette sono rimasti ancora all’idea di Baudelaire
satanista e satanico, infernale giardiniere dei Fiori del male» (D. Giuliotti, G. Papini, Dizionario dell’Omo
Salvatico, I, Vallecchi, Firenze 1923, p. 357).
184 Cfr. M. Richter, Introduzione, in G. Papini, A. Soffici, Carteggio, II, 1909-15, Da «La Voce» a «Lacer-
ba», a c. di M. Richter, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1999, p. 27.
185 Cfr. M. Richter, Introduzione, in G. Papini, A. Soffici, Carteggio, IV, 1919-56, Dal primo al secondo do-
poguerra, a c. di M. Richter, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 20.
186 Livi, I Francesi nella «Voce», cit., p. 564. A prosito di Rimbaud, Soffici interviene sempre per difendere
il poeta da un cattivo critico, il cognato Berrichon, «essere piccolo e meschino», incapace di comprendere
la personalità dello scomparso (A. S[offici]., Rimbaud [Rec. a P. Berrichon, Jean Arthur Rimbaud – Le
Poète, «Mercure de France»], «La Voce», IV, 35, 29 agosto 1912, p. 884).
187 G. Papini, Università e Biblioteche, ivi, III, 19 gennaio 1911, p. 487-88.
188 Ivi, p. 488.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 363
un articolo anche da Boine189, che lamenta l’insufficienza di fondi e la mancanza di
un’adeguata legislazione; l’intervento è arricchito dai ricordi di liceale, testimonianza
di una cultura da autodidatta, favorita dall’indipendenza nelle letture.
Sempre Papini noterà, in concordanza con lo spirito riformatore vociano, come
la degenerazione degli intenti progressisti nella società abbia portato a discussioni su
temi quali la riforma del “qu”: «Nei tempi antichi si cercava di riformare le anime –
dopo si vollero riformare le idee – e poscia lo stile in cui si debbono esprimer le idee –
e indi le parole – e finalmente il modo col quale si debbono scrivere le parole…»190.
Papini è poi il lettore onnivoro di letteratura non solo italiana; in Amore di Spagna
lontana191 suggerisce letture spagnole in lingua, facendosi promotore dello spirito in-
ternazionalista vociano, rivolto a coloro a cui «preme un arricchimento della loro a-
nima mediante un’altra lingua, un’altra cultura, e un’altra letteratura»192.
La rubrica delle Delizie indigene si sviluppa con varie firme; Soffici racconta
un’epopea in tramvai, con un accento al costume italiano disordinato e disorganizza-
to193; la mancanza di ogni tipo di disciplina, ma anche di patriottismo popolare è
stigmatizzata da Jahier nei Quattro torti del Circo straniero194; ancora Jahier descrive
con toni poco lusinghieri e decisamente sarcastici Il pubblico edificio195; Slataper ac-
cenna alla mania dei piccoli furti, segno di un basso tenore di civiltà196, e alle polemi-
che giornalistiche197.
Due toni informano la scrittura del giovane Slataper vociano: quello ironico, vol-
to al disamine moralistico del mondo esterno, nell’auspicio di un cambiamento del
malcostume italico, e quello serio, poetico, diretto all’esame della propria coscienza,
per una progressione morale dell’io a vantaggio di se stessi e, poi, della collettività.
Una delle “delizie” di Slataper198 è emblematica di questa doppia misura: il vento ge-
lido invernale, che smonta ogni mito dell’Italia “paese degli aranci” tutto l’anno, può
essere la traduzione “reale” di una sfida personale al proprio superamento; se, invece,
189 G. Boine, Un ostacolo alle Biblioteche, ivi, III, 2 febbraio 1911, p. 499.
190 G. Papini, La riforma del “qu”, ivi, III, 8, 23 febbraio 1911, p. 513.
191 Id., Amore di Spagna lontana, ivi, III, 45, 9 novembre 1911, pp. 685-86.
192 Papini enuclea tre aspetti che rendono la Spagna degna di approfondimento: la mistica («v’è un misti-
cismo sensuale, ma intimo e forsennato»), il teatro («ha un colore tutto suo; con fantasia e humour e ca-
rattere») e il romanzo picaresco («la vita dei disgraziati e degli allucinati in tutta la sua crudezza, senza
“moralità” e senza truccature tradizionaliste») (ivi, p. 685).
193 A. S[offici]., Delizie indigene. T. F., «La Voce», III, 4, 26 gennaio 1911, pp. 493-94.
194 P. J[ahier]., Delizie indigene. I quattro torti del Circo straniero, ivi, III, 5, 2 febbraio 1911, p. 499. Il
“quarto torto” è appunto «un torto patriottico».
195 Id., Delizie indigene. Il pubblico edificio, ivi, III, 14, 6 aprile 1911, p. 548.
196 S. S.[lataper]., Delizie indigene. In caffè, dal barbiere, a casa, ivi, III, 6, 9 febbraio 1911, p. 504.
197 Id., Delizie indigene. L’aggressione e i giornali, ivi, III, 12, 23 marzo 1911, p. 539.
198 Id., Delizie indigene. Nel paese degli aranci, ivi, III, 7, 16 febbraio 1911, pp. 509-10.
364 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
si guarda il problema dal punto di vista pratico, ci si imbatte nella carenza di stufe e
camini:
Giù per le colline «piene di rose» scivola la tramontanina. Dà una secca frustata nei
tronchi ischeletriti dei pioppi, si butta fischiando, stridendo, urlando sulla città dei
fiori e la riempie di ansimante furia polverosa. La tramontanina è la sorella minore
della mia nativa bora. Io voglio bene alla lor famiglia purificatrice. Amo vivere nel
poderoso respiro del vento che insatanassa il mare e le foreste, e mi obbliga a conqui-
starmi duramente il diritto d’ogni mio passo.
[…] Il carbone costerebbe di meno, ma non ho mai visto ancora una stufa per car-
bone in tutte le camere affittabili che ho visitate. E così per tirare in lungo i soldi delle
lezioni mi riscaldavo cotidianamente due ore per gelarmi quattordici199.
Anche un bollettino bibliografico siglato da Slataper risulta interessante, perché è
dedicato alla collezione della Biblioteca dei popoli, edita da Sandron e diretta da Pa-
scoli200. Innanzitutto, per Slataper l’operazione fa pensare subito a Herder, «il caro
spirito passionale che dedicò tutta la sua vita a scoprire e a diffondere la poesia dei
popoli»; in Italia, si sottintende, è mancato un simile recupero della poesia popolare
nei suoi caratteri più autentici, tanto che, con una sentenza lapidaria che suona più
provocatoria che condivisibile, afferma: «Quando si dice Herder, il manuale di lette-
ratura italiana contrappone subito Cesarotti. No, no, per l’amor di Ossian! L’Herder
italiano è Tommaseo». Il romanticismo italiano, insomma, avrebbe mancato
l’appuntamento con Ossian, che, tradotto in versi dal Cesarotti, aveva visto stravolta
la natura originaria di prosa ritmica; questa collezione offre all’Italia una seconda oc-
casione. Che l’uso della prosa poetica, in sostituzione del verso, sia elemento discri-
minante viene ribadito più avanti, attribuendo a Tommaseo, in relazione ad essa, la
patente di “vero romantico”:
La traduzione ritmica del Tommaseo è l’unica possibile. Il Tommaseo è un traduttore
e postillatore meraviglioso. Vero «romantico» afferra e lascia e penetra con passione,
anche se solo apparentemente non indaga e scruta. Ma di ciò prima o poi bisognerà
parlare più a lungo201.
L’articolo si propone di definire, in termini generali, che si suppongono validi per
i canti illirici come per quelli indiani, pregi e limiti della poesia popolare: il canto po-
199 Ibid.
200 Id., Biblioteca dei popoli (diretta da G. Pascoli; ed. Sandron), ivi, p. 495.
201 Ibid. Dal Tommaseo viene riportato il passo della morte di Marco, segnalato anche da Pascoli nella
Lettera a Chiarini (cfr. Pascoli, A Giuseppe Chiarini della metrica neoclassica, cit., p. 240).
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 365
polare è «semplice, vissuto, meraviglioso»202. “Semplice” e “vissuto” sono, in partico-
lare, i termini chiave della “poetica popolare”, che possono significare qualcosa anche
per la poetica slataperiana in fieri: la semplicità sta nelle connessioni spontanee (ep-
pure poetiche) di realtà distinte ma coincidenti (a creare un’«aria di movimento»,
contribuiscono sia le donne che si recano alla fontana con il compito pratico
dell’acqua, sia «il volo disinteressato degli uccelli»); il “vissuto” è ben rappresentato
dal “gelsomino potato”, dove «il luogo comune s’è sciolto nella realtà»203. Nella lette-
ratura popolare, la possibilità di un fruttuoso incontro tra gli archetipi profondi
dell’umanità e la realtà quotidiana affascina Slataper. Per contro, lo disturbano i con-
tatti con la letteratura («occhi-fonti di pianto»), il momento in cui il mito diventa to-
pos («Ho detto luogo comune: cioè volgarità e bruttezza: cioè letteratura»): «la pas-
sione che vorrebbe placare l’universo, s’immiserisce e s’appiatta in una esagerazione
subìta che fa ridere»204.
È da segnalare che anche Prezzolini sottolineerà il valore della letteratura popola-
re, discorrendo di Berchet, riconoscendovi un «patrimonio di libertà» ed anche un
punto di discrimine tra romanticismo italiano e tedesco:
In un bel libretto, che uscì press’a poco quando noi iniziammo La Voce, una signori-
na [G. Martegiani] osò dire che il Romanticismo italiano non esiste205; e difatti esisté
assai poco, se lo si intende, come si deve, a modo dei primi tedeschi che lo concepiro-
no, degli Schlegel giovani, dei Novalis, dei Fichte. In Italia un di quei che meglio lo
capì fu il Berchet, sia pur temperandolo, anzi perché lo temperò, di buon senso italia-
no206.
La letteratura popolare nasconde una semplicità che è spesso più apprezzabile
dell’artificio contemporaneo, nei temi e nella forma.
La letterarietà disturba Slataper lettore delle poesie di Saba, da lui recensite per la
«Voce»207 («la parecchia letteratura evidente o, più spesso, dissimulata – con sapiente
202 La categoria di “spontaneo” non è invece, secondo Slataper, adeguata, perché in realtà il popolare è
frutto di una «civiltà raffinatissima» e, in più, “limato” attraverso le correzioni apportate nel corso della
tradizione orale.
203 S. S.[lataper]., Biblioteca dei popoli, cit.
204 Ibid. Tra i volumi ricordati, c’è anche la traduzione delle Foglie d’Erba di Whitman, curata da Luigi
Gamberale, non accompagnata però da particolari commenti; viene invece citato un passo del Canto di-
vino tradotto da Oreste Nazari (tratto dal Mahâbhârata), ed è messo in rilievo lo «scatenarsi bestiale di
vendetta» in cui culmina il poema.
205 Cfr. G. R., Rec. a Il romanticismo italiano non esiste, Seeber, Firenze 1908, «La Voce», I, 1, p. 3.
206 G. Prezzolini, Giovanni Berchet, ivi, III, 46, 16 novembre 1911, p. 691.
207 S. S.[lataper]., Rec. a Umberto Saba, Poesie, con prefaz. di S. Benco. Firenze, Casa ed. ital., ivi, III, 4, 26
gennaio 1911, pp. 495-96.
366 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
umiltà di poverello francescano»), accanto a «quella stanchezza che moralmente ci
repugna», in una nostalgia insistita che ha qualcosa di fastidiosamente «borghese»208.
Sempre per un bollettino bibliografico, Slataper recensisce Insaniapoli di Enrico Ruta;
pur affermando, in conclusione, che «del suo libro ciò che veramente resta sono due
novelle», non è priva di interesse la notazione sulla corrispondenza tra cose e parole
che emerge, laddove, trattandosi di lessico, compare il nome del Dossi, già noto alla
rivista: «Parole? velleità artificiose? E allora dove mettete il Dossi, il Cattaneo, il
Tommaseo – Dante? Ogni poeta rivoluzionando il mondo sentimentale e visivo deve
per forza rivoluzionare le espressioni»209.
Slataper sembra impegnato a fare i conti con l’eredità letteraria immediatamente
precedente, e trova occasione, ad esempio, per un bilancio, poco lusinghiero, della
Cronaca bizantina210: «una geniale mondanità, un dilettantismo sensuale, un’eleganza
da belle annoiate»211. Il risultato parrebbe un coacervo di provincialismo truccato da
«Louvre parigino», sotto le insegne del Carducci: Dossi con «il suo meneghino», Ver-
ga, la Serao, d’Annunzio “risciacquato” nel Tevere. Come risultato, rimane alla fine
solo d’Annunzio, che si è salvato «perché almeno credeva in se stesso», per l’«egoismo
rapace» e la «sete di fama»212. Alla «Voce», a chi si occupa di letteratura, toccherà il
compito di «correggere l’eredità bizantina»213.
La letteratura che interessa Slataper è al momento tragica, come conferma
l’articolo su Brand214, dove ci si occupa di Ibsen in comparazione con Hebbel, sullo
sfondo di Amleto e Faust. L’interesse per l’arte di Ibsen è dovuto, si capisce subito, a
quel «bisogno d’afferrare più violentemente e più immediatamente il proprio mondo
morale»215. La lezione di Brand concerne l’accettazione della «realtà cotidiana» con
«rinunzia»; il modello è Hebbel, che ha fornito «una soluzione di razza alla tragedia
individuale»: «L’eroe patisce e muore; ma l’umanità per questo suo patimento proce-
de»; «esiste, per la prima volta coscientemente nell’arte, il contatto dell’individuo con
l’umanità»216. Al di là del giudizio sulla singola opera teatrale, si capisce come
l’interesse sia legato alle concezioni poetiche che Slataper va elaborando, con predile-
208 Ivi, p. 496.
209 Id., Insaniapoli [Rec. a E. Ruta, Insaniapoli, Napoli, Ricciardi], «La Voce», III, 14, 6 aprile 1911, p. 549.
Di Enrico Ruta verrà pubblicato un articolo nel numero dell’8 giugno, dal titolo L’utopia nella realtà. Il
tramonto del mito.
210 S. Slataper, Quando Roma era Bisanzio, ivi, III, 16, 20 aprile 1911, pp. 553-54.
211 Ivi, p. 553.
212 Ivi, p. 554.
213 Ibid.
214 Id., Brand, «La Voce», III, 27, 6 luglio 1911, pp. 603-04.
215 Ivi, p. 603.
216 Ibid.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 367
zione per un rigorismo moralistico di stampo quasi protestante e per l’esistenza tragi-
ca dell’individuo tra bene e male.
Sulla rivista si trova testimonianza anche di una rilettura slataperiana di Fichte,
del quale vengono tradotti alcuni frammenti; la presenza, sulla «Voce», del filosofo
romantico che aveva fatto del “frammento” un veicolo privilegiato per l’espressione
della verità è degno di segnalazione. Tra l’altro, la scelta di Slataper è indicativa, trat-
tandosi di aforismi dedicati alla libertà, alla morale e all’atteggiamento
dell’intellettuale di fronte al mondo:
L’uomo colto deve essere l’uomo moralmente ottimo della sua età.
Non bisogna dare assolutamente un<’>insegnamento religioso, ma invece sviluppa-
re la naturale coscienza religiosa.
Mostrami ciò che tu veramente ami, ciò che tu cerchi e tendi con tutto il tuo desi-
derio quando speri di trovare il vero godimento di te stesso – e m’hai significato con
ciò la tua vita. Tu vivi in ciò che tu ami. […] E che molti uomini non sappiano facil-
mente rispondere alla domanda proposta loro, non sapendo essi affatto ciò che ama-
no, dimostra soltanto ch’essi propriamente non amano nulla, e appunto perciò anche
non vivono, perché non amano217.
Nell’ottobre, il giovane triestino si occupa di Carducci218, spezzando una lancia a
favore delle Rime nuove, a conferma di una tendenza diffusa tra i vociani in questo
periodo: la ricerca di modelli nella letteratura italiana dell’immediato passato piutto-
sto che tra i contemporanei.
Carducci ci ha accompagnati fin qui senza interruzione (non per tutti d’Annunzio fu
più che un poeta), maestro, vate, amico; e probabilmente ci accompagnerà ancora un
tratto, perché Pascoli aedo e i Gozzano e i Moretti, anche se costringendoci alla più
pura umiltà critica li riconosciamo poeti, ci fan risbalzare avidamente alla prima ori-
gine della nostra letteratura contemporanea219.
A Carducci va attribuita forse, incalza Slataper, anche la rivalutazione dei due giganti
dell’Ottocento (conta, in questa sede, sapere che questa “scoperta” ci sia stata): «non
217 Pensieri di Fichte, trad. di S. S[lataper]., «La Voce», III, 30, 27 luglio 1911, p. 617.
218 S. Slataper, E i cipressi di San Guido?, ivi, III, 40, 5 ottobre 1911, pp. 661-62. L’articolo, pubblicato «in
piena campagna antilibica», aveva provocato «i giusti sdegni» di Salvemini (secondo la valutazione a po-
steriori di Jahier nelle Contromemorie vociane, in Jahier, Con me, cit., p. 275): ancora una volta emerge il
difficile rapporto tra la rivista e la letteratura, anche nelle sue valutazioni postume.
219 Slataper, E i cipressi di San Guido?, cit., p. 661.
368 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
so […] se perché c’è stato lui noi ci siamo trovati un bel giorno a scoprire con occhi
attoniti Manzoni e Leopardi». Ma occorre, per Slataper, riconsiderare
l’interpretazione “risorgimentale” di Carducci poeta della patria, da lui stesso suffra-
gata («Ora è naturale che bisogni andar molto cauti […]. Carducci amava d’essere il
poeta della “bandiera garibaldina”, il poeta della terza Italia, il poeta della patria»),
nonché la vulgata della scuola, dove si insegna Carducci “classico”; né è produttiva
una lettura del «poeta ribelle» dell’Inno a Satana, o un’esaltazione del «poeta della na-
tura», prefiguratore di atmosfere dannunziane. Carducci va riletto, forse, proprio per
quei cipressi che sono il simbolo di nostalgia e mestizia, di un poeta rivolto al proprio
mondo interiore: «E voi dovete pensare subito subito a tutte le sue molte liriche che
hanno questa intonazione di nostalgia verso l’infanzia, i toschi colli, la Maremma, la
terra libera, al pensiero di morte che rampolla dalla stessa estasi vitale […]»220. La le-
zione più attuale del poeta, secondo Slataper, che si svincola da ogni criterio di “og-
gettività” (sottolinea di non volersi vantare «d’aver scoperto un altro punto centrale
della personalità di Carducci»), risiede dunque in una poesia legata alla propria terra,
all’infanzia, alla memoria.
Disapprovazione diffusa, sulla «Voce», riceve invece l’opera di Fogazzaro, a cui
Slataper dedica un articolo in occasione della morte, prendendo spunto da Miran-
da221: dietro la maschera dell’«eroismo spirituale» si nasconde «il corrompersi oscuro,
per lo più, d’un dramma puramente sensuale». «Non c’è una vera lotta»: per uno Sla-
taper che concepisce l’arte come lotta con se stessi e come tragedia, questo è abba-
stanza per relegare Fogazzaro alla «storia sociale d’Italia»222. In questa occasione, Sla-
taper fornisce anche una definizione di “arte morale”, intesa come arte purificata da-
gli elementi accidentali delle vicende umane, che produce sul lettore non un ritorno
di “elementi pratici”, ma, si sottintende, una sorta di purificazione “ascetica”:
La vera arte è sempre morale perché in lei è superato ogni elemento pratico, e soltan-
to uno spirito impuro ne sa trarre eccitamenti e atteggiamenti per la vita. Ma l’arte
falsa, la non arte, attraendo appunto con l’apparenza intuitiva, riversa nell’anima del
lettore non intelligente, non critico, la sua scoria di sentimentalismo, erotismo, sata-
nismo o che si sia, tutti gli elementi pratici insomma che in essa non si sono organiz-
zati ed espressi. Una opera d’arte mancata è, socialmente, un’opera immorale. E in
questo senso De Amicis, Giocosa (della prima maniera), Fogazzaro sono molto spes-
so immorali.
220 Ivi, p. 662.
221 Id., Miranda, «La Voce», III, numero unico (supp. al n. 26), giugno 1911.
222 «Cosicchè nella storia sociale d'Italia Fogazzaro rappresenterà certo qualche cosa, ma nella letteraria è
presumibile che conterà assai poco» (ibid.).
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 369
Con più interesse Slataper si volge alla poesia dei crepuscolari223, che vengono in-
quadrati, storicamente, come successori timidi della «falsa magniloquenza fastosa di
Carducci e d’Annunzio». Il loro sentimento di perplessità appartiene al contempora-
neo («Vita nostra, la perplessità»), ma ciò che disturba il triestino critico è la mancan-
za del «dramma»224; i crepuscolari sembrerebbero condividere, dunque, un difetto
con i lontanissimi futuristi, ovvero l’assenza del tragico. A Gozzano Slataper guarda
con maggiore interesse, perché intravede in lui anche una «speranza»: «la rassegna-
zione a venticinqu’anni, nei non tisici è probabile che sia molto formale»225.
Fare i conti con la letteratura contemporanea, consapevoli delle civiltà letterarie
del passato, è l’intento che si propone anche un articolo di Cecchi, che sembra conti-
nuare la riflessione di Slataper sulla Cronaca bizantina226. Cecchi esordisce descri-
vendo l’impressione in lui prodotta da una rilettura dei Canti di Leopardi e dei Sepol-
cri di Foscolo:
E voi restate stupiti, in mezzo a quella squallidezza che vi innamora, in mezzo a quella
nudità che vi conquista; inebbriati di eternità da quell’odore di morte: ma un tempo
nuovamente innamorati della vita, perché, certo, nessuno amò la vita più di questi
poeti che non sapevan ancora come ella fosse terribile dono di un dio, e centaurea ve-
ste, e face ruggente, e non cantavano, anzi, che la morte e le tombe: le tombe dei loro
affetti, dei loro ideali, delle memorie loro e della patria, e vivevan di una ideal vita
prodigiosa, soltanto per cantare le tombe227.
Sulle pagine della «Voce», dunque, ecco un programma per lasciarsi alle spalle «lo
strepito, la confusione, il tumulto, l’ostentazione, l’offerta di sé»; Foscolo e Leopardi
offrono pagine che hanno «un che di trasparente e di imperituro», non all’insegna di
un classicismo purista dello stile, ma, prima di tutto, di un umanesimo dignitoso: «vi
par di sentire in modo diverso la vostra umanità, se non forse di sentirla ora, la prima
volta»; «gli affetti non sono esasperati, nè assurdi: umili anzi»228.
Con l’acume che gli è proprio, Cecchi legge però anche i contemporanei e cerca
di definire l’orizzonte comune delle opere che va sfogliando, con quella celebre anali-
si che chiede di essere ricordata:
223 Id., Perplessità crepuscolare (A proposito di G. Gozzano), ivi, 46, 16 novembre 1911, pp. 689-90; i «sei
fratellini», discendenti «malaticci, tisichino, rachitici, ansiosi, prudenti, diffidenti» di padri vigorosi, sono
Corazzini, Gozzano, Saba, Moretti, Palazzeschi, F. M. Martini.
224 Ivi, p. 689: «Ma questi sono perplessi senza dramma, come dopo una nottata di vino e di donne l’uomo
non sa se si vada a casa scantonando a destra, o a sinistra».
225 Ivi, p. 690.
226 E. Cecchi, Arte provvisoria, «La Voce», III, 17, 27 aprile 1911, pp. 557-58.
227 Ivi, p. 557.
228 Ibid.
370 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Ma un’età approssimativa, provvisoria come la nostra, un’età di transizione nella
quale tutti gli atteggiamenti ideali, nel volger di pochi anni, hanno potuto successi-
vamente, sembrar assoluti, non poteva aver che un’arte approssimativa, provvisoria;
provvisoria, anche se, di qui a duemila anni, generazioni di studiosi del nostro mo-
mento storico saranno liete di incanutir nel suo esame, cercando di comprenderne la
fisionomia sfuggente, di scoprire, nel suo intricato travaglio, un fermo aspetto di bel-
lezza229.
L’assenza di un “centro” e l’intercambiabilità tra le varie parti dell’opera sono dura-
mente criticate come costituenti, in ultima analisi, «la prova più marcata del carattere
accidentale di tanti momenti di quest’arte»230. La provvisorietà si accompagna al
frammentismo, che nelle parole del critico non è tanto forma, quanto sostanza: Cec-
chi non fa riferimento a forme frammentarie di prosa poetica (ancora di là da venire),
quanto ad una precarietà ermeneutica che, davvero, entro pochi anni porterà a una
teoria e ad una pratica dell’arte frammentaria, soprattutto con la «Voce» di De Rober-
tis. La sferzante analisi di Cecchi è diretta, prima di tutto, a Pascoli e d’Annunzio, ci-
tati apertamente anche in questo articolo; questo è il suo ammonimento, da lui stesso
percepito come inattuale231 eppure necessario: cercare «la vita poetica» italiana in
«quelle opere che stanno in disparte, tranquille e silenziose».
All’altezza del 1911, quest’analisi non si pone tanto in contrasto con le elabora-
zioni dei “letterati vociani”, ma appartiene anzi al lavoro di allontanamento dei mo-
delli più vicini nella cultura italiana e di riavvicinamento, almeno per alcuni, di e-
sempi tratti da un panorama europeo. Già nel saggio dedicato a Pascoli nel 1909 Cec-
chi aveva spiegato la “frammentarietà”, sua e di d’Annunzio, con una incapacità di
«una vasta sintesi», di «una graduale ascensione verso una sommità dalla quale, di sul
pinnacolo di un’arte sempre più perfetta, traverso l’aere di una forma sempre più dia-
fana, essi guardino, con occhio che tutto abbraccia e comprende, sull’intiero spettaco-
lo della vita»; ciò che rimane è un’«affermazione immediata di dolore o di gioia»232.
L’esperienza della prima «Voce» è tesa, invece, al recupero dell’«umanità», degli
«affetti umili», alla riconquista faticosa di una «placida altura», simile a quella su cui
campeggiano Foscolo o Leopardi. Giustamente è stato detto che l’adesione al fram-
229 Ibid.
230 Ivi, p. 558.
231 Non per nulla, si legge: «siete costretti a ritornare».
232 E. Cecchi, Giovanni Pascoli. I, ivi, I, 39, 9 settembre 1909, p. 159. Anche la definizione di «poeta delle
piccole cose» per Pascoli è valida, secondo Cecchi, come constatazione di frammentismo, «non perché
abbia cantato cose umili […], ma perché, meno pochi casi, egli è costretto da un’intima contraddizione ad
astrarle dal tutto, o a farci altrimenti sentire come riuscì vano il suo sforzo, dove volle legarle insieme in
una trama che non era intessuta del puro filo d’oro della poesia» (ibid.).
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 371
mentismo è sentita, in questo momento, da molti “vociani”, «più come una fatalistica
necessità che come una scelta»233, e non è tesa ad un abbandono di ogni “centro” e
tensione conoscitiva, ma anzi alla faticosa riconquista dei mezzi per una interpreta-
zione della realtà, personale e collettiva.
Sempre Cecchi, nel mese di marzo, aveva recensito Forse che sì forse che no di
d’Annunzio, il romanzo che segna «un preciso discrimine», per Luti, nella narrativa
dell’autore, per il coraggio di “liquidare” «la propria vocazione alto-retorica» (salvo
riassumerla in occasione della guerra) e di inaugurare, con «pagine così frante e dis-
sociate»234, un’apertura lirico-narrativa. Cecchi era appunto impressionato da questa
novità di stile, dall’esigenza dannunziana di raccontare in maniera frammentaria, ri-
vedendo la forma e il contenuto dei propri miti nietzscheani.
Sul bollettino bibliografico del 1911 compare anche la firma di Umberto Saba,
che, già recensito con poco candore sulle colonne della rivista, si dedica a presentare
le poesie di Marino Moretti, vincendo la ritrosia nei confronti di «recensioni» e «rivi-
ste»235. Quel che può interessare, nell’ambito di questa «lode condizionata», frutto di
un’attenta lettura della poesia crepuscolare, è il difetto principe individuato nelle Poe-
sie di tutti i giorni: «manca a Marino Moretti quell’appassionato tentativo di riforma
interiore, quel doloroso travaglio verso la religione dell’indomani che la fanno degna
di lirica altissima». L’esigenza di «riforma interiore» trova il proprio spazio sui fogli
della «Voce», e qui Saba sembra delineare, inconsapevolmente, il punto di frizione tra
la poetica crepuscolare e le concezioni artistiche che si vanno formando nell’ambito
della «Voce»: il «bisogno di semplicità, di umiltà, di raccoglimento, di nessuna gon-
fiatura per darla da bere a se stesso o al lettore» si debbono accompagnare, per fonda-
re un’arte nuova, ad «una più vasta o più nuova visione della vita».
Jahier, nel frattempo, non perde di vista la propria vocazione pratica, legata an-
che al mestiere di ferroviere: non a caso, è sua la recensione ad uno studio dedicato
alla riforma ferroviaria (con introduzione di Turati), che egli ritiene emblematico di
quei problemi nazionali che «voglion le spalle di una generazione»236. L’autore ci ap-
pare, nel ritratto di Jahier, in consonanza con il ferroviere che conosciamo:
233 E. Pellegrini, «La Voce» e i Vociani, in Il Novecento, a c. di G. Luti, I, Vallardi, Milano 1989, p. 564. Af-
ferma, portando l’esempio di Slataper, Ernestina Pellegrini: «Il “Vorrei dirvi”, che apre l’opera del triesti-
no […] rivela la presenza di un messaggio, la tensione positiva a comunicare qualcosa, e non certo ad ab-
bandonarsi a fantasticherie estetizzanti o a compiaciute estroversioni fine a se stesse» (ibid.).
234 Luti, Introduzione alla letteratura italiana del Novecento, cit., p. 47.
235 U. Saba, Marino Moretti [Rec. a M. Moretti, Poesie di tutti i giorni, Ricciardi, Napoli], «La Voce», III,
20, 18 maggio 1911, p. 575.
236 P. J[ahier]., Per la riforma ferroviaria [rec. allo Studio di Gino Baglioni, con introd. di Filippo Turati.
Edizione della «Critica sociale» 1910], ivi, III, 4, 26 gennaio 1911, p. 496.
372 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Ha fatto dura pratica nello squallore delle stazioni e invece di sospirare a Cloe tra un
treno e l’altro ha osservato e studiato. Fare qualcosa nell’ambiente che a ciascuno è
caduto in sorte, non accettare vita passiva, ecco la regola d’oro.
Se il segreto è «non accettare vita passiva», è pur vero che l’occupazione impiega-
tizia rischia di distruggere le aspirazioni dell’uomo, come emerge dai Mantenuti dello
Stato237. Questo articolo ha molti elementi della prosa d’invenzione, a carattere auto-
biografico, nello sfondo però finalizzata a dare testimonianza di una condizione di
vita che diventa inettitudine morale e civile. Alla professione impiegatizia si indiriz-
zano varie tipologie sociali, come rivelano ritratti a confronto: il signor Galli, che si è
impiegato «per rimediare alla magrezza delle rendite di que’ due poderi»; il «signori-
no» che viene arruolato «tra i volontari delle emorroidi» perché non guasti, per in-
competenza, la fortuna del padre; infine, il ragazzo povero. Riguardo al primo tipo,
spicca la descrizione del «salotto bono», sempre chiuso, degno di certi quadretti anti-
borghesi di Dossi (lì da parte, però, aristocratica):
Sta sempre chiuso il salotto bono, tutto sanguigno di cinabrese, colla sua consolle
panciuta e sopra gli altarini variopinti; nel mezzo oscilla la lampada velata di tulle con
un giro di candele mezze strutte penzoloni; le mosche si appendono dappertutto colle
zampine rattratte e la pancia bianca scaciata, come voti238.
Tragico, invece, il tono con cui è descritto il destino del ragazzo povero:
Al tavolo accanto troverà l’orfano striminzito nelle reliquie del vestiario paterno.
Cultura classica. Gran fitta di dover finire così. Ma gli stenti inaspriscono: la famiglia
stremata, numerosa, affettuosa anche come spesso le famiglie numerose, leva di tra il
suo silenzio il grido egoistico della conservazione.
Guadagnare è la libertà; scegliere sta bene, ma per i signori.
Quando il fratellino tremava sentì che la cultura era un lusso. La portiera verde si-
lenziosa richiude il mondo dietro di lui239.
Accanto alla coloritura letteraria, non manca mai il piglio dell’analisi, che si pro-
pone in primis di enucleare le ragioni per cui lo Stato dovrebbe favorire la formazione
di questa “classe-cuscinetto” di «mantenuti»: la soddisfazione dei bisogni di sopravvi-
venza e oltre («insegna agli operai a portar gli anelli») assicura «la pace sociale», asse-
condando un immobilismo fondato sulla mancanza di aspirazione al cambiamento
237 P. Jahier, I mantenuti dello Stato, ivi, III, 6, 9 febbraio 1911, pp. 503-04.
238 Ivi, p. 503.
239 Ibid.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 373
(«Perché la classe politica vi vuol bene, ma è diffidente») e sull’assenza di una pro-
spettiva sociale generale.
Vietato avere uno sguardo d’insieme; […] i servizi pubblici, come la scuola, debbon
esser neutrali; perché tutto vada bene basta perfezionare la controlleria del controllo.
Sopprimete quella inventività pericolosa che nasce dalla costrizione, dal bisogno. For-
se che il buon impiegato è un uomo? Perciò i giorni vostri saranno uguali tutti, conta-
ti tutti, separati uno dall’altro come le perle che un avaro sfila da un vezzo. Basta a
ciascun giorno il suo male. La trama della coscienza è inquietante; come una catena
s’allunga coi giorni, rallenta il passo e a volte trascina240.
La visione del mondo dell’impiegato è già delineata: «Il mondo è una grande ammini-
strazione cui sovrintendono, capi d’ufficio, gli uomini politici, i finanzieri, i funziona-
ri»241. La sua riduzione ad un’esistenza brutale, il cui piacere principale parrebbe esse-
re il cibo, sembra proiettare sull’impiegato la condizione dell’operaio secondo Marx:
«Pensate: mangiare tutta la vita, filtrare pallottole di cibo biascicato appuntino, ga-
rantito per tutta la vita, che oasi per un budello!»242.
Se occorre, dunque, come suddetto, «fare qualcosa nell’ambiente che a ciascuno è
caduto in sorte», è bene non dimenticarsi di guardare, da lontano, quel milieu nei
suoi caratteri più nascosti e insidiosi: «la burocrazia senza ideali, di fronte ad uno Sta-
to senza ideali»243. Bisogna allora raccontare la realtà, non solo con un’analisi puntua-
le e tecnica, ma attraverso l’invenzione letteraria, strumento che forse assicura ancora
la libertà di uno «sguardo d’insieme» e la possibilità di abbandonare una neutralità
tutt’altro che imparziale. Occorre raccontare se stessi in quell’ambiente, mettere in
scena la «trama inquietante» della «coscienza», per spezzarla nella condivisione di un
“me” che si offre, senza vanità di soggetto, agli altri. L’esigenza del racconto sembra
essere presente e operante già in Jahier nel 1911: la sua «inventività pericolosa» sem-
bra proprio affacciarsi da questo articolo, che si muove tra “saggio” e “frammento” a
carattere letterario, come alcune delle sue Delizie indigene.
Si legga, ad esempio, Vietato fumare e altre cose, per ritrovare quella commistione
tra elementi pratici, ironicamente esposti, e sensibilità al paesaggio (urbano, in que-
sto caso), recante tracce d’umanità:
240 Ibid.
241 Ivi, p. 504.
242 Ibid.
243 Ibid. Della questione Jahier continuerà ad occuparsi, ad esempio in occasione di una pubblicazione
ufficiale (Ruoli organici degli impiegati dello Stato), dimostrando una conoscenza aggiornata di dati e
problemi del mondo impiegatizio (cfr. Id., Freni burocratici, ivi, III, 42, 19 ottobre 1911, p. 672).
374 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Alba cristallina: strade squallide; case cieche sbarrate come prigioni- Ognuna ha
vomitato la sera tardi, ma il mucchietto delle spazzature lì fuori è spanto: la prima
scelta la fecero i gatti spartendo con le zampe di velluto; un cane rognoso ci arroton-
dò le buche dei fianchi e poi annaffiò l’insalata: ora i passerotti si becchettano le bri-
ciole. Poi verrà l’uomo. Ecco la stazione244.
Il quadro di desolata decadenza prelude, come la descrizione delle valli ai Valdesi, al
racconto di un episodio di ordinario malfunzionamento della cosa pubblica (in parti-
colare, la gestione di stazioni e treni).
Le Delizie indigene di Jahier non dimenticano mai, trattando di questioni di mal-
costume italiano, di riservare uno spazio ai meno fortunati; vi ricorre la figura del ra-
gazzo povero, costretto ad apprendere presto l’arte del faticoso risparmio e a rendersi
conto che, di certe disonestà, è il più sfortunato a far le spese. In questo ragazzo, si sa,
c’è l’autore stesso, come si intuirà in questa prosa dove l’iterazione, sommata alla bre-
vità dei capoversi, imposta già una personale musicalità:
Un ragazzo, tra molti fratelli, in un casa dove quando s’imburrava una fetta di pane
c’era sempre una sorella che, ripassandoci sopra il coltello, ce ne faceva uscire
un’altra.
Tutti i giorni c’era il pane e tutti conoscevano il pane, c’era anche il desinare da in-
ghiottire in silenzio, ma il denaro si conosceva appena, come una cosa dei grandi, una
cosa tremenda.
Ora quando il ragazzo imparò che il denaro contiene tutte le cose e gli venne voglia
di tastare il mondo, inventò un titolo di credito e fu il componimento per i signorini
delle buone famiglie che giocano al biliardo245.
Il “paese” è l’altro protagonista delle Delizie di Jahier, anche quando si tratta di stig-
matizzare l’uso del “metter su banda”246, lusso che stride con la vita spartana e con le
economie forzate della famiglia numerosa. Lo “stile semplice” di questo Jahier fa in-
tuire la ragione del suo interesse, tanti anni dopo, per la prosa di Pavese, che con lui si
incontra sulla ripresa di certe cadenze del parlato volte a mettere in scena la mentalità
popolare:
C’era stato di gran progetti in famiglia e decisioni: prima che venga l’alido a dar
un’altra stratta a que’ cretti nel muro, dove il viscido s’ingora. Prima che rinfreschi,
che non si può più far fuori.
E rialzar con un vespaio la stanza a terreno per via dell’umido.
244 P. J[ahier]., Delizie indigene. Vietato fumare e altre cose, ivi, III, 10, 9 marzo 1911, p. 524.
245 Id., Delizie indigene. Prezzi fissi, ivi, III, 16, 20 aprile 1911, p. 556.
246 Id., Delizie indigene. La banda, ivi, III, 22, 1 giugno 1911, pp. 583-84.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 375
La famiglia povera è il tema che anima anche i Conforti247, una sorta di riparazio-
ne ai ritratti scuri delle Delizie, a testimoniare che c’è ancora qualche virtuoso in Ita-
lia, e va cercato nelle file del popolo lavoratore: «abbiamo dei conforti, stringiamo
delle mani pulite, conosciamo delle virtù appiattate sotto il letame della vita pubblica
come radici gonfie di sugo che debbon rompere la crosta della terra». Ancora è da
notare uno stile semplice, secco e insieme lirico, che si adatti ai gesti mattutini del
muratore:
Il muratore che si desta alla stess’ora in punto, senza sveglia sul comodino, si chia-
ma il Gallo, perché riscuote i compagni dal sonno, battendo alle porte lungo lo stra-
dale.
[…] A regola non si infilerebbe neanche gli scarponi bruciacchiati dal grassello: si
va bene nella polvere fresca che incipria il piede con una carezza; sul lavoro ritrove-
rebbe le ciantelle riparate da una smotta di terra. Ma hanno sparso la breccia puntuta
che cilindra le strade, che rifà il colmo alle strade – e morde le piante coi suoi denti di
sasso. Così ricovera i piedoni nella ruvida matrice di cuoio248.
Il muratore «lascia a casa la nidiata da sistemare»: nei numeri («cinque vestiti e cin-
que paia di scarpe e cinque colazioni») si nasconde l’affettuosa preoccupazione del
padre, che vuole garantire la scuola ai figli («filano delle aste così commoventi, la se-
ra, sugli scartafacci a quadratini»)249. Il “conforto” sta nell’esperienza della solidarietà
tra compagni di lavoro: «quello che la sera rimane a custodia del cantiere» ha comin-
ciato a fare l’orto per tutti, e «curva la sua schiena paziente al lavoro gratuito per gli
altri»250.
Jahier si distingue anche sulla pagina del Bollettino bibliografico, recensendo Il
poeta degli insetti251. Giovanni Enrico Fabre, che ha inseguito la propria vocazione
nata nell’ambito di una famiglia povera, merita di essere ricordato, secondo Jahier,
per aver conciliato almeno due doti, quella di scienziato e quella di scrittore. Poesia e
verità si fondono in lui mirabilmente:
Ma in Maeterlinck la ricerca sta a sé ed è quasi un pretesto per l’esaltamento poetico.
Qui invece vi è una fusione mirabile dei due momenti. La poesia è nella ricerca ap-
247 Id., Conforti, ivi, III, 35, 31 agosto 1911, pp. 641-42.
248 Ivi, p. 641.
249 Ivi, p. 642.
250 Ibid.
251 P. Jahier, Il poeta degli insetti [Rec. a J.-H. Fabre, Vie des insectes – Moeurs des insectes, Paris, Ch. Dela-
grave, 1911], ivi, III, 30, 27 luglio 1911, p. 619.
376 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
passionata che ci comunica un’ansia indicibile, è nella trasposizione di tutta la vita
sensitiva umana in quella dell’insetto che se ne colorisce e se ne intensifica.
L’umiltà di questo lavoratore paziente («armato di una pazienza che ha del prodigio»)
conferisce una tale dignità ai suoi Souvenirs che «veramente chi gli si accosta sente di
allargare la sua umanità».
Tra le righe delle recensioni di Jahier si trova spesso qualche nota interessante,
che rivela qualcosa dell’appassionato di letteratura ma anche dell’osservatore del
mondo; lodando la Paura d’amare di Carla Prosperi252 come «cosa semplice, onesta,
seria», ne riconosce il merito nella rappresentazione di un’esistenza al femminile: «è
una vita di donna: con un bagliore di sole in principio, una ventata fresca e ossigena-
ta; e poi tristezza e decadenza». Ma, nella storia, Jahier individua una corrispondenza
con gli ostacoli vissuti dalla gioventù tutta, «in un tempo, come il nostro, né grande
né piccolissimo, dove la religione sta per finire e una nuova scintilla di vita non c’è;
dove cessa il rispetto sacro dei vecchi ordini e i nuovi sono da coloro stessi che li ini-
ziano, sofferti anziché animati». Ciò che il recensore apprezza nel romanzo della Pro-
speri è, evidentemente, la rappresentazione di una vita anti-eccezionale, di segno con-
trario a quella auspicata nelle Speranze di un disperato di Papini: «una vita come tan-
te, una vita com’è; senza abbellirla, senza concluderla; con la morte che rapisce in-
nanzi tempo, con il male che pare scaturire dal bene e dalla verità».
Un ampio articolo da prima pagina è dedicato da Jahier a Francis Jammes253, au-
tore nel quale, innanzitutto, si ravvisa una poesia interna che ha qualcosa in comune
con la riforma letteraria che scorre sotterranea in ambito vociano: «Le poesie seguita-
no una incessante conversazione interna, di rado la concentrano». Lo stile bilancia
due elementi fondamentali anche nella poetica di Jahier, la «pulsazione individuale» e
l’attenzione alla vita dei semplici; la commistione tra poesia e prosa è immediatamen-
te rivelata come generatrice di un ritmo senza eguali. Il discorso appare ricalcato sulla
«intuizione immediata», perciò frammentaria, e ciò produce, a livello della ricezione,
quel meccanismo della suggestione di cui Pica aveva parlato proprio a proposito del
poème en prose:
Eppure hanno un ritmo, una pulsazione individuale, una misura tutta loro, zoppi-
cante e musicale come un discorso parlato (Jammes è forse più intero nella prosa che
nel verso) come un discorso calcato sulla intuizione immediata, disuguale, frammen-
252 P. J[ahier]., Romanzi di donne [Rec. a C. Prosperi, La paura d’amare, Torino, Lattes, 1911; K. Michae-
lis, L’età pericolosa, Milano, Società editrice del Secolo, 1911], ivi, III, 43, 26 ottobre 1911, p. 678.
253 P. Jahier, Francis Jammes, III, 47, 23 novembre 1911, pp. 693-94.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 377
taria che bisogna completare del vostro, aggiungendo a quello che esprime quello che
suggerisce254.
Il mondo di Jammes è animato da parole vive e fresche, non letterarie:
ma la sua verità e la sua probità stanno appunto in questo rifiuto costante di servirsi
di un linguaggio che non sia sbocciato vivo e fresco colla sua sensazione – in questo
sdegno di spicciolare la fantasia in parole letterarie, congelate, utilitarie che lo fa sì ri-
correre a dei bamboleggianti sotterfugi di circonlocuzioni stucchevoli, ma che è an-
che il segreto delle sue cose più belle255.
Sarà da notare, en passant, che anche Jammes è presentato attraverso il suo “pae-
se”, determinazione necessaria, secondo Jahier, per capire l’uomo:
È nato nella vecchia casa di famiglia, odorosa di bucato, annerita dall’ombra del noce
sul tetto, è nato al giorno divino in un paese d’acque e di monti, mentre per le scabre
balze del torrente azzurro i pastori conducevano lentamente verso i cieli gli asini no-
dosi e gli agnelli belanti256.
Ed infatti, quel che in lui è più profondo, più robusto, è la sua comunione con la na-
tura, che si accompagna al recupero del «realismo ingenuo del bambino», ad una re-
cuperata «innocenza artistica»:
C’è in Jammes qualcosa di più profondo, di più intimo, di più robusto. È la sua co-
munione colla natura, il suo amore unanime per le cose, per gli animali, per le pietre.
[…] La terra, cioè la campagna che vuole tanta fatica dell’uomo e non vuol essere
contrariata257.
Jammes è comparato a Fabre nella qualità che più sembra colpire Jahier in una
personalità di artista, ovvero un’umiltà che fa scendere l’intellettuale al livello del po-
polo, l’uomo al livello degli animali più meschini, permettendogli poi di innalzare un
canto non più individuale, ma collettivo:
Davanti a questi spettacoli, davanti a queste creature egli si china tutto in umiltà e
raccoglimento; il suo petto si gonfia, il suo respiro si allarga; non balbetta più; canta;
254 Ivi, p. 693.
255 Ibid.
256 Ibid.
257 Ibid.
378 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
la fatica indurata testardamente sotto il sole e il suo canto ha degli accenti di solennità
religiosa. […]
Ma nella rappresentazione degli animali si palesa soprattutto quel senso, tutto mo-
derno, di fraternità, di comprensione delle vite più umili che ha avuto in Fabre un co-
sì meraviglioso profeta258.
Jahier vede, in Jammes, un’immersione nella natura che è «annientamento», «smar-
rimento della sua individualità nel gorgo profondo della vita universa»; non si tratta
di porre l’io al centro di tutti i fenomeni, oggetto di una fusione panica o catalizzatore
di correspondances, ma di mettersi da parte e dare spazio alle cose («Je ne puis plus
parler, je ne suis que des choses»).
Nel 1911, Jahier inizierà a lavorare, con grande entusiasmo, come gerente della
Libreria della «Voce» di piazza Davanzati, materialmente presentata ai lettori il 2 no-
vembre 1911 con due foto e informazioni pratiche259. Jahier dà alla Libreria la dignità
di un lavoro indispensabile per la formazione culturale italiana e, nel frattempo, deli-
nea i compiti degli “intellettuali” per la contemporaneità, sgomberando il campo da
qualsiasi rimpianto di vita bohèmienne o di eroismo d’altri tempi:
La nostra generazione non è venuta su in un momento che chieda la consacrazione
alla morte, un giorno supremo di passione e di sacrificio. Lo sentiamo, a volte, quanto
è difficile metter della grandezza a morir tutti i giorni! Tuttavia essa ha il compito di
raccoglimento, di formazione, di diffusione della cultura. Un apostolato civile, un a-
postolato religioso dei valori spirituali in questo momento di fiacchezza, di disgrega-
zione, di mercantilismo, ha pure la sua dignità260.
La libreria si prefigge un compito morale, costruendo un’isola di cultura al di fuori
del “mercantilismo”:
Non facendo del puro commercio a scopo di lucro, non possiamo adattare la nostra
Libreria ai gusti del pubblico per sussistere (sarebbe forse possibile). Il giorno in cui ci
mancaste, in cui dovessimo mancare al nostro fine di educazione spirituale, l’opera
nostra diventerebbe un esercizio di rivendita di libri come ce ne sono tanti. Cioè non
lo diventerà mai perché ce ne ritireremo prima.
Se dovessimo fallire, ricordatevelo bene, sarà un fallimento morale261.
258 Ibid.
259 Delle due foto, una è «presa dal Palazzo della Posta ora in costruzione», l’altra, scattata al livello della
strada, ritrae le due porte a vetri con su scritto «La Voce».
260 P. Jahier, Le cose nostre, ivi, III, 44, 2 novembre 1911, pp. 683-84.
261 Ivi, p. 684.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 379
Di Boine, la «Voce» pubblica nel 1911 La ferita non chiusa, estratto dalla prefa-
zione ad una traduzione del Monologio di S. Anselmo262; il testo non manca di essere
significativo della riflessione di Boine sulla coscienza individuale, divisa tra il mito
della Ragione e quello della Fede, che sono entrambe «ingannevoli paci»: «Ma al di
fuori dei miraggi e dei miti o troppo semplici o troppo lieti, la realtà nuda è un ine-
sauribile dissidio, necessario in perpetuo nello spirito nostro». La riflessione di Boine
sulla realtà economica e sociale italiana è racchiusa, invece, dal celebre, ampio inter-
vento dal titolo La crisi degli olivi in Liguria263, che contiene gli elementi fondamentali
della riflessione di un intellettuale conservatore, favorevole ad una «politica di con-
servazione della Terra» che veramente è, per lui, «religiosa», racchiudendo in effetti i
cardini di un’ideologia che è stata ben sviscerata da Carpi. Non si può evitare però di
soffermarsi su quella commistione tra dati pratici, quasi statistici, ed elementi poetici,
memoriali, personali, che caratterizza l’articolo di Boine. I procedimenti di partenza
sono simili a quelli adottati da Jahier per i Valdesi nelle valli, a partire dallo scivola-
mento autobiografico della prosa, che comporta un’astrazione lirica dal dato reale
secco e preciso:
Si vende, qui su in vallata, a dieci chilometri dal mare, sopra Porto Maurizio, la casa
di mio nonno. Casa fra gli ulivi, con vigna ed orto, casa a due piani, a mezza collina,
con loggiati, con terrazze, (oh i meriggi di quand’ero ragazzo e seccavano sul parapet-
to al sole, i fichi neri, bianchi carnosi, polposi, gravemente odoranti e goccianti di
miele gommoso! […])264.
Ad una lunga parentesi, come per segnalare la natura superflua e personale delle no-
tazioni, è affidata la rievocazione dell’infanzia, tratteggiata nel ritmo dei rumori e del-
le cantilene della casa e della campagna.
Sempre a scusarsi di queste coordinate autobiografiche, l’autore conferma
l’esemplarità della propria storia:
Storia arida per sé, arida e breve sebben io, da ragazzo (tornavo ogni anno per le
vacanze e trovavo il nonno più zitto e più curvo e la casa più vuota) da ragazzo ne
fossi commosso e fantasticassi; mi pare di farne un romanzo; ma pur storia non mia a
262 G. Boine, La ferita non chiusa, ivi, III, 12, 23 marzo 1911, p. 537; il libro sarà recensito da Arrigo Leva-
sti sulla «Voce» nel 1913 (S. Anselmo, [Rec. a S. Anselmo, Monologio, con Prefazione di G. Boine, Lancia-
no, Barabba, 1912], in Bollettino bibliografico, 2, ivi, V, 10, 6 marzo 1913, p. 1032), con ampi stralci dalla
Prefazione e questo giudizio: «mi sembra una meditazione fatta in una cappella romanica di Lucca tra il
sanguigno dei mattoni il silenzio il deserto l’ombra mentre il suo essere lacerato spogliandosi di tutti i
dannosi veli, e ripiegandosi su se stesso, mira una dolorosa sconfortante ma eterna verità».
263 G. Boine, La crisi degli olivi in Liguria, ivi, III, 27, 6 luglio 1911, pp. 604-06.
264 Ivi, p. 604.
380 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
guardarla fino in fondo, storia di molti, storia economica in verità non complicata da
vent’anni a questa parte, di tutte queste nostre vallate265.
Questa realtà ligure è “arida e breve”, perfino “semplice” nella sua trama di ragioni
economiche; i sentimenti commossi sembrano essere ricondotti al “ragazzo” che Boi-
ne non è più. Eppure, dal congiuntivo imperfetto («fossi commosso», «fantasticassi»)
si passa ancora al presente: all’adulto «pare» ancora «di farne un romanzo»; si tratta, è
chiaro, di un romanzo autobiografico, che, messo da parte, si intrufola ancora, per
frammenti, nel discorso-saggio attraverso le parentesi.
La “gente” di Boine è simile al popolo dei Valdesi di Jahier, almeno nella tenacia
con cui ha modellato un ambiente ostile, rendendosi protagonista di un’epica del la-
voro e del sacrificio; la terra è lo specchio della generosità dei padri:
Terreno avaro, terreno insufficiente su roccia a strapiombo, terreno che franerebbe a
valle e che l’uom tien su con grand’opera di muraglie e terrazze. Terrazze e muraglie
fin su dove non cominci il bosco […]. Non ci han lasciato palazzi i nostri padri, non
han pensato alle chiese, non ci han lasciata la gloria delle architetture composte: han-
no tenacemente, hanno faticosamente, hanno religiosamente costruito dei muri, dei
muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin in su alla
montagna266.
La storia è semplice, ma a questo destino collettivo Boine appare voler dare una sicu-
ra dignità artistica; così l’aridità (attributo della storia e del terreno) è resa attraverso
un tessuto linguistico liricamente aspro («stile teso e commovente» lo definirà Agno-
letti, riprendendo la discussione sul protezionismo)267. Anche nella seconda parte,
che si apre con un «Parliamo preciso», combina informazioni e immagini fulminee, i
«parassiti con nomi difficili» e la «tristezza delle confraternite»268. Boine stesso con-
fessa il forte legame che lo unisce alle vicende del suo territorio, che l’«uomo
d’intelletto» ha il dovere di «ricercare» e «definire»: «Le vicende locali del mio paese
ch’io più volte ed a lungo pensai di narrare (oh ormai impossibile fatica al mio corpo
malato!)»269. È questo dovere di testimoniare la realtà che Boine sembra voler assolve-
re con questo articolo, messe da parte le velleità di storico («Dirò dello storico e della
fragilità dell’opera sua in un’altra occasione»). La terza e la quarta parte dell’articolo
265 Ibid.
266 Ibid.
267 F. Agnoletti, La morale a chi tocca, ivi, III, 30, 27 luglio 1911, p. 615.
268 Boine, La crisi degli olivi in Liguria, cit., p. 604.
269 Ivi, p. 605.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 381
sono infatti diretti ad un’analisi più strettamente ideologica, ed alla proposta di rilan-
ciare una “sana politica della terra” in Italia.
Un altro ampio intervento di Boine è dedicato, in agosto, alle «pagine mistiche»
di Gallarati Scotti270, recensite positivamente da Murri il mese precedente; la discus-
sione si amplia ben oltre il testo dello Scotti, toccando problemi di fede, morale e arte.
In particolare è interessante rilevare in Boine il lettore (ammirato, eppure quanto di-
stante) di Huysmans:
Ma chi vuole far l’arte religiosa, chi fa dell’arte religiosa per imitazione, chi non è
attualmente religioso […] non avrà mai in ciò che dice l’immediatezza, la semplicità
rude e magra di coloro che la vita religiosa realmente vivono e per cui l’arte religiosa è
necessaria espressione. E descriverà per es. come Huysmans (pigliamo Huysmans a
nobile ed a tipico esempio) delle mistiche complicatezze di sentimento a cui l’uomo
religioso non pensa, o più spesso, (osservazione di Remy de Gourmont) farà
dell’archeologia, della erudizione religiosa […]. Che se v’è della sincerità in Hu-
ysmans, colla religione non ha troppo da fare: è sincerità tra sessuale e morale che ha
la religione per sfondo, o per orlo e per fregio271.
L’avvertimento di Boine, che sconsiglia di fare dell’arte a partire da qualcosa che non
riguarda l’uomo-autore fino in fondo, è probabilmente applicato prima di tutto a se
stesso, che si occuperà di sentimento religioso in maniera del tutto personale, nel Pec-
cato. Il rimprovero parla chiaro: «Non c’è la vita, non c’è la muscolosità sanguigna, la
nervosità scattante e dolorosa della vita»272.
Soffici si dedica al Moréas minimo273, approfondendo «il Moréas prosatore e liri-
co, diciamo così, cotidiano» (Paysages et Sentiments, Feuillets, Voyage de Grèce)274,
colpito dall’«accento di assoluta sincerità». In questo Morèas, Soffici coglie un distac-
co dalla tradizione precedente che lo interessa, probabilmente, anche per il tipo di
prosa a cui lui stesso va pensando: «Non più smorfie simboliste o decadenti, arzigo-
golature raffinate di versi e di strofe, e soprattutto non più drappeggiamenti eroici
così poco emotivi ai nostri tempi, quando non sono addirittura ridicoli». In quelle
che Soffici chiama «divagazioni liriche», definizione che si adatterebbe anche a certe
sue prose di Arlecchino o del Giornale di bordo, Moréas ha condensato «i segreti in-
270 Id., Di certe pagine mistiche, ivi, III, 33, 17 agosto 1911, pp. 632-34.
271 Ivi, p. 633.
272 Ibid. Non sono molti gli interventi di Boine sulla «Voce» nel 1911; un ultimo è dedicato alla recensione
di un testo sugli Umiliati: G. Boine, Gli Umiliati [Rec. a L. Zanoni, Gli umiliati nei loro rapporti con
l’eresia, l’industria ed i comuni nei secc. XII e XIII, Hoepli, Milano 1911], ivi, III, 52, 28 dicembre 1911, pp.
723-24.
273 A. Soffici, Moréas minimo, ivi, III, 15, 13 aprile 1911, pp. 549bis-50bis.
274 I tre testi erano stati ripresentati in Esquisses et Souvenirs nel 1908 per i tipi del «Mercure de France».
382 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
canti della natura» e «i moti più leggeri del suo spirito». Il ritratto di questa «serenità
dell’animo», difesa perfino nella giornaliera frequentazione della bolgia dei caffè del
quartiere latino, ha qualcosa in comune con quella dimensione intima, a contatto con
la natura, che verrà invocata da Soffici stesso nella seconda Primavera, risalente ap-
punto a questo anno: «E il saggio si scomoderà per essi o perderà una sola carezza del
tramonto rosato?»275. La scelta nel campo delle «innovazioni estetiche» di Moréas
sembra poter insegnare qualcosa anche ai giovani della «Voce», ovvero l’arte del
“giornale psicologico”:
Dove sono il simbolismo, l’arcaismo, il classicismo, i significati riposti e la scelta
scrupolosa dei soggetti? Abbandonate tutte queste preoccupazioni, le quali non sono
altro in fondo che un resto svisato della eterna rettorica, Moréas osserva, vive, e mar-
ca in queste note di viaggio, in questi giornali psicologici, ciò che vede, ciò che sente e
ciò che si ricorda276.
Questa prosa non disdegna il bagliore aforistico:
Più spesso ancora sono, disseminate fa gli schizzi e i ricordi, delle brevi sentenze
che sotto l’apparenza della bonomia e dell’arguzia contengono in poche parole la
somma di mille esperienze277.
Ad onta della frammentarietà, e forse proprio attraverso di essa, necessaria forma
di percezione della realtà, Moréas va oltre lo schizzo impressionista («non sempre si
tratta di forme e colori puri e semplici assembrati in mazzi come fiori colti in un
campo»), diretto a cogliere una morfologia della realtà e della vita:
E in ciò consiste l’innovazione di Jean Moréas. Aver fatto sì che dei frammenti, delle
impressioni, dei semplici appunti assurgessero, ognuno per sé e tutti insieme, vinco-
lati come sono da un unico ritmo, che è poi quello stesso della sua anima, a una vasta
configurazione della realtà e della vita278.
Tra elegia e filosofia, tra realismo e lirismo, queste prose hanno come modello, per
Soffici, i migliori componimenti (e qui s’intenderà anche poèmes en prose) di Baude-
laire e di Verlaine: «e per la loro semplicità e armonia, e per il loro colore, e per il loro
275 Soffici, Moréas minimo, cit., p. 549bis.
276 Ivi, p. 550bis.
277 Ibid.
278 Ibid.
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 383
realismo e soprattutto per il loro lirismo tra elegiaco, filosofico, e castamente volut-
tuoso».
Annunciata a Prezzolini l’anno precedente, la seconda Primavera di Soffici, sta-
volta parigina, viene pubblicata nel giugno del 1911279. La dualità tra artificio e natura
si ricrea all’interno della metropoli, dove l’azzurro artificiale dietro le affiches si sposa
con il turchese del cielo, che si mescola in basso alla Senna specchiante «il chiarore
del pomeriggio». Distogliendo presto lo sguardo dalle «barche cariche d’uomini e di
carbone», Soffici si volge ai giardini, spazi abitati da bambini, balie ed uccelli. Come
l’anno precedente, la primavera è un rito di passaggio che finisce per coinvolgere l’io
nella rinascita: «Oggi tu m’entri nell’anima e la penetri tutta di tenerezza insieme e di
forza. E sì che la mia anima era ben chiusa e aggrondata!». Le questioni che lo tor-
mentavano sono, primieramente, “filosofiche”: considerare il mondo «come una cre-
azione del mio spirito», e dunque vivere «senza leggi né freni», in un trionfo
d’egoismo («senz’altro ritmo che quello inerente al mio essere solitario, unico»), op-
pure imporsi una qualche forma di «coscienza»? Le due possibilità assomigliano a
quelle prospettate a Baudelaire, secondo una vulgata ripresa in ambito italiano da Ra-
gusa Moleti (partendo da una posizione di scetticismo, il poeta avrebbe potuto diven-
tare «monaco» o «rompicollo»)280: «Allegra pazzia, o saggezza rigorosa? Libertà infi-
nita, o severo, tragico eroismo?». Si tratta di una questione che, dalla morale, incontra
l’estetica: «E la bellezza, […] la riconosceremo per tutto dove la sensazione s’incarna
con l’accento della barbarie e dell’anarchia, o la vorremo vestita d’intelligenza e di vo-
lontà?».
La soluzione ai dilemmi ricalca, in panni francesi, quella della precedente prima-
vera toscana; si tratta di cambiare prospettiva, di sciogliere il proprio canto a partire
dalle radici, ovvero dall’infanzia trascorsa sulle colline, di “conoscere se stessi” in una
dimensione memoriale e ancestrale, rispecchiandosi nella natura:
Menalio, cominciò a dirmi il mio demone, Menalio, vedi il tuo pericolo, pensa alla
tua salvezza! Fuggi gli abissi attiranti ma nel cui fondo nero dorme il nulla infinito, il
caos sempiterno, e conosci invece te stesso: tu non sei un figliolo del tenebroso norde
e la tua infanzia è trascorsa a piè delle colline dorate di Fiesole, incoronate di rose e
violammammole: non tradire il tuo cuore e cerca anche qui la tua patria. Apri gli oc-
chi: guarda la terra e il cielo; vedi come son sereni, come semplicemente si formano,
splendono e si dileguan le nuvole, e con che maraviglia s’aprono anche quest’anno
foglie nuove.
279 Id., Primavera, «La Voce», III, 22, 1 giugno 1911, p. 581.
280 Ragusa Moleti, C. Baudelaire, cit., p. 11.
384 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Questa “guarigione” ha qualcosa di “vociano”, basandosi sull’imperativo di indagare
se stessi; l’esistenza è qua concepita in termini tragici (come per Slataper), ma alla co-
scienza resta una parte da giocare, sia pur quella di coro: «Che cosa parlavo di follia e
di saggezza? Parole! Ciò che importa è il sapere che la vita è una tragedia sublime di
passioni scatenate ma dove la nostra coscienza fa la parte necessaria di coro». Tale
presa di coscienza, ha una conseguenza sull’arte, che, ancora in termini vociani, è
condannata quale “passatempo”, esaltata come incontro tra istinto e intelletto: «l’arte
non è che uno sciaurato passatempo ove non rifletta un possente istinto sorvegliato,
epurato e sublimato da un intelletto lucido e fermo…».
Raggiunta questa coscienza, l’io è pronto per l’ultimo passaggio che, come indi-
cava Slataper ai Giovani intelligenti, si concretizza in un ritorno nella città e nella
moltitudine, mentre dalla luce siamo scivolati nel buio, dalla solitudine pacifica del
giardino si passa al «cuore infiammato di Parigi»: «sarà investito, avvolto, trascinato
da questa folla sconosciuta». A ben vedere manca però, in questo ritorno tra gli uo-
mini, quel senso morale del lavoro tipicamente vociano, mentre, anzi, l’io, in una di-
mensione individuale, sembra aver trovato l’imperturbabilità di un asceta, nella co-
scienza del ritorno delle stagioni, della natura che ha visto, fin da bambino, nascere e
morire: «Saldo come un cipresso del mio paese posso abbandonarmi sicuro a tutti i
venti. Né gli uomini né le cose posson turbarmi più».
A questa Primavera può convenire accostare un intervento di Prezzolini apparen-
temente assai distante, Agli amici de «La Voce»281, pubblicato nel corso dello stesso
mese; in esso, il direttore ringrazia della solidarietà fornita a lui e alla rivista in occa-
sione del processo e riconferma la volontà di continuare il «programma di rinnova-
mento morale degli italiani», anche attraverso quella libreria a cui «oggi conviene ri-
volgere tutti i nostri sforzi». L’apertura dell’articolo appare però come un controcanto
alle campagne e primavere di Soffici282; condotta con uno stile spezzato e lirico, intes-
suto di ripetizioni, soprattutto la prima colonna ha i caratteri di quella prosa
d’invenzione diffusa dai «tanti» che, si schernisce il direttore, lo superano «di forza
inventiva» e «di stile»:
Vorrei scrivervi da una campagna. Dalla terrazza aperta, udrei sbatter pel vento la
tenda, riparo dal sole: e a traverso la finestra, vedrei sotto gli olivi riposare un gruppo
di donne, vestite da paesane, macchie rosse, bianche, lilla, con un bimbo per mano:
tutto bianco. Un cane che grufola nel mucchio di fieno; un villano che passa; un
281 G. Prezzolini, Agli amici de «La Voce», «La Voce», III, 25, 22 giugno 1911, p. 595.
282 Del resto, in occasione dell’aggressione futurista a Soffici per il suo articolo sulla pittura, Prezzolini
puntualizza anche: «Io e Soffici siamo agli antipodi. […] Concezioni di vita assolutamente diverse, logica
la mia, fantastica la sua, d’osservazione al dovere e di lavoro sociale la mia, di arbitrio e di anarchia la sua»
(Id., Avviso a chi tocca, ivi, III, 27, 6 luglio 1911, p. 606).
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 385
mimmo che frigna; questi rumori salirebbero a ondate nel torpore silenzioso del po-
meriggio fino alla stanza e riempirebbero tutta la coscienza, atona, passiva, rassegna-
ta, a riposo.
La campagna, riposo ed evasione (forse letteraria?), è comparata alla distrazione che
offrono le macchie di verde in città, così significative per la Parigi primaverile che ri-
velava Soffici a se stesso:
Vorrei scrivervi da un luogo di riposo. Se dessi retta al mio gusto, al mio piacere, ai
miei nervi, ai miei muscoli, ai miei occhi, vi scriverei da una campagna. Quando
prendo un tramvai, appena tra le case nuove e bianche scoppia una nota di verde e di
azzurro, giardino e cielo, siepe, collina, boschetto e cielo, muricciolo a seco, balzo co-
perto d’edera e cielo, sento come dessi un tuffo nell’acqua fresca; stendo il braccio,
stendo l’anima, tutto il mio essere corre via dal mio corpo e si sprofonda, si sparpa-
glia, si profonde su tutto quello spazio, aperto come una mano tesa, enorme, per so-
stenermi e portarmi e cullarmi. Dico male tutto questo, ma mi capite.
In pratica, Prezzolini sta rifiutando di accettare i «sette mesi di riposo» consigliati
dalla magistratura, ma si sta anche smarcando dal ruolo di “artista” che altri auspica-
no a ricoprire, una funzione che non è la sua e francamente appare, nei panni di una
fuga nella natura, come accessoria piuttosto che necessaria. Delle timide apparizioni
della letteratura nella rivista Prezzolini ha evinto, all’altezza del 1911, queste conclu-
sioni: la formazione di uno stile innovativo gli interessa in quanto è “utile” ad un
giornalismo più incisivo, non come sperimentazione inventiva; intervento di caratte-
re letterario significa evasione in un impressionismo “riposante”, che risolve, magari,
i dissidi dell’io in una fusione con i ritmi della natura. Il direttore aveva ben diritto di
rivendicare il proprio ruolo e di differenziarsi dai collaboratori, ponendosi umilmen-
te come «un uomo che ha un po’ di tempo a sua disposizione e certa conoscenza del
meccanismo editoriale e librario». D’altra parte, però, questo suo intervento confer-
ma ciò che si è accennato, in principio, con Ghidetti: lungi dall’interessarsi ad una ri-
forma letteraria, auspicata dai collaboratori, che avrebbe potuto sostenere e accom-
pagnare il programma vociano di «rinnovamento morale», il direttore tende a lascia-
re in disparte la letteratura; finiva così per aderire, indirettamente, a quel moto che
tendeva ad astrarre l’arte dalla realtà e dalla morale.
Quando la riflessione papiniana si fa costruttiva, vediamo apparire Le speranze di
un disperato283, dove, rimossi d’un colpo d’Annunzio, Pascoli e «guidogozzano», in-
dica la via di un possibile «risorgimento». È qui che viene enunciata compiutamente,
per la prima volta sulla «Voce», una poetica che si nutre delle riflessioni della koinè
283 G. Papini, Le speranze di un disperato, ivi, III, 24, 15 giugno 1911, pp. 589-90.
386 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
vociana in campo artistico, imboccando però una direzione diversa da quella intra-
presa, ad esempio, da Jahier. L’esigenza di un superamento della stagione “decadente”
è, sulla «Voce», pressoché unanime, come anche un certo sospetto nei confronti della
poesia crepuscolare (qui tradotto in insofferenza), nonché un’opposizione radicale
alla teorica futurista. Altro elemento appartenente ad una linea comune è l’esigenza
di virare in direzione dell’interiorità, di ripartire dall’esame di se stessi per una nuova
arte:
L’arte, finora, ha espresso quasi sempre i sentimenti e i fatti più comuni e universali
degli uomini […]. Descrizioni di cose esterne, a proposito di cose esterne, a proposito
di stati di coscienza ordinari. Ora l’arte dovrebbe riferirsi, secondo me, più all’interno,
interiorizzarsi più che non abbia fatto finora […].
Papini riconosce che l’esigenza di riflessione dovrà essere fondamentale, non per
un’arte filosofica che intenda riportare in poesia la fredda certezza delle teorie, ma
per una poesia che ospiti «gli uomini pensanti»: «un’idea generale di per sé presa non
può essere poetica, ma un uomo che vien divorato da un’idea e che lavora e si tor-
menta intorno a un’idea, sì». Il lettore di Leopardi potrebbe trovare, in questa dichia-
razione d’intenti, un’analogia con queste affermazioni di Papini: in fondo la linea di
sviluppo maggiore della prosa e della poesia leopardiane si pone forse nell’ambito
della letteratura sapienziale, sviluppando riflessioni di filosofia morale basate non
tanto su costruzioni filosofiche sistematiche, quanto sulla propria esperienza di uo-
mo.
«Di questa arte interna», dice Papini, «abbiamo pochi esempi»: quelli che lui ci
fornisce sono, per lo più, modelli in negativo: «è il rovescio della grande arte decora-
tiva, artistica, esteriore, sensuale e troppo umana, anche sotto i panneggiamenti dei
broccati e degli arazzi, del D’Annunzio». Certo è che i propositi sviluppati all’interno
della «Voce» sono stati rielaborati da Papini, che ne esaspera, già in questo articolo,
alcuni caratteri: l’indagine dell’interiorità, che dovrebbe preludere ad un più fecondo
incontro con il mondo e ad un cambiamento di se stessi al fine di intervenire sulla
realtà, è già divenuta fine a stessa. L’esame di coscienza, lungi dal proiettare i suoi ri-
sultati sulla realtà, sembra destinato a rimanere in sé, autoalimentandosi: «Io vorrei, in-
somma, che si capisse come le vicende spirituali, cerebrali, intellettuali di un uomo […]
possono esser materia d’arte». Allontanandosi dall’umiltà – che Papini, in effetti, non
ha mai individuato come carattere necessario all’artista o all’uomo morale – caldeggiata
dagli interventi di altri vociani, egli esalta l’eccezionalità dell’artista, dovuta appunto a
questa speciale vita interna:
Vorrei far capire come questa vita più profonda e misteriosa dello spirito, questa vita
fatta di idee assurde, di problemi insolubili, di dubbi straordinari o di certezze ine-
Verso il “frammento vociano” (1908-1911) 387
splicate, questa vita che non è di tutti, ma ch’è più intensa e più alta di quella di tutti,
questa vita che par così fredda e silenziosa può esser tutta pervasa di passione e
d’eroico furore […]284.
Una vita «più intensa e più alta di quella di tutti»: vita e arte aristocratiche, dunque,
basate sulla genialità del singolo; non certo «analisi» alla Zola, ma nemmeno ritratti
psicologici alla Bourget, perché occorre spostarsi «dal normale verso l’eccezionale».
L’orizzonte di Papini, pur nel tentativo, tipicamente vociano, di smarcarsi dalla lette-
ratura “decadente”, non si sposta in realtà da un binomio tra arte e vita “d’eccezione”.
284 Ivi, p. 589.
2. Linee per un primo bilancio
2.1 Una riforma interiore per cambiare il mondo: pericoli e virtù della poetica vociana
Terminata una carrellata sulle prime tre annate sulla «Voce», si dovrà prima di tutto
notare che, in una rivista non letteraria, emergono tuttavia voci interessate alla lette-
ratura da un punto di vista critico (Cecchi e Serra in particolare), ma anche collabo-
ratori che si giostrano tra articoli d’attualità sugli argomenti più scottanti (la guerra, il
nazionalismo), critica letteraria (anche solo nella forma di bollettino bibliografico) e
riflessioni sullo statuto della letteratura contemporanea, con la finalità di dare spazio
a nuove poetiche in fieri (in particolare Slataper, Jahier, Papini, Soffici e Boine). Idee
per una nuova letteratura vanno nascendo proprio all’interno di questa «Voce», e
prima del 1912, come parte di una riflessione generale sui vari aspetti dell’attività
umana; non è del tutto vero, dunque, che le meditazioni sull’arte deriverebbero, in
ciascun autore, da altre esperienze, e sarebbero per lo più irrelate dall’attività in rivi-
sta. Si potrebbe anzi dire, a ben vedere, che il clima comune di riformismo morale
abbia condizionato, in vario modo, un po’ tutti i citati collaboratori nel loro rapporto
con la letteratura.
Si possono individuare infatti concezioni comuni, una condivisione di immagini
simboliche, idee simili per uno svecchiamento della letteratura come parte di una ri-
forma più ampia. La natura di questa riforma potrebbe essere espressa con parole, più
tarde, di Prezzolini, il quale la descrive in opposizione all’esperienza del «Leonardo»
nell’Italiano inutile:
Il «Leonardo» era stato uno sforzo di educazione personale, fondato sopra un princi-
pio di dilettantismo, attuato con ricerche anarchiche, che avevan mendicato al catto-
licismo e perfino al magismo una soluzione, senza trovarla, perché sempre individua-
le. Ci voleva, ora, qualche cosa che passasse i nostri individui e toccasse la società e, in
un certo senso, s’innestasse con la storia. Chi lo sapeva? Forse modernisti, sindacali-
sti, leonardiano, crociati, ricercatori di nuovi doveri della scuola, socialisti stanchi del
marxismo, repubblicani annoiati del mazzinianismo, monarchici che ambivano a una
attività sociale e politica più viva del grande istituto ereditario rappresentante la Na-
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
390 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
zione, minoranza di tutte le maggioranze soddisfatte e stanche, non avrebbero potuto
riunirsi e dire e dare all’Italia una parola e un’azione?1
In modo simile, Hermet propone di individuare le esperienze del «Leonardo» e della
«Voce» con sentenze contrapposte: «Chi è proceduto più oltre? perché io voglio pro-
cedere ancora più oltre» (Whitman, ripreso da Papini); «Chi è salito più in alto? per-
ché io voglio scendere quanto è salito» (Jahier, Ritratto dell’uomo più libero)2.
La «Voce», dunque, sarebbe stato un moto dall’individuo alla società, alla storia,
un percorso incoraggiato dalle minoranze (geografiche, storiche, di pensiero) alla ri-
cerca di spazi di parola e d’azione. Uno «sforzo» diretto solo all’«educazione persona-
le», all’individuo, era già “fallito”; è questa una delle ragioni per cui Prezzolini diffi-
dava, tra tutte le scienze, di quella letteraria, che nasce da riflessioni individuali e,
spesso, in una dimensione intima e individuale si ferma.
La «parola» e l’«azione» della «Voce» derivavano, come afferma ancora Prezzoli-
ni, da una ricerca di autenticità e sincerità prima di tutto, da un’onestà individuale;
sorgeva l’esigenza di una riforma morale e interiore del singolo, preliminare ad ogni
“azione” in ambito sociale e collettivo. Come aveva già notato Guido Di Pino, tra i
primi ad occuparsi di letteratura vociana sotto il segno dell’autobiografismo, «i vo-
ciani sanno che parlare di se stessi non è tutto, come poteva essere per i romantici pu-
ri»; si trattava piuttosto di offrire una «testimonianza», personale e «disinteressata»,
«alla storia del proprio tempo»3. L’esigenza di un mutamento profondo nella coscien-
za del singolo, preparatorio ad una revisione degli statuti più arretrati della società, ha
però in sé, se mal diretta, alcuni germi di pericoloso immobilismo e conservatorismo.
Si prenda, per esempio, la questione del voto alle donne, parte di quel grumo irrisolto
che è, per i giovani vociani, il rapporto con l’altro sesso, nonché di quel capitolo di
storia della rivista da intitolare a «La Voce» e le donne, come ha proposto Anna Noz-
zoli4, indicando fin da subito quanto le posizioni siano «fortemente mescidate» (im-
possibile una spartizione tra “destra” e “sinistra”). Un articolo pubblicato il 26 giugno
1913 e firmato dal collettivo «La Voce» dà la misura del pericolo insito nella convin-
zione ostinata della necessità di una riforma dello spirito di fronte a questioni di im-
mediato ordine pratico.
1 Prezzolini, L’italiano inutile, cit., p. 122.
2 Cfr. A. Hermet, La ventura delle riviste, a c. di M. Biondi, Vallecchi, Firenze 1987, p. 78.
3 G. Di Pino, Memorialisti italiani del Novecento, Peloritana, Messina 1966, p. 10.
4 Cfr. A. Nozzoli, «La Voce» e le donne, in Ead., Voci di un secolo. Da D’Annunzio a Cristina Campo, Bul-
zoni, Roma 2000, pp. 97-116 (precedentemente in Les femmes-écrivains en Italie (1870-1920): ordres et
libertés, Atti del Convegno (Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 26-27 maggio 1994), «Chroniques
italiennes», 39-40, 1994, pp. 207-222).
Linee per un primo bilancio 391
Prima di porre il problema presentato nel titolo (Il voto alle donne)5, l’intervento
si concentra sull’arretratezza della mentalità italiana di fronte ai diritti delle donne,
vessate ancora da leggi e consuetudini patriarcali:
La donna è considerata ancora nella pubblica coscienza come una suppellettile ca-
salinga, un oggetto di proprietà, un arredo forse sacro ma arredo, che si può compra-
re, rubare, vendere ed impegnare a vita: un bicchiere che si deve rompere quando
non ci si può più bere. Non già qualcosa che abbia volontà, libertà, che sia un «esse-
re».
La condizione subordinata della donna trova il suo apice nell’«uccisione della moglie
infedele», che resiste come «una specie di istituzione nazionale, morale e giusta».
Ne consegue, però, una sorprendente posizione nei confronti del voto alle donne,
teoricamente progressista, ma di fatto, nell’attualità, conservatrice: occorre promuo-
vere un cambiamento nella coscienza collettiva del paese, che comincia, appunto, dal-
la coscienza del singolo; finché questo mutamento non sia avvenuto, sembra inutile
parlare di voto, divorzio o unione libera:
Ora in queste condizioni le donne che chiedono il voto in Italia ci sembran persone
che domandino le paste non avendo il pane. Prima che cittadina, la donna occorre
che sia donna; prima del voto, occorre il rispetto; prima della politica, la morale. Fin-
ché la donna sarà un oggetto di caccia per le strade, un oggetto di vendita nel fidan-
zamento, un oggetto di proprietà nel matrimonio, non le varrà nulla essere elettrice
od eletta.
Divorzio, dunque?
Divorzio, anche. Ma che cosa conta il divorzio se non è accompagnato da uno stato
di spirito che sanzioni la libertà della donna?
Nessuna persona di buon senso, ad oggi, vorrebbe sconfessare quelle battaglie civili
che hanno contribuito, se non ad una soluzione della “questione femminile”, alla
conquista di importanti diritti che hanno aperto alcune porte per l’emancipazione. La
posizione della «Voce», qui espressa da Prezzolini, si attestava insomma su
un’esigenza di rinnovamento spirituale che, essendo di lunga e difficile attuazione
(come si può constatare ancor oggi), si traduceva di fatto in un’assenza (o nel manca-
to appoggio) di proposte concrete per migliorare la condizione delle donne.
5 La Voce, Il voto alle donne, «La Voce», V, 26, 26 giugno 1913, p. 1105. Si sceglie un estratto del 1913, pur
trovandosi in sede di bilancio dei primi anni della rivista: una piccola eccezione che permette però di in-
dividuare un atteggiamento diffuso e significativo.
392 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
L’educazione morale della coscienza è, secondo i vociani, l’unica maniera per
comprendere e appoggiare lo spirito della legge («l’importante è che l’animo che usa-
no di queste istituzioni presenti e future sia cambiato»); si comprende però che, di
fronte ad una consapevolezza individuale non raggiunta e di difficile conseguimento,
la posizione riformista della «Voce» appare in questo caso viziata da un immobilismo
scarsamente produttivo6.
L’esigenza di serietà, educazione morale, esame di coscienza perde, a volte, il
proprio valore proprio nello scontro con le questioni poste in agenda dalla realtà po-
litica, sociale e civile, nella quale occorre agire con misure anche “esteriori” e imme-
diate. Essa era invece, senza dubbio, una carta vincente in ambito letterario, quale an-
tidoto a un bagaglio di stilemi ereditati da un tardo Ottocento contro cui si voleva de-
cisamente presentarsi armati di nuovi strumenti: altro motivo per cui la poesia e la
prosa vociane, che si andavano sviluppando parallelamente alla rivista, avrebbero po-
tuto forse comunicare un’“autenticità” e un “impegno” (per il miglioramento, alme-
no, di se stessi, preliminare ad una crescita collettiva) maggiori di quanto il direttore
riuscisse ad immaginare.
Il manifesto della concezione letteraria di questi primi vociani potrebbe ben esse-
re indicato in quel precoce intervento slataperiano, Ai giovani intelligenti d’Italia:
«Scriviamo ma per far chiaro dentro di noi. […] a lato di quest’arte nostra, intima,
che noi soli conosciamo e gustiamo come stimolo a miglioramento, facciamo
dell’opera pratica». La rivista deve dunque esistere come strumento di riforma sociale
e culturale, di esposizione pubblica, e la letteratura, prima di tutto, deve scorrere sot-
terranea come mezzo per una crescita morale, come scrittura intima, quasi diaristica
(solo dopo, semmai, pubblicazione).
Sul carattere “intimo” della letteratura, intesa come “riforma mentale”, concor-
dano gli interventi di pressoché tutti i collaboratori; si tratta di un atteggiamento che
potrebbe essere descritto come il lato migliore dell’individualismo alla Barrès:
Un état d’esprit, non des lois, voilà ce que réclame le monde; une réforme mentale
plus qu’une réforme matérielle. Il ne faut pas rêver d’installer les hommes dans une
règle qui leur impose le bonheur, mais de leur suggérer un état d’esprit qui comporte
le bonheur7.
6 Si confronti la posizione espressa il 14 agosto da Agnoletti, che si schiera a favore del voto alle donne:
«Per farsi vedere pratici gli uomini si buttano agli indovinelli: “Che ne farà la donna del voto? Quanti pre-
ti eleggerà? Quanta libertà rimarrà per noi?”. Secondo loro queste dubbiezze giustificano l’ingiustizia di
mantenere schiavo metà del genere umano» (F. Agnoletti, Il voto alle donne, ivi, V, 33, 14 agosto 1913, p.
1137).
7 M. Barrès, L’Ennemi des lois, Librairie Académique Didier, Perrin et C., Paris 1893, p. 230.
Linee per un primo bilancio 393
Occorre, insomma, partire da una riforma interiore, morale, del singolo, come punto
di avvio per una riconquista del benessere collettivo: questa potrebbe essere la fun-
zione di una nuova letteratura, all’insegna, come è stato spesso detto, dell’“esame di
coscienza”, per una conciliazione dell’individuo con la società. Come ha sintetizzato
Cristina Benussi, si ha il diritto di «tornare alla realtà solo dopo aver compiuto un du-
ro sondaggio interiore privo di risposte definitive»8.
Se la linea emergente negli anni Dieci è dettata dal “romanzo vociano”, si tratta di
linea prima di tutto autobiografica, dove fare i conti con se stessi è passo preliminare
ad un confronto con il mondo: a ragione Luti afferma che la “narrativa vociana”
«vuol demistificare il pubblico nella testimonianza privata, sovrammettere
l’autobiografia alla società, fondere la parola singola al discorso comune nel tentativo
di creare la piattaforma ideale per una nuova cultura»9. Infatti l’autobiografismo vo-
ciano, come nota Briganti, non si appunta sul «bilancio consuntivo» tipico dell’età
avanzata, sulla «raccolta-documentazione dei fatti in funzione memoriale o testimo-
niale»: l’attenzione è puntata sulla «ri-costruzione»10. In questo interscambio tra io e
società, che smaschera il lettore stesso, costretto a testimoniare sull’autore e su di sé,
sta il lascito migliore del moralismo vociano.
Allo stesso modo che nelle questioni “pratiche”, però, anche in letteratura gli svi-
luppi di questa tensione interiore morale poteva sortire differenti sviluppi, a seconda
che si mantenesse lo sguardo puntato sulla realtà e sulla società, o che si tornasse, alla
fine, ad uno spirito già leonardiano, ad una ricerca che inizia e finisce nell’individuo,
portandolo in primo piano e sfocando, sempre più, i contorni dello sfondo. C’era pe-
rò, inizialmente e almeno in alcuni, l’esigenza di conciliare vita pratica e attività lette-
raria, battaglia polemica su questioni d’attualità e trasformazione interiore, di se stessi
e dei lettori; è vero che «alla iniziale volontà di partecipazione attiva ai problemi del
paese, sopravvenne un ripiegamento verso un’arte che sia aspirazione alla totalità o
comunque ricerca di una chiarificazione interiore più che proposta di obbiettivi con-
creti»11: ma parte dell’utopia dei letterati vociani consisteva, appunto, nella concilia-
zione tra l’attività dello scrittore e quella dell’intellettuale, almeno nella prima «Vo-
ce».
L’esigenza di fare i conti con gli aspetti più scomodi della realtà si proietta, in
ambito letterario, in una critica serrata dei rappresentanti di una cattiva letteratura;
8 C. Benussi, Il romanzo vociano, in G. Petronio, U. Schulz-Buschhaus (a cura di), I canoni letterari. Storia
e dinamica, LINT, Trieste 1981, p. 211.
9 Luti, Introduzione alla letteratura italiana del Novecento, cit., p. 51.
10 Briganti, I trentenni alla prova: l’autobiografia dei vociani, cit., pp. 173-74. Potremmo aggiungere che la
storia renderà queste scritture, talvolta, davvero bilanci di una vita conclusa, come accade per l’Esame di
Serra.
11 Benussi, Il romanzo vociano, cit., p. 211.
394 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
tra gli autori criticati e messi da parte ricorrono, da un articolo all’altro, gli stessi no-
mi e accuse somiglianti. Pascoli e d’Annunzio appartengono in modi diversi a un’arte
insincera, estetizzante, i futuristi mancano di un «dramma interiore», i crepuscolari
non convincono. Ma l’esigenza di una riforma di se stessi prima di tutto agisce anche
sulla lettura: perfino la critica letteraria è intesa, su questa scia, come uno dei tanti
piani in cui si esercitano i “conti con se stessi”; per questo all’indifferenza positivistica
ed erudita dell’Istituto di Studi Superiori si pensa di sostituire, come afferma Biondi,
«una critica in cui sia coinvolta la persona nella sua interezza, senza spartizioni spe-
cialistiche, in cui ci sia con il cervello il cuore, la responsabilità, l’impegno, la passio-
ne»12.
Una critica, dunque, deve coinvolgere la persona tutta, senza essere guidata da
particolari interessi: in fondo il fare “segni sui margini”, serriano richiamo all’etica
del lavoro intellettuale, implica anche la necessità di mettere in gioco la propria sog-
gettività, i propri “segni” e non altri, con una scelta che non pare guidata da una pre-
sunta oggettività ma, anzi, dal gusto. Il fascino di quest’idea della critica come eserci-
zio di ricerca di sé appare piuttosto diffuso in ambito vociano se perfino Prezzolini, il
meno “letterato”, sembra esserne ammaliato, a quanto s’intende dalla recensione ai
Marges di Eugène Montfort: «Margini. Dice già il titolo l’indole e il tono; quello delle
note in margine, che un lettore di gusto e di pazienza e non costretto dal guadagno né
attirato dalla celebrità, fa intorno agli autori ed ai libri; egli nota le cose più belle e le
sciocchezze più grosse, e scrive i paragoni e le riflessioni ironiche od ostili od ammi-
rative che la letteratura gli suggerisce»13.
2.2 Fronti comuni, battaglie divergenti
Tenendo conto di queste contraddizioni implicite già nel progetto primo della rivista,
ripercorriamo i passaggi salienti dell’attività dei vociani letterati che abbiamo seguito
tra il 1908 e il 1911. «Sul piano delle lettere la nuova generazione vociana parte in ne-
gativo», inaugurando la «stagione del diluvio»14: l’affermazione di Luti sembra ben
consonante con gli interventi di questi primi anni. Ognuno cerca di portare sulla
«Voce» un’idea della letteratura radicalmente diversa dal passato, tramite autori di
12 Biondi, «Non è la nostra una rivista di lucro o di vanità». Appunti su voci e versioni della critica nella
«Voce», cit., p. 118. Più avanti si legge: «Ogni parola, ogni frase urtava contro una materia che opponeva
resistenza, la scrittura era uno scavo in se stessi (l’esame di coscienza), o uno scavo nel dolore degli altri
che il critico sceglieva per affinità non per il mestiere delle recensioni o dei soffietti» (ivi, pp. 124-25).
13 g. pr[ezzolini]., Rec. a E. Montfort, Les Marges (1903-1908), Paris, Bibliothèque des Marges, 1913, in
Bollettino bibliografico, 7, «La Voce», V, 31, 31 luglio 1913, p. 1132. Da notare anche l’apprezzamento per
il «ritorno al classicismo che minaccia oggi di cadere al livello delle mode».
14 Luti, Introduzione alla letteratura italiana del Novecento, cit., p. 51.
Linee per un primo bilancio 395
vario tipo e nazionalità, in occasione di volumi da recensire, morti o anniversari. Per
Slataper si tratterà allora del tragico nordico, tra Hebbel e Ibsen, ma anche di una let-
teratura popolare che, per l’appunto, scavalca tramite il ritmo le distinzioni tra poesia
e prosa; en passant, traduce Fichte, traghettatore di una filosofia espressa in fram-
menti. Soffici, critico d’arte e acuto frequentatore del panorama francese, dissemina
nei propri scritti citazioni da Baudelaire, che appare come il suo “classico”, e accorda
le proprie preferenze al Moréas “minimo” delle prose intime e del piglio aforistico,
oppure ritrova in Ceccardi una «sincerità» dalle note impressionistiche. Papini rileg-
ge la filosofia, convinto che un’arte nuova debba essere filosofica, ossia debba fondar-
si su una riflessione sull’uomo. Jahier coniuga, anche quando si tratta di recensioni, la
scrittura con il lavoro e con un’azione pratica nel mondo, e scopre con Jammes la ne-
cessità dell’«intuizione immediata», perciò «frammentaria»; con Forel, afferma che
«studiare non basta, scrivere non basta, vivere bisogna».
Un fronte sul quale i vociani giocano una partita comune è quello della critica,
morale e sociale, di alcuni vizi del bel paese, spesso stigmatizzati nella rubrica Carat-
teri; in questi articoli, si pratica un tono condiviso, l’ironia e il ritratto beffardo. Su
questa frontiera dell’inciviltà combattono le voci più svariate, recuperando una tradi-
zione comico-satirica spesso obliterata in Italia, convinti che «il ver convien pur dir,
quand’e’bisogna» (come afferma Papini, consigliando di leggere il Pulci)15. Si ricordi
che uno dei ritratti umani del Dossi, scrittore umoristico, moralista e frammentario
dell’Ottocento, si affianca mirabilmente ai Caratteri vociani.
Le poche prose d’invenzione e gli articoli che mescolano caratteri informativi e
letterari nella forma del saggio hanno il colore dell’esperienza personale, si propon-
gono come documenti intimi: Papini e la campagna, Slataper sul Secchieta, le prima-
vere di Soffici, i Valdesi di Jahier, gli olivi di Boine prendono le mosse da una memo-
ria personale, da un “io” che poi, magari, lascia spazio all’impersonalità
dell’informazione. Tutti richiedono a se stessi, in qualche modo, il coraggio di affron-
tare questioni personali irrisolte. C’è anche una rete di temi e immagini che si tra-
smettono da un autore all’altro: il contrasto campagna-città, natura-civiltà; la distin-
zione tra animalità/istinto e umanità/intelletto; l’opposizione alto/basso e il tentativo
di ascesa, per poi magari ridiscendere; l’insistenza sul “rito di passaggio” (sia esso la
primavera, la campagna, la montagna). Nella percezione della natura, ad esempio, si
può intravedere un retroterra comune nell’opposizione compatta al mondo naturale
di d’Annunzio o Pascoli, com’era descritta da Cecchi proprio sulle pagine della «Vo-
ce»:
15 Cfr. G. Papini, La guerra vittoriosa, «La Voce», III, 42, 19 ottobre 1911, p. 670.
396 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
E noi li vediamo richiamarsi alla natura, come a quella che, meglio di ogni altra co-
sa, può contenere e rappresentare la loro inquietudine. In certi suoi canti, il Carducci
(cfr. il Canto di Marzo) ci aveva dato scorci di poesia naturale, come dicono; tutta co-
se. Ma il suo naturalismo si risolveva poi sempre in un’esaltazione umana […].
Ditirambicamente l’uno, idillicamente l’altro, questi nuovi poeti, dal loro vacuo in-
timo errore si rifugeranno, si riverseranno continuamente, invece, in un naturalismo
senza sfondo16.
La natura è quasi sempre presente nelle prose d’invenzione vociane, in rivista, e sem-
bra volersi offrire come specchio di un’umanità morale: in Jahier o in Boine è spec-
chio della vita di una comunità, in Slataper può essere contatto con il primitivo, che
non vale, però, di per sé (com’è invece, secondo Cecchi, per Pascoli e d’Annunzio:
«un modo d’essere primitivo, ove la calma della natura li adagia») ma come momento
di educazione morale; in Papini e in Soffici essa significa una personale sincerità ri-
trovata (con forti componenti d’individualismo).
C’è una diffusa volontà di recuperare un rapporto virtuoso con la tradizione ita-
liana, che va rivista e interpretata in maniera anche personale (spesso si insiste sulla
necessità di una formazione non scolastica, di una libertà nella lettura che università e
biblioteche dovrebbero promuovere), magari a partire da Carducci, Leopardi e Man-
zoni; l’artista moderno potrebbe essere descritto con le parole dedicate da Soffici a
Medardo Rosso: «è arrivato a risolvere naturalmente uno dei più complicati problemi
estetici, e cioè a ricollegarsi alla tradizione a forza di sincerità».
Lo sguardo puntato verso l’interno, che può sconfinare nell’autobiografia, perché
prima di tutto occorre dare ragione dei propri percorsi morali, e una concezione di
letteratura come impegno nella realtà accomunano gli interventi dei vari autori
nell’individuazione di un’idea dell’intellettuale. Con una condivisione d’intenti, i vo-
ciani scartano le figure di scrittore da rigettare in toto: i “solidificatore del vuoto” di
Slataper, il “bel tenebroso” di Soffici, la “Bohème dorata”, oppure l’incensatore dei
gusti del pubblico di Papini (Il genio alla fiera), il “facile umanista” di Jahier; agli inizi
del 1912, l’antidannunzianesimo sfocerà in una satira collettiva del Vate. Emergono,
per opposizione, alcuni tratti dell’uomo di lettere secondo i “vociani”: la fedeltà alle
proprie idee e l’incorruttibilità morale si concretizzano tanto nella figura dell’artista
“martire” della società di Papini, quanto nella caparbia scalata al monte di Slataper, o
nella dura educazione al lavoro di Jahier. È pur vero, però, che la visione mistica
dell’artista nella sua grandezza solitaria propugnata da Papini tende a sganciarsi dalla
figura di intellettuale impegnato che Slataper, Jahier o Boine tendono a far aderire
16 E. Cecchi, Giovanni Pascoli I, ivi, I, 39, 9 settembre 1909, p. 159.
Linee per un primo bilancio 397
alla figura dello scrittore. «La vita del grande dev’essere un martirio»: Papini è già
tentato da un individualismo prepotente.
Nella rete degli scritti pubblicati in rivista, si sono ritrovati giudizi emblematici,
che permettono di misurare, anche attraverso valutazioni rivolte ad altri, quali ele-
menti vengano caricati di maggior peso per una nuova idea di letteratura. Jahier ap-
prezza che il lettore «senta di allargare la sua umanità», preferisce leggere il racconto
di «una vita come tante, una vita com’è», anti-eccezionale, e una poesia dove l’io, da-
vanti alla natura, «si china tutto in umiltà», e perciò «canta»; sulla propria generazio-
ne, sente gravare il compito di «un apostolato civile». Boine parte dall’affermazione
che «al di fuori dei miraggi e dei miti o troppo semplici o troppo lieti, la realtà nuda è
un inesauribile dissidio», che l’«uomo d’intelletto» ha il dovere di «ricercare» e «defi-
nire»; l’arte non può che partire dal nucleo più autentico di un uomo-autore, per ave-
re «immediatezza», «semplicità rude e magra». Slataper intravede nella tragedia un
fruttuoso «contatto dell’individuo con l’umanità» («L’eroe patisce e muore; ma
l’umanità per questo suo patimento procede»).
Per Soffici, l’arte, che assume con Moréas i caratteri delle «note di viaggio» e del
«giornale psicologico», permette di indagare le proprie radici, in un equilibrio fruttu-
oso tra «possente istinto» e «intelletto lucido»; il percorso è diretto ad una riconquista
della propria dimensione individuale, sganciata dalla realtà («Né gli uomini né le cose
posson turbarmi più»). Papini afferma la necessità di un’«arte interna», che esprima
la riflessione di «uomini pensanti»; come per Soffici, il percorso si volge ad una forte
individualità, verso una «vita che non è di tutti, ma ch’è più intensa e più alta di quel-
la di tutti», pervasa di «eroico furore».
Ricordando i caratteri della riforma letteraria vociana secondo la Martignoni, si
può affermare che sono due gli elementi che dominano ed accomunano le riflessioni
dei vociani sull’arte in queste tre prime annate: la frammentarietà e l’esigenza di
un’arte intima. L’autobiografismo è inteso come necessaria tappa di un percorso di
formazione di sé; si ricordino le osservazioni di Papini a favore di un’arte riferita
«all’interno», quelle di Soffici sul «giornale psicologico» (e il suo «bilancio lirico-
spirituale», la Primavera), l’esigenza di Boine di raccontare una storia «mia» e insie-
me «di molti», la notazione di Jahier sulla necessità di «ritrovare la freschezza di una
coscienza sotto i molti strati di vernice individuale e sociale», il «dramma interiore» a
cui occorre dar voce per Slataper. Il frammentismo si affaccia nelle prose
d’invenzione non tanto come brevità delle pièces (peraltro richiesta dalla rivista), ma
per la tendenza a frammentare il discorso, a frantumarlo in nuclei semantici signifi-
cativi, a isolare i periodi con l’uso del capoverso. Inoltre, Jahier intravede in Jammes
«un discorso calcato sulla intuizione immediata, disuguale, frammentaria», che ri-
chiede una collaborazione nuova del lettore; Soffici vede in Moréas la possibilità di
costruire «una vasta configurazione della realtà e della vita» proprio attraverso «dei
398 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
frammenti, delle impressioni, dei semplici appunti»; Slataper guarda con interesse
alla frammentarietà di Fichte.
Per parlare di un rinnovamento delle strutture linguistiche (come fa la Martigno-
ni) occorre attendere prove più ampie e più sicure, anche se ogni autore va formando
alcuni nuclei tematici e stilistici significativi: si pensi all’importanza del contatto con
la natura e al toscanismo di Soffici e Papini, all’immaginario del monte da scalare e
della durezza del Carso di Slataper («impietramento», raramente interrotto dalla dol-
cezza di una «genziana»), all’attenzione umana di Jahier, coniugata in paesaggi che
raccontano il contatto tra l’uomo e la natura, o nelle figure del “ragazzo” (povero) e
del “paese”. Sicuramente, i frammenti di prosa creativa sono percorsi da tensioni liri-
che, anche se non si potrà parlare, in generale, di equivalenza dei registri di prosa e
poesia. Una tensione “rivoluzionaria”, però, attraversa l’idea di letteratura, per una
“rivoluzione” in sordina, non basata sugli atteggiamenti forti del romanticismo euro-
peo, ma su una dimensione di pacato sviluppo; come afferma Slataper a proposito di
Hebbel, i moderni debbono continuare la rivoluzione iniziata dai romantici, abban-
donando urli e strepiti: «realizzare senz’urli questa vendetta può essere la nostra ere-
dità»17. Come in un passato non troppo lontano (considerando il fatto che la valenza
innovativa del poème en prose di Baudelaire e poi Rimbaud veniva compresa in Italia
proprio agli inizi del Novecento), a questa rivoluzione letteraria viene chiamato a
partecipare il poemetto in prosa, simbolo di una rottura delle frontiere tradizionali,
necessaria per ripensare la letteratura nei propri scopi e strumenti.
In sintesi, nel tentativo di individuare i caratteri comuni degli scritti vociani
comparsi in rivista tra il 1908/09 e il 1911, potremmo elencare questi punti di stile e
contenuto: la ricerca di un “tono medio”, che trova le proprie soluzioni nel toscani-
smo di Soffici e Papini (questi si era espresso appunto contro «il linguaggio castrato e
purgato»), nel discorso secco e misurato di Jahier, che lavora intorno al sublime dei
nomi comuni (il ragazzo, il paese, la famiglia, il pane), con la ripetuta consapevolezza
che un nuovo stile deriva da una nuova concezione del mondo18; l’introduzione di
una poeticità nella prosa attraverso figure della ripetizione, spezzature sintattiche, uso
sapiente del capoverso; l’intervento di elementi di autobiografia, supportati da una
concezione per cui il racconto di sé ha sempre un marchio di sincerità; l’intento filo-
sofico-moralistico della letteratura, praticata «come stimolo a miglioramento»; una
presenza rinnovata della natura, che sembra volersi opporre alla natura di
d’Annunzio o Pascoli, almeno nei termini in cui veniva concepita e descritta da Cec-
17 S. Slataper, «Giuditta» di F. Hebbel, «La Voce», II, 50, 24 novembre 1910, p. 442.
18 Anche Papini, ad esempio, in un passo già citato di Miele e pietra indica che per ovviare all’«armonioso
eloquio dannunziano» bisogna ricercare «una vita in maggior comunione con le cose semplici, forti, dure,
interne» (cfr. G. Papini, Miele e pietra, ivi, II, 35, 11 agosto 1910, p. 373).
Linee per un primo bilancio 399
chi proprio sulle pagine della «Voce»; tono severo e grave nelle prose d’invenzione,
che lascia il posto all’ironia solo in determinate sedi (per lo più, Caratteri, Delizie in-
digene; si ricordi, a proposito, l’incomprensione di Boine verso quel «bizzarro contra-
sto tra la sostanza e la forma» in Dossi).
D’altro lato, elementi comuni di una “poetica vociana” sono affiorati da una let-
tura degli articoli di critica comparsi in rivista a firma di scrittori: sfiducia nel roman-
zo, ma anche nella lirica “troppo poetica”; critica serrata alle figure abusate dei «lette-
ratucci», bohémiens quanto serve, «mercanti di nuvole e solidificatori del vuoto»; e-
saltazione di semplicità, immediatezza, sincerità, nel contenuto e nello stile; ricerca di
un recupero della tradizione in senso nuovo; concezione della scrittura come confes-
sione o racconto di sé prima di tutto, conti con se stesso e «bilancio lirico-spirituale»;
infine, non mancano alcune prime, fondamentali osservazioni a favore della fram-
mentarietà.
A fronte del panorama comune, vanno poi sottolineate alcune differenze fonda-
mentali, che prefigurano già sviluppi successivi. La concezione riformista della rivista
spingerebbe a considerare l’analisi di sé, delle proprie appartenenze e radici come
punto di passaggio per una migliore “pratica” a favore della collettività: Slataper sem-
bra proporsi di affrontare un’arte come diario e come lotta solitaria contro sé stesso
con il timone puntato sulla “città”, luogo dell’interazione sociale; Jahier dalla società
non è mai “uscito”, vivendo a contatto con la più trita quotidianità impiegatizia, e
non perde affatto di vista la reciprocità tra piano privato e pubblico; Boine mescola
memoria personale e destino collettivo della Liguria. In Papini e in Soffici, però, la
misura del documento intimo assume una funzione leggermente diversa;
quell’«ebbrezza da scomparsa dell’oggetto» che si respirava in ambito leonardiano ed
implicava la pretesa di cambiare la realtà, «ma dentro il soggetto, il proprietario stir-
neriano del mondo»19, sembra ancora l’immagine più adatta a comprendere questi
autori, seppur traghettati ormai nell’esperienza vociana che, di fatto, rappresentava
un “ritorno all’oggettività”. Per Papini occorre sentire, intuire come nell’infanzia,
tornare a un’arte che sia riflessione sull’uomo, ma questo ripiegamento interno, piut-
tosto che umiliazione del sé, attiva un percorso di esaltazione dell’io, inteso come co-
acervo di esperienze d’eccezione. In Soffici si respira, in modo analogo, un forte indi-
vidualismo con ascendenze nietzschiane: l’ingresso nella folla parigina non corri-
sponde all’esaltazione del lavoro nella compagine sociale, ma a una difesa dell’io, fa-
cente leva su una sorta di capacità (già baudelairiana) di convertire a propria discre-
zione i termini “solitudine” e “moltitudine”.
19 Biondi, «Non è la nostra una rivista di lucro o di vanità». Appunti su voci e versioni della critica nella
«Voce», cit., p. 107.
400 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Si è delineata insomma, proprio nelle prose creative e saggistiche, una distinzione
fondamentale, a seconda che prevalga l’esaltazione dell’io come soluzione di una poe-
tica da rifondare, oppure al contrario l’umiliazione dell’io in un “me”, che si propone
di accompagnare gli altri nel viaggio della propria coscienza come primo passo, che
solo la letteratura può compiere, per una riforma dell’uomo, anche come “animale
sociale”. A ben vedere, ci troviamo di fronte ad una manifestazione di quella «dico-
tomia» che, secondo Luti, fissa «i termini del percorso culturale e artistico del primo
Novecento europeo»: «ignorare la crisi, o meglio mistificarne gli esiti nell’illusione di
un destino di superiorità e di potenza, oppure accettarne i risultati, precipitare nella
crisi fino alle conseguenze estreme, cercandone le ragioni e sviscerandone i connota-
ti»20. Si avverte, un articolo dopo l’altro, un’oscillazione tra diverse risultanti, rag-
gruppabili in due atteggiamenti non molto conciliabili verso l’arte, intesa come luogo
di solitaria grandezza, altura da cui profeticamente parlare agli altri (letteratura
dell’“io”), o come esame rigoroso di sé a vantaggio di un miglioramento personale e
collettivo (letteratura “con me”, prendendo in prestito un titolo emblematico di Ja-
hier)21.
Non è detto che un autore non possa condividere caratteri dell’una e dell’altra ti-
pologia: tra i vociani intervenuti nei primi tre anni, Slataper è sicuramente un caratte-
re non esente da ambiguità, con l’oscillazione vera e propria tra esaltazione e mortifi-
cazione dell’io; razionalmente si sceglie la seconda, ma il vitalismo, che trasuda dalle
scalate al Secchieta o dalle recensioni appassionate degli eroi di tragedie nordiche,
rappresentano incursioni fruttuose verso la prima soluzione. Né questa distinzione
vuol essere utile a dare un giudizio di valore estetico (le migliori opere apparterrebbe-
ro all’uno o all’altro gruppo?), o vuol misurare il grado di umanesimo di uno scrittore
rispetto agli altri (c’è più sofferta umanità nel Gino Bianchi o, poniamo, nei Canti Or-
fici?); si tratta di individuare, in fieri, una pluralità di atteggiamenti che negli anni e
nei numeri della «Voce» si vanno formando e specificando.
20 G. Luti, Introduzione alla letteratura italiana del Novecento, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1985, p.
41.
21 Il titolo Con me, attribuito in principio ai frammenti pubblicati sulla «Voce» e sulla «Riviera ligure» tra
il 1915 e il 1916, fu eletto a titolo del quarto e ultimo volume delle Opere, rimasto inedito fino all’edizione
curata da Ottavio Cecchi ed Enrico Ghidetti (Editori riuniti, Roma 1983). Sulla pregnanza di tale sintag-
ma si sono espressi in maniera esaustiva Briganti, che segnalava l’inedito nel 1976, e Ghidetti: «Con me
[…] vuol dire, nell’uso iterato lungo la produzione jahieriana, l’aspirazione dell’Autore, anzi la sua neces-
sità d’intrattenere un colloquio intimo, un rapporto sincero, rivelatore d’anime (per dirla vocianamente)»
(Briganti, Piero Jahier, cit., p. 104); «Con me è titolo eminentemente “vociano”, […] ma è soprattutto a-
raldica insegna della poetica dello scrittore, il segnale dimesso eppur perentorio di un ininterrotto mono-
logo, di uno strenuo esame di coscienza recitato in pubblico, secondo la consuetudine degli antichi cri-
stiani: all’io protagonista della mitografia del decadentismo, subentra quindi il me, voce di “casi obliqui”»
(E. Ghidetti, Postfazione, in Jahier, Con me, cit., p. 340).
Linee per un primo bilancio 401
In ultimo, una sintesi non dovrà dimenticare quei fecondi rapporti con il mondo
letterario francese, di cui sono emersi, da questa rilettura, almeno alcuni indizi; in
particolare, avendo seguito la ricezione di Baudelaire in relazione a “esperimenti” di
poemetto in prosa a fine Ottocento, si potranno fare alcune considerazioni. È Soffici
ad apparire come il lettore più informato di Baudelaire e delle interpretazioni criti-
che, di ambito francese, che lo riguardano, e si è formato opinioni ben salde e innova-
tive, in orizzonte italiano, sul poeta: mettendo da parte le maschere del maudit, si
concentra su austerità, salute spirituale e genio; apprezza la «dissezione della realtà»
di Baudelaire, ed insieme gli riconosce la capacità di aver «visitato e descritto
l’inferno dei nostri cuori moderni».
Nella sua ricostruzione delle traduzioni italiane di Baudelaire, Bernardelli vede
proprio nelle concezioni espresse da Soffici un preludio di quell’inversione di tenden-
za che è destinata a realizzarsi soprattutto negli anni ’20, grazie alla ripubblicazione di
Mon coeur mis à nu e dei Journaux intimes, tradotti anche in Italia: si leggono allora
le «pagine brevi» e le «notazioni fuggevoli», dove il poeta, come scrive Sorani sul
«Marzocco», «rivela tutta intera la sua angoscia e la sua pena»22. Con l’articolo contro
Faguet, Soffici rilancia Baudelaire non come poeta maledetto, ma come «grande ro-
mantico e grande stoico ad un tempo», suggerendo sulla «Voce» una rilettura che po-
teva sposarsi con quell’arte intima, di sofferenze e dissidi affrontati “ad occhi aperti”,
che si andava proponendo sulla rivista. Anche Papini è lettore vociano di Baudelaire
(si ricordi: «Eppure uno di voialtri, Baudelaire, vi disse quali maledizioni son pro-
nunziate quando nasce un poeta»), ma Bernardelli ricorda giustamente il disaccordo
tra i due toscani sull’interpretazione del poeta francese23; ed è significativo che più
tardi, scrivendo la voce «Baudelaire» per il Dizionario dell’Omo Salvatico, Papini di-
mostri invece di aver cambiato rotta24.
C’è poi un discorso che, più in generale, riguarda la letteratura francese sulla
«Voce», e comincia già a delinearsi in questi primi anni, anche se non sfocia in scon-
tri diretti: c’è chi legge Jammes, come Jahier, o dichiara piena approvazione verso Pé-
guy e Rolland; altri, e Soffici in particolare, si volgono piuttosto ad una “linea alta” del
22 A. Sorani, L’angoscia di Baudelaire, «Il Marzocco», 5 settembre 1920, citato in Bernardelli, Baudelaire
nelle traduzioni italiane, cit., p. 362.
23 Cfr. in particolare Soffici a Papini, Poggio a Caiano, 8 agosto 1908 e 16 agosto 1908, in Papini, Soffici,
Carteggio, I, cit., pp. 286-91 e 297-311; l’8 agosto Soffici scriveva: «Dove non siamo affatto d’accordo è su
Baudelaire. è un’opinione comune che egli si compiaccia negli artifizi e nello stile e che faccia sfoggio di
satanismo e simili coglionerie; ma per me queste sono tutte frottole e, salvo forse una ventina di versi, il
suo libro mi pare uno di quei pochi che appartengono alla letteratura mondiale i cui capi sono Dante,
Omero, Shakespeare, Cervantes e compagnia bellissima» (ivi, p. 286).
24 Cfr. Giuliotti, Papini, Dizionario dell’Omo Salvatico, cit., p. 357.
402 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
simbolismo, che per il toscano viene a significare profonda ricerca d’arte sganciata
dalla morale, secondo una concezione che porterà, nel 1912, a scontri aperti.
3. L’anno 1912
3.1 Da gennaio a marzo: poetiche in formazione e l’estetica dell’«ignoto»
Come un segno del destino, il numero d’esordio dell’anno quarto della «Voce» dedica
la prima pagina alla letteratura e porta la firma di colui che diverrà direttore di una
«Voce» più letteraria. Papini realizza un’intenzione esibita alla fine del 1911: fare i
conti con la “tradizione italiana”, tramite un percorso di individuazione della/e tradi-
zione/i1. Nelle Due tradizioni letterarie2, egli sviluppa un concetto già emerso in Miele
e pietra, sulla scorta dell’opposizione Dante/Petrarca:
Io raffiguro benissimo, in tutta la storia di questi sette secoli, due grandi dinastie (raz-
ze, famiglie), che mi piace chiamare, dai nomi de’ primi padri poetici, la stirpe dante-
sca e la stirpe petrarchesca. Nella prima metto tutto quel che di rozzo, di pietroso, di
duro, di atroce, di franco, di solido, di concreto, di plebeo c’è nella letteratura italiana
– nell’altra tutto quel che v’è di molle, di elegante, di musicale, di armonioso, di deco-
rativo, di convenzionale, di letterario, di vuoto3.
L’individuazione delle due scuole di pensiero, spesso compresenti nello stesso autore,
è funzionale ad un’esaltazione del “dantismo”, in opposizione all’«arcade innamorato
che ti trovi tra i piedi in tutti i secoli», «dai siciliani del dugento ai dannunziani del
novecento»4. La «durezza» nello stile, che corrisponde spesso all’uso di un linguaggio
popolare e predilige, all’astratto, il concreto, condannando il lemma letterario a favo-
re di espressioni quotidiane, è il corrispettivo di un riconoscimento della presenza del
1 G. Papini, La tradizione italiana, «La Voce», III, 50, 14 dicembre 1911, pp. 707-08.
2 Id., Le due tradizioni letterarie, ivi, IV, 1, 4 gennaio 1912, pp. 727-28.
3 Ivi, p. 727.
4 Si ricordi che proprio nel 1912, qualche numero dopo, «La Voce» firmerà un articolo collettivo intitolato
Il Vate e diretto contro d’Annunzio, emblema in negativo: «Ma c’è un italiano che non sta zitto; che non
medita, che non fa esami di coscienza né conti di cassa… per non turbare la pace dell’anima, che se non
dorme sta per dormire; e quest’italiano canta e chiacchiera, e quel ch’è più cerca di far chiacchierare su di
sé […]» (ivi, IV, 5, 1 febbraio 1912, p. 745).
Carolina Nutini, Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco. Poemetto in prosa, prosa lirica
e frammento, ISBN 978-88-6655-272-7 (online) © 2012 Firenze University Press
404 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
male nel mondo: «è un mondo dove il male e il dolore, come nella vita, hanno pieno
diritto di cittadinanza».
La preferenza accordata da Papini alla tradizione dantesca indica una strada che
ben si adatta alle idee vociane sul rapporto tra letteratura e verità: nessun travesti-
mento “retorico”, nessuna fuga nella bellezza delle Grazie foscoliane intesa come ul-
timo baluardo di civiltà, ma aggressione della dura scorza di una realtà di dolore. An-
che riguardo allo stile, la «stirpe dantesca» si basa su questo punto comune: la sostan-
za tragica dell’io e del mondo richiede uno stile aspro piuttosto che dolce, rinnovato
attraverso l’inserimento di termini che provengono da un tessuto popolare o dialetta-
le (o che, in qualche modo, celano la loro letterarietà sotto quello schermo). La di-
stinzione delle due tradizioni ha insomma, per Papini, un valore critico e fattuale, in
quanto si propone di indicare, proprio sulla «Voce», una direzione di lavoro per il
presente e l’avvenire; il fatto non dovette sfuggire ai lettori, se Marino Graziussi si
lamentava, qualche numero dopo, che la ripartizione papiniana assumesse «carattere
di valutazione estetica»5.
I grandi, com’è noto, sfuggono ancor più dei minori all’esigenza di classificazio-
ne, perciò Papini rileva come esista anche un Dante “petrarchista” («le smancerie
preraffaellite della Vita Nuova», «parti allegoriche del Paradiso, forti anticipi di catti-
vo gusto dannunziano») e un Petrarca che parla «in rim’aspre». Non è un caso che,
però, la personalità che più sfugge a questa classificazione sia, per Papini, Leopardi,
“petrarchesco” per educazione, scelta delle parole e delle immagini, ma assai diverso
altrove: «poi vi sono quei suoi canti più divini dove il suo prometeico dolore
s’esprime con una così semplice e portentosa sublimità che si dimentica la fraseologia
accademica». Quel felice incontro di Classicismo e Romanticismo in Leopardi, che
ancor oggi fa discutere, fu di difficile comprensione per i contemporanei; questa in-
decisione di Papini, che si basa sul riconoscimento del leopardiano semplice sublime
del dolore, indica che è in atto una rilettura del poeta, e che nei Canti e nelle Operette
si vanno trovando, probabilmente, inaspettati indizi di modernità6.
5 M. Graziussi, A proposito di due tradizioni letterarie, ivi, IV, 4, 25 gennaio 1912, p. 742.
6 Questa papiniana è una delle tracce di una rilettura di Leopardi, anche se sicuramente una riflessione
compiuta, in tal senso, non fu portata a termine. Probabilmente, proprio in ambito vociano
quell’incontro tra indagine dell’io e percezione tragica del mondo, quell’idea di letteratura come riflessio-
ne di filosofia morale, quello stile di poesia e di prosa che coniugava tradizione e modernità (allontanan-
do i termini iperletterari, favorendo uno stile semplice e misurato) potevano fare di Leopardi un punto di
riferimento. Di certo, anche in questo caso la «Voce» bianca sviluppò un suggerimento già in qualche
modo presente; si trattò però di uno sviluppo parziale, basato sul “saper leggere”, che favorì un recupero
stilistico del Leopardi ma, talvolta, lasciò da parte quella commistione tra filosofia e letteratura, volta a
una comprensione “morale” del mondo, che gli era stata congeniale.
L’anno 1912 405
Poetiche in formazione si sono andate specificando e, nel 1912, si può registrare
una presenza ancora maggiore di elementi individuali di riflessione letteraria; così
accade che, recensendo la monografia su Dostoevskij di André Suarès7, peraltro fon-
damentale per letture posteriori (da Gide a Proust), Soffici finisca per donare una
propria interpretazione dell’autore russo nell’ottica di una personale poetica. Di Sua-
rès, Soffici disapprova il «commento lussuoso e declamatorio» e lo «stile fiorito» che
gli ricorda d’Annunzio, nella convinzione che l’autore dei Karamazov, «tutto sinceri-
tà dolorosa», sprezzi «chi gli si avvicina con un sottinteso estetico». En passant, il cri-
tico dichiara il proprio credo, basato su un’arte che racconti dissidi interiori, al di là
del compiacimento estetico: «Se c’è dell’arte nei suoi libri, è soltanto perché l’arte è
per tutto dove un’anima si mostra a nudo manifestando agli altri il suo ardore, le sue
miserie, i suoi slanci».
Riconosciuta la grandezza di Dostoevskij , nell’aver portato a galla il lato più «si-
nistro» e «disperato» del reale, secondo Soffici «la sua comprensione personale del
mondo» si avvia già ad essere superata tramite la filosofia di Nietzsche. Rilevando
quel che manca in Dostoevskij , Soffici parla di un’arte che ha, come punto di riferi-
mento, il filosofo tedesco:
Gli è che a Dostojewski profondato tutto nell’esame dell’anima umana, era negato
questo miracoloso nepente che dopo i dubbi, le amarezze della fede perduta, le disa-
strose conclusioni di tutte le filosofie, corrobora le generazioni venute dopo di lui,
rende loro un’altra gioventù – l’amore della natura. Se ripenso al mondo di Dostoje-
wski esso mi appare un po’ come quello pittorico di Michelangelo tutto nudità e con-
torsioni, ma senza un cantuccio di terra verdeggiante ove riposarsi e dimenticar tutto
e goder l’ebbrezza del caldo sole e delle nuvole che viaggiano per il mondo sempre
fresco, nuovo e gioioso.
I riferimenti alla natura, al «riposarsi e dimenticar tutto», riportano alla mente la
Primavera parigina di Soffici; già lì, dunque, si tentava di «colmare il vuoto» lasciato
da Dostoevskij, aiutati da una percezione felice della natura.
Anche Jahier recensisce, all’inizio del 1912, un testo che rispecchia, in un certo
senso, i suoi interessi e le sue riflessioni, Luttes et problèmes di Daniel Halévy8; inte-
ressato alla storia e alla società, egli si occupa di un libro nato sulle pagine dei «Ca-
hiers» di Péguy, che documenta, tramite «uno studio storico, un racconto, una specie
di favola allegorica», il periodo della «rivoluzione dreyfusiana». L’affaire aveva cata-
7 A. Soffici, Rec. a Suarès, Dostojewski, Cahiers de la Quinzaine, Paris, in Bollettino bibliografico, I, «La
Voce», IV, 4, 25 gennaio 1912, p. 743.
8 P. J[ahier]., Halévy [Rec. a Daniel Halévy, Luttes et problèmes, Paris, 1911], ibid.
406 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
lizzato le energie migliori del paese, in una modalità che vorrebbe essere, per Jahier, il
modello per la generazione vociana:
Storia di una generazione che «in questa Europa gerarchizzata dalla supremazia taci-
tamente acquisita ai finanzieri e agli industriali» combatté per salvare un ideale di
umanità; che si riunì, anzi, in classe sociale, senza fondamento di interessi; si costituì
in classe morale, classe per la giustizia.
«La rivelazione del popolo, della nazione operaia» da parte di Halévy doveva poi inte-
ressare non poco il vociano che dedicava più di tutti attenzione, sulla “testata degli
intellettuali”, alla vita dura e dignitosa degli umili. A testimoniare della preoccupa-
zione sociale di Jahier, si ricorderà che egli si occupa anche di letteratura per
l’infanzia, consigliando «il mondo gioioso di Kipling» ed altri volumi, non senza di-
menticare l’auspicio di edizioni più economiche, accessibili ai più9.
Boine pubblica invece quella «specie di testamento letterario» di Un ignoto10 che
indica «cose, a proposito d’arte, in fondo giudiziose»; ma le pagine di Boine finiscono
per analizzare la fitta rete di rispondenze tra critica, letteratura e realtà. Gli argomenti
trattati sono noti, a cominciare dalla «critica per le grandi opere d’arte»; la concezio-
ne aristocratica che l’ignoto ha dell’arte finisce per escludere la necessità dell’analisi di
un’opera “grande”, che si proporrebbe di «convitare tutta quanta la plebe al banchet-
to» dell’interpretazione, e richiede, invece, lettura religiosamente solitaria:
egli stava per un assorbimento immediatamente estatico dell’essenza di bellezza e di
vita che è nell’opera d’arte […] è il precedente tuo sforzo di umana ascesi, la tua pre-
parazione vitale, il lungo accumulamento di sapida sapienza dentro il tuo cuore che ti
solleva all’opera d’arte. Essa allora ti esprime, essa ti rivela allora a te stesso11.
L’arte, contenitore prezioso di esperienze di vita e di pensiero, ha il suo valore
nella capacità di rivelare l’uomo a se stesso, in accordo con la necessità morale e inte-
riore della letteratura emersa in ambito vociano. A ben vedere, l’ignoto sembra con-
siderare che la moralità dell’arte, e della cultura in genere, stia proprio nel rivelare a-
gli uomini «una sfera dello spirito nella quale quando si è giunti si è tutti su per giù
d’accordo»:
9 Id., Per i nostri figlioli, in Bollettino bibliografico, 2-3, ivi, IV, 9, 29 febbraio 1912, p. 768: «Li riguardo
questi libri e rimpiango solo una cosa. Perché costano dunque tanto? I nostri figlioli ci hanno diritto – e
non solo i nostri, caro Novaro. – Vorrei che potessero arrivare fino a quel ragazzo che compita col dito, al
notte, in una casa cantoniera, “l’orribile fatto di sangue” dell’ultima edizione».
10 G. Boine, Un ignoto, ivi, IV, 6, 8 febbraio 1912, pp. 750-52.
11 Ivi, p. 750.
L’anno 1912 407
Rotta la crosta, [due uomini colti] ha le stesse idee sull’uomo e la sua natura, sulla so-
cietà sui valori della vita ecc. ecc., le stesse generali idee quindi in politica […]. La col-
tura è una sola perché la storia è una sola. Esser colti vuol dire aver abbracciata disin-
teressatamente, com’è, senza tesi e preconcetti, la necessaria storia del mondo12.
La cultura ha una moralità proprio perché, quasi in maniera illuminista, chi conosce
il bene non può che praticarlo, ovvero non può che avere «le stesse idee sull’uomo»,
la «società», la «politica»13. Di certo, come afferma Boine, si tratta di uno scossone al
«mio sicuro sistema dell’arte mondo a sé, dell’arte ben definito ed a sé stante grado
dello spirito». Naturalmente la valenza umanistica della cultura non è però democra-
tica, non avendo a che fare con quella tendenza opposta di cui farebbero parte il suf-
fragio universale e la diffusione delle «diverse terra terra filosofie alla portata di tutti».
Boine sostiene che, per meglio comprendere il punto di vista dell’ignoto, occorre
ricorrere ad una distinzione tra due estetiche, «una per quelli che non creano ed una
per quelli che creano». Detto questo, passa all’esposizione dell’estetica dell’ignoto,
che, prendendo le distanze da ogni “campagna” di verso libero o da qualche nuovo
simbolismo, afferma però l’insufficienza delle forme letterarie della tradizione, in par-
ticolare del romanzo, il quale è aggredito come visione del mondo: esso costringe a
vedere la realtà «a idilli», ossia «a disegnetti ordinati»14.
Il romanzo è un’interpretazione del mondo, organizzata in «una successione or-
dinata di cose, di pensieri, di oggetti, di azioni con conclusioni finali», che si svolge
«nello spazio e nel tempo»15. All’ignoto preme invece restituire il senso del reale nella
sua simultaneità di «cento miliardi di variissime vite armonicamente viventi e pre-
senti», irriducibili ad una, ad uno spazio predeterminato e ad un tempo stabilito. Al
centro della scrittura sarà la vita interiore («io sono il centro vivo del mondo»), la
quale non è rappresentabile dalle vecchie categorie: «come staccare dal lontano il vi-
cino, come strappare dal passato il presente?»16. L’esempio e modello, in tal senso, è
Walt Whitman, nei cui canti spesso «la novità è lo sforzo di render questa molteplici-
tà simultanea della vita interiore»17.
12 Ibid.
13 Di un simile “illuminismo” vociano si trova testimonianza anche nelle Contromemorie vociane, a pro-
posito della Libreria: «I libri per noi erano bobine elettriche che polarizzano e riformano le anime. Crede-
vamo, sinceramente, di poter riformare la società, con la taumaturgica diffusione di buoni libri» (P. Ja-
hier, Contromemorie vociane, in Id., Con me, cit., p. 274).
14 Boine, Un ignoto, cit., p. 751.
15 Ibid.
16 Ibid.
17 Ibid.
408 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Partendo dalla constatazione che la vita è un «amalgama» di «pensiero» e di «i-
magine», ovvero di riflessione filosofica dettata dalla ratio e di intuizione lirica per
immagini, l’arte deve poter rendere entrambe:
Filosofia che sia arte, arte che sia filosofare: io non posso accontentarmi di una par-
nassiana rappresentazione di obiettivi idilli, ma nemmeno m’appaga l’individuale
impeto lirico. […] Voglio che la mia lirica sia travata di obiettività, e la mia obiettività
sia tutta intimamente tramenante di liricità, e voglio esprimermi intero18.
La compenetrazione tra arte e filosofia19 sembra essere dunque un dato fondamentale
per la letteratura in ambito vociano, nella direzione del saggio (obiettività pervasa di
liricità) e del “frammento” (lirica «travata di obiettività», non più attestata, romanti-
camente, sull’«impeto lirico»).
Di una connessione di dati e letteratura, di cui si è già dato prova nella Crisi degli
olivi in Liguria, Boine dà ancora un lacerto, con il passaggio dalle informazioni alle
“parentesi” di immagini liriche:
Ha eco in me la guerra africana con ogni vicenda sua di morte e di attesa: e l’annata
qui delle olive che è buona e fa pacificamente liete di canti e tramestate di moto (bac-
che lucide nere rigonfie nel verdore dell’erba, bacche rigonfie sulla umidità delle zolle
e coglitrici accosciate con rapide dita, con nervose dita per terrazze alberate, e sacchi
riuniti, sacchi goccianti e sonagliere di muli, lieto andirivieni di muli per valli fatte vi-
ve qui intorno)20.
Il romanzo, in particolare «la narrazione ordinata in terza persona», rappresenta
un’«artificialità» dichiarata, in quanto è una trasposizione di idee (tant’è che «l’arte
nostra è tutta più o meno simbolica anche quando fa del verismo»), una “proiezione”
«da un mondo ad un altro». L’idea di Boine è invece che esista una libertà
d’espressione in cui questa distanza tra pensiero e sua espressione artistica possa esse-
re eliminata, o meglio ridotta ai minimi termini; ciò può realizzarsi in un pensiero di
tipo aforistico, che non viene “sistemato” artificialmente:
Io non difendo il pensiero aforistico: ho delle idee che esporrò, sul pensiero aforistico.
Ma se uno pensasse a scatti, gli scoppiassero dentro cose profonde come lampi senza
alone, senza riverbero logico, senza echeggiamenti di concatenamenti sillogistici, fa-
rebbe male a non darci come gli viene il pensiero suo, a scatti, a guizzi, a motti senza
18 Ibid.
19 L’incontro tra letteratura e filosofia era stato auspicato già da Papini nelle Speranze di un disperato, co-
me esigenza di un’arte che non sia “lirica”, superfluo abbellimento di concetti.
20 Ibid.
L’anno 1912 409
mettere tra l'un motto e l'altro un artificiale lavorio di apparente sistemazione. Vo-
gliamo l'aforisma vivo non il rabberciamento di facciata secondo le regole solite; l'im-
provviso bagliore non un annegamento diluito secondo i bisogni correnti del razioci-
nare comune21.
L’improvviso bagliore contro una sistemazione legata al «raziocinare comune»:
illogicità e irrazionalismo sono dunque preferibili ad un ordine che, secondo l’ignoto,
è inutile copertura di una percezione comunque frammentaria e momentanea22:
Brevità d’espressione per una brevità abitudinaria di spirito. La complessità libera e
nuova dello spirito nuovo dovrà dunque crearsi la libertà delle forme23.
In conclusione, Boine apparenta il testamento spirituale dell’Ignoto al «proclama
d’una rivoluzione nuova dopo la romantica (epigoni compresi) specie francese», ca-
ratterizzata da una libertà comparabile a quella della Prefazione del Cromwell, ma
«più spirituale»24.
Un’altra pietra miliare della presenza di Boine nel 1912 è costituita dal Ragiona-
mento al sole25, che può essere considerato come simbolo dell’“ideologia proprieta-
ria”26 dello scrittore ligure. Boine ribadisce il proprio rapporto con la letteratura, di-
stante dal crocianesimo come dalle elaborazioni «estetizzanti», e dunque basato su un
“sistema” che sia, prima di tutto, nato dall’io, individuale, un sistema morale (perciò
non estetizzante né anarchico), ma personale:
Ecco qui appunto, ch’io uomo al sole con un brusio d’api intorno e di grilli e con un
senso di sano crescere dentro la carne e nell’anima, ecco che io ho ripugnanza peri si-
21 Ibid.
22 Certo, rimane, nell’argomentazione, un punto debole: se sia più “sincera” l’arte che dichiara il proprio
artificio (il romanzo), o quella che si sforza di ridurre al minimo la trasposizione quando, però, eliminare
la forbice tra la realtà e la sua resa letteraria è, forse, umanamente impossibile.
23 Ibid. In un articolo successivo, recensione di prima pagina all’Immolé di Emile Baumann23, affiorano,
tra le parole di disapprovazione per tale romanzo cattolico, alcuni procedimenti cari all’arte di scrivere
secondo Boine: rielaborare «in lirica sintesi» le proprie idee, non presentare «una troppo fedele fotografia
di qualcosa», che occorre invece «intensificare e musicalmente riassumere» (cfr. G. Boine, L’Immolé, ivi,
IV, 10, 7 marzo 1912, p. 771: «il difetto del libro […] è quello di non essere una rielaborazione in lirica
sintesi di una praticata religione […]. Di essere una troppo fedele fotografia di qualcosa che per essere
arte bisognava intensificare e musicalmente riassumere»).
24 Boine, Un ignoto, cit., p. 752. Come già in Slataper, ricorre l’idea che la nuova letteratura sarà il risultato
di una piena realizzazione dell’agitazione romantica.
25 Id., Ragionamento al sole, «La Voce», IV, 40, 3 ottobre 1912, pp. 903-04.
26 Cfr. U. Carpi, Ideologia proprietaria e letteratura religiosa in Boine, in Id., «La Voce». Letteratura e pri-
mato degli intellettuali, De Donato, Bari 1975, pp. 135-97.
410 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
stemi del mondo su carta. Non sfarfallerò mica antintellettualisticamente o da estetiz-
zante, ma il sistema lo voglio in me, più cieco, più spontaneo, più modesto anche (si-
stema materiato-carnale, sistema sentimentale-pratico); lo voglio nello spirito mio
individuale prima che nello spirito con S maiuscolo e filosofico significato annesso27.
Questa libertà prima di tutto individuale si traduce in un «sogno» sociale di re-
troguardia, nella difesa di un’organizzazione sociale aristocratica favorevole
all’intellettuale, escluso dai meccanismi produttivi e libero nella propria attività:
«nell’economia dello spirito c’è bisogno di ricchi, di signori, di liberi (e di inutili),
come c’è (se c’è)! nell’economia del danaro»28. La separazione tra vita dello spirito e
vita del danaro è solo teorica, in quanto lo stesso Boine si accorge che il sogno
dell’aristocrazia dello spirito si sposa con un’ideologia sociale ben precisa, il «mito»
del «proprietario di terre»29. Il “ragionamento” comincia e finisce su immagini liri-
che, nelle quali infine si risolvono le problematiche poste dall’io, in favore di una in-
terpretazione poetica del reale: «Ecco ch’io allargo le braccia disteso in gran croce e
spalanco gli occhi e la bocca a un gran riso: io sono, sono “proprietario” di cieli»30. La
«terra del tuo paese», di cui si è proprietari per tradizione di famiglia, rappresenta per
Boine un nucleo di partenza per l’interpretazione del reale e motivo lirico primitivo,
emblema di poesia intesa come libertà di guardare al mondo senza essere «ai servigi
del mondo».
Dossi compare ancora, in questi primi mesi del 1912, a testimonianza di un inte-
resse non sopito per un autore di cui si sono ripubblicate da poco le opere; Alberto
Spaini recensisce, in questo caso, L’ora topica di Carlo Dossi, fornendo indicazioni
importanti per l’autore della Vita di Alberto Pisani quanto per Gian Pietro Lucini31.
Su quest’ultimo si tenta di richiamare l’attenzione: «L. è uno dei nostri più dimentica-
ti; e più a torto dimenticato. Eppure è il più personale […], ed uno dei migliori poeti,
e dei più eruditi e geniali critici». Con acume Spaini riconduce il ritratto di Dossi for-
nito nell’Ora topica a quello di Lucini stesso, avvertendo il lettore della continua so-
vrapposizione («più autocritica e autobiografia, dunque, che critica e biografia al-
trui»), e consigliando la lettura del testo luciniano non solo come opera critica, ma
piuttosto come «creazione originale».
27 Boine, Ragionamento al sole, cit., p. 903.
28 Ivi, p. 904.
29 «Sognerò ingenuamente (creerò un mito; potrà servire)! sognerò di farmi poniamo proprietario di ter-
re. Ed è possibile dunque esser uomini senza della terra che sia tua, terra di tuo padre e di tuo nonno, ter-
ra dei tuoi figlioli, terra che tu ami e che ari, e che sorvegli e che domini? Terra per la quale, della quale tu
vivi» (ibid.).
30 Ibid.
31 A. Spaini, Dossi [Rec. a G. P. Lucini, L’ora topica di Carlo Dossi. Saggio di critica integrale, Nicola, Vare-
se], in Bollettino bibliografico, 2-3, «La Voce», IV, 9, 29 febbraio 1912, p. 767.
L’anno 1912 411
Lucini verrà recensito anche nell’ottobre 1912, rivendicando la necessità di strap-
pare il suo nome all’oblio del disinteresse generale; dalla presentazione che Renzo
Boccardi dedica a Le nottole ed i vasi32 emerge una figura di scrittore che «sconcerta»,
prodigando robusto pensiero «con un gesto che pare disordine per la troppo rapida
ideazione». Gli elementi di originalità e audacia sono messi in rilievo dal recensore,
come ad esempio l’utilizzo ironico e consapevole del paratesto (il volume «è suggella-
to da una vera vertigine di note […] filologie e lessicografie arcidotte con che il biz-
zarro autore ironizza archeologi, papirologi, gramatici») o la volontà di proporsi co-
me una sorta di «passatismo di un futurista». Fatto non privo d’interesse in ambito
vociano, il libro in questione è condotto all’insegna della frammentarietà: sono
«frammenti inutili di alessandrini» di un autore che si fa interprete della «decaden-
za», «bocca anonima di una civiltà matura che nella sua letteratura tutta si spoglia,
ingenua ed impudica, efeba e saffica e tumultuante».
3.2 «Dacci oggi la nostra poesia quotidiana»: questioni letterarie e lacerti di opere
prime
«Un esaurimento nervoso manifestatosi l’estate scorsa e non mai curato, mi costringe
ad abbandonare»33: il 4 aprile del 1912, in neanche una quindicina di righe, Prezzolini
si dichiara forzato a lasciare «occupazioni» e «preoccupazioni» di direzione, quasi che
le tendenze centrifughe sempre più presenti nella rivista fossero esplose, alla fine, in
un suo crollo psicologico. In realtà la direzione della «Voce» era già passata, provvi-
soriamente, a Slataper, nei primi mesi dell’anno; ma adesso comincia un periodo
nuovo, in quanto, benché Papini assicuri l’intenzione di lavorare in continuità,
l’articolo che occupa la prima pagina e parte della seconda (Dacci oggi la nostra poesia
quotidiana)34 è piuttosto il segnale di una virata.
Indipendentemente dai risultati, la rivista si è concentrata, per Papini, sul «mi-
glioramento materiale» degli uomini, sulla «vita collettiva del paese»; esiste, però, una
questione di «miglioramento morale, anche, ed intellettuale», che è racchiusa nella
poesia. «Ognuno di noi è poeta o può essere poeta», afferma Papini, se la poesia è un
modo di vedere il mondo:
Significa poter godere senza pensieri della bellezza del mondo; e saper vedere la bel-
lezza anche di quel che sembra più meschino, più brutto, più orrido; significa cogliere
relazioni, armonie che non siano i soliti rapporti di causa e di effetto, di utilità o noci-
32 R. Boccardi, Le nottole ed i vasi, in Bollettino Bibliografico, 10, ivi, IV, 44, 31 ottobre 1912, p. 923.
33 In «La Voce», IV, 14, 4 aprile 1912, p. 787.
34 G. Papini, Dacci oggi la nostra poesia quotidiana, ivi, pp. 787-88.
412 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
vità, attraverso i quali vediamo continuamente la realtà per i nostri bisogni pratici; si-
gnifica, insomma, distendersi, riposarsi, allargarsi35.
La visione poetica è dunque contraria a quei legami di spazio e tempo deplorati anche
da Boine; d’altro lato, però, non sembra contenere quella tragica tensione alla ricerca
della verità che essa ha in Boine stesso, o in Slataper, ma è anzi «riposo» nella bellez-
za. Recuperando quella convivenza, tipicamente vociana, tra vita pratica e spirituale
(«Io non chiedo che tutta la nostra vita sia fatta di poesia»), Papini auspica però quo-
tidiani momenti di pausa dal lavoro, da dedicare alla poesia, che va cercata nella na-
tura («v’è il sole sopra le nostre teste», «sulle montagne v’è ancora la neve bianca e
granulosa come nel primo anno della terra», ecc.)36 o negli angoli più derelitti delle
città, invocati attraverso Baudelaire ma con accento sulle “macchie di colore” («anche
nelle più fetide strade della città il povero colla sua giubba verde rivoltata, che traballa
per vino o per paralisi ti dà nello stesso tempo una macchia di colore e un senso
d’inutile tristezza; il gatto nero e baudelairiano si distende sulla soglia della porta e
riflette il cielo nei suoi occhi spianti; […]»)37. Il richiamo di Papini al «lavoro dello
spirito», ad una poeticità diffusa e non ben definita, diventa in realtà il simbolo
dell’auspicio, per la «Voce», ad un’apertura maggiore alla letteratura, accolta da più
parti con un sospiro di sollievo38. Sennonché, entro poco tempo si capisce che
l’aspirazione poetica, di Papini ed altri rimane, soffocata nella «Voce» e che una «tra-
sformazione lirica» della rivista non ha, in fondo, molto senso39.
A cambio di direzione avvenuto, Jahier continua la propria funzione di aggior-
namento sulla cultura contemporanea e critica dei cattivi costumi italiani. In questi
mesi erompe sulla «Voce» la sua passione per «la figura pietrigna di Claudel», a cui è
35 Ivi, p. 787.
36 Ibid.
37 Ivi, p. 788.
38 Ad esempio, Jahier comunicava a Soffici l’avvenuto cambiamento con queste parole: «dal prossimo
numero Direttore è Papini e quindi io credo che possa riprender fiato, farsi un po’ + lirica e interessante e
perciò ti prego di aiutarci» (Jahier a Soffici, [Firenze, 4 aprile 1912], in Resultanze in merito alla vita e
all'opera di Piero Jahier. Saggi e materiali inediti, a c. di F. Giacone, Olschki, Firenze 2007, p. 281).
39 Preziosa, anche in questo caso, la testimonianza di Jahier in una lettera a Soffici del 2 maggio: «Siamo
sfiduciati noi, la Voce perde ogni giorno di interesse e di valore; non per mancanza di buona volontà di
Papini ma perché egli non è adatto a continuarla legato dai precedenti e lo fa con manifesto sacrificio non
potendoci mettere tutta la sua anima lirica. […] Avevo accennato anche con Papini a una possibile tra-
sformazione critica della Voce, oggi come oggi questa costosissima settimanalità non ha neanche più sco-
po. Ma penso che sia + onesto e serio che la Voce muoia così com’è e nasca la rivista nuova senza equivo-
ci trapassi. Quando, come? Non più tardi di gennaio prossimo per sopperire al vuoto, oltre tutto» (Jahier
a Soffici, F[iren]ze, 2 maggio [1]912, ivi, p. 290).
L’anno 1912 413
dedicato un ampio intervento40; tralasciando un’accurata analisi dell’interpretazione
di Jahier, è utile focalizzare l’attenzione su alcuni caratteri che rendono per lui impre-
scindibile l’opera di Claudel, e che finiscono per individuare alcune idee più generali
sull’arte. Innanzitutto, Claudel incoraggia all’«esame di coscienza», che è rappresen-
tato come una strenua lotta con l’angelo:
questo era il segno della sua forza, […] questa era la cintura della sua verità: di obbli-
garmi a un esame di coscienza affrontandomi come l’angelo di Giacobbe e non dan-
domi posa.
Que celui qui entend ma parole
Rentre chez lui inquiet et lourd41.
Di conseguenza, la trama dei fatti è sopraffatta dalla vita interna dei personaggi: «le
loro parole ci sono confessioni, apertura di coscienze, visione d’umanità».
È altrettanto interessante il modo in cui Jahier riconosce e commenta lo stile di
Claudel, stile semplice basato su una poeticità originaria, biblica, su una «misura
nuova»:
La misura nuova, la misura del verso respiratorio;
[quand’ero un poeta tra gli uomini / Inventai quel verso che non aveva né rima né
metro, / E lo definivo nel segreto del mio cuore quella funzione duplice e reciproca /
Per la quale l’uomo assorbe la vita e restituisce, nell’atto supremo dell’espirazione, /
Una parola intelligibile]
le rotture, le pause, gli a capo dei versetti, rotture, pause, a capo intimi, interiori,
poiché il poema non è come un sacco di parole ma è veramente esso stesso un segno,
un atto immaginario creante il tempo necessario alla sua risoluzione e al disopra del
tempo accidentale, utilitario, oratorio, scola il tempo reale, il tempo lirico, il tempo
della poesia.
I raggruppamenti di frasi che «sboccano nel bianco e nel silenzio» senza consustan-
ziarsi nel verbo, tremanti ancora delle atroci perplessità dello spirito42.
Il verso senza rima né metro permette di riportare a pieno il senso di un’intima riela-
borazione della vita («l’uomo assorbe la vita» e la «restituisce»); la frammentazione
del discorso corrisponde ad una mimesi dell’interiorità («a capi intimi, interiori»), la
durata del verso e del poema non deve trovare la propria misura in un tempo «acci-
40 P. Jahier, Paul Claudel, «La Voce», IV, 15, 11 aprile 1912, pp. 791-92. Si ricordi che a Claudel è dedicato
un intervento anche a proposito di Partage de Midi (P. J[ahier]., Partage de Midi, ivi, IV, 24, 13 giugno
1912, p. 834).
41 Ivi, p. 791.
42 Ibid.
414 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
dentale» o «oratorio», bensì in un ritmo lirico intimo e personale. Il «bianco» e il «si-
lenzio» hanno un peso ancor maggiore che nella poesia tradizionale.
Riguardo alla nuova arte poetica, Jahier individua il ruolo fondamentale della
metafora, non come procedimento estetico ma noetico, in grado di mettere a nudo i
rapporti tra l’uomo e la natura, quasi con nuove corrispondences:
La nuova Arte poetica dell’Universo è una nuova logica. L’antica aveva per organo
il sillogismo, questa ha la metafora, la nuova parola, l’operazione che risulta dalla sola
esistenza congiunta e simultanea di due cose differenti43.
Il rapporto tra coscienza individuale e coscienza collettiva in Claudel interessa
probabilmente Jahier come testimonianza di una possibile conciliazione, nell’opera
d’arte, tra l’indagine dell’individuo (personale “lotta con l’angelo”, confessione) e la
rappresentazione di istanze morali collettive:
Quella enorme aspirazione verso la totalità che è la ragione della sua grandezza, che
ci autorizza a chiamare la sua arte veramente religiosa (re-ligo) lo porta a ricercare e
ad esprimere nell’individuale quel che vi è di più profondo, a isolare nei suoi perso-
naggi il segreto centrale dell’anima. Per bocca di ognuno di loro migliaia di voci par-
lano […]. Sono dunque degli esseri simbolici portanti il peso di una coscienza collet-
tiva, nei quali è onnipresente la storia umana. Il poeta si confessa per mezzo di essi44.
Mettendosi da parte come «umile presentatore» piuttosto che «critico», Jahier con-
clude l’articolo ricordando la necessità di un rapporto proficuo tra arte e verità, con
un’accusa ripetuta che sembra un monito: «O noi, tutti artisti, scrittori di bozzetti,
titolari della forma».
La rubrica dedicata ai Caratteri langue, quasi che le migliori energie creative non
avessero più il tempo di dedicarsi al ritratto puntuto che mette in difficoltà categorie
più o meno rispettabili; potrebbe in fondo trattarsi di un segnale dell’abbassamento
dell’impegno civile di alcuni collaboratori, che prima conciliavano così prosa
d’invenzione e “militanza moralistica”. In controtendenza, è da segnalare che Slataper
continua ad occuparsi dell’irredentismo triestino45, saldo sul tema d’attualità che gli è
43 Ivi, p. 792. All’ultimo stadio di questi rapporti metaforici sta un’unità, un «accordo esplicativo e totale»
che è assicurato dall’«immobilità di Dio».
44 Ibid.
45 Di Trieste si occupa anche Saba: il suo nome compare per un articolo tratto «da un libro di prossima
pubblicazione sugli Ebrei», che rientra proprio nella natura della «Voce», come una sorta di relazione vol-
ta ad approfondire la presenza degli ebrei a Trieste (U. Saba, Il Ghetto di Trieste verso il 1860, ivi, IV, 20,
16 maggio 1912, p. 818).
L’anno 1912 415
più caro, mentre Jahier porta avanti anche i Caratteri, con L’articolista46, graffiante
schizzo di chi, piuttosto che interpretare il proprio mestiere come sfida del nuovo,
procede cautamente in salvaguardia di sé. Né Jahier si disinteressa di questioni di fe-
de, come certifica la Lettera all’apostata47, comparsa tra i Caratteri prima del cambio
di direzione, e della quale almeno due elementi vanno messi in luce: l’incontro tra il
genere della “lettera” e una scrittura franta, quasi salmodiante; l’affermazione che non
si possono cancellare, come vorrebbe il sacerdote interpellato, gli anni passati «come
una partita saldata», ma ricordarsi che qualcuno ne chiederà il conto. Compare anche
un’altra prosa di Jahier, Il figlio di famiglia48, della serie Conforti: ancora l’attenzione è
volta al ragazzo povero, che mette «tutto il guadagno in casa». Ancora la famiglia po-
vera e lavoratrice attira lo sguardo di Jahier, che vi trova, nel sacrificio, una purezza
morale poco diffusa in ambienti piccolo-borghesi49.
In maniera breve e volutamente sbrigativa, il direttore dà notizia della morte di
Pascoli, nell’esigenza di ribadire una distanza che si esprime, ancora una volta, nei
termini della «campagna», termometro su cui misurare la poetica di un autore:
Georgico era ma con troppa cultura e letteratura di mezzo. Georgico dell’orto più
che del campo; campagnuolo di paesetto più che di casolare. La sua è una campagna
di collina, ben lavorata, coi contadini che sanno leggere e cogli uccelli quasi domesti-
ci. Manca l’asprezza nuda delle solitudini (le sole che dian diritto a parlar di natura,
di vera natura in contrapposto a cultura) ma c’è la dolcezza di Virgilio un po’ imma-
linconita da Leopardi50.
Nella contrapposizione tra natura e cultura Pascoli tende alla seconda, la quale ma-
schera certa «forza nativa» del poeta; è da notare che, al polo della malinconia della
natura, appartiene invece Leopardi, citato come un classico accanto a Virgilio, ma
portatore di una percezione dolorosa del reale che è simbolo di modernità.
Papini prosegue poi, anche nel 1912, una discussione sulla funzione dell’homme
des lettres, attraverso la figura del Buffone, pièce tra letteraria e polemica che denuncia
chi «vive per stuzzicare l’immaginazione degli uomini», vendendo finzioni «con l’idea
che prima di tutto bisogna distrarre gli uomini e tenerli allegri». L’arte, anche «gran-
dissima», che porta i lettori «fuor della loro piccola vita personale, uggiosa, vile e
46 P. J[ahier]., L’articolista, ivi, IV, 25, 20 giugno 1912, p. 840.
47 Id., Caratteri. Lettera all’apostata, ivi, IV, 8, 22 febbraio 1912, p. 761.
48 Id., Conforti. Il figlio di famiglia, ivi, IV, 31, 1 agosto 1912, p. 866.
49 «Quel che mi ha preso, dunque, è che il figlio metta tutto il guadagno in casa e che bisogna salir al po-
polo per trovar l’ultima famiglia dove sia solenne come un ingresso nel mondo il primo giorno del guada-
gno» (ibid).
50 G. P[apini]., Giovanni Pascoli è morto, ivi, IV, 15, 11 aprile 1912, p. 794.
416 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
umiliante», è condannata senz’appello, quale panacea ai mali dell’uomo. Quale sia la
letteratura che invece milita per il risveglio dell’umanità non appare molto chiaro, ma
essa viene espressa in termini di rivolgimento violento:
più bello e pericoloso sarebbe svegliarli a forza d’urli, metterli in faccia al buio, farli
spenzolare col capo giù nell’abisso e forzarli così a rialzarsi, a scoprirsi, a farsi più do-
lorosi ma più alti davanti all’universo che ora appena li sopporta51.
Contro l’invenzione di caratteri o la ricostruzione storica («ridar vita a chi fu nel pas-
sato oppur non fu mai»), si dovrà occuparsi di «dolori dello spirito», non facendo
dimenticare ma «ricordare», con l’auspicio di una vita spirituale che fa pensare ai
propositi del Lemmonio di Soffici.
Il discorso continua e si amplia con Diventar genio52, in cui Papini riprende una
discussione sul genio iniziata già nel 1909; la visione dell’artista come martire si ri-
propone, se «il genio è, in senso assoluto, il redentore degli uomini, colui che li salva e
l’illumina a prezzo di dolori e tormenti tutti suoi». La moralità del genio consiste nel
suo strenuo lavoro solitario, non nella sua vita:
Loro soli son capaci di morale, anche se la loro vita è qualche volta colpevole; loro soli
sono, nel senso spirituale della parole, «animali eretti»; loro soli posson dare alla real-
tà la bellezza e alla vita un significato53.
Come già nel 1909, Baudelaire è richiamato quale punto di riferimento di una genia-
lità consumata fino in fondo, senza compromessi, rappresentata dal motto «Vouloir
tous les jours être le plus grand des hommes». Afferma Papini che la genialità si basa,
innanzitutto, sull’«umiliazione» e sulla «vergogna»: una dichiarazione di umiltà che
sembra però scontrarsi con la contestuale retorica della grandezza. L’augurio di
un’«umanità dove i geni siano moltitudine e non più eccezione» e di una società me-
no basata sul principio della produttività conclude l’articolo con una nota utopica54.
Il numero del 18 aprile potrebbe essere preso a simbolo di una resa dei conti non
più procrastinabile riguardo ai fatti di letteratura; le idee su cosa sia l’arte discusse
sulla «Voce» si sono andate specificando e stanno trovando sbocco nell’ambito dei
«Quaderni». In questo numero si pubblica un lacerto del Lemmonio Boreo di Soffici,
51 G. Papini, Il buffone, ivi, IV, 22, 30 maggio 1912, p. 823.
52 Id., Diventar genio, ivi, IV, 41, 10 ottobre 1912, p. 907.
53 Poco prima Papini aveva affermato: «La psicologia del genio non è ancora fatta né la cercheremo fra le
compartiste diagnosi di Moreau de Tours, di Lombroso o di Moebius» (ibid.).
54 «Gli uomini produrranno di meno ma vorranno e potranno anche rinunziare, nello stesso tempo, a
moltissimo» (ibid.).
L’anno 1912 417
preceduto dalla discussione sull’effettivo valore del libro, che vede Boine e Papini su
posizioni radicalmente differenti; segue un estratto dall’Uomo finito, che affianca così
le pagine dei due autori forse più simili nelle file vociane.
L’articolo di Boine55 apre le danze, denunciando con piglio polemico
l’«amalgama volutamente ingenuo» tra «Don Chisciotte in Toscana e Jean Christo-
phe in Italia», che sconta i danni di una malcelata «disonestà». Dietro al giudizio di
Lemmonio, che condanna in toto la cultura italiana, dopo dieci giorni di letture
d’aggiornamento sia in ambito letterario che filosofico, si nasconde, secondo Boine,
una superficialità che porta l’autore dritto “tra le braccia di Mefistofele”:
Perché nella teoria è la legge e il dovere, (è la tragica universalità non mia e non tua: -
esco, per la teoria, da me vile e piccino), e nella vita (par più polposa nevvero?) è il
commedievole egoismo, è il bambagino calduccio della mia e della tua assetata di pia-
cevole libertà animella individua.
Lemmonio rappresenta per Boine il dissidio tra pensiero, concetto (anche inteso co-
me interrogazione serrata sull’uomo e sulla sua realtà) e «nostalgia», «aspirazioni»; il
romanzo di Soffici rappresenta una fuga, su basi piuttosto superficiali, dalla realtà,
non un approfondimento coraggioso del reale, ed è questo che lo condanna agli occhi
del critico. «Non sai bene dove vada a battere questo cicaleccio vagabondo»: la man-
canza di prospettiva e l’assenza di una visione d’insieme rendono il Lemmonio non
molto migliore di quell’Italia da lui condannata, «rotta a frammenti», «persa nei suoi
mille particolari interessi», «sogghignante e meschina».
Quel che rimane di quest’operetta, riconsiderata al bisturi di Boine, sono i singoli
quadretti, le impressioni, degne di un poeta-pittore, le ricerche linguistiche di sapore
toscano, frammenti godibili senza un orizzonte comune:
Non sai dove vada a battere, ma l’estate c’è, e la Toscana anche, mi pare. E quindi
leggi e ti par d’esserci lì dove il carrettiere picchia il suo asino e Lemmonio picchia il
carrettiere; […]. Già: - quadretti finiti, acquarelli, idilli, schizzi vivi che non ti dimen-
tichi più. Il glutine, il reale legame manca; ma anche se l’interesse morale non è susci-
tato e se le cose dipinte sono strambe un poco, la viva pittura c’è.
Si può preferire questa «elementare spiritualità idillico-sacchetiana-campestre», dota-
ta di una lingua che ha «qualcosa di gaiamente oggettivo in ristretto orizzonte di bor-
go», all’«intreccio amoroso solito», ma non ritenerla un contributo al recupero di una
«spiritualità» per la letteratura italiana.
55 G. Boine, Don Chisciotte in Toscana, «La Voce», IV, 16, 18 aprile 1912, p. 795.
418 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Il fatto che si sia giunti, ormai, ad una resa dei conti, appare chiaro da
un’accennata critica di Boine a una corrente vociana che ha appunto sviluppato que-
sto tipo di “impressionismo” per lo più idillico:
(già: ora la si diffonde una certa ingenuità semplicistica, - qui è idillismo, in altri luo-
ghi è altro, - che pare un lavacro fresco sulla psicologica decrepitudine del secolo no-
stro. Desiderio di semplicità rozza, di elementarità gustosa. Richiamo dalle astratte
complicatezze alla evidente particolarità delle cose etc. È uno dei toni della predica-
zione vociana ad es. Ma io ho roba da dire, la dirò su ciò).
Accanto alla recensione poco favorevole di Boine, compare un articolo difensivo
di Papini56, il quale non si propone di smontare l’interpretazione boiniana, ma di ri-
baltarne la valenza: se anche il giudizio di Lemmonio sulla cultura italiana fosse esa-
gerato, «che vuol dir questo per il valore puramente artistico del libro?»57.
S’è veramente arte non basta a sé stessa? E se piace come arte (in questo caso: come
rappresentazione del reale, come scrittura) e ci diverte, non basta?58
La ricezione di un testo deve essere “disinteressata”, “libera” («anche dalle illusioni»);
Papini pone l’accento sulla necessità di una lettura “non ideologica”, senza però an-
dare a fondo, in realtà, nella poetica e nelle ideologie proposte dal Lemmonio.
Infine, si propone un estratto dall’oggetto della contesa, Canto I. Dell’entusiasmo
di Lemmonio Boreo59; tra l’altro, il brano si apre con il solito movimento d’ascesa
(«sceglieva sempre il ramo di strada che montava di più»), che aveva accompagnato
gli interventi creativi di vari autori sulla «Voce». A questa salita su monti toscani cor-
risponde il consueto elevamento spirituale del protagonista («anche il suo spirito
s’innalzava»); tale innalzamento, però, non trova riscontro in una strenua educazione
morale, ai conti con se stesso, ma piuttosto in un nucleo tipico del vociano Soffici: il
ritorno alla natale campagna toscana come riconquista, momentanea, di un mondo
cordiale, semplice. Dopo aver vagato per «città sterminate e feroci», il «suo paese» gli
presenta, finalmente in modo chiaro, una visione di sanità e di forza.
Che questo idillio di campagna fosse scevro dall’ideologia che Boine vi andava
cercando, e che andasse riportato ad un ambito poetico tout court, come desiderava
Papini, non era forse vero, come si può evincere già da questo brano. Il paese, intan-
to, assume le fattezze di una «razza» («la sua, intatta da migliaia e migliaia d’anni»), di
56 G. Papini, Le Moine Bourreau, ivi, pp. 795-96.
57 Ivi, p. 795.
58 Ivi, p. 796.
59 A. Soffici, Dal Lemmonio Boreo, ivi, pp. 796-97.
L’anno 1912 419
cui l’umanità è debitrice per i grandi ingegni nati nel corso del tempo, e sulla quale
«si poteva sempre contare ogni volta si avesse da edificare o da distruggere»60. Inoltre,
«la vigoria» di questo popolo è tale proprio perché «simile a quella dei terreni incol-
ti»; nessun populismo alla Jahier contagia Lemmonio, il quale ribadisce il proprio so-
spetto di fronte alla «plebe» («sapeva benissimo che dove non c’è coscienza non c’è né
merito né virtù vera»).
Al passo tratto dal Lemmonio segue un brano dell’Uomo finito di Papini (cap.
XIV e XV)61, connesso al precedente per il dichiarato donchisciottismo: «siamo […]
per i cavalieri erranti che cercavano le avventure di spada», «Don Chisciotte è il no-
stro patrono». Ribollimento (cap. XIV in vol.) si propone di rappresentare gli albori
della generazione da cui nacquero prima il «Leonardo», poi la «Voce», una gioventù
inquieta che sente «il diritto di cancellare i ricordi e la forza di ritessere la realtà su
nuove trame e con nuovi disegni», armandosi innanzitutto di una nuova rivista. Il
ritratto del giovane ribelle contiene in sé tratti vociani e leonardiani, tra progetti di
“lavoro” e violenza distruttrice: «bravi ragazzi, che abbiamo voglia di lavorare», ma
anche «sguardi di attaccabrighe, mosse da villani». Le intenzioni sono poco rassicu-
ranti:
Non ci vorremmo mettere addosso, per tutti i libri del mondo, la giubba del fantacci-
no, ma la guerra è il nostro ossigeno e ogni assedio è una festa e vorremmo che ogni
parola fosse una fucilata a bruciapelo e ogni idea un’infallibile bomba da fortezza.
[…] Che diavolo fate voialtri qui intorno? Camminate più presto se non volete esser
pestati – suicidatevi se non volete esser sparati. Noi andiamo avanti – dobbiamo an-
dare avanti!62
Ancora, il topos della salita al monte è rivelatore delle diffrazioni vociane63; qua si
tratta di conquistare una posizione di superiorità dalla quale poter disprezzare gli al-
tri, ammaestrarli attraverso la paura guidandoli verso «liberazione» e «gioia»:
necessità di salire, di abitare sui monti, di vedersi le città sotto ai piedi, di poter di-
sprezzare gli uomini da lontano.
60 Ivi, p. 796.
61 G. Papini, Dall’Uomo finito, ivi, pp. 797-98.
62 Ivi, p. 797.
63 Non si può comunque negare il legame tra il romanzo di Papini e la sua attività nella «Voce»; afferma
giustamente Biondi che «non fu il vocianesimo la conclusione per Papini, ma uno dei veicoli trainanti la
stesura del suo “romanzo interno”» (Biondi, «Non è la nostra una rivista di lucro o di vanità». Appunti su
voci e versioni della critica nella «Voce», cit., p. 90).
420 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Disprezzarli ed anche odiarli e ammazzarli. Ma in fondo: amarli! Tutto quel che
facciamo è per loro. […] Noi facciamo la guerra per renderli migliori, urliamo perché
non si dimentichino, li impauriamo perché pensino ai casi loro64.
Il discorso notturno, poi, ben rappresenta l’individualismo eroico papiniano, che
rivive la propria centralità nell’esperienza del «Leonardo», quale guida spirituale, “a-
postolo”, “avventuriero”; l’enfasi violenta del linguaggio ancora piega il testo ad uno
stile lontano dalle elaborazioni “vociane”, che lavoravano per la conquista di una mi-
sura, per un attacco sottile piuttosto che brutale di una tradizione da svecchiare. Così,
la foga del rinnovamento letterario si traduce in un incendio pubblico dei libri “idio-
ti” e “mediocri”, sinistra prefigurazione di immagini del Novecento più tragico: «I
manoscritti mediocri e i libri idioti si sarebbero bruciati ogni settimana, sopra una
piazza, in un falò di gioia».
A luglio, Jahier pubblica un breve articolo intitolato La salute65, che ha i tratti di
una prosa poetica che, seppur non legandosi in alcun modo alle discussioni dell’aprile
sul Lemmonio, sembra far sentire la propria voce nella querelle letteraria che stava
prendendo piede; l’appello iniziale sembra chiamare a raccolta i vociani: «Se abbiamo
una parola comune con questa generazione». E la parola d’ordine, per quanto è con-
cesso all’arbitrio umano, è “salute”, “sanità”, la quale nasce da una «coscienza di ciò
che manca». Jahier rivendica l’attitudine “religiosa” della propria generazione, intesa
non tanto come fede salda («portiamo fedelmente il lutto alla religione»), ma come
continuo esame di se stessi («Egli misura la terra col suo passo e le sue viscere sono in
travaglio d’ansietà»).
Giunti all’arte, Jahier dichiara che essa ha senso se non è tratta «in disparte», se
non si chiude in estetismi sterili:
Questo monumento in disparte che avete eretto all’arte è monumento di dispregio.
Perché: abbracciamenti di donne, attenzione alle cose come utilizzabili estetica-
mente [o «tremenda attenzione dell'arte»] e il mondo come una stanza di esperimen-
to (escluso dove vuota le sue fogne), ecco il posto che riservate all'arte. Credete voi di
aver ancora a che fare con la generazione dannunziana?
Chi di noi, dunque, si accosta alla poesia se non abbia potuto dire amen alla sua co-
scienza? Anzi siamo legati alla corta catena dei doveri comuni e non reputiamo buoni
tutti i sapori della terra.
64 Papini, Dall’Uomo finito, cit., p. 797.
65 P. J[ahier]., La salute, «La Voce», IV, 30, 25 luglio 1912, p. 861; non a caso, l’articolo è presente
nell’antologia di Romanò.
L’anno 1912 421
La nostra arte è autobiografia: essendo fermi a un bivio, pieni di solitudine e di a-
spettazione per colui che forse cammina tra noi e svelerà la sua faccia nel suo mo-
mento.
Proprio per un’arte morale, in accordo con la coscienza, né separata dai «doveri co-
muni», occorrerà scrivere sotto forma di «autobiografia», intesa non tanto come “ge-
nere”, ma come atteggiamento nei confronti dell’arte.
Il numero del 4 luglio, dopo l’apertura di Anzillotti dedicata a “tradizione” e “na-
zionalismo”, è occupato ancora da importanti questioni letterarie: il lacerto di
un’opera pubblicata dai Quaderni, a firma di Slataper, e la terza parte dell’ampio in-
tervento di Delahaye su Rimbaud. Tra i «brani staccati dall’autobiografica lirica Il mio
carso»66, il primo potrebbe portare il titolo di “primavera”, e la scelta potrebbe essere
caduta su di esso proprio per un confronto diretto con brani simili di Soffici e di Pa-
pini. Una segreta corrispondenza lega l’io, che parla in prima persona, alla terra, qua-
si un ritorno al selvaggio, con una figurazione emblematica nel «cane in traccia», che
porta con sé un lessico di forte connotazione animale (dalle dita «artigliate»
all’«annusando»)67. Una sorta di fraternità nella tristezza colpisce chi conosce, da at-
tore, la vita violenta della natura («seducevo la formica carica a salir su una larga fo-
glia di platano per deporla certamente al di là dell’alpe»; «squarciavo a sassate le bi-
scie»).
Il frammento successivo (tratto dalla parte seconda del libro) delinea un’impasse
esistenziale, nelle forme di una leopardiana «noia infinita», che «dilaga» nella camera
e lascia, come unico desiderio, la notte; il terzo brano, riallacciandosi al primo, ripor-
ta l’io all’esterno e al sole, mettendogli accanto un’altra persona, almeno nella forma
di desinenze plurali («andiamo», «stretti»). Con il quarto e quinto brano si ripiomba
invece, ancora, nella noia, che è inutile ostacolare, a meno che non si voglia agitarsi e
«patire»68; il desiderio della notte si è realizzato, se l’io cammina con la propria ombra
66 S. Slataper, Dal “Mio carso”, ivi, IV, 27, 4 luglio 1912, p. 846.
67 «Scivolando negli arbusti, tenendomi agganciato al masso dirupante con due dita artigliate in una ferita
muscosa della pietra, palpeggiando e sguazzacchiando con la palma aperta sull'orlo degli stagni, andavo
spiando la nascita della primavera. Nel nascondiglio più benigno del boschetto, in un calduccio umido di
seccume, ancora ancora quasi riscaldato dal sonno d'una lepre, io frugando trovavo la prima primola, il
primo raggio di sole! l'occhio stupito della piccola primavera svegliata! E seguivo l'ondeggiar lieve del suo
passo, annusando come cane in traccia, fra radici gonfie e germogli diafani […]» (ibid).
68 «Dentro di noi s'accumulano molte nausee e schifi, e un giorno escono e ci appestano l'aria che respi-
riamo. Secca assai vestirsi, mangiare, alzarsi dalla sedia, ed è inutile; ma è meglio non turbare le abitudini
e mettere un piede davanti all'altro perché ci hanno insegnato a camminare. Soltanto non porre ostacoli
alla noia, perché allora il pensiero s'agita e fa patire; ma se no, la vita procede calma, senza scosse né sus-
surri» (ibid.).
422 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
nel buio della città; di giorno, ancora in camera, sopporta l’allungarsi «eguale e infini-
to» delle ore.
Se, da questi frammenti, l’autobiografia pare impostata su una serie di movimenti
che si ripetono in cerca di risoluzione, l’ultimo di essi è, con ritorno al primo, dedica-
to alla natura del Carso, che sembra racchiudere un senso dell’esistere come “resi-
stenza”:
Il carso è un paese di calcari e di ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni
grigi di piova e di licheni, scontorti, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi.
[…]
Ma se una parola deve nascere da te - bacia i timi selvaggi che spremono la vita dal
sasso! Qui è pietrame e morte. Ma quando una genziana riesce ad alzare il capo e fio-
rire, è raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera69.
Così delineato, il percorso del Mio Carso non è estraneo ad alcuni tratti del pensiero
leopardiano: l’immagine della noia dilagante, la genziana che fiorisce tra «pietrame e
morte» come una sorta di ginestra. Certo, il fiore del Carso trova in sé la forza di alza-
re il capo, in una strenua resistenza, tutta individuale, implicita alla stessa natura; il
brano conclusivo rafforza questa impressione: il «silenzio» e la «solitudine» possono
essere la dimensione dove cercare la propria forza. La citazione di brani molto brevi
(a fronte, invece, dei capitoletti proposti dal Lemmonio e dall’Uomo finito) suggerisce
che la frammentarietà sia uno dei tratti caratterizzanti dell’autobiografia slataperiana;
inoltre, il loro procedere sembra già indicare quale percorso di formazione sia in atto.
La presentazione del nuovo libro di Slataper non è accompagnata, sulla «Voce»,
da recensioni immediate; bisognerà attendere Riccardo Bacchelli, più di un mese do-
po, per un’interpretazione ampia e problematica di quell’autobiografia70. Il nucleo
irrisolto su cui si appunta immediatamente l’attenzione del critico è quella coesisten-
za tra «accenni di vita egotistica, i quali se intesi come espansione di salute e
d’esuberanza nulla farebbero eccepire, ma che anche possono indicare quello che si
69 Ibid. Nessuna variante rispetto al vol.; si noti solamente che il penultimo brano («Ma se una parola […]
non parlare») è staccato tipograficamente dal precedente («Il carso è un paese […] centomila»), mentre si
presenta come un unico paragrafo in vol.
70 R. Bacchelli, “Il mio carso” di Scipio Slataper, «La Voce», IV, 35, 29 agosto 1912, pp. 879-80. Si ricordi
quanto afferma Prezzolini a posteriori: «La nostra ingenua moralità era tale che quando cominciammo a
pubblicare dei libri che portavano l’insegna della “Voce” (con disegno di Soffici da uno dei bassorilievi di
Giotto nel campanile di Firenze) ci domandammo se fosse lecito far uscire recensione di essi, e soltanto
dopo molte esitazioni e discussioni ci si decise a farlo, ma quasi a malincuore, e insomma per poco non
avremmo parlato del Mio Carso di Slataper, soltanto perché di nostra edizione; il quale, per altro, s’ebbe
una recensione piuttosto freddina» (Prezzolini, L’italiano inutile, cit., p. 124).
L’anno 1912 423
chiama l’uomo esteta», e, d’altra parte, «il proposito di esprimere qualcosa che tra-
scenda la concezione estetica della vita»71.
Una delle prime questioni da sciogliere è una definizione del “panteismo” e del
rapporto di Slataper con esso: i panteisti «hanno una vasta e fine sensibilità panica»,
e, incapaci «d’altro», danno ai loro sensi un valore di rivelazione, mentre, secondo
Bacchelli, Slataper non dà mai tale peso al suo senso vitalistico della natura. Eppure,
«Il mio carso» non è un libro né «perfetto di sola sensualità», né «di una completa or-
ganizzazione morale». Gli «atteggiamenti estetizzanti si contengono alla fine della
prima parte e nella seconda», ma il libro si salva per un loro allontanamento nel pas-
sato, che, lamenta Bacchelli, potrebbe anche essere più chiaro, in nome di un necessa-
rio superamento72. La chiarezza, però, non è l’intento principale di questa «autobio-
grafia di scorcio», le cui caratteristiche vengono individuate con acume: narrazione
non ordinata ma «palpitante», con continui scambi tra presente e passato; libro
«compiuto nello stile, non come costruzione»; risoluzione dei conflitti dell’io nella
«lirica»73.
Nella terza parte del libro, infine, Slataper mette in scena, secondo Bacchelli, una
«giustificazione»74, laddove «la morte gli ha dato un dolore davanti al quale non è più
possibile sfuggire» con il tramite della «materia sensuale»: di fronte alla morte, l’unica
possibilità è tornare alla vita «rassegnati e muti», con la consapevolezza della vanità
del dolore e della gioia, agire «con coscienza e fede», ricordandosi degli uomini e del-
la patria. Non ignaro delle falle che la concezione architettonica presenta («non mi
nascondo che questa crisi (salutare in fondo) è più subita che accettata»), Bacchelli
conclude la propria recensione con una nota positiva, manifestando la propria fiducia
nei confronti del finale slataperiano: «Questo libro non si vede più adesso come
un’ammirazione e un’espressione di se stesso, ma una forza che cerca l’impiego che le
sia adatto, libro di sforzo e di volontà»75.
Riguardo agli interventi su Rimbaud, non è questa la sede per ripercorrere inte-
ramente l’informata ricostruzione delle coordinate culturali del poeta francese com-
piuta da Delahaye. C’è forse però proprio un passaggio, l’ultimo, di questo saggio tra-
dotto da Soffici che sembra utile ricordare:
71 Bacchelli, “Il mio carso” di Scipio Slataper, cit., p. 879.
72 «Ma difetto di chiarezza artistica e partecipazione vivacissima a questo io passato, fanno che a certi sfo-
ghi si resti un momento incerti se non sian dati con fede attuale del poeta, cosa di cui sarebbero indegni»
(ibid.).
73 Ibid.
74 Ivi, p. 880.
75 Ibid.
424 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
Come le giovani generazioni, abitualmente infatuate dalle seduzioni letterarie unica-
mente perché nuove, sono tuttavia colpite dalle sonorità del Bateau ivre con una vaga
nozione delle bellezze più antiche di cui quest’arte magnifica è un’eco, così il fatto che
Rimbaud si rifugiò nell’umile lavoro e consentì all’innocente vita oscura agisce sulle
«élites» le più turbolente, sui più ambiziosi faccendieri, sui sociologhi più tartufi, co-
me un esempio ironico ma benefico, come una promessa che l’umanità orgogliosa e
folle d’oggi potrà un giorno chiedere, essa pure, «perdono per essersi nutrita di men-
zogne»76.
Rimbaud, in conclusione, affascina per quell’arte che coniuga antico e moderno e, in-
sieme, per averla abbandonata in favore dell’«umile lavoro» e dell’«innocente vita o-
scura», per aver richiesto «perdono» per un’arte di «menzogne»: quest’umiltà e disce-
sa nel lavoro dalle altezze della poesia potevano assomigliare a certi atteggiamenti vo-
ciani, e non è detto che non abbiano agito proprio nello Slataper del Mio Carso,
l’autore dell’articolo Ai giovani intelligenti d’Italia che già lì invitava, in termini rim-
baudiani, ad «essere moderni».
A inizio settembre, è Jahier a presentare una prosa d’invenzione che non è estrat-
ta da un lavoro appena pubblicato, ma da un’opera in fieri che, in effetti, sarà edita
diverso tempo dopo: Il paese morale77, ovvero una casa perduta, un paese «nella piega
della montagna» che è pur sempre «minima patria», a cui si ritorna, un «paese muta-
to» ma mai dimenticato:
Tuttavia ti saluto dal profondo del cuore, paese mutato, paese non più sufficiente
all’uomo cittadino, perché mi hai dato un paese morale da accordare a quel gran pae-
se morale ch’è la terra78.
I tasselli tematici e stilistici che compongono questa prosa di Jahier sono noti, dalle
figure della ripetizione, alle spezzature liriche, agli inserimenti di francese. Solo
l’ultimo periodo allenta la tensione lirica e autobiografica della prosa, con una caduta
di tono che deriva dall’esigenza di esplicitare il valore di una comunità di cui Jahier si
pone come difensore “apostata”.
Il paese morale si definisce sulla «Voce» anche per similarità ed opposizioni ri-
spetto a paese, natura e radici delineati da Slataper nei brani del Mio Carso e da Soffi-
ci nella citazione da Lemmonio Boreo. L’intreccio tra radici, memoria e paese (oppo-
sto alla città), che implica lo scivolamento immediato nella notazione autobiografica,
permette di accostare i tre scrittori. Inoltre, si possono isolare, anche nella prosa di
76 E. Delahaye, Rimbaud. L’artista e l’essere morale. IV, «La Voce», IV, 31, 1 agosto 1912, p. 866.
77 P. Jahier, Il paese morale, ivi, IV, 36, 5 settembre 1912, pp. 885-86.
78 Ivi, p. 885.
L’anno 1912 425
Jahier, momenti di confronto solitario tra l’io e la natura, con una sorta di dialogo
privilegiato e quasi fusione panica:
Levatomi anzigiorno valico le arature fonde della montagna e i massi scarniti, inorec-
chito al gemito della polla nascosta. E il sole mi raggiunge dove il monte china la sua
groppa per lasciarmi passare; mi raggiunge il sole al ginocchio e correndo a braccia
aperte mi tuffo nel bagno della nativa aria solare inebriato come l’apollo sullo spazzo-
lino mieloso del cardo selvatico79.
Questo, tra l’altro, è un momento di ricerca del selvaggio, di là dal terreno terrazzato,
sulle costole aride e secche abitate dai cardi e dalle farfalle nei giorni di sole.
D’altro lato, però, il paese di Jahier è fortemente determinato dalla presenza
dell’uomo, dagli «uomini e le opere»; anzi, dopo un po’, il desiderio di «camminare
immerso nel cielo dal capo alle piante» viene in qualche modo redarguito: «cammina-
re tra gli uomini bisogna». Non è tanto il selvaggio, l’irrazionale a fare del paese ele-
mento di sfida con se stesso, com’è per il Carso in Slataper, e non è nemmeno la bru-
talità istintiva della campagna di Soffici, quanto l’interazione tra presenza umana e
montagna, i quali si rispecchiano a vicenda in una durezza puritana che ha condizio-
nato lo stesso io parlante:
Oh! paese morale onnipresente!
Dono preziosissimo fatto all’ingrato!
E si ch’era dura, era inesorabile questa educazione puritana, nel seno della piccola
minoranza Valdese. No ammetteva collaborazione, non faceva della psicologia; co-
mandava con sicurezza in nome d’una legge rivelata, redarguiva senza attenuanti80.
Il paese, nel rivederlo, è la «rivelazione della paternità» («Riconosco che i tuoi
uomini han lavorato per me e sono morti per me»), fatta però all’io che si definisce
«apostata», l’«ormai uomo cittadino», con le unghie bianche, esule volontario da quel
mondo e dalla sua stessa educazione morale, aspramente criticata come «tetra e du-
ra». Nel paese aleggia la pesantezza che era tratto peculiare di quell’educazione: «Nul-
la era leggero per noi». Soprattutto il bambino, “il ragazzo”, è troppo oppresso da leg-
gi che non sono fatte a misura d’infanzia:
Com’era amara e senza misericordia! Pretendeva che perfino l’infanzia imparasse a
contare i suoi giorni, l’infanzia che ha così tanti giorni! E punendo come cosciente
79 Ibid.
80 Ibid.
426 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
anche la menzogna fantastica infantile, quasi la suggeriva cosciente. Quasi pareva in-
vitasse a peccare purché fosse sostituita la coscienza all’istinto81.
Il passaggio dal paese è una tappa obbligata di una sorta di resa dei conti con se stessi,
dove occorre chiedere senza sosta, al ricordo e al presente, il senso di un’esperienza di
vita, distinguendo tra quel che è da salvare («il paese morale», «la necessità eterna
dell’educazione») e quel che è invece, criticamente, da allontanare (la durezza, la pe-
santezza, più tardi definite come il «pauroso calvinismo paterno»)82. E, a livello di
scrittura, se da salvare è il senso dell’etica, occorre forse anche aprire le porte
all’«istinto», che permette di entrare nel «parco proibito» dei ritmi della poesia, come
non accadeva agli scolari lettori di Catullo:
Ma Orazio era seriamente esaminato come un maestro di costume, volevamo render-
ci conto della coscienza etica di Catullo, [penso a Gian Giacomo travagliato di calvi-
nismo indigesto che prestava delle ragioni all’istinto, come se l’istinto avesse bisogno
di ragioni!] e se la musica e la sostanza ben lievitata e tersa di quella poesia ci prende-
vano, essa rimaneva fuori della nostra esistenza, come un parco proibito83.
A fronte delle esperienze letterarie del 1912, possiamo forse notare che quella so-
stanza di “pensiero” che aveva trovato la prima espressione, sulla «Voce», nella “for-
ma-saggio”, si va decisamente orientando, a partire dal 1912, nella forma, più intera-
mente “creativa”, del “frammento” (magari già organizzato in volume: Soffici, Papini,
Slataper) a carattere autobiografico. L’intervento degli artisti si era incanalato, sulla
«Voce», inizialmente, nella forma del “saggio” che, con Cecchi, potremmo definire
nei termini di una «impostazione e soluzione classica» al problema dell’«espressione
letteraria», fondata su «premesse intellettualistiche francamente esibite»84, per una
«cucitura dell’idea con l’immagine»85. Intorno al 1912, con una cronologia che varia
da un autore all’altro, «la prosa poetica» inizia a prevalere, favorendo «la soluzione
romantica» di quello stesso problema86, con una tendenza a mettere in gioco quel
“tono del sublime” da pseudo-Longino (sempre per usare parole di Cecchi), prima
conciliato ad un tono più medio e riflessivo: «tutta la struttura ideologica e formale è
originariamente e segretamente poetizzata, liricizzata»87.
81 Ibid.
82 P. Jahier, Contromemorie vociane, in Id., Con me, cit., p. 276.
83 Id., Il paese morale, cit., p. 886.
84 Cecchi, «Saggio» e «prosa d’arte», cit., pp. 339-40.
85 Ivi, p. 331.
86 Ivi, p. 339.
87 Ivi, p. 334. Cecchi gravava, in conseguenza di questo ragionamento, sulla prosa poetica una sorta di
“peccato originale”: «Il peccato originale della prosa poetica, non esclusi completamente i Petits poèmes,
L’anno 1912 427
3.3 Letteratura in fieri: arte interna, frammentarietà, carattere filosofico
Di letteratura si discorre nell’ultimo numero del giugno 1912, con due articoli volti a
rintracciare i caratteri della poesia contemporanea; il primo, firmato da Gerolamo
Lazzeri, individua nel Semplicismo88 una tendenza diffusa e dannosa. Si tratta di uno
sguardo, sulla natura e sulle cose, tanto “semplice” da rivelare un colpevole oblio della
tradizione letteraria e linguistica d'Italia, nonché l’assenza di alte aspirazioni:
Così ti vien fatto di veder e di sentir questi giovincelli entusiasmarsi di fronte a
quelle bellezze della natura, che non hanno mai gustato o che hanno più luridamente
finto di contemplare in qualche passeggiata nei dintorni della città in cui abitano, fat-
ta non per soddisfare un intimo bisogno del cuore e dello spirito […]89.
Gli esempi portano immediatamente all’ambito crepuscolare, con la consueta cautela
nei confronti di Gozzano, a fronte della decisa stroncatura di Moretti o altri; l’accusa
di insincerità è in particolare legata al debito che essi avrebbero contratto con la lette-
ratura d’oltralpe, come, ad esempio, con Jammes. Per contro, si accenna ad un’idea di
letteratura che corrisponde a quella professata e praticata in ambito vociano, basata
sull’interiorità:
Herder lo disse da tempo: «Eterno argomento di poesia lirica sono gli aspetti della na-
tura e la vita interna dello spirito». Ma gli aspetti della natura si debbon guardare co’
propri occhi e sotto l’influenza del nostro spirito; e se una poesia rinnovata dovrà
sorgere non potrà essere che una poesia tutta interiorità, una poesia della vita intima
dello spirito, la qual non può essere certamente l’insincerità dei Gozzani e C.i90.
Se un consiglio si può dare ai giovani, è il seguente: «guardino in se stessi e pensino
alla loro vita interna»; «un bel giorno i giovani che avranno qualcosa da dire pense-
ranno a narrare la storia della loro vita intima»91. La «semplicità e scheletricità di sti-
le» che accompagnano il “semplicista” non sono però giudicati negativamente in sé;
antidoto al dannunzianesimo, se ben utilizzati possono dare risultati di sincerità, co-
me in Panzini e Soffici. En passant, Lazzeri ha dunque dichiarato la propria ammira-
sta in una certa unificazione del tono; in una chiaroscurale fusione e sfumatura dei passaggi e degli effetti;
diciamo più genericamente, in un amalgama di poesia ed eloquenza, del quale in realtà la prima fa le spe-
se» (ivi, pp. 341-42). Ne consegue «una impercettibile ma ineliminabile febbricosità del tono, un che di
cantato con eccitazione e sordità quasi di falsetto» (ivi, p. 42).
88 G. Lazzeri, Semplicismo, «La Voce», IV, 26, 27 giugno 1912, pp. 843-44.
89 Ivi, p. 843.
90 Ibid.
91 Ivi, p. 844.
428 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
zione per il Lemmonio Boreo, per un rapporto tra natura, semplicità e interiorità che
gli appare proficuo; la letteratura vociana, che trova spiragli sulla rivista e realizzazio-
ne nei Quaderni, comincia a poter essere citata ad esempio di una nuova idea di lette-
ratura, basata innanzitutto sulla «vita interna».
Il secondo intervento, firmato dal Tommaso Parodi92, riguarda ancora la lettera-
tura di fine Ottocento e contemporanea: secondo il critico, essa andrebbe riconside-
rata alla luce di una frammentarietà insita nell’opera e necessaria per il fruitore. Per
trovare la “poesia”, non bisogna aspettarsi che essa dimori «con potenziata sintesi in
un’opera compattamente salda e organicamente intera», ma che si sparga in singole
immagini «per lo più baluginanti ed evanescenti»: «troviamo dei bei frammenti, ma
l’insieme a volta a volta ci sembra per vari rispetti difettoso». Questa tendenza, che
dimora nell’opera degli autori quanto nella ricezione, viene spiegata nei termini di un
quadro impressionista, dove manca, appunto, la «concezione intensamente sintetica».
Quella poesia che ha abbracciato «la mediocre umiltà della quotidiana vita» ha
ampliato il campo poetico ma senza fonderlo in un’opera «unica durabile e mirabile»;
per contro, il romanzo non resiste al tempo, se ne salvano «squarci» e «bei bozzetti».
L’artista si guarda intorno, non necessariamente affetto da «dilettantismo sensuale»,
ma della realtà non ha, alla fine, «una figurazione completa»: manca «la visione com-
plessiva che condensi e costruisca un insieme compatto di struttura semplice e poten-
te». Queste osservazioni hanno qualche somiglianza con quelle portate da Cecchi di-
scorrendo di arte contemporanea; il “frammentismo” in questo caso è una conse-
guenza della mancanza di una prospettiva olistica sul reale da parte degli autori, e,
d’altronde, una scelta obbligata del lettore, che si sente in diritto di prediligere, di
fronte a edifici cadenti, le parti in cui «l’attimo sublime fuggente» sia solidamente
rappresentato93.
L’auspicio di Parodi potrebbe ben corrispondere ad una regola elaborata anche
dagli scrittori vociani; mancando, al momento, la possibilità di una visione d’insieme,
di un’interpretazione salda del reale come si poteva sperare in Dante piuttosto che
nella grande stagione del romanzo ottocentesco, meglio denunciarla e ripartire da
una percezione frammentaria ma autentica:
92 T. Parodi, Poesia frammentaria, «La Voce», IV, 26, 27 giugno 1912, p. 844.
93 Si potrebbe trarre spunto da questo intervento di Parodi per prendere in considerazione l’idea che la
predilezione per il frammento si sia sviluppata, in ambito vociano, da una stessa attività di “lettura di-
scontinua” necessaria ai giovani per recuperare la tradizione in senso produttivo: un certo Pascoli, un
certo Carducci, e così via, spesso proprio in controcorrente con l’architettura generale della produzione
degli autori stessi; anche, ad esempio, un certo Baudelaire, magari quello dei Diari e dei Poemetti in prosa,
piuttosto che il maudit più esteriormente polemico.
L’anno 1912 429
Perciò della maggior parte dei moderni scrittori non si può parlare che come
d’autori di frammenti. Il difetto a quasi tutti comune è sempre nei tentativi di varcare
i propri angusti limiti, di voler far opera maggiore, opera grande e complessa, che rie-
sce disorganica, invece che le piccole strofe e i brevi capitoli d’impressioni di vita in-
tima e di natura splendente94.
Un proficuo incontro tra letteratura e filosofia, in una sorta di “poesia di pensie-
ro” poco praticata in Italia, era un’altra esigenza emersa, da più parti, in ambito vo-
ciano; si è già notato come Boine auspicasse un fondo riflessivo nell’arte che non tro-
vava nel Lemmonio Boreo, ed anche Papini tratta il tema facendone elemento di poe-
tica con Il fiume95, articolo suddiviso in due parti, un intervento polemico-critico e
una prosa d’invenzione. Inizialmente, Papini attacca, «sfrontato e impaziente»,
l’«immaginario nemico»: si chiede perché «l’articolo» debba trattare necessariamente
dei temi «forniti dalla letteratura, dall’arte, dalla filosofia, dalla politica e dalle varie e
tante “logie”» e non, ad esempio, delle «stelle», o di un «fiume». Dunque si pone, in-
nanzitutto, una questione di oggetto: piuttosto che «un volume sopra un poeta», me-
glio scrivere di «una bella giornata di settembre, […] più significativa e più colma
d’insegnamenti di tutte le teorie estetiche»96. Poi, Papini solleva un problema di me-
todo: ammesso che si possa parlare di un fiume, sostiene di non voler adottare né gli
occhiali dello scienziato, né quelli del poeta (ovvero «esprime liricamente i sentimenti
che v’ispira» l’oggetto naturale):
Il mondo può ispirare a qualcuno riflessioni e meditazioni che non siano né fisiche né
liriche, né filosofiche né poetiche. Potrebbero essere, che so io?, riflessioni idiosincra-
tiche sul significato di certe parti del reale o modi particolari per comprenderne i ca-
ratteri attraverso i sentimenti dell’uomo. […] Non sarebbe poesia perché poesia è vi-
sione; non scienza perché scienza è previsione. Sarebbe una glossa intellettuale e pas-
sionata delle cose esterne, al di fuori degli schemi disegnati e approvati dagli agrimen-
sori dello spirito97.
«Glossa intellettuale» delle «cose esterne», «riflessione» sul reale «attraverso i sen-
timenti dell’uomo»: il programma non sarà soddisfacente per chiarezza e sobrietà, ma
contiene un elemento importante, la «riflessione», che presuppone una commistione
tra letteratura e filosofia (per quanto qui Papini sia portato ad allontanarle entrambe,
per sovrabbondanza polemica), già emersa altrove, e sembra in fondo la condizione
94 Ibid.
95 G. Papini, Il fiume, «La Voce», IV, 39, 26 settembre 1912, pp. 897-98.
96 Ivi, p. 897.
97 Ibid.
430 Tra sperimentalismo scapigliato ed espressivismo primonovecentesco
prima di quel progetto destinato a realizzarsi con le Cento pagine di poesia: una per-
cezione della realtà per frammenti, i quali suscitano riflessioni sentimentali dell’io. Ed
infatti, la prosa Il fiume (con l’aggiunta di un «mio»), viene a far parte proprio di quel
progetto, portato avanti per diversi anni e infine compiuto con la pubblicazione nel
1915.
Il presupposto che permette la nascita di una di queste «riflessioni idiosincrati-
che» è quello già esposto all’epoca della Campagna: la fuga dalle librerie («fuori dei
fogli e dei libri»), dalle redazioni, dalle teorie intese come sistemi, per un «bagno di
realtà». Ed infatti con il fiume si raggiunge, se non proprio la campagna, uno degli
ultimi baluardi della natura in città, a dispetto degli alberi che assomigliano a «quelli
che si vedono sulle quinte dei teatri»: «il solo pezzo di natura naturale che ci sia rima-
sto è il fiume». Questo sopravvissuto della natura, benché sottoposto a «offese e ca-
strature e insudiciature», «è sempre un fiume», e l’Arno esercita su Papini il fascino
della violenza senza controllo:
Incassatelo pure fra le vostre pareti di muratura ma quando arriva, dopo le piogge
furibonde, la piena veloce e senza misericordia, tutta pesante di terra rubata ai campi,
fragorosa e ondosa come il mare, sballottandosi dietro, tra i flutti gialli, tronchi
d’alberi sbarbati e seggiole e cassettoni di case spazzate, e l’acqua gonfia e schiumosa
riempie a poco a poco gli archi dei ponti e sembra che voglia scavalcare i muriccioli
dei parapetti, e traboccare di fuori, verso le strade, per inondare e sommergere tutta la
maledetta città carceriera, allora anche i cittadini si affacciano, un po’ turbati […]98.
Non sono i frequentatori del giorno ad interessare Papini («brutte lavandaie cit-
tadine»), quanto la notte con i suoi «meditatori rivieraschi», i «contemplatori
dell’eterno fuggente fluviale». Al cospetto dello spettacolo naturale, anche il ragazzo
poco istruito può comprendere più del maestro: «Il ragazzo che butta i sassi
nell’acqua e sta a guardare le tremanti ruote finché la corrente le vince la sa più lunga
del pedagogo che lo chiama fannullone». Uno dei segreti di queste «riflessioni idio-
sincratiche» sembra essere, dunque, la possibilità di farsi comprendere e di generare
nella mente di chiunque, uomo semplice o istruito, purché sia dotato di attitudine fi-
losofica. Papini, l’acculturato, carica sul fiume le proprie letture, da Eraclito a James:
Il sempre nuovo fiume di Eraclito, la riviera mirabile di Dante, la mind stream di Ja-
mes son teorie ed immagini nate dinanzi ad acque in perpetuo cammino. Il passaggio
delle cose, la ripetizione del mondo, la creazione del diverso sotto l’apparenza
98 Ibid.
L’anno 1912 431
dell’omogeneo, il fluire infinito del tempo, il ritmo eguale dell’eternità son idee o sen-
timenti ideologici che sorgono nelle anime solitarie al cospetto di un fiume99.
«La creazione del diverso sotto l’apparenza dell’omogeneo» e, d’altro lato, «l’eterno
ritorno» simboleggiato dallo «scambio millenario» di pioggia, fiume e mare sono le
verità racchiuse, con semplicità, dal fiume, «figlio del sempre e non dell’oggi», em-
blema dell’«infinito».
Letteratura e filosofia, letteratura di pensiero: questo binomio si presenta, lo stes-
so 26 settembre, in altra sede, ovvero nella recensione di Slataper dedicata al primo
volume degli Scritti di Michelstaedter100, il cui nome, solitamente associato alla «Vo-
ce», compare qua, postumo, per la prima volta. Slataper propone ai lettori la poesia
Dicembre, «dove la visione filosofica s’identifica senza sforzo e senza residuo con
l’immagine»; per l’incontro tra letteratura e filosofia morale e per l’esigenza di «eroi-
smo», Michelstaedter viene subito avvicinato a Leopardi101.