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2030: QUALI COMPETENZE PER IMPRESE A PROVA DI FUTURO?
Stefano Molina - Fondazione Giovanni Agnelli
Forlì, 11 aprile 2017
PREMESSA
L’interrogativo che dà il titolo a queste pagine presenta almeno tre elementi di complessità.
1 Ha per oggetto le “competenze”: termine ormai diffusissimo, tanto nel mondo del lavoro
quanto in campo educativo, e presente nella cassetta degli attrezzi di diverse comunità
scientifiche, ma con accezioni e significati non riconducibili a un unico comune
denominatore.
2 Si proietta su un futuro remoto e, come afferma un noto aforisma di origine incerta, “È
molto difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro”.
3 Tende a sovrapporre due dimensioni mutualmente esclusive: quella della descrizione –
basata su ipotesi di prosecuzione delle tendenze in atto – e quella della prescrizione –
basata invece sulla convinzione che gli attori (le imprese, le agenzie educative, i governi)
debbano operare scelte coraggiose e in discontinuità rispetto al passato al fine di suscitare
e cogliere nuove opportunità di crescita.
Il contributo offerto in queste pagine cercherà di offrire qualche spunto di riflessione per
comporre una risposta plausibile al difficile interrogativo. Si partirà da una messa a fuoco
della rappresentazione corrente del rapporto tra imprese italiane e capitale umano.
Successivamente si illustrerà, sulla base dei più accreditati modelli previsivi che estrapolano le
tendenze del passato, quale potrà essere la futura configurazione del mercato del lavoro
nazionale. Si riassumeranno in seguito i risultati di studi che consentono di qualificare meglio
due dei fattori che orienteranno il cambiamento previsto, dedicati agli effetti
dell’automazione e della informatizzazione sulle occupazioni, e alla crescente importanza
riconosciuta dalle imprese alle soft skills o competenze trasversali. In conclusione si tenterà
una sintesi formulando alcune congetture sull’evoluzione della domanda di competenze utili
alle imprese italiane.
IMPRESE E CAPITALE UMANO IN ITALIA: ANCORA LONTANI DALL’EUROPA
La Relazione annuale 2013 della Banca d’Italia, nel capitolo dedicato a “Istruzione e
formazione nel sistema produttivo”, riassume come segue una caratteristica strutturale del
mercato del lavoro italiano: “Nel nostro paese il vantaggio, in termini di prospettive
occupazionali e di reddito, derivante da un’istruzione più elevata è minore nel confronto
internazionale, soprattutto per quanti hanno da poco concluso un percorso formativo. Vi
incidono le difficoltà nella transizione tra scuola e lavoro, così come la struttura del sistema
08
Fall
2
produttivo italiano, specializzato in settori tradizionali e dominato dalla piccola impresa, che
non esprime un elevato fabbisogno di capitale umano. La debolezza della domanda di lavoro
qualificato, accentuatasi durante la crisi, contribuisce a ridurre gli incentivi a investire in
conoscenza
1
”.
A supporto di tale affermazione si possono considerare due dati, tra i tanti. Nella
pubblicazione annuale Education at a Glance dell’OCSE è indicato l’effettivo rendimento
dell’istruzione terziaria: in Italia il tasso interno di rendimento
2
di una laurea è stimato pari al
9%. In altre parole, se uno studente riesce a evitare il rischio di abbandono
3
, sull’arco della
vita sarà ampiamente ripagato degli sforzi (economici) fatti. La stessa pubblicazione segnala
tuttavia che il rendimento medio europeo di un titolo universitario, sempre rispetto al
diploma, è del 16%: non stupisce che, in presenza di un così ampio divario di apprezzamento, i
flussi di mobilità dei giovani laureati siano prevalentemente centrifughi.
Un secondo dato si ricava dalle indagini Eurostat sulle forze di lavoro
4
: la percentuale di
lavoratori dipendenti in possesso di un titolo universitario (ISCED 5-8) è oggi in Italia pari al
20%, il valore nazionale più basso riscontrabile nell’intera Europa a 28. Sebbene la tendenza
sia stata positiva anche in tempo di crisi (nel 2008 eravamo al 16%), la media europea è
ancora lontanissima, al 34%, con Svezia, Finlandia, Irlanda, Regno Unito, Belgio, Spagna che
hanno ormai oltrepassato quota 40%. Per motivi che qui non indaghiamo, le imprese di questi
paesi hanno in media una quota di dipendenti laureati che è più che doppia rispetto ai
concorrenti italiani.
In seguito avremo modo di discutere fino a che punto sia sensato adottare l’equivalenza
“titolo di studio elevato = competenze elevate”. Per il momento limitiamoci a notare come le
più accreditate rappresentazioni dei rapporti tra sistema produttivo e capitale umano in Italia
mettano generalmente in luce un’interazione poco virtuosa: un gioco di specchi tra un’offerta
di competenze giudicata troppo statica (modesti investimenti pubblici e privati in istruzione e
formazione, una persistente elevata dispersione scolastica, immatricolazioni universitarie
stagnanti, scuola e università sovente sul banco degli accusati per il mancato aggiornamento
dei curricoli e della didattica) e una domanda incapace di esercitare una funzione davvero
trainante (imprese attive in segmenti di mercato a media e bassa tecnologia apparentemente
restie ad assumere laureati, premi salariali modesti, una competizione prevalentemente
basata sul contenimento dei costi, in primis del lavoro). Le croniche debolezze italiane nella
promozione di opportunità di apprendimento lungo l’arco di tutta la vita si inseriscono
coerentemente in questo quadro.
Come sempre avviene quando si cerca di comprimere in un’unica rappresentazione fenomeni
complessi, anche in questo caso rischiamo l’eccesso di semplificazione. Ma come base per i
nostri ragionamenti successivi è utile immaginare quale potrà essere lo scenario generato al
2030 dalla prosecuzione di un simile gioco di specchi: lo sviluppo italiano pare destinato ad
1
Relazione annuale 2013 della Banca d’Italia, presentata all'assemblea ordinaria dei partecipanti a Roma il 30
maggio 2014, pagina 127. Il corsivo è aggiunto.
2
Tasso di sconto che uguaglia il valore attuale dei benefici attesi (premio salariale e maggiore probabilità di
essere occupato) e dei costi (sia costi diretti, sia mancati guadagni) associati alla decisione di aumentare il
proprio livello di istruzione, nel caso in esame dal diploma alla laurea.
3
Un rischio concreto (gli abbandoni riguardano circa la metà degli immatricolati) e che varia notevolmente a
seconda delle caratteristiche degli studenti e del tipo di indirizzo scelto. Si veda Barone, Abbiati e Azzolini
“Quanto conviene studiare?”, Quaderni di Sociologia, n. 64, 2014, pp. 11-40.
4
European labour force survey (EU-LFS).
3
avvitarsi in un circolo vizioso dove domanda e offerta di capitale umano si disincentivano
reciprocamente, finendo per restituirci un’Italia meno dinamica, più periferica, più povera.
Per comodità chiameremo quel futuro indesiderabile “scenario A”.
Scopo delle pagine seguenti è mostrare, facendo ricorso a diverse fonti accomunate
dall’ambizione di mettere a fuoco un futuro non sempre facilmente decifrabile, che quello
scenario non è l’unico possibile; a ben vedere non è nemmeno il più plausibile.
PREVISIONI A MEDIO E LUNGO TERMINE: IL FUTURO CHE DISCENDE DALL’ESTRAPOLAZIONE
DELLE TENDENZE
Le previsioni periodicamente realizzate dal Cedefop (2016)
5
costituiscono una fonte di
estremo interesse per comprendere quale potrà essere l’evoluzione dei mercati del lavoro in
Italia e in Europa. Realizzate grazie a un complesso modello econometrico che armonizza dati
statistici nazionali ed europei, esse illustrano le tendenze dell’occupazione dal 2015 al 2025,
con la possibilità di estendere lo sguardo fino al 2030. Sono articolate per singolo paese
membro (senza consentire disaggregazioni territoriali più fini
6
), per settore di attività
economica, per tipo di professione e per livello di qualificazione. Al cosiddetto “baseline
scenario” viene affidato il compito di descrivere “il futuro più probabile” per l’incontro tra
domanda e offerta di lavoro: quello, cioè, che deriva dalla prosecuzione delle tendenze
osservate durante i decenni trascorsi, tanto sul versante demografico quanto su quello
economico. Tali previsioni illustrano un futuro fortemente realistico, alla cui definizione
contribuisce anche quella piccola dose di ottimismo – ad esempio sulle modalità di ripartenza
delle economie dopo la crisi – che caratterizza qualsiasi esercizio di previsione.
I risultati a lungo termine sono piuttosto incoraggianti per l’Italia. Mentre paesi come
Germania o Romania vedranno la propria occupazione ridursi lungo il decennio 2015-25,
l’Italia dovrebbe invece conoscere una ripresa occupazionale più intensa della media europea
(+4,4% rispetto a +2,9%, si veda la figura 1). Potrebbe così riportarsi sui livelli massimi,
superiori ai 25 milioni di occupati, raggiunti nel 2008.
Il modello previsivo consente di entrare nel dettaglio dei singoli gruppi professionali (secondo
livello della classificazione ISCO-08). La crescita relativamente più intensa dovrebbe
riguardare tutte le professioni il cui svolgimento richiede livelli elevati di competenze: quelle
imprenditoriali e manageriali, destinate a un aumento del 39%, corrispondenti a circa 400.000
persone o posti di lavoro, con una forte espansione prevista nelle aree amministrative, della
gestione delle risorse umane e commerciali; le professioni intellettuali, scientifiche e ad
elevata specializzazione, con una crescita del 16%, ossia 500.000 posti, in prevalenza destinati
a laureati nelle cosiddette discipline STEM; e le professioni tecniche (+11%), per le quali sono
previsti ulteriori 500.000 nuovi posti.
5
Cedefop (2016), Future skill needs in Europe: critical labour force trends, Luxembourg: Publications Office,
Cedefop research paper, No 59. Cedefop (2012), Skills supply and demand in Europe. Methodological framework,
Luxembourg: Publications Office, Cedefop research paper, No 25.
6
Un maggiore dettaglio territoriale dell’occupazione italiana è offerto dal Report di Unioncamere, in
collaborazione con il Gruppo Clas, dal titolo Previsione dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a
medio termine (2016-2020), che utilizza il modello previsivo Excelsior. Pur utilizzando fonti nazionali in parte
diverse rispetto a quelle del modello Cedefop, i risultati complessivi ai quali pervengono i due studi sono
abbastanza in sintonia.
4
Le professioni impiegatizie esecutive (lavoro d’ufficio), in contrazione sulla scena europea,
continueranno a crescere in Italia (+4%), ma solo per effetto della forte espansione prevista
per le attività di customer service a diretto contatto con la clientela e di e-commerce (300.000
posti per addetti agli sportelli, all’assistenza post-vendita ecc)
7
. Si prevede anche una maggior
domanda di personale non qualificato (ad es. addetti alle pulizie degli uffici), sebbene con
tassi di crescita dimezzati rispetto alla media europea. Il fatto che a crescere saranno i lavori
collocati in cima e al fondo alla gerarchia può essere interpretato come una prosecuzione
della tendenza alla polarizzazione che nel recente passato ha investito anche il mercato del
lavoro italiano, con effetti di impoverimento della classe media propri della cosiddetta
hourglass economy
8
. E in effetti sono destinate a un’ulteriore contrazione le professioni a
qualificazione media e medio-bassa, soprattutto nel settore primario (-19%, pari a 110.000
posti), ma anche nell’industria di base e nel piccolo commercio. Si manterranno invece stabili i
posti di lavoro nei settori delle costruzioni e dell’assistenza alle persone.
Figura 1 – Variazioni percentuali previste nell’occupazione dal 2015 al 2025, per grandi
gruppi professionali. Confronto tra Italia ed Europa a 28
Fonte: CEDEFOP 2016 Skills forecast
7
Questa crescita è da mettere in relazione con quello che Iacobucci (L’imprenditore orchestratore, 2017 – Paper
realizzato nell’ambito delle iniziative Orizzonte 2030 del Comitato Scientifico Consultivo di Piccola Industria)
definisce “il principale cambiamento osservato nell’ultimo decennio nei prodotti manifatturieri”, ossia il
crescente ruolo dei servizi che gravitano intorno al prodotto: ricerca e sviluppo, marketing, assistenza post-
vendita.
8
Per una messa a fuoco della polarizzazione occupazionale e del suo rapporto con la polarizzazione salariale si
veda Autor, Why Are There Still So Many Jobs? The History and Future of Workplace Automation, su Journal of
Economic Perspectives, vol. 29, 3, 2015, pp. 3-30.
4,4%
39,2%
16,3%
11,4%
3,8%
-5,8%
-19,5%
-4,0%
-5,8%
4,0%
-25% -20% -15% -10% -5% 0% 5% 10% 15% 20% 25% 30% 35% 40% 45%
Totale
Imprenditori e professioni manageriali
Professioni intellettuali, scientifiche e ad elevata
specializzazione
Professioni tecniche
Professioni esecutive nel lavoro d'ufficio
Professioni qualificate nel commercio e nei servizi
Agricoltori
Artigiani e operai specializzati
Conduttori di impianti, operai e conducenti di veicoli
Professioni non qualificate
Italia
EU 28
5
I cambiamenti previsti possono essere sintetizzati utilizzando i livelli di qualificazione e di
competenze associabili alle diverse professioni. Nel complesso, le professioni a media
qualificazione (per le quali si prevede il possesso di un diploma di scuola superiore)
resteranno maggioritarie sulla scena nazionale e saliranno dall’attuale 48% al 49% nel 2025.
Le professioni ad elevata qualificazione (che richiedono il possesso di titoli universitari) sono
destinate a crescere dal 21% al 29%, mentre quelle basse scenderanno dal 31% al 22%
9
.
Il quadro descritto riassume gli effetti di numerose tendenze in atto. Possiamo definirlo
“scenario B” o di progressivo innalzamento dei livelli di qualificazione formale degli occupati.
Dal lato dell’offerta di lavoro proseguirà la sostituzione di persone mature e con titoli di
studio modesti da parte di giovani diplomati e laureati: un processo che conoscerà
un’accelerazione non appena i numerosi baby-boomers italiani si affacceranno in massa alla
soglia del pensionamento, indicativamente tra il 2020 e il 2030
10
.
Dal lato della domanda, automazione, robotica collaborativa e intelligenza artificiale
continueranno ad erodere lo spazio una volta occupato dal lavoro operaio e impiegatizio,
interessando anche livelli di qualificazione oggi considerati al riparo dalla concorrenza delle
macchine. Ci affacciamo su un futuro segnato dagli effetti della “quarta rivoluzione
industriale” o “Industry 4.0”, nel quale anche i mestieri e le professioni che non saranno
direttamente messe in dubbio dall’innovazione tecnologica dovranno comunque modificare il
proprio profilo per adattarsi al rapido mutamento di paradigma. Di seguito metteremo meglio
a fuoco questi meccanismi.
OCCUPAZIONI A RISCHIO: FINO A CHE PUNTO SI SPINGERA’ LA COMPETIZIONE TRA UOMO E
MACCHINA?
Di fronte alla richiesta di brevetto presentata da un certo William Lee per un nuovo telaio in
grado di produrre calze da donna, Elisabetta oppose un fermo rifiuto: la regina era
preoccupata degli effetti negativi prodotti da quella macchina sull’occupazione delle sue
magliaie. Correva l’anno 1589.
Questo aneddoto
11
è interessante per almeno due motivi. Innanzitutto dimostra come la
questione della “disoccupazione tecnologica” – ossia la riduzione della quantità di lavoro
impiegata per unità di prodotto a seguito dell'introduzione di macchinari e impianti nel
processo produttivo – non sia recente, ma preceda di diversi secoli la sua nota teorizzazione
da parte di John Maynard Keynes (1933). Secondo: la semplice disponibilità di un’innovazione
tecnologica, per quanto efficiente possa essere, non produce automaticamente effetti
sull’occupazione. Servono anche altre condizioni di contesto, quali il calcolo di convenienza e
9
Anche il modello di Unioncamere-Excelsior – limitato al 2020 – prevede una sostenuta crescita delle figure high
skill, con un forte aumento di laureati (+32%) e diplomati (+24%), a fronte di incrementi inferiori per le figure con
titolo di studio più basso.
10
Le previsioni Cedefop sui posti di lavoro al 2025 derivano dalla somma dei posti creati ex novo per effetto
dell’espansione della domanda e di quelli liberati da chi cambia impiego o abbandona il mercato, ad esempio per
andare in pensione. Nel caso italiano, l’invecchiamento della popolazione lavorativa e la mobilità occupazionale
saranno tali da generare una domanda di lavoro sostitutiva sei volte maggiore rispetto alla creazione di nuovi
posti.
11
Riportato da Acemoglu e Robinson, Why nations fail: the origins of power, prosperity, and poverty, Random
House Digital, 2012. Per inciso, William Lee sarà costretto a lasciare l’Inghilterra e si trasferirà in Francia, dove
riuscirà a ottenere il brevetto.
6
la conseguente decisione da parte di un imprenditore di adottare l’innovazione, e il
superamento delle inevitabili resistenze di natura politica e sociale alla sostituzione del lavoro
umano con macchine. Anche per questo motivo non è facile prevedere, una volta messe a
fuoco le presumibili direzioni di sviluppo dell’innovazione, quali potranno essere i mutamenti
occupazionali dei prossimi decenni. Osservando il passato possiamo affermare con certezza
che la diffusione della videoscrittura, ad esempio, ha fatto sparire i compositori linotipisti
delle tipografie e pure moltissime segretarie e stenodattilografe. Ma quali effetti
occupazionali potranno discendere dal ricorso ai droni attualmente sperimentati per la
logistica? E quali mestieri potrebbero venir meno a seguito della commercializzazione di
automobili a guida autonoma, oggetto di collaborazione tra Google e FCA?
Intorno a simili interrogativi e alle speranze/paure da essi suscitate si è sviluppata un’ampia
letteratura, a cavallo tra approccio scientifico e futurologia. Un recente studio di Carl B. Frey e
Michael A. Osborne dell’Università di Oxford dedicato al futuro dell’occupazione può rivelarsi
un utile strumento di orientamento
12
. Gli autori partono dalla suddivisione del lavoro
proposta da Autor e altri (2003)
13
e basata su una matrice due per due: su un primo asse si
distribuiscono i lavori routinari/non routinari, sul secondo quelli manuali/intellettuali.
Storicamente la sostituzione del lavoro dell’uomo da parte delle macchine ha riguardato un
solo quadrante: quello dei lavori manuali e routinari, ossia quelli che potevano essere
facilmente oggetto di programmazione in quanto definibili da un insieme semplice e
prevedibile di regole. I recenti sviluppi tecnologici stanno però rendendo “informatizzabili”
anche compiti presenti negli altri quadranti e sino a ieri ritenuti al riparo dalla concorrenza
delle macchine: sia compiti impegnativi fisicamente e non routinari, quali ad esempio, la
guida di mezzi pesanti; sia compiti intellettuali, quali il riconoscimento di testi manoscritti (ad
esempio le firme sugli assegni), la ricerca di sentenze in campo legale o la lettura di esami
radiologici per la formulazione di diagnosi mediche. In questo contesto di crescente scalabilità
del lavoro umano da parte delle macchine – con rapidissimi progressi nel campo della
robotica, dell’intelligenza artificiale e nell’uso dei big data per la correzione degli errori in
mansioni non routinarie – quali lavori saranno ancora al riparo dalla concorrenza nel 2030?
Secondo gli autori dello studio citato vi sono tre tipologie di compiti ancora decisamente
proibitivi per le macchine, almeno sull’arco dei prossimi due decenni:
i compiti che implicano una notevole sensibilità percettiva, in particolare tattile, e una grande
precisione nel manipolare gli oggetti;
i compiti che richiedono intelligenza creativa, ossia la capacità di avere idee originali e brillanti
per affrontare una determinata situazione o per risolvere un dato problema;
i compiti che richiedono intelligenza sociale, ossia capacità di interagire con persone tenendo
anche conto della loro sfera emotiva, per finalità negoziali, di persuasione, di conforto ecc.
Utilizzando informazioni relative alle caratteristiche dell’occupazione statunitense
14
e
combinando giudizi soggettivi con evidenze empiriche (ad esempio, l’esposizione al rischio di
delocalizzazione), gli autori sono stati in grado di calcolare una “probabilità di
informatizzazione” per 702 professioni, corrispondenti a circa 138 milioni di posti di lavoro
12
Frey e Osborne, The Future of Employment: How Susceptible Are Jobs to Computerisation?, WP Oxford Martin
Programme on Technology and Employment, 2013.
13
Autor, Levy e Murnane, The skill content of recent technological change: An empirical exploration, in The
Quarterly Journal of Economics, vol. 118, no. 4, pp. 1279–1333, 2003.
14
Bureau of Labor Statistics.
7
negli Stati Uniti
15
. Secondo le loro stime, il 47% delle professioni attualmente esistenti è ad
alto rischio di informatizzazione sull’orizzonte dei prossimi due decenni (probabilità > 0,7). Si
tratta delle professioni collocate alla destra nella figura 2, concentrate nei settori dei trasporti
e della logistica, nei lavori d’ufficio e di supporto all’amministrazione, nonché nella
produzione, dove si annunciano i grandi progressi della robotica industriale grazie a sensori
(tecnologie di raccolta dati ambientali) di nuova generazione. Ma anche nel campo dei servizi
commerciali e di vendita (cassieri, commessi, televenditori) Frey e Osborne prevedono un
elevato grado di scalabilità delle occupazioni da parte di algoritmi in grado di elaborare
enormi quantità di dati – ad esempio sulle preferenze individuali ricavabili dalle modalità di
navigazione in rete – al punto da ricreare condizioni di adattabilità e interattività con il cliente.
Già oggi Alexa, l’assistente virtuale di Amazon, sta imparando a riconoscere le diverse
sfumature nella voce dei potenziali acquirenti online.
L’asse orizzontale della Figura 2 (probabilità di informatizzazione) può anche essere letto da
destra a sinistra in senso cronologico: in una prima fase (indicativamente il prossimo
decennio) potrebbe essere piuttosto intenso il processo di sostituzione del lavoro umano con
macchine. Questa fase sarà seguita da un periodo di rallentamento del processo – parte
centrale del grafico – a causa dell’oggettiva difficoltà di sostituire lavoratori a medio rischio di
informatizzazione, impegnati in compiti che richiedono varie combinazioni di sensibilità
tattile, creatività e intelligenza sociale. Non si tratta necessariamente di lavori ad altissima
qualificazione: pensiamo, ad esempio, a un cameriere che serva la terrazza di un bar
all’aperto. Vi sono poi i lavori a basso rischio, collocati nella parte sinistra del grafico: questi
non dovrebbero aver molto da temere dalla concorrenza della macchine, anche su orizzonti
temporali piuttosto lunghi. Appartengono a quest’ultima categoria la maggior parte delle
professioni in campo educativo, sanitario, scientifico e artistico, oltre naturalmente alle
professioni manageriali (tabella 1).
Figura 2. Occupazione negli Stati Uniti per esposizione al rischio di informatizzazione
Fonte: Frey, Osborne, cit
15
Sul sito della BBC lo studio viene rielaborato e adattato all’occupazione del Regno Unito: il risultato è
un’interessante animazione interattiva – francamente un po’ inquietante - dal titolo Will a robot take your job?
8
Tabella 1. Esempi di professioni suddivise per esposizione al rischio di informatizzazione
fino a 0,1
da 0,1 a 0,3
da 0,3 a 0,7
da 0,7 a 0,9
oltre 0,9
chirurgo
parrucchiere
idraulico
falegname
intervistatore
psicologo
controllore di volo
interprete
sarto
agente assicurativo
HR manager
elettricista
minatore
decoratore
commesso
dietologo
copilota
programmatore
archivista
saldatore
logopedista
custode
assistente di volo
lavapiatti
centralinista
insegnante
autista ambulanza
agente di viaggio
cuoco di fast food
percettore tasse
truccatore
rappresentante
bibliotecario
facchino
assistente legale
farmacista
pompiere
meccanico
guardia
operatore telefonico
ingegnere biomedico
autista bus
autista metro
segretario
avvocato
gommista
parcheggiatore
assistente amministrativo
scrittore
fornaio
cassiere
designer
tassista
I titoli delle colonne si riferiscono alla probabilità di informatizzazione sull’arco dei prossimi 20 anni:
0 = assolutamente non informatizzabile; 1 = sicuramente informatizzabile.
Fonte: Elaborazione da Frey, Osborne, cit.
È bene ribadire quanto accennato in apertura di paragrafo e cioè che un’elevata esposizione
al rischio di informatizzazione non implica automaticamente la sostituzione del lavoro umano:
questa dipenderà anche da fattori che lo studio non prende in considerazione, quali i prezzi
relativi del lavoro e del capitale, gli incentivi/disincentivi fiscali (si pensi, ad esempio, alla
proposta di Bill Gates di introdurre una tassa sui robot), gli orientamenti della politica (le
macchine non votano), le resistenze legittime dei lavoratori direttamente interessati e il loro
grado di sindacalizzazione. Ma indipendentemente dalla rapidità e dalla estensione della loro
effettiva realizzazione, i meccanismi illustrati continueranno a esercitare un’importante
pressione sui mercati del lavoro, compreso quello italiano.
QUALI COMPETENZE PER IL FUTURO? IL DIBATTITO SULLE SOFT SKILLS E SULLE
COMPETENZE TRASVERSALI
Nel paragrafo precedente si è osservato in prospettiva lo straordinario potere sostitutivo delle
nuove tecnologie nei confronti dell’occupazione. Questo è però uno solo dei versanti di una
questione più complessa: la tecnologia influenzerà l’occupazione anche attraverso altri canali.
La sostituzione di lavoro umano con macchine e intelligenza artificiale potrà infatti
determinare maggiore produttività e minori prezzi, e dunque produrre non solo
un’espansione diretta dell’occupazione qualificata nei nuovi settori tecnologici, ma anche
un’espansione indiretta nei settori investiti dal conseguente aumento della domanda di beni e
servizi (Stewart, De, Cole, 2015).
Non è dato sapere se il futuro saldo tra posti di lavoro creati e posti distrutti potrà essere
positivo o negativo (Brynjolfsson, McAfee, 2011)
16
.
16
Brynjolfsson e McAfee, Race against the machine: How the digital revolution is accelerating innovation, driving
productivity, and irreversibly transforming employment and the economy, Digital Frontier Press Lexington, 2011.
9
Una cosa tuttavia è certa: per sopravvivere e continuare a crescere professionalmente in un
ambiente sempre più pervaso da innovazione tecnologica, tutti i lavoratori, ormai
indipendentemente dal livello di responsabilità e di inquadramento, dovranno possedere e
sviluppare nuove competenze.
E i datori di lavoro, in primis le imprese, sempre più ricercheranno persone in grado di
adattarsi a scenari incerti cogliendo le straordinarie potenzialità offerte dai nuovi ambienti ad
elevata tecnologia.
Segnali in tal senso emergono dal monitoraggio dei fabbisogni professionali dell’industria e
dei servizi realizzato annualmente da Excelsior
17
che per la prima volta nel 2016 ha indagato,
oltre alle caratteristiche personali richieste ai neoassunti (età, genere, titolo di studio,
esperienza pregressa), anche il grado di complessità del lavoro da svolgere e la connessa
necessità di ricorrere a soluzioni creative o innovative.
I dati Excelsior mettono in luce il profondo cambiamento che ha investito e continua a
investire anche le professioni operaie, “spesso erroneamente sottovalutate, ma che al
contrario si trovano a governare processi produttivi sempre più complessi”. Ad esempio, gli
operai addetti a macchine utensili automatiche e semiautomatiche industriali saranno
chiamati a svolgere “attività complesse” e a trovare “soluzioni creative e innovative” in
misura maggiore di quanto non sia richiesto ai candidati a professioni intermedie. Non
stupisce che per professioni operaie specializzate (per le quali Excelsior ha previsto quasi
95.500 assunzioni in un anno) in un terzo circa dei casi le imprese ricerchino personale con
almeno un diploma di scuola media superiore.
Ma quali sono le nuove competenze che dovrebbero affiancare quelle tradizionali, di natura
più tecnica, per consentire a lavoratori e imprese di affrontare con maggiori probabilità di
successo le sfide dei nuovi ambienti tecnologici, della crescente imprevedibilità dei mercati e
della competizione su scala globale?
La risposta rinvia ad alcune parole d’ordine (soft skills, competenze trasversali) da anni al
centro di grandi dibattiti. Anche in questo caso, adottiamo una fonte recente come bussola
per orientarci. Si tratta di uno studio realizzato dalla Fondazione Agnelli in collaborazione con
l’Università di Genova
18
che si pone un duplice obiettivo: definire/validare un set di
competenze ritenute essenziali per i propri dipendenti qualificati da parte dei datori di lavoro
italiani e offrire alle Università spunti utili per una strutturazione dell’offerta didattica più
attenta – ma in molti casi sarebbe più appropriato dire: meno indifferente – alla futura
occupabilità degli studenti. Sullo sfondo l’idea di contribuire alla riduzione del cosiddetto skills
mismatch che caratterizza il mercato del lavoro
19
.
17
Si veda, tra gli altri, il rapporto Excelsior, La domanda di professioni e di formazione delle imprese italiane,
Unioncamere, 2016, che riassume i risultati dell’ultima rilevazione annuale sulle assunzioni previste e le loro
caratteristiche, a partire da circa 100.000 interviste a imprese con almeno un dipendente.
18
Mangano, S. Un confronto tra ricercatori e mondo del lavoro sulle competenze trasversali dei laureati , WP
Fondazione Agnelli, 2014, scaricabile dal sito www.fga.it. L’indagine è stata realizzata grazie alla collaborazione
di responsabili delle risorse umane di aziende, società di consulenza e di personaggi di spicco di enti di
formazione della Pubblica Amministrazione.
19
Monti e Pellizzari (2016), Skill Mismatch and Labour Shortages in the Italian Labour Market, Policy Brief, No.
02, Bocconi University. Paper realizzato nell’ambito del progetto New Skills at Work di JPMorgan Chase
Foundation.
10
Tabella 2 - Le 8 Competenze Trasversali validate dai responsabili HR nell’indagine FGA-UniGe
1
Capacità di risolvere problemi
ossia applicare in una situazione reale quanto appreso, individuando gli ambiti di
conoscenze che meglio consentono di affrontarla.
2
Capacità di analizzare e sintetizzare informazioni
ossia acquisire, organizzare e riformulare dati e conoscenze provenienti da diverse fonti.
3
Capacità di formulare giudizi in autonomia
ossia interpretare le informazioni con senso critico e prendere decisioni conseguenti.
4
Capacità di comunicare efficacemente
ossia trasmettere informazioni e idee in forma sia orale sia scritta in modo chiaro e
formalmente corretto, esprimendole in termini adeguati rispetto agli interlocutori
specialisti o non specialisti del settore.
5
Capacità di apprendere in maniera continuativa
ossia sapere riconoscere le proprie lacune e identificare strategie efficaci volte
all’acquisizione di nuove conoscenze e competenze.
6
Capacità di lavorare in gruppo
ossia coordinarsi con altre persone, anche di diverse culture e specializzazioni
professionali, integrandone le competenze.
7
Essere intraprendente
ossia saper sviluppare idee innovative, progettarne e organizzarne la realizzazione, gestire
le necessarie risorse ed essere disposto a correre rischi per riuscirci.
8
Capacità di organizzare e pianificare
ossia realizzare idee e progetti tenendo conto anche del tempo e delle altre risorse a
disposizione.
Fonte: Fondazione Giovanni Agnelli, 2014.
La tabella 2 elenca le competenze sulle quali si è potuto registrare un ampio consenso da
parte delle imprese italiane interpellate. L’elenco testimonia dello spostamento di interesse
dalle competenze tecnico/professionali, sempre importanti ma saldamente ancorate a
contesti lavorativi stabili, a quelle trasversali, connotate da un maggior grado di trasferibilità
tra aree/funzioni diverse e in contesti in rapida evoluzione. Questo passaggio ha diverse
implicazioni. Ne segnaliamo tre.
1. La crescente enfasi sulle competenze trasversali sta diventando una vera e propria sfida
per tutti i sistemi educativi (scuola, università, formazione), chiamati a riconsiderare
metodi di insegnamento e obiettivi. È ovvio che, per sviluppare capacità come quelle
elencate nella tabella, serve un profondo ripensamento della didattica e un parziale
superamento del tradizionale modello della lezione frontale, adatta soprattutto alla
trasmissione di conoscenza. Si pensi anche alle inedite difficoltà poste dalla valutazione e
dalla certificazione del grado di competenza acquisito. Al momento non si sono trovate, a
11
tutti i livelli di istruzione formale, soluzioni davvero soddisfacenti
20
. E molti docenti
continuano a manifestare una certa difficoltà di sintonia su questa lunghezza d’onda, che
invero costringerebbe a riconsiderare la rigida compartimentazione disciplinare sulla
quale si reggono, da sempre, la scuola secondaria e l’università.
2. Anche a seguito della difficoltà di decifrare quali effettive capacità siano oggi garantite
dal possesso di un determinato titolo di studio (diploma, laurea, dottorato), diventano
sempre più qualificanti agli occhi dei datori di lavoro esperienze realizzate in contesti
anche molto distanti da quelli dell’istruzione e del lavoro, ma rivelatrici dell’avvenuta
acquisizione di determinate competenze: ad esempio, praticare uno sport di squadra a
livello agonistico o suonare in un gruppo musicale costituiscono sempre meno aspetti
marginali in un curriculum vitae; possono dunque fare la differenza in percorsi di
recruiting (e più avanti, di outplacement) che tengano in alta considerazione la “capacità
di lavorare in gruppo”. Per certi versi, la logica della trasversalità implica il superamento
di un confine netto tra le competenze per il lavoro e le competenze per la vita.
3. Va evitato l’errore di considerare le competenze trasversali come una prerogativa
esclusiva delle posizioni a più elevata qualificazione. Anzi, è proprio dalla loro
combinazione con competenze professionali di medio livello che dipenderà la
sopravvivenza di molte occupazioni
21
. La già citata rilevazione Excelsior 2016 segnala che
l’importanza attribuita dalle imprese alle competenze trasversali è pari o persino
superiore a quella delle conoscenze tecniche per quasi l’86% dei casi previsti di
assunzione, dunque a tutti i livelli. Ad esempio, la capacità di risolvere problemi è
considerata dalle imprese “molto importante” per il 68% delle assunzioni nell’ambito
delle professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione – quelle che
sovente richiedono una laurea – ma anche per il 40% delle professioni meno qualificate
dell’artigianato, dell’industria e dell’agricoltura. Non si osservano dunque enormi divari
scorrendo la (presunta) gerarchia delle professioni.
Guardando al futuro lontano, è presumibile che l’attuale enfasi sul possesso di competenze
trasversali sia destinata ad accentuarsi ulteriormente. Esse costituiscono sempre più
“un’assicurazione sul lavoro” per persone che, all’interno e all’esterno delle imprese,
continueranno a spostarsi verso le sponde più sicure della creatività, dell’intelligenza sociale e
relazionale, e della sensibilità percettiva, come abbiamo visto decisamente meno scalabili da
parte delle macchine.
20
L’alternanza scuola lavoro o ASL, resa obbligatoria dalla legge 107 del 2015 (detta della “Buona scuola”), è un
tentativo di risposta alle sollecitazioni che da più parti (imprese, famiglie) si rivolgono al sistema scolastico,
affinché riduca il proprio grado di chiusura e di autoreferenzialità. La Guida operativa all’ASL predisposta dal
MIUR per le scuole cita per ben 149 volte la parola “competenze”.
21
È questa la tesi di Autor (2015) che vede in alcune competenze trasversali (interazione interpersonale,
adattabilità e problem solving) il vero vantaggio comparato dei lavoratori a media qualificazione nei confronti
delle macchine. Per inciso, dalla futura “resistenza” dei lavoratori middle-skilled – considerati alla stregua di
“artigiani del futuro” – Autor fa discendere una previsione di possibile fine della tendenza alla polarizzazione del
lavoro.
12
CONCLUSIONI
Al termine di questo breve excursus attraverso studi orientati al futuro possiamo azzardare un
tentativo di sintesi.
Abbiamo inizialmente individuato due scenari alternativi, caratterizzati rispettivamente dalla
staticità del rapporto tra sistema produttivo e capitale umano in Italia, e dunque dalla
persistenza di un’occupazione con titoli di studio modesti (scenario A), oppure da una crescita
considerevole nell’impiego di diplomati e soprattutto di laureati, come suggerito dalle
previsioni Cedefop (scenario B).
In seguito si sono messe a fuoco due tendenze strettamente collegate e con elevata
probabilità di prosecuzione nei prossimi anni: da un lato, la diffusione di tecnologie sempre
più interconnesse in grado di svolgere compiti sino a ieri rimasti al riparo dalla concorrenza
delle macchine e dell’intelligenza artificiale; dall’altro, la trasformazione in atto nelle tipologie
di competenze effettivamente richieste dalle imprese ai propri collaboratori, con un chiaro
slittamento verso competenze di natura più trasversale.
Dal complesso di considerazioni svolte discende la seguente conclusione: la domanda di
diplomati e laureati da parte delle imprese italiane sarà destinata a crescere sensibilmente,
ma solo a condizione che i giovani in uscita dai percorsi scolastici e universitari siano
adeguatamente attrezzati – e ulteriormente “attrezzabili” – in termini di competenze.
Emerge dunque un terzo scenario (scenario C), che di seguito proviamo a illustrare ricorrendo
ad alcune congetture.
La prima congettura riguarda la sprovincializzazione del dibattito nazionale sui titoli
accademici, che potrebbero perdere il forte valore simbolico ereditato dall’epoca in cui erano
merce rara. Ad acquisire un valore simbolico negativo sarà semmai la condizione minoritaria
della mancanza di un diploma/qualifica. Conseguire una laurea, assumere un laureato
dovrebbero diventare passaggi “normali” per un paese a sviluppo avanzato, tenendo peraltro
presente che il titolo formale di studio non rappresenterà più una garanzia a lungo termine,
né per il lavoratore, né per il datore di lavoro; semmai una pre-condizione per lo sviluppo di
un percorso dove la dimensione formativa e quella professionale si integreranno.
Ma se il possesso del titolo formale conterà meno (perché quel che conterà davvero saranno
le competenze), perché mai dovrebbe crescere il numero di laureati impiegati nelle imprese?
La spiegazione dell’apparente paradosso può essere ricercata nei motivi per cui le imprese già
oggi guardano – e in futuro guarderanno con crescente interesse – ai giovani forniti di titolo
universitario
22
. Vediamone alcuni.
1. Per come è organizzato, lo studio universitario è meno passivo di quello scolastico:
richiede una maggiore capacità di pianificazione del proprio impegno e la scelta tra
diversi percorsi non predefiniti. Anche per questo chi ha frequentato l’università tende ad
avere un atteggiamento più proattivo nei confronti della propria formazione durante l’età
22
Le considerazioni qui riportate derivano dal programma di ricerche e di approfondimenti della Fondazione
Agnelli sul tema delle competenze, inclusi gli esiti di seminari a porte chiuse organizzati con responsabili delle
risorse umane, vertici delle società di consulenza (headhunting, outplacement…) e studiosi del mercato del
lavoro. Sono riportate alcune delle ragioni addotte per cui è sensato che per determinate posizioni lavorative un
imprenditore italiano possa preferire un/a laureato/a rispetto a un/a diplomato/a, anche tenuto conto dei
maggiori costi. Si veda anche il volume Fondazione Agnelli, I nuovi laureati. La riforma del 3+2 alla prova del
mercato del lavoro, Laterza, 2012.
13
adulta: dimostra generalmente una maggiore propensione a ricercare e a frequentare
attività formative
23
. Come abbiamo visto, la capacità di continuare ad apprendere è una
competenza sempre più apprezzata dalle imprese, soprattutto quando si manifesta sotto
forma di learning agility, ossia capacità di imparare rapidamente anche dalle proprie
esperienze.
2. In genere i laureati dimostrano una migliore capacità di visione di insieme o sistemica:
riescono a collocare le singole mansioni loro affidate all’interno di un quadro più vasto
rappresentato dall’intera organizzazione per la quale lavorano. Tendono anche a
ricercare soluzioni al di fuori dei tradizionali schemi disciplinari o dei confini nazionali.
3. La maggiore autonomia dello studio universitario si traduce in una maggiore autonomia
nell’esecuzione dei compiti lavorativi e nell’assunzione di responsabilità: aspetti giudicati
positivamente dalle imprese, in particolare con il venir meno delle mansioni e dei compiti
predefiniti dell’approccio fordista e taylorista. Lavoratori più autonomi sono apprezzati
quando risulta difficile o troppo oneroso il controllo diretto sui processi e sulle
procedure, e si preferisce dunque spostare il metro valutativo sul risultato finale.
4. Al termine di un percorso di studi articolato che prevede prove ed esami piuttosto diversi
tra loro (orali, test scritti, elaborati che riassumono approfondimenti di ricerca,
traduzione di esperienze extracurricolari in crediti, redazione e discussione di tesi) i
laureati hanno acquisito e dovrebbero quindi dimostrare migliori capacità comunicative,
tanto all’interno dell’impresa quanto all’esterno.
5. Infine, per effetto della combinazione delle precedenti caratteristiche e come
sottolineato da Iacobucci in un contributo parallelo
24
, i laureati dovrebbero assicurare
una maggiore “absorptive capacity”, ossia la capacità di individuare, assorbire ed
elaborare nuova conoscenza al fine di adattarla agli obiettivi dell’impresa. Sono cioè i
collaboratori più adatti a favorire l’introduzione di innovazione interagendo con
interlocutori esterni al sistema produttivo, in primis le università e i centri di ricerca.
Per quanto detto in precedenza, tali motivi di preferenza non sono generalizzabili: non
varranno per tutti i laureati, di tutte le discipline e provenienti da tutti gli atenei. Un elemento
caratterizzante lo “scenario C” consiste proprio nella maggiore attenzione discriminante che
le imprese rivolgeranno a corsi ed atenei di provenienza: saranno apprezzati i laureati
provenienti da percorsi in grado di assicurare, oltre alla specifica preparazione disciplinare, il
rafforzamento delle diverse competenze sopra elencate. Si tratta di un fenomeno già oggi
evidente, e che trova conferma nei forti divari di remunerazione riscontrabili a distanza di
alcuni anni dalla laurea
25
. Ma come si diceva, sarà il concreto possesso di adeguate capacità,
magari acquisite con la pratica lavorativa, a determinare il successo degli individui e non il
titolo di studio formalmente conseguito.
Una seconda congettura relativa allo “scenario C” riguarda il possibile mutamento nei
rapporti tra imprese e dipendenti, riconducibile anche a un cambio generazionale di mentalità
23
Il Rapporto PIAAC (“Programme for the International Assessment of Adult Competencies” dell’Oecd), rivela che
in Italia, nei 12 mesi precedenti l’intervista, il 58% dei laureati ha partecipato ad attività formative, percentuale
che scende al 30% per diplomati e arriva al 12% per chi dispone al massimo della licenza media. Tali percentuali
sono inferiori di circa 15-20 punti a quelle della media dei paesi Ocse.
24
Iacobucci, L’imprenditore orchestratore, 2017 – Paper realizzato nell’ambito delle iniziative Orizzonte 2030 del
Comitato Scientifico Consultivo di Piccola Industria.
25
Si vedano i rapporti annuali AlmaLaurea sul sito www.almalaurea.it, che mostrano il reddito dei laureati
occupati a 1, 3, 5 e per alcune sessioni anche a 10 anni dal conseguimento del titolo.
14
e di approccio al lavoro. A differenza dei titoli di studio, le competenze “sono vive”: si
manifestano in determinati contesti e si irrobustiscono o deperiscono in ambienti più o meno
stimolanti. Per chi le possiede, sono contemporaneamente una risorsa e un progetto. Per
questo sta modificandosi il do ut des: le imprese pretendono flessibilità e capacità di
adattamento, ma vengono giudicate – soprattutto dai lavoratori più giovani e qualificati -
anche sulla base delle opportunità di apprendimento e di crescita professionale che riescono
ad offrire. Tramontato il tradizionale concetto di fedeltà aziendale, dovranno essere ripensati
i sistemi di incentivi, non più collegabili all’anzianità di servizio: va in questa direzione la
progressiva concessione da parte dell’imprenditore di piccole quote di proprietà e di
partecipazione agli utili
26
. Per effetto dell’accelerazione nel mutamento tecnologico e
organizzativo continueranno a modificarsi anche le modalità di reperimento e di
manutenzione delle competenze da parte delle imprese, con una gamma più ampia di
soluzioni contrattuali e un ricorso frequente al buy esterno: questo potrà rispecchiarsi in un
accresciuto ruolo delle società di consulenza (revisione, legale, fiscale, organizzazione, di
immagine ecc).
Una terza congettura riguarda infine una profezia per così dire darwiniana. Chi ha studiato la
relazione tra l’incidenza della forza lavoro qualificata e i processi di ristrutturazione nel nostro
sistema produttivo ha sottolineato lo stretto legame esistente tra la capacità delle aziende di
affrontare positivamente profondi cambiamenti strutturali, compresi i ripensamenti di
strategia, e l’impiego di una forza lavoro con elevati livelli di istruzione. “L’incremento della
disponibilità di personale laureato a livello locale sembra in grado di favorire una maggior
attività innovativa e una maggior crescita della produttività”
27
.
Se questa “regola” si confermerà anche nei prossimi anni – e ricordando la maggiore densità
di capitale umano delle aziende concorrenti sulla scena europea – il paesaggio delle imprese
italiane sarà necessariamente destinato a modificarsi a favore di quelle che saranno riuscite a
mobilitare, incentivare e trattenere i collaboratori con le migliori competenze: gli uomini e le
donne che consentiranno a quelle imprese di cogliere le opportunità di sviluppo nei nuovi
panorami dell’innovazione e dell’internazionalizzazione.
26
Ancora Iacobucci (2017), cit.
27
Cfr. Schivardi e Torrini, Structural Change and Human Capital in the Italian Productive System, WP 38 della
Fondazione Agnelli, luglio 2011; Schivardi e Torrini, Cambiamenti strutturali e capitale umano nel sistema
produttivo italiano, Questioni di Economia e Finanza, Banca d’Italia, n. 108, novembre 2011.