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Stefano Federici
I beneci della narrazione emotivamente coinvolgente
sulla salute
1. L’atlante semantico
Ero convinto che la comprensione e produzione delle parole fosse
riservata ad una parte del cervello corrispondente a quelle aree
della corteccia cerebrale, la parte più recente e superciale del
nostro cervello, che in genere si trovano nell’emisfero sinistro e che ven-
gono chiamate con i nomi dei due loro scopritori: Broca (1865) e Wer-
nicke (1874). Pazienti che a causa di un ictus o di un trauma cerebrale
hanno compromesse queste aree dell’emisfero sinistro, infatti, hanno
dicoltà nella produzione o comprensione del linguaggio. Anche l’os-
servazione del comportamento di quei pazienti a cui è stato reciso il
corpo calloso, che permette la comunicazione tra i due emisferi, mostra
che il solo emisfero destro, dove in genere non sono presenti le aree di
Broca e di Wernicke, non è in grado di produrre parole (Gazzaniga,
LeDoux, Wilson 1977).
Ma dalla primavera dello scorso anno lo studio di Alex Huth e dei
suoi collaboratori (2016), pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature,
ha rivoluzionato il mio modo di vedere il rapporto tra attività cerebrale
e parole. Questo gruppo di scienziati della University of California di
Berkeley ha condotto uno straordinario esperimento volto a mappare
le aree del cervello in cui le parole vengono rappresentate. Sei volontari
sono stati invitati ad ascoltare due ore di registrazione di un famoso pro-
gramma radiofonico di racconti di storie (e Moth Radio Hour) men-
tre l’attività del loro cervello era registrata da un apparecchio per la riso-
nanza magnetica funzionale. Dai risultati ottenuti da questa immensa
fonte di dati i ricercatori sono riusciti a creare un “atlante semantico”,
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II. EmozIonI E FunzIonI CognItIvE
cioè un modello dettagliato di come viene interpretato il linguaggio
all’interno del cervello umano.
La prima cosa che mi ha colpito è che questo atlante delle parole
ricopre tutta la supercie della nostra corteccia di entrambi gli emisferi
e non solo alcune aree speciche, per esempio quelle del linguaggio.
Le parole, cioè, mettono in moto gran parte della nostra corteccia ce-
rebrale, anche di aree già impegnate nelle più diverse funzioni corticali
che caratterizzano il nostro comportamento umano, cioè l’elaborazione
dei nostri pensieri e credenze, la risoluzione dei problemi, il signicato
delle risposte emotive, i valori e le regole sociali, la creazione artistica e
così via.
Il secondo risultato sorprendente è che una parola può attivare aree
diverse del cervello a seconda del signicato che gli si attribuisce. Per
esempio, la parola “sopra” attiverà aree diverse qualora essa stia ad indi-
care sopra un tavolo, in cima ad una lista o classica, al piano di sopra
di un’abitazione o un soprabito. Una parola, dunque, non è immagaz-
zinata in un unico punto del cervello, come una voce in un dizionario,
ma in diverse zone corticali a seconda del concetto che esprime. E nelle
stesse aree troveremo immagazzinate parole appartenenti alla stessa ca-
tegoria concettuale. Per riprendere l’esempio di prima, se per “sopra”
s’intende sul tavolo, la parola “sopra” sarà rappresentata in quell’area
dove si trovano anche tavolo, sedia, mobile, ecc. (vedi il lmato didatti-
co elaborato dalla rivista Nature: http://www.nature.com/nature/vide-
oarchive/brain-dictionary/index.html). È stato così possibile riprodurre
un atlante, di questa complessa rete neurale, non solo delle parole ma
dei concetti. Questo vuol dire che il nostro cervello non coglie le parole
estrapolandole da un contesto signicante ma all’interno di un processo
narrativo in cui trovano signicato e acquistano di senso.
Terzo risultato aascinante di questo studio è che, confrontando tra
loro i diversi cervelli dei volontari sottoposti alla sperimentazione, le
aree che venivano attivate dalle parole e dai rispettivi concetti erano
simili tra cervello e cervello. Nonostante le dierenze individuali, sem-
brerebbe che il cervello si sviluppi biologicamente predisponendo aree
speciche per l’elaborazione di concetti come violenza, sociale, luogo,
tempo, esterno, tattile, ecc. Quando una parola assume un certo signi-
cato ci possiamo aspettare che attivi per tutti una stessa area corti-
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cale, biologicamente destinata a quel concetto, connettendosi ad altre
parole concettualmente simili. Se, dunque, diversi individui ascoltano
la parola “strage” ci aspettiamo che si attivi in tutti la stessa area della
corteccia che raccoglie (naturalmente) parole che esprimono violenza.
Ci intendiamo non tanto perché parliamo una medesima lingua, ma
perché condividiamo cervelli che elaborano medesimi concetti. Chissà
se ad un terrorista la parola strage attiverà ugualmente l’area del cer-
vello che nella maggioranza della popolazione umana raccoglie parole
e signicati di violenza e terrore? E se un giorno scoprissimo che il suo
atlante semantico non coincidesse con quello (naturale) della popola-
zione comune, potremo ancora addebitargli una responsabilità morale
dei suoi atti criminosi o dovremo ricondurli solo ad una disfunzione
neurobiologica? Una volta le maestre punivano i bambini discalculici
che non imparavano le tabelline, mentre oggi sappiamo che non dipen-
deva dal loro impegno nell’apprendimento. Ma qui andiamo ad aprire
un dibattito sulla coscienza umana e sul rapporto tra mente e cervello
che esula dagli scopi di questo capitolo.
Ho voluto aprire questo capitolo con lo studio di Alex Huth (2016)
per mettere in evidenza lo stretto rapporto che esiste tra un qualcosa di
così immateriale come la parola o una narrazione e i processi biologici
del nostro organismo. Oggi ancor più di prima possiamo capire lo stret-
to rapporto che c’è tra parola e cervello, tra parola e salute. La parola
non ha a che fare semplicemente con un modulo specico della nostra
mente, deputato al linguaggio, né ad una sola e specica area cerebrale
che la elabora. Oggi più di prima sappiamo che la parola e il contesto
narrativo entro cui essa acquista senso e signicato coinvolgono l’atti-
vità biologica del cervello in modo massivo. Il nesso tra parola e salute
è sempre più chiaro. L’atto di costruire storie non è solo un prodotto
culturale umano che aiuta gli individui a comprendere le loro esperien-
ze e se stessi ma, anche, dopo un lungo processo evolutivo di tipo epi-
genetico, un atto biologico attraverso il quale il cervello si rappresenta
la realtà. La salute, che ha a che fare non semplicemente con l’assenza
di malattie, è l’esisto di un processo complesso dove le dimensioni si-
ca, mentale e sociale (WHO, 1948) trovano un corretto equilibrio. La
parola, e nel senso più ampio la narrazione, sono uno dei modi, il più
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II. EmozIonI E FunzIonI CognItIvE
umano che esista, attraverso cui le dimensioni della salute si esprimono,
trovano signicato, si riequilibrano, si curano.
2. Le parole come atto di cura
Lo stretto rapporto che abbiamo individuato tra la dimensione im-
materiale e mentale delle parole e il loro nesso neurobiologico ore un
orizzonte neuroscientico a quanto è già evidente nell’esperienza quo-
tidiana, cioè che “le parole sono un atto di cura, il primo atto, il primo
farmaco somministrato e sempre usato, giorno dopo giorno” (Giudetti,
Quarta, Pampallona 2014, 198).
La letteratura scientica è ricca di studi sull’ecacia della parola nella
cura dei pazienti. Uno di questi, condotto da un gruppo di neuroscien-
ziati dell’Università di Torino, guidato da Fabrizio Benedetti (2004), ha
sottoposto un gruppo di pazienti parkinsoniani a un nuovo trattamento
per migliorare la performance motoria. Un secondo gruppo, invece, è
stato solo persuaso di ricevere il trattamento. La performance motoria
è migliorata anche in questo gruppo, con evidenze di variazioni delle
attività neuronali connesse al sintomo (nuclei subtalamici). La forza
della parola non ha solo modicato un comportamento, la performance
motoria, ma ha modicato anche la struttura biologica di alcune cellule
del cervello, nuclei subtalamici.
Sempre lo stesso gruppo di ricerca dell’Università di Torino (Pollo
et al. 2001) ha anche voluto vericare come parole diverse producano
eetti diversi su una terapia del dolore. Questa volta l’esperimento è
stato condotto su trentotto pazienti toracotomizzati (con resezione del
polmone). A dieci di loro è stato somministrato il protocollo standard
di trattamento post-operatorio che prevede la somministrazione in suc-
cessione di 3 dosi di un potente antidolorico (buprenorna) durante
la prima ora dall’operazione. Quindi, nelle successive 71 ore, sempre se-
condo il protocollo standard, ai pazienti veniva somministrata una ebo
di soluzione salina e ancora l’antidolorico solo se richiesto dal paziente.
Ad un secondo gruppo, dopo il trattamento standard della prima ora,
veniva detto che nella soluzione salina poteva esserci o dell’antidolori-
co o del placebo. Inne, ad un terzo gruppo, invece, sempre dopo aver
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ricevuto le prime tre dosi di antidolorico, è stato detto che nella so-
luzione salina, che gli si sarebbe somministrata per le successive 71 ore
post-operatorie, era presente un “potente” antidolorico. Gli studiosi
hanno quindi sommato quanti milligrammi di antidolorico sono stati
somministrati a richiesta durante le 71 ore post-operatorie ai pazienti
di ciascun gruppo. Il gruppo di pazienti che ha fatto maggiore richiesta
di antidolorico fu il primo, cioè il gruppo che aveva ricevuto la terapia
standard, a cui nulla era stato detto sulla natura della soluzione salina. I
pazienti del secondo e terzo gruppo ricevettero rispettivamente il 21%
e il 39% in meno di antidolorico rispetto ai pazienti del primo grup-
po. La rilevanza di questo studio non sta tanto nel dimostrare l’eetto
placebo, che è un dato oramai assodato in scienza (Beauregard 2007),
quanto piuttosto nel dimostrare l’ecacia di un diverso tipo di comuni-
cazione. Coloro cui era stata detta una mezza verità (secondo gruppo),
ma meno convincente (forse riceverai dell’antidolorico), hanno avuto
un eetto placebo meno forte di coloro a cui è stata detta una bugia
(terzo gruppo), ma più convincente (riceverai del potente antidolori-
co). Se il dolore ha qualcosa a che fare con la salute, allora, a buon ra-
gione, possiamo dire che la parola ha curato e che alcune parole hanno
curato meglio di altre.
3. La narrazione
È un fatto: Scrivere importanti esperienze personali, mettendo in
evidenza le emozioni vissute, per almeno 15 minuti per 3 giorni, mi-
gliora la salute mentale e sica. Questo risultato è stato replicato per età,
sesso, cultura, classe sociale e tipo di personalità. È quanto aermato
da James W. Pennebaker e Janel D. Seagal (1999) nella loro rassegna
di studi condotti sull’ecacia della narrazione. Pennebaker, professore
emerito di psicologia alla University of Texas di Austin negli Stati Uniti,
ha speso la sua vita di scienziato nello studio della relazione tra l’uso
della lingua naturale, salute e comportamento sociale. Pioniere della
scrittura terapeutica, egli ha indagato l’ecacia della scrittura e della
narrazione sui traumi psicologici.
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Ci dice Pennebaker (Pennebaker, Chung 2006; Pennebaker, Seagal
1999) che l’atto di costruire storie è un processo umano naturale che
aiuta le persone a capire le proprie esperienze e se stesse. Permette di
organizzare e ricordare eventi in modo coerente integrando pensieri e
sentimenti. Una volta che un’esperienza possiede una sua struttura e
signicato, gli eetti emotivi sono più gestibili, perché dà agli individui
un senso di prevedibilità e controllo sulla propria vita. Eventi dolorosi
non strutturati in un formato narrativo favoriscono il mantenimento
di pensieri e sentimenti negativi. Le persone cominciano ad apprendere
come padroneggiare un racconto già dalla prima infanzia. Acquisire l’a-
bilità di tracciare delle relazioni causali e formare storie secondo questi
principi è un compito cruciale dell’infanzia che aiuta nello sviluppo
di una vita emotiva coerente (Mancuso, Sarbin 1998). È così cruciale
questa abilità che il gestirla può avere conseguenze sulla propria salute.
Un’ampia ricerca scientica ha rivelato che quando le persone mettono
i loro turbamenti emotivi in parole, la loro salute sica mentale mi-
gliora nettamente. La narrazione caratterizza anche molta parte della
psicoterapia. L’apertura è inequivocabilmente al centro della terapia e
questo di solito comporta mettere insieme una storia che spiegherà e or-
ganizzerà grandi eventi della vita che causano disagio (Mahoney 1980).
4. La scrittura emotivamente espressiva
Andiamo ora a vedere come Pennebaker ha sviluppato la tecnica che
è stata alla base di numerosi altri studi che hanno dimostrato l’ecacia
della narrazione scritta sulla salute (Pennebaker, Mayne, Francis 1997).
La tecnica sperimentale è piuttosto semplice ed è la seguente (Pen-
nebaker, Seagal 1999). I partecipanti vengono divisi in due gruppi: uno
sperimentale, cioè quello in cui si introduce la narrazione scritta emoti-
vamente coinvolgente, che ci si aspetta inuenzi le condizioni di salute,
e un gruppo di controllo, cioè quello a cui non viene chiesto di scrivere
di proprie esperienze traumatiche. Si chiede ai partecipanti di scrivere,
per 15 minuti per quattro giorni consecutivi. Al gruppo sperimentale si
dice di scrivere i propri pensieri e sentimenti più profondi su un’espe-
rienza la più traumatica della loro vita; ai partecipanti il gruppo di con-
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trollo, di scrivere su argomenti non emotivamente rilevanti. Si può scri-
vere di un’esperienza sola per tutti e quattro i giorni o diverse per ogni
giorno. Una sola regola: una volta iniziato a scrivere, continuare a farlo
senza fermarsi, senza prestare attenzione all’ortograa, alla grammatica
o alla struttura della frase. Inoltre, si informano i partecipanti che i
loro scritti resteranno anonimi e che non riceveranno alcun feedback da
parte dei ricercatori. Ai partecipanti si spiega che lo scopo dello studio
è di imparare qualcosa in più sulla scrittura e la psicologia; ossia, non è
detto ai partecipanti il vero scopo della ricerca per non inuenzare i loro
comportamenti futuri che saranno poi osservati.
Che cosa osservano e misurano gli sperimentatori? Il numero di vi-
site mediche che hanno fatto i partecipanti prima e dopo l’esperimento
nell’arco di un anno. Per esempio, se i partecipanti erano studenti uni-
versitari, si contava il numero di visite al centro medico del campus uni-
versitario. Altri studi utilizzano, invece, misure psicometriche dette di
outcome, cioè che misurano i risultati ottenuti dalla scrittura espressiva
sul comportamento dei partecipanti, sul loro stato emotivo, depressio-
ne, autostima, cambiamenti cognitivi, ecc.
I risultati ottenuti dai primi studi condotti negli anni ’90 furono
chiari: coloro che avevano scritto dei loro pensieri e sentimenti su vicen-
de traumatiche della loro vita avevano drasticamente ridotto il numero
delle visite mediche dopo lo studio rispetto al gruppo di controllo che
aveva scritto solo su banali argomenti (Pennebaker et al. 1997).
Oltreché con studenti universitari, questi risultati si ottennero anche
con detenuti di massima sicurezza, studenti di medicina, vittime di rea-
ti, pazienti con artrite e dolori cronici, licenziati dal lavoro, donne pri-
mipare. Gli stessi eetti si sono riscontrati in tutte le classi sociali e tra
i maggiori gruppi etnici degli Stati Uniti e in campioni di partecipanti
provenienti dal Messico, dalla Nuova Zelanda, dal Belgio e dall’Olanda
(Domínguez et al. 1995; Pennebaker, Seagal 1999; Petrie, Booth, Pen-
nebaker, Davison, omas 1995; Richards, Beal, Seagal, Pennebaker
2000; Rimé 1995; Schoutrop, Lange, Brosschot, Everaerd 1997; Spera,
Buhrfeind, Pennebaker 1994).
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II. EmozIonI E FunzIonI CognItIvE
5. Parlare o scrivere
La tecnica della scrittura espressiva si basa sulla produzione scritta
di narrazioni emotivamente coinvolgenti di traumi vissuti. Daniel A.
Donnelly e Edward J. Murray, della University of Miami in Florida,
hanno voluto vericare se l’ecacia della scrittura espressiva si riscon-
trasse anche in una comunicazione verbale in psicoterapia (Donnel-
ly & Murray, 1991). Questi studiosi hanno replicato la tecnica della
scrittura espressiva, come descritta sopra, aggiungendo una variante: ad
un terzo gruppo di partecipanti è stata fatta la medesima consegna del
gruppo sperimentale della scrittura espressiva, soltanto che questi non
avrebbero dovuto scrivere ma parlare con uno psicoterapeuta delle loro
esperienze più traumatiche. Come misura dell’ecacia loro non hanno
indagato il numero di visite mediche ma, attraverso la somministrazio-
ne di alcune misure psicometriche, l’umore, l’autostima, cambiamenti
cognitivi, ecc. Entrambi i gruppi sperimentali, cioè coloro che hanno
scritto o parlato di esperienze traumatiche rispetto al gruppo di con-
trollo, hanno dimostrato cambiamenti cognitivi, nell’autostima e nel
comportamento. Le emozioni positive e l’autostima sono aumentate nel
tempo mentre le emozioni negative sono diminuite. Dolore e amarezza
per gli argomenti arontati sono diminuiti nel tempo.
6. Con carta e penna o digitando sul web?
Diversi studi sono stati condotti anche sulla scrittura strutturata in
Internet che hanno dimostrato un’ecacia della cura della scrittura
espressiva anche su soggetti con un disturbo da stress post-traumatico
(Ruwaard, Lange, 2016). Questi risultati, ottenuti lasciando digitare
dei propri traumi, invece che scrivere con carta e matita, ci fanno co-
gliere una ragione in più da attribuire al perché del successo mondiale,
interculturale dei social-network. A ciò si aggiunga anche il fatto che
l’ecacia della scrittura espressiva è indipendente dal fatto di sapere
da parte del partecipante se qualcuno leggerà mai il contenuto dello
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scritto. Gli eetti della scrittura non sono correlati ad un destinatario
particolare.
Nella maggior parte degli studi, i partecipanti si convincono che solo
gli sperimentatori esamineranno ciò che hanno scritto. Ma nell’esperi-
mento condotto da Jeanne Czajka (1987) gli studenti hanno scritto su
una tavoletta magica per bambini: il loro scritto è stato cancellato non
appena sollevato il foglio di plastica dalla tavoletta. Ciò che appare esse-
re ecace è che le persone siano incoraggiate a esplorare le proprie emo-
zioni e pensieri indierentemente da quale mezzo venga utilizzato, dal
destinatario e dal contenuto del racconto (Pennebaker, Seagal 1999). Si
è addirittura provato a chiedere ai partecipanti non di raccontare un’e-
sperienza traumatica vissuta, ma di immaginarne una come fosse stata
vissuta da loro. Ebbene, è stata riscontrata la medesima ecacia (Green-
berg, Wortman, Stone 1996). Possiamo capire perché la forza empatica
di un gruppo di terapia produca eetti positivi indipendentemente da
quanto ciascuno abbia avuto modo di parlare di sé. Anche attraverso
l’elaborazione del trauma di un’altra persona si ottengono beneci sulla
propria salute.
7. Perché la narrazione emotiva coinvolgente è ecace?
Pennebaker indaga su quali siano i meccanismi sottostanti responsa-
bili dei beneci di una scrittura espressiva. Perché narrare di esperienze
emotivamente coinvolgenti inuenza la salute? Forse perché la consape-
volezza che emerge dall’aver narrato di eventi traumatici spinge al cam-
biamento di quei comportamenti più nocivi alla salute? È ragionevole
pensare, infatti, che il prendere contatto con eventi traumatici faccia
essere più protettivi nei propri confronti, più attenti alla propria salute.
Eppure, questa non sembra essere la vera ragione. Secondo una meta-a-
nalisi (analisi statistica operata su dati provenienti da diverse ricerche
scientiche già pubblicate) condotta sull’ecacia della scrittura emoti-
vamente espressiva da Joshua M. Smyth, della State University of New
York, i partecipanti continuano a fumare come prima, a non praticare
più esercizio sico, a non cambiare dieta e a socializzare come sempre
(Smyth 1998). Non sono i comportamenti a cambiare, né tanto meno il
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fatto in sé di aver espresso in modo catartico le proprie emozioni – che
non risulta di alcuna ecacia se ad esso non è associato un processo di
elaborazione cognitiva (Lewis, Bucher 1992).
I beneci per la salute sembrano richiedere che l’esperienza sia tra-
dotta in linguaggio. L’atto di convertire emozioni e immagini in parole
cambia il modo in cui la persona organizza e pensa al trauma. Siccome
parte del disagio causato dal trauma risiede non solo negli eventi ma
nelle reazioni emotive della persona, la narrazione aiuterebbe a costruire
una visione coerente dell’esperienza traumatica (Clark 1993).
Come ha scritto bene Aldous Huxley (1932) “L’esperienza non è ciò
che accade a un uomo: è ciò che un uomo fa con quel che gli accade”.
Ora, la caratteristica della narrazione è proprio quella di collegare i cam-
biamenti della nostra vita in una storia, trasformando i signicati degli
eventi in una vita che abbia senso. Una volta che un evento comples-
so è messo nel formato di una storia, questo è semplicato, fornendo
un modello di realtà di cui il cervello ha bisogno per comprendere la
complessità del reale. La narrazione diventa un modo di “fare” con ciò
che ci accade, per parafrasare le parole di Huxley, di “farne” esperienza,
di renderla accessibile alla persona che l’ha vissuta. Nelle narrazioni,
inferendo cause, costruendo anticipazioni della realtà e soluzioni ai pro-
blemi che presenterà la vita, comprendiamo il mondo che ci circonda,
facendone esperienza.
Questo processo cognitivo di costruzione delle esperienze di vita at-
traverso il linguaggio, attraverso la parola, oggi trova un ulteriore ag-
gancio neuro-cognitivo. Come abbiamo visto nello studio condotto
da Huth (2016), il nostro cervello, massivamente ed estensivamente,
è coinvolto nell’elaborazione delle parole. Ciascuna parola trova il suo
posto in un’area geograca corticale che le connette ad altre a seconda
del concetto che essa esprime. Queste aree semantiche, come abbiamo
visto, non si collocano arbitrariamente sulla supercie del nostro tessu-
to corticale, ma sembrano distribuirsi in maniera similare tra individuo
e individuo, in un modo cioè biologicamente predeterminato, dando
vita ad un atlante semantico nel quale trova posto, per tutti allo stesso
modo, una mappa semantica e una rete di termini con cui lo si esprime.
Ora immaginiamoci cosa potrebbe produrre un trauma, per esempio di
una bambina che ha subito abusi da un padre.
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Quando la bambina si sentirà dire dal padre abusante “ti voglio
bene”, quel “bene” dove troverà spazio nel suo atlante semantico? A
quale rete di parole e concetti si connetterà? Come per la maggioranza
degli esseri umani essa ci aspettiamo sia collocata in quell’area dove
cura, calore, aetto, protezione, autorità e autorevolezza, rispetto e am-
mirazione costituiscono la rete semantica, la mappa categoriale entro la
quale quel “bene” paterno troverebbe signicato. Ma questa rete ore,
biologicamente, un senso ad un’esperienza che non coincide, fenome-
nologicamente, con quella della bimba violata, il cui “bene” dell’abu-
sante sembra doversi collocare, invece, tra parole come sesso, orgasmo,
eccitazione, seduzione, soerenza, paura, umiliazione. Come in quelle
nevrosi sperimentali di Ivan P. Pavlov (2004) – che induceva compor-
tamenti patologici in animali che venivano costretti a discriminare tra
stimoli simili che elicitavano risposte tra loro antitetiche – così la bimba
violata vive un conitto tra parole il cui signicato “naturale”, “biolo-
gico”, contraddice il vissuto, resiste al contesto esperienziale, inducen-
do il trauma, se posso dire, neuro-cognitivo. Un “bene” vissuto in una
profonda dissonanza (neuro) cognitiva che reclama (trauma) una solu-
zione, uno scioglimento di senso. La narrazione, il riordino delle parole
in una struttura verbale emotivamente coinvolgente e cognitivamente
organizzante, permette di attribuire quel giusto signicato alle parole e
restituire un senso all’esperienza traumatica vissuta.
Nella sua teoria della dissonanza cognitiva, Leon Festinger (1957),
famoso psicologo e sociologo statunitense. sosteneva che le persone cer-
cano di dare a se stesse una spiegazione esauriente delle proprie incoe-
renze, perché la dissonanza provoca un disagio psicologico che spinge
l’individuo a tentare di ridurla per ottenere una consonanza cognitiva.
Ecco perché le persone tendono (inconsapevolmente) ad evitare situa-
zioni e conoscenze incoerenti con il proprio status sociale, gruppo di
appartenenza, partito politico, stile di vita, nazionalità, ecc. Cioè tutti
gli esseri (viventi) umani tendono a rifuggire condizioni di dissonanza
(conittualità cognitiva), perché traumatiche, in maggior o minor mi-
sura. Se siamo pedoni che attraversano una strada tenderemo ad attri-
buire la pericolosità delle strade all’irresponsabilità degli automobilisti.
Viceversa, come automobilisti siamo portati a sottolineare l’avventatez-
za dei pedoni che attraversano o troppo lentamente o distrattamente
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guardando il cellulare o fuori dalle strisce pedonali, ecc. Un fumatore
dirà che è maggiore il rischio di vita salendo su una macchina o respi-
rando l’aria inquinata di una grande città, piuttosto che ammettere che
il fumo uccide.
Ritengo che oggi possiamo pensare che il disagio dovuto alle proprie
incoerenze non avvenga solo a livello psicologico, ma neuro-biologi-
co. La costruzione di storie emotivamente coinvolgenti di traumi, non
aiuta solo a riportare ad uno stato omeostatico uno squilibrio psico-
logico, ma ha il potere di curare, perché la parola risolve un conitto,
un disturbo, che ha basi biologiche in quelle cellule neurali che, oltre
ad orire la possibilità di rappresentare e costruire un mondo, sono le
stesse cellule a cui è adato il controllo di tutte le altre cellule corporee.
Come ci spiega bene Antonio R. Damasio, famoso neuroscienziato e
saggista portoghese, professore al Salk Institute for Biological Studies di
La Jolla in California, i neuroni sono cellule uniche, perché “esistono
a vantaggio di tutte le altre cellule dell’organismo”. “Non sono essen-
ziali per i processi fondamentali della vita, come possono facilmente
testimoniare le creature viventi che non li possiedono”, ma “assistono
il corpo nella gestione dei processi vitali. Questo è il loro scopo ed è lo
scopo del cervello che, nel loro insieme, essi costituiscono” (Damasio
2012, 55). Gli stessi neuroni a cui è adata la rappresentazione della
realtà e dei suoi signicati, delle parole e dei loro concetti, sono gli stessi
a cui è adata la cura dei nostri processi vitali. La narrazione espressiva
ada alla parola la possibilità di ricondurre ad uno stato originario di
equilibrio neuro-cognitivo i contenuti fenomenologici dell’esperienza.
E questa regolazione omeostatica dei processi cognitivi, che riconduce
ad un equilibrio emotivo lo squilibrio provocato dal trauma, favorisce
l’azione di quelle stesse cellule a cui è adato l’equilibrio vitale del no-
stro corpo. Tra parole e salute è in gioco sempre il medesimo neurone.
8. Conclusione
Il confronto tra i recenti risultati ottenuti dal gruppo di neuroscien-
ziati della University of California di Berkeley guidati da Alex Huth
(2016) sulla rappresentazione del linguaggio nel sistema semantico ce-
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rebrale e quelli, oramai consolidati, degli eetti sulla salute della narra-
zione emotivamente coinvolgente (Pennebaker & Seagal, 1999), ci ha
permesso di cogliere un nesso tra le basi neurobiologiche del comporta-
mento umano e quelle psicologiche. Le parole curano, è un fatto, come
uccidono o deprimono, perché risulta sempre più evidente oggi quan-
to potente sia il loro eetto sul nostro cervello. Il linguaggio umano
coinvolge massivamente le aree corticali attivando un sistema semantico
organizzato in intricati pattern neurali, che sembrano essere simili tra
individuo e individuo, suggerendo una loro origine biologica più che
esperienziale, innata più che acquisita. È la lingua che acquisiamo, ma il
linguaggio e i suoi concetti li possediamo. La dischiusura emotiva attra-
verso la narrazione ada alle parole un potere curante perché permette
di risolvere, attraverso la parola, quelle dissonanze neuro-cognitive che
il trauma ha generato, riconciliando un conitto tra un senso fenome-
nologico, emerso dall’esperienza traumatica, con quello naturale, biolo-
gico, dei signicati.
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