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Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via - Karl Marx

Authors:
  • Università di Coimbra
Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via
V Colóquio Internacional.
TRADIÇÃO E MODERNIDADE NO MUNDO IBERO-
AMERICANO
Rio de Janeiro 28-30 de maio de 2008.
MASSIMO MORIGI
CYBERFASCISMUS:
IL DOMANI APPARTIENE A NOI
( AESTHETICA FASCISTICA IV )
Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via
Ascolta il ruscello che sgorga lassù
ed umile a valle scompar
e guarda l'argento del fiume che
sereno e sicuro va.
Osserva dell'alba il primo baglior
che annuncia la fiamma del sol
ciò che nasce puro più grande vivrà
e vince l'oscurità.
La tenebra fugge i raggi del sol
Iddio dà gioia e calor
nei cuor la speranza non morirà
il domani appartiene
il domani appartiene
il domani appartiene a noi.
Ascolta il mio canto che sale nel ciel
verso l'immensità
unisci il tuo grido di libertà
comincia uomo a lottar.
Chi sfrutta nell'ombra sapremo stanar
se uniti noi marcerem
l'usura ed il pugno noi vincerem
il domani appartiene
il domani appartiene
il domani appartiene a noi
La terra dei Padri, la Fede immortal
nessuno potrà cancellar
il sangue, il lavoro, la civiltà
cantiamo la Tradizion
La terra dei Padri, la Fede immortal
nessuno potrà cancellar
Ah, love, let us be true il popolo vinca dell’oro il signor
To one another! for the world, which seems il domani appartiene
To lie before us like a land of dreams, il domani appartiene
So various, so beautiful, so new, il domani appartiene a noi
Hath really neither joy, nor love, nor light,
Nor certitude, nor peace, nor help for pain; Il domani appartiene a noi
And we are here as on a darkling plain
Swept with confused alarms of struggle and flight,
Where ignorant armies clash by night.
Matthew Arnold, Dover Beach
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E qui noi siamo come su un’oscura pianura/Percorsa da allarmi
confusi di lotta e di fuga,/Dove armate ignoranti si scontrano nella
notte.” Non solo col dissolvimento delle metanarrative e lo
svuotamento di ogni telos la condizione postmoderna si presenta
sul proscenio della storia. Non solo con la fine della storia ( fine
intesa non sul piano puramente événementielle, autentico
ossimoro di Fukuyama, ma , molto più inquietante, come
scomparsa di ogni pretesa di “filosofia della storia”), possono
essere mestamente archiviati il Novecento e il secolo che da poco
è iniziato. In realtà l’oscura pianura del nostro tempo è anche
attraversata da bagliori di scontri e di lotte, inquietanti
sicuramente, ma che proprio non ci consentono di riposare nella
triste ( ma anche riposante ) condizione di un mondo giunto al
massimo ( ed irreversibile) grado entropico. Forse si era stati
troppo precipitosi nel proclamare la finis avanguardiae (Poggioli
1968 ; Bürger 1984) e forse non si avvertiva che la fusione fra
arte e vita, il cui punto di non ritorno fu costituito dalla fascistica
estetizzazione dell’arte, ha perso la sua connotazione strettamente
elitaria per divenire oggi una possibilità ( speranza, dannazione ? )
ampliamente diffusa. Ma dove, sul piano strettamente effettuale, è
possibile tracciare questi tentativi di reviviscenza delle
metanarrative e del telos della storia? Ovviamente non nei classici
grandi mezzi di informazione i quali proprio per la loro natura di
massa e di trasmissione unidirezionale - quando anche sul piano
dei contenuti non sono che il distillato dell’ideologia della “fine
della storia - non possono che presentarsi come la radicale
antitesi di ogni pulsione integralmente avanguardistica e di
estetizzazione integrale. Ed è infatti al Web che è assegnato il
compito di smentire - anche se, come vedremo, con assai
inquietanti bagliori - la fosca visione di una postmodernità dove
avanguardia sia semplicemente un termine da manuale di storia
dell’arte. Ma dove bisogna ben guardarsi dall’ingenuo errore di
disvelare nel mondo virtuale anche solo una semplice
trasposizione cibernetica di quanto tramandato da questi manuali.
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Vale a dire che la vera novità della rete non è tanto dare la
possibilità a gruppi che si riconoscono esplicitamente come
avanguardia di portare avanti e diffondere i propri programmi
artistici e/o di vita ( esiste anche questo aspetto ma è il meno
interessante ) ma questa consiste nel rapporto non più
unidirezionale fra le avanguardie si riconoscano o meno in
questo termine poco importa e i loro fruitori, i quali così
arrivano ad apportare nuovi e più intensi significati al messaggio
originale e mutandosi pertanto a loro volta da massa ad
“avanguardia” essi stessi. Il lato tragico, nel senso classico della
parola, di questo processo è che, come vedremo, l’intensificazione
del messaggio è il preludio alla sua sclerotizzazione e alla
sconfitta, in definitiva dell’avanguardia stessa ( che così viene
rigettata nelle contraddizioni del passato dove la fusione fra arte e
vita si conclude nel dissolvimento dell’arte nella politica -
dimensione pubblica, e quindi banalizzata, della vita - altrimenti
detta estetizzazione della politica). Il lato positivo è che, per
l’ennesima volta, si è sollevato il velo di Maya ad un mondo solo
apparentemente pacificato e non ancora in procinto ( nonostante le
migliori intenzioni buoniste e democratiche) di dimettersi dalla
storia.
Cliccando su http://it.youtube.com/watch?v=JbB1s7TZUQk

possiamo avere accesso al video “Life is life” del
gruppo musicale Laibach1. I Laibach non rispondono però ai
classici canoni della rock band. Tanto per iniziare essi non sono
sorti per fini meramente commerciali ma costituiscono
l’espressione musicale del gruppo avanguardististico NSK ( Neue
Slowenische Kunst ) , il cui programma estetico-politico è
l’impiego dei procedimenti dell’arte totalitaria al fine di arrivare
1 Il video musicale presso questo indirizzo e tutti i successivi citati in questa
comunicazione, vista la natura volatile delle fonti internettiane, sono stati “salvati”
presso l’ “Archivio Storico Digitale Massimo Morigi-Stefano Salmi” e sono perciò
senza alcun problema impiegabili come fonti primarie.
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ad un rifiuto del totalitarismo sia nell’arte che nella politica (Dahal
1999; Kenney 2002; Bazzocchi 2003; Erjavec, Jay, Groïs 2003,
Monroe, Zizek 2005; ). Sia come sia “Life is life” dimostra di aver
fatto tesoro dei dettami della propaganda hitleriana. La musica, un
arrangiamento di “Live is life” del gruppo degli anni ’80 Opus,
dimostra quanto in sia poco importante l’originalità di un’idea
quanto la sua elaborazione. La dolciastra e stucchevole “Live is
life” che a tempo di reggae suggeriva le dolcezze caraibiche del
carpe diem, si è tramutata in una terribilmente coinvolgente
marcia , al suono della quale i componenti del gruppo musicale
Laibach - che nel video nell’abbigliamento intendono richiamare
un manipolo di giovani nazisti durante un’escursione ( unica
eccezione il capo del gruppo ed anche capo nella realtà della band
che indossa uno strano copricapo che lo avvicina sinistramente a
Dracula ) - si inoltrano in un bosco, simbolo evidente ed anche
molto efficace delle forze della natura da cui il puro ariano trae la
forza e la sua legittimazione al dominio. Al di degli
innumerevoli simboli di cui è cosparso il video ( la donna arciere
dei primi frame, che il la retorico a quanto segue, una specie di
Diana cacciatrice che ci richiama alla nozione nietzschiana della
spietatezza e al tempo stesso della feroce bellezza della vita, alla
cascata in cui l’acqua invece di scendere sale, simbolo del tempo
che torna indietro e quindi dell’eterno ritorno sempre
nietzschiano , o sul versante di una simbologia nazionale più
propriamente slovena, come, per esempio, i cervi) e delle parole
della canzone che richiamano alle nozioni nazionalsocialistiche di
terra, sangue, popolo, tradizione, etc. , quello che colpisce
maggiormente ( e delizia anche da un punto di vista estetico) è la
perfetta fusione fra l’estremamente coinvolgente marcia ,
cadenzata al suono di tamburi e accompagnata da squillanti suoni
di tromba, e l’espressione estatica dei giovani nazisti che immersi
nella natura e guidati dal loro leader col copricapo alla Dracula
elevano a squarciagola il loro inno alla vita, “Life is life”, appunto.
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Se l’obiettivo era dimostrare che l’estetica nazionalsocialista
qualora impiegata per fini artistici possa raggiungere le vette del
sublime, allora questo obiettivo è stato raggiunto ( peraltro, non
c’era bisogno dei Laibach per saperlo, basti pensare a Leni
Riefensthal, su cui torneremo in seguito, e a questo proposito
veramente risibili e bacchettone ci paiono le considerazioni della
Sontag (1980) ) . E se il proposito era conseguentemente
dimostrare che dal male assoluto nazionalsocialista bisogna trarre
l’insegnamento che da questo baratro va salvato l’entusiasmo che
esso sapeva suscitare, per poi indirizzarlo verso finalità non
totalitarie, siamo in presenza di una lettura certamente non triviale
della vicenda della Germania nazista, sicuramente
avanguardistica per i mezzi con cui è stata raggiunta, l’impiego a
fini artistici dei tropi nazionalsocialisti per l’indottrinamento di
massa , sfidando così coraggiosamente il maggiore tabù espressivo
post seconda guerra mondiale che vuole messo al bando, se non
per fini puramente storiografici, qualsiasi riferimento al
nazionalsocialismo ( al confronto fanno veramente ridere, quando
non fanno pena, le goffe e stanche provocazioni delle pretese
odierne avanguardie: vedi la “merda di artista” in scatola,
epigonale, sciatto e disgustoso - ma in fondo innocuo - richiamo
di un ormai esangue e ripetitivo surrealismo o le insignificanti
performance di un Beuys, che più della critica d’arte avrebbero
dovuto richiamare l’attenzione degli psichiatria ed altre simili
mirabilia…).
Sia come sia i Laibach sono stati a più riprese accusati di essere
fascisti e questo faceva certamente parte del loro piano di
provocazione ( “Life is life”, è solo il più famoso video dell’intera
produzione del gruppo: in altri simili, anche se meno popolari, le
canzoni vengono cantate in tedesco e ogni riferimento è
puramente non casuale ). Ma certamente faceva molto meno parte
del loro piano di provocazione che, grazie alle nuove possibilità
date dall’informatica per dilatare l’espressività e l’esibizionismo
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di massa - leggi U Tube - “Life is life” fosse posta come
sottofondo per un video composto da materiale tratto direttamente
dal Triumph des Willens di Leni Riefenstahl, commissionato da
Hitler alla cineasta tedesca per celebrare la definitiva vittoria del
nazionalsocialismo in Germania .
Cliccando su http://it.youtube.com/watch?v=vVHq0gViMLU

davanti ai nostri occhi si snoda un video musicale in
cui nella prima parte le bellissime immagini girate da Leni
Riefenstahl sul congresso di Norimberga del partito nazista
traggono una ancor più potente suggestione dalle note di “Life is
life”2. Varrebbe poco a questo punto affermare che siamo in
presenza di un’operazione che nulla ha a che spartire con gli
originari intenti demistificatori e/o di approfondimento del
fenomeno totalitario che sono propri dei Laibach. Se dal punto di
vista politico siamo in presenza di una flagrante crassa apologia
nazista, dal punto di vista estetico è proprio questa sfacciata
apologia nazista a rendere ancora più inquietante il risultato
estetico che non solo è pienamente raggiunto ma che si dimostra
ancor più inquietante proprio in ragione del degradato messaggio
che si presta espressamente di veicolare. Si è quindi di fronte ad
una resa dei conti in cui siamo richiamati alla nostra responsabilità
morale e all’impossibilità, almeno per quanto riguarda l’uso di
estetiche totalitarie, di scindere la forma dai contenuti ? Siamo
quindi in presenza del disvelamento del significato intimo del
progetto dei Laibach ( e degli altri che qui di seguito tratteremo) ,
un orrido sguardo di Medusa in cui il totalitarismo non significa
solo fittizia attribuzione, attraverso mere tecniche di
indottrinamento e di ripetizione del messaggio, di un valore
estetico a ciò che apparentemente sembrerebbe la sua radicale
antitesi ma anche, e soprattutto, che questo indottrinamento deve
2 Nella seconda parte, invece, per cercare di evitare al video accuse di neonazismo
vengono mostrate le devastazioni sulla Germania del secondo conflitto mondiale.
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unirsi simbioticamente a solide ed indiscusse basi estetiche per
risultare fino in fondo convincente e vitale ?
Siamo, in altre parole, di fronte al lato tragico di queste nuove
avanguardie dell’era digital-telematica, le quali in virtù del
cyberspazio in cui si trovano ad operare, sono ineluttabilmente
trascinate - volenti o non - a dilatare enormemente le possibilità
delle avanguardie storiche, le quali non potevano certo contare - e
del resto non l’avrebbero nemmeno voluto, se non altro per
ragioni puramente elitarie - sulla generazione telematica di
un’avanguardia di massa, la quale se certamente mette
radicalmente in crisi la postmoderna afasia narrativa lo fa a tutto
rischio del ricadere in una ancor più pericolosa afasia totalitaria.
Un nuovo fascismo cibernetico quindi come l’inaccettabile pegno
della possibilità di rompere con le logiche della fine della storia?
Prima di cercare di rispondere forse è più opportuno continuare il
nostro viaggio nella rete.
Il gruppo tedesco dei Rammstein non nasce con le stesse
pretese avanguardistiche dei Laibach. I Rammstein non si
propongono di demistificare l’ideologia totalitaria nazista e
quando dai vari intervistatori viene fatto loro notare che la loro
musica e la loro pubblica immagine costituiscono un diretto
richiamo al nazismo, la loro risposta è che questo è un totale
travisamento, suggerito dal fatto che essi sono tedeschi e che come
tali traggono ispirazione dalla tradizione tedesca dalla quale
proviene, anche se come un figlio indesiderato, anche il nazismo.
Nell’identificare i Rammstein come nazisti saremmo quindi in
presenza del classico fraintendimento che, più o meno in buona
fede, vorrebbe fare di ogni tedesco un nazionalsocialista. Non ci
rimane quindi che compiere la solita verifica.
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All’indirizzo http://it.youtube.com/watch?v=eZrLn9HhhjQ

possiamo accedere al video ufficiale della canzone
“Stripped dei Rammstein. Come nel caso di “Life is life” dei
Laibach, si tratta di una cover essendo “Stripped” un pezzo
originariamente dei Depeche Mode. E come nel caso dei Labaich
anche questa cover è immensamente superiore all’originale.
Mentre nei Depeche Mode abbiamo un esempio di pop elettronico
stanco e ripetitivo, dopo la la “cura” Rammstein la ripetitività
della melodia, l’incalzare del ritmo ( e la straordinaria voce
cavernosa del leader del gruppo Till Lindemann, che ricorre
anche a tecniche operistiche ) lo rendono uno dei motivi più
coinvolgenti ( ed orecchiabili ) che siano mai apparsi sulla scena
della pop music. Inoltre, le immagini del video ufficiale sono tratte
- e da chi altri se no - da Olympia della solita Leni Riefenstahl.
L’abbinamento fra la sublime esaltazione cinematografica dei
perfetti corpi “ariani” di Olympia con la straordinaria
interpretazione di “Stripped” dei Rammstein e di Till Lindemann
rappresenta forse la più perfetta rappresentazione dell’ideologia
nazista della superiorità della razza tedesca, una rappresentazione
tanto più pericolosa quanto più veicolata attraverso un’estetica di
grande valore ( e in questo caso anche non immediatamente
revulsiva, necessitando le immagini di Olympia, al contrario delle
due versioni video di “Life is life” anche un buon livello
culturale per essere decrittate).
Dove invece non è proprio necessario un buon livello culturale per
comprendere che ci si trova di fronte ad una diretta apologia del
nazismo è nella versione “improved fan video”di “Stripped”
(secondo la definizione dataci da U Tube stesso). Ora la versione
“migliorata” dei fan dei Rammstein apporta profondi cambiamenti
nel video (la nuova versione all’indirizzo
http://it.youtube.com/watch?v=YcGJFvaQM0s
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
). Pur rimanendo in parte il materiale
tratto da Olympia , questo viene intercalato con filmati e foto
propagandistiche naziste ( adunate di massa, discorsi di Hitler,
etc.) e mentre il video ufficiale dei Rammstein terminava con un
tripudio di perfetti corpi umani in movimento ( che può costituire
anche un astuto riferimento all’idea della supremazia razziale ma
che molto più semplicisticamente può essere interpretato come un
riferimento all’eternità dell’ideale olimpico in quanto gli ultimi
frame sono costituiti da una dissolvenza di questi corpi con le
eterne rovine del Partenone, una dissimulazione probabilmente
molto sottile per sventare le accuse di filonazismo) , nella versione
migliorata il video termina con una bandiera con la svastica che
viene bruciata su un falò e un busto integro di Hitler posto su un
cumulo di macerie della Berlino in fiamme ( siamo di nuovo,
evidentemente, di fronte ad un depistaggio: apparentemente queste
due immagini starebbero a significare la sconfitta totale del
nazismo, ma in realtà la svastica che arde richiama potentemente
l’idea della Fenice mentre il busto integro sul cumulo di macerie
sta a significare che nonostante l’avverso destino rimangono
intatte le possibilità di un ritorno, eterno possibilmente) . Ed anche
in questo caso, ritornano le medesime considerazioni fatte a
proposito dei Laibach : alla banalizzazione del messaggio politico
apportato nel video alterato dai fan non corrisponde un
abbassamento del livello estetico. In altre parole e ripetendoci.
L’estetizzazione operata dall’avanguardia originale non subisce il
minimo degrado quando questa viene in contatto ed assimilata
dalla più vasta cerchia della fruizione internettiana. (Anche nel
caso in specie dei Rammstein, che immettendo nel circolo del
Web materiale del III Reich ma non palesemente nazista riescono
ad operare un’esaltazione del totalitarismo tedesco ed innescano la
risposta di alcuni loro fan nazisti che producono un video
politicamente inaccettabile ma esteticamente comunque di grande
valore).
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Ma dove l’esaltazione del nazismo raggiunge livelli di
intensissima fascinazione l’abbiamo col video non ufficiale dei fan
dei Rammstein dove le immagini commentano la canzone “Reise
Reise” ( all’indirizzo http://it.youtube.com/watch?v=HdCJzfi3dY4

). “Reise Reise” è una metafora della intrinseca
violenza della vita umana e descrive il drammatico incontro di un
pescatore con una grossa preda che viene trafitta dall’arpione. In
questo video non ufficiale, la magistrale ed intensissima
interpretazione di Till Lindemann , che ininterrottamente
scandisce il ritornello “Reise Reise”, fa da tappeto musicale alle
immagini tratte dal Triumph des Willens di Leni Riefenstahl. Si
tratta probabilmente del più abile video di propaganda nazista mai
prodotto. Perfetta la fusione fra le immagini e le parole della
canzone, che proprio per la loro valenza metaforica sulla tragicità
della vita si adattano benissimo a fare da commento alla tragica
esperienza nazista ( anche se questo destino finale non compare
nelle immagini, che anzi esaltano il nazismo nel momento del suo
trionfo, è presente nel video un latente senso da
Götterdämmerung della Germania nazista, solo che questo per i
fanatici nazisti viene visto non come una fine ma come un
momento di un eterno ritorno, vedi la svastica-fenice di cui si è già
detto). E perfetto anche il tono epico della musica di “Reise Reise”
che conferisce alle immagini di Leni Riefenstahl la degna ( o
indegna se si vuole) colonna sonora. Reise Reise” , insomma
come la più chiara rappresentazione del momento in cui
l’intensificazione del messaggio originario estetizzante ed
avanguardistico si muta, ad opera di un’elite di fruitori, in
fascismo cibernetico tout court, nel quale avviene un degrado
della valenza metaforica, tramutandosi in crassa propaganda, ma
dove questo degrado non ingenera una decomposizione del
risultato estetico globale ma semmai un suo innalzamento. Anche
se solo a livello virtuale, siamo così forse in presenza al grado
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ultimo e definitivo dell’estetizzazione della politica, dove non solo
il messaggio politico totalitario per essere trasmesso e recepito
con successo deve rivestirsi di forme accattivanti e/o
sessualmente sadomasochistiche (Sontag 1980 ) ma dove
condizione ineludibile per la sua esistenza e trasmissione è che
questo messaggio totalitario divenga esso stesso effettivamente
momento estetico. Va da che questa nuova estetizzazione della
politica rispetto a quella attuata dai regimi fascisti e nazisti
accanto ad analogie presenta due sostanziali differenze. La prima,
la più scontata, è che siamo in presenza di fenomeni che si
svolgono all’interno del Web e non sulla carne viva di reali
comunità politiche ( anche se sarebbe veramente ingenuo
presupporre una soluzione di continuità fra mondo virtuale e
quello reale ed anzi tutte le evidenze empiriche ci suggeriscono un
sempre più veloce lievitare del primo a discapito del secondo). La
seconda, molto meno scontata, che mentre le estetizzazioni
politiche che videro la loro realizzazione nell’Italia fascista e nella
Germania nazista avevano sullo sfondo il trauma della
rivoluzione bolscevica ma non certo un tramonto delle ideologie,
questa seconda estetizzazione politica sorge in un contesto
postmoderno di fine delle ideologie e della metanarrative. E’
ovvio che attribuire a questa intensificata estetizzazione un
carattere al di del ributtante messaggio politico che veicola
di resistenza al carattere afasico della postmodernità oppure
giudicarla esclusivamente come l’unica possibilità residuale di
diffusione del fascismo e del nazismo, non potendosi sul piano
storico concreto altro che registrare la dimensione di “fine della
civiltà” che accompagnarono il fascismo e il nazismo, è questione
che così impostata può essere difficilmente sciolta e destinata a
rimanere insoluta. Più utile a noi sembra piuttosto rispondere alla
domanda che informa tutto il nostro discorso e cioè se è possibile
che un’estetica che è comunque espressione di una ideologia di
fine di civiltà possa essere annoverata fra le risposte possibili
all’afasia del postmoderno.
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Una prima risposta ci può venire allargando l’orizzonte oltre ai
casi da cui è partito il nostro discorso. Se con i Laibach e con i
Rammstein3 siamo in presenza di un fenomeno dove alla ricchezza
della proposta estetica originaria fa riscontro un risposta sul Web
altrettanto , se non di più, esteticamente valida ed
indissolubilmente però legata ad un profondissimo degrado del
messaggio, cosa che ci suggerisce l’idea che la forza eversiva
rispetto alla postmodernità consista in una sorta di drammatica
narrazione dello scacco cui viene sottoposto il momento estetico
qualora s’insignorisca totalmente del momento politico, gettare lo
sguardo sui numerosi gruppi fascio-rock porta sicuramente a
ridimensionare l’ipotesi formulata originariamente del Web come
luogo di espressione e/o creazione di avanguardie.
L’ esempio classico è la canzone “Tomorrow Belongs to Me” dal
film Cabaret. La canzone, il cui titolo è stato non letteralmente
tradotto in italiano con “Il domani appartiene a noi” ( un “a noi”
molto significativo ed anche il resto della traduzione pur
rispettando lo spirito agreste-reazionario” dell’originale in
inglese se ne discosta ancor più profondamente: per il testo
integrale della versione italiana vedi in esergo) ebbe in origine
3 Medesime considerazioni come quelle svolte sui Laibach e i Rammstein si
potrebbero svolgere riguardo a molti altri gruppi del
genere industrial-fascist-rock. Rinviamo per tutti ai Ministry e al video della
canzone “The Land of Rape and Honey” , dove al seguente indirizzo
http://it.youtube.com/watch?v=HJCHFCvMCC8

al ritmo
incessante del ritornello “Sieg Heil” ripetuto senza sosta, possiamo leggere una
feroce critica alla società statunitense mentre all’indirizzo
http://it.youtube.com/watch?v=8bvgy08jPf4
 
,
accanto a scene di un concerto dei Ministry dove con intenti irrisori viene sventolata
la bandiera statunitense, compaiono Hitler e scene della conquista al potere del
nazismo. L’intendo probabile è paragonare il Terzo Reich agli Stati Uniti . Il tutto è
veramente molto godibile ma, come al solito, permane l’impressione di una apologia
del nazifascismo.
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l’effetto perverso di costare il taglio di una scena del film. In
questa scena veniva rappresentato un biondo giovanotto della
Hitlerjugend che ad una festa in un giardino di una birreria intona
“Tomorrow Belongs to Me” immediatamente seguito da quasi
tutti i presenti ( i pochi che non cantano dovevano rappresentare,
evidentemente, coloro che non intendevano piegarsi al nazismo) .
Il culmine viene raggiunto quando il giovane alza il braccio destro
fasciato dalla svastica e questo nell’intenzione dello sceneggiatore
avrebbe dovuto significare il pericolo del totalitarismo che si serve
anche di mezzi apparentemente innocenti, come può essere una
canzone sulle bellezze della natura quale “Tomorrow Belongs to
Me”, per insinuarsi nella mente degli uomini ( la scena tagliata
può essere vista su http://it.youtube.com/watch?v=ZMVql9RLP34
) . Ora, come si dice, delle buone intenzioni sono
lastricate le strade che portano all’inferno e la scena fu
originariamente tagliata perchè giudicata una involontaria
apologia del nazismo ( e se si deve deprecare qualsiasi forma di
censura, c’è da dire che veramente proprio grazie all’orecchiabilità
dell’aria e all’abilità con cui era stata realizzata e recitata, questa
scena funziona, in effetti, più come propaganda che come
condanna del nazismo). Ma le cose, purtroppo, non finiscono qui.
Probabilmente grazie a questa goffa censura ed anche al fatto che
la scena tagliata era, in effetti, una potente apologia del nazismo,
ora ovunque a livello planetario non c’è gruppo neofascista o
neonazista degno di questo nome che dilettandosi nel cyberhate
( il termine internazionalmente adottato per definire i gruppi
estremisti di destra che impiegano il Web per diffondere l’odio
razziale o, comunque, l’idea della supremazia della razza bianca,
versione ariana , ovviamente ) non metta in rete un suo video e
una sua versione di “Tomorrow Belongs to Me”, che così per la
destra estrema ha assunto il rango di una specie di inno
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internazionale . Ma in questo caso il risultato estetico è veramente
deprimente4.
Cliccando su http://it.youtube.com/watch?v=1hSpWo50gj0
%!%!&'()*$!"#$!
vediamo un video di
Saga, cantante svedese di estrema destra, dove sulle note di
“Tomorrow Belongs to Me” scorrono immagini di svastiche, soli
4 Solo per quanto riguarda l’Italia, segnaliamo alcuni gruppi e cantanti fascisti che si
sono cimentati con questa canzone : http://it.youtube.com/watch?v=vLYVoBGLqy8
+,*-(.$!"$
è l’indirizzo presso il quale si assiste
all’interpretazione del “Domani appartiene a noi” della cantante di origini abruzzesi
Aufidena ( già Viking), al secolo Francesca Ortolani. Il lato notevole – o buffo – della
prova canora di Aufidena-Viking-Francesca Ortolani è che essa, pur proclamandosi
una accanita sostenitrice dell’identità nazionale italiana ( e, ovviamente, odiatrice in
servizio permanente effettivo degli ebrei ) , in realtà non canta “Il domani appartiene
a noi” ma l’originale inglese “Tomorrow belongs to me”. Dalla “vichinga” d’
Abruzzo dagli occhi e capelli scuri - ragazza dai tratti mediterranei e che nell’aspetto
potrebbe anche essere scambiata per una tipica bella figliola d’Israele - passiamo ad
un altro momento involontariamente comico delle interpretazioni italiane del
“Domani appartiene a noi”. All’indirizzo http://it.youtube.com/watch?v=I3fCd2kL_-o
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La compagnia dell’anello, questo il pomposo nome tolkieniano della band in
questione, strimpella allegramente e fascisticamente sul “ruscello che sgorga lassù/e
umile a valle scompar […] l’usura ed il pugno [che] noi vincerem [ …] La terra dei
Padri, la Fede immortal” ed altre commoventi e profonde insulsaggini. L’aspetto
divertente di tutta la faccenda, è che sul palco è stato invitato anche Gianni
Alemanno, componente di spicco di quell’Alleanza Nazionale il cui sforzo principale
è stato fin dal Congresso di Fiuggi accreditarsi come forza responsabile di destra che
ha tagliato tutti i ponti col fascismo. E il suo volto comicamente contratto, che
tradisce una folle paura che alla fine della canzone si prorompa in un “a noi” ( che per
sua fortuna , se stiamo al video, pare non sia stato pronunziato ) , vale più di mille
discorsi su un passato che ancora non è definitivamente passato. Terminiamo con un
gruppo che potremmo definire fascio-rock-futurista e non per segnalare l’ennesima
ridicola interpretazione del “Domani appartiene a noi” ma semplicemente perché
questa band si distacca indubbiamente dal punto di vista qualitativo dal panorama
italiano della musica identitaria ( questa la definizione che l’odierna musica giovanile
che si ispira al fascismo e dintorni vuole darsi). Si abbia allora la compiacenza di
cliccare su http://it.youtube.com/watch?v=bpNYH5wl4E8
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che sorgono, fiori di prato, bimbi e neonati biondissimi ed altre
delizie naturalistiche del genere. Per quanto sia impossibile risalire
ad una responsabilità diretta della cantante in questo prodotto
(opera di suoi fan neonazisti, ovviamente) si deve rilevare accanto
ad un eccellente fattura formale del video ( girato con lo stile dello
spot televisivo del Mulino Bianco ed anche dal punto di vista della
tecnica della dissolvenza e della qualità delle immagini si capisce
che dietro c’è una mano professionale ), una totale mancanza di
contenuti estetici ( a meno che per contenuti estetici non si intenda
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e sul bel filmato tratto dall’Istituto Luce sulla
Trasvolata Atlantica del Decennale di Italo Balbo, si può ascoltare “Idrovolante”. Le
parole di “Idrovolante” di pretta ispirazione futurista indicano una terribile spinta
verso una forma di libertà anarchicamente intesa e realizzata in una spasmodica e
disperata simbiosi con la macchina volante. La musica proprio nel suo rifuggire da
facili linee melodiche sottolinea meravigliosamente il frustrato e mai definitivamente
concluso rapporto uomo-macchina.. Il tutto è di una bellezza lancinante e
commovente e Marinetti avrebbe sicuramente approvato. Come avrebbe sicuramente
approvato “Squadristi”( http://it.youtube.com/watch?v=mB0rx5Yklqc
2+
). Bellissime e torve foto di squadristi con un testo le cui
sprezzanti ed inaccettabili parole sulla superiorità fisica e morale degli squadristi
vengono scandite con finissima abilità da crooner. Musica ancora una volta che nulla
concede alla facile orecchiabilità ma che nel suo lento e ritmato svolgersi trasmette
semmai, sovrapponendosi alle foto degli squadristi, un premeditato senso di paura e
sgomento. Il video è a cura del Blocco Studentesco Castelli Romani Production. A
parte l’ilarità che può suscitare questa denominazione che può richiamare lo
strampalato linguaggio ed atteggiamento di Ferdinando Mericoni ( Alberto Sordi), il
protagonista di Un Americano a Roma (“Yogurt, marmellata, mostarda… questa è
roba che magnano l’americani, roba sana, sostanziosa… ammazza che zozzeria!!”,
recita con impareggiabile vis comica Alberto Sordi: un atteggiamento molto poco
consono agli emuli odierni degli squadristi), su questo Blocco Studentesco Castelli
Romani Production c’è – nel bene e nel male – assai poco da ridere, dimostrando di
essere in possesso, oltre ad un’ideologia del tutto inaccettabile, di finissimi strumenti
culturali in cui l’incontro fra estetica e politica ( cioè l’estetizzazione della politica)
costituisce uno dei momenti più rilevanti.
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la bellezza “ariana” dei soggetti rappresentati ma qui non siamo
dalle parti di Olympia di Leni Riefenstahl ma , appunto, del
Mulino Bianco5).
Un altro esempio di totale fallimento estetico ( ma sarebbe meglio
dire di totale disinteresse per l’estetica), l’abbiamo sempre con la
cantante Saga in “The Snow Fell”. Cliccando su
http://it.youtube.com/watch?v=UGxP-KtqN1M
!"3$
,
a presentazione del video compare nel primo frame la scritta “Do
not be fooled into thinking Hitler was the Beast/Stalin was pure
Scum/Wake up & get educated by fact not fiction”. Parte il video
e la musica fa da sottofondo ad immagini dove si alternano fiocchi
di neve che mestamente e pietosamente coprono le tragedie del
popolo russo travolto dal comunismo, immagini di bianchissimi e
purissimi unicorni, di Stalin con su scritto “Beast”, di un Hitler
che saluta nazisticamente ( da interpretare ovviamente come un
simbolo positivo ), il tutto in un guazzabuglio poco omogeneo di
riferimenti e simboli che se riescono a rendere ben chiaro come la
pensa l’autore del video6 (che, ovviamente, anche in questo caso è
impossibile collegare direttamente a Saga, anche se a pensar male
– come disse un certo italiano si fa peccato ma ci si azzecca… )
denotano pure una totale insipienza estetica.
5 Il Mulino Bianco è una linea di prodotti da forno di una nota casa italiana del settore
agroalimentare. Gli spot di questi prodotti sono molto noti presso la vasta platea dei
consumatori ed hanno attirato anche l’attenzione degli addetti lavori alla pubblicità
per il loro stile teso a creare attorno ai prodotti del Mulino Bianco un’aura di mondo
incantato e fatato in cui la natura è sempre e comunque buona e mai matrigna.
L’espressione “Mulino Bianco” sta quindi ad indicare atteggiamenti e forme
espressive e/o retoriche in cui l’ottimismo non è minimamente basato sulla realtà dei
fatti.
6
E per non correre il rischio che il messaggio non sia stato chiaro, il video termina
con lo scorrimento di queste deliranti parole : Communism is deadly/National
socialism is security/ Safe and prosperity for the aryan race/ Thats [sic] why the jews
want it abolished/ NS can never be killed/ And is on the rise again/ Learn the truth
about national socialism today/ For the sake of the white race.”
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Si potrebbe continuare con esempi sempre di Saga e di una
miriade di altri gruppi di cyberhaters che sembrerebbero
palesemente smentire l’ ipotesi di partenza che nelle Web sussiste
la possibilità che l’estetizzazione della politica uscita sconfitta dal
secondo conflitto mondiale possa comunque e per vie oblique
produrre quegli anticorpi che possano costituire una prima risposta
alla fine di ogni telos del postmoderno. Con Saga e con moltissimi
altri gruppi neonazisti di cyberhaters siamo in presenza anche dal
punto di vista estetico all’implosione e collassamento totale di
ogni spazio per controbattere alla fine delle narrazioni della
storia. “Il futuro appartiene a noi” risolto pianamente in chiave
razzistica e di esaltazione dello stato totalitario, e che costituisce
l’intimo convincimento dei cyberhaters e degli autentici
neofascisti, nel suo facile ed ottuso ottimismo costituisce la
radicale antitesi del tragico rapporto fra avanguardie estetizzanti
ed il rischio del disvelamento/inveramento del messaggio politico
fascista intimamente connesso con la sua intensificazione estetica
da parte delle avanguardie internettiane dei suoi fruitori . Se
quest’ ultimo caso può assumere la forma della “tragedia”,
potenzialmente in grado di rimettere in moto la storia ( non
diciamo verso le “magnifiche sorti e progressive” ma più
modestamente verso la possibilità che ci siano ancora storie da
raccontare, e non necessariamente a lieto fine), lo scenario affine
al primo è lo stupido e pornografico film già visto del
totalitarismo del Novecento. Dipenderà dalla nostra capacità di
ascolto ed anche nel sapere accettare la drammaticità della storia
se sapremo evitare di ricadere negli errori di un passato che in
fondo non è mai passato e se ci saremo meritati di udire nuovi
racconti.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via
Bazzocchi, Claudio ( 2003): La balcanizzazione dello sviluppo.
Nuove guerre, società civile e retorica umanitaria nei Balcani
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and the Postsocialist Condition. Politicized Art Under Late
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Sontag, Susan ( 1980): Under the Sign of Saturn. New York:
Farrar-Straus-Giroux.
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SEMINÁRIO INTERNACIONAL DA RIBEIRA GRANDE – AÇORES
Autoritarismos, Totalitarismos e Respostas Democráticas
ideologias, programas e práticas
Universidade dos Açores
Ribeira Grande 26 a 29 de Novembro de 2008
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MASSIMO MORIGI
NEUE SLOWENISCHE KUNST ( NSK ) ET AL. : LA
CYBERAVANGUARDIA FRA FASCISMO E
TRAGEDIA ( AESTHETICA FASCISTICA VI E
PRIMI ELEMENTI PER UNA TEORIA
NEOREPUBBLICANA )
*Massimo Morigi è Dottorando presso la FLUC.
I was around when Jesus Christ
had his moment of doubt and pain
And I made damn sure that Pilate
washed his hands, and sealed his fate
Pleased to meet you, hope you guess my name
But what's puzzling you is the nature of my game
I stuck around St. Petersburg,
when I saw it was time for a change
I killed the Car and his ministers
Anastasia screamed in vain
I rode a tank, held a General's rank
When the Blitzkreig raged,
and the bodies stank
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Pleased to meet you, hope you guess my name
But what's puzzling you is the nature of my game
I watched with glee while your kings and queens
fought for ten decades, for the God they made
Shouted out "Who killed the Kennedys?"
When after all... it was you and me
Let me please introduce myself
I'm a man of wealth and taste
And I lay traps for troubadours
Who get killed before they reach Bombay
Pleased to meet you, hope you guess my name
But what's puzzling you is the nature of my game
Pleased to meet you, hope you guess my name
But what's puzzling you is the nature of my game
Just as every cop is a criminal
and all the sinners saints
As heads is tails, just call me Lucifer
'Cause I'm in need of some restraint!
So if you meet me, have some courtesy
Have some sympathy, and some taste
Use all your well-learned politics
Or I'll lay your soul to waste!
Laibach, Sympathy For the Devil (Time for a Change )
La tradizione degli oppressi ci insegna che lo
“stato di emergenza” in cui viviamo è la
regola. Dobbiamo giungere ad un concetto
di storia che corrisponda a questo fatto.
Avremo allora di fronte , come nostro
compito, la creazione del vero stato di
emergenza; e ciò migliorerà la nostra
posizione nella lotta contro il fascismo.
Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia
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Per quanto nella sua Teoria estetica arrivasse ad affermare che “L’esperienza artistica
è messa in azione dalla contraddizione scaturita dall’immanenza della sua sfera
estetica e allo stesso tempo dall’ideologia che l’indebolisce”7 e che quindi per il suo
romantico attaccamento ad una visione di assoluta autonomia dell’arte Adorno abbia
dovuto scontare il pressoché unanime giudizio di aver pagato un pesantissimo tributo
all’idealismo operando tuttalpiù su questo un travestimento con una fraseologia
marxista, certamente, al di là delle sue affermazioni che avevano il difetto di mettere
chiaramente le carte in tavola, non si può certo dire che l’idealismo - anche se en
travesti - del massimo esponente della scuola di Francoforte non abbia avuto
proseliti, anche se pur loro farebbero ( o avrebbero fatto ) carte false pur di negare
questa imbarazzante genealogia. Che ad Adorno proprio in virtù di questo ingenuo
indebitamento idealistico fosse completamente preclusa la comprensione delle
avanguardie artistiche del Novecento è un dato di fatto che di per non dovrebbe
destare soverchia sorpresa, né, al di della filologia filosofica, troppo interesse ( se
non per l’industria culturale che sui francofortesi ha sempre molto marciato ).
Purtroppo, rubricare l’incomprensione delle avanguardie solo come il combinato
disposto di concreti interessi del mondo cultural-editoriale e di insensibilità
idealistica verso le categorie della modernità, non ci porta certo a comprendere il
motivo per cui anche quegli autori che espressamente si sono sempre tenuti distanti
dalle categorie idealistiche hanno ritenuto ( e ritengono ) l’avanguardia come un
momento ormai definitivamente storicizzato.
Al di delle profonde differenze che infatti le animano, tutte le maggiori
interpretazioni delle avanguardie novecentesche ( i.e. Guillermo della Torre, Renato
Poggioli, Hans Magnus Enzensberger, Peter Bürger, Alfredo Giuliani, Edoardo
Sanguineti, Elio Pagliarani, Angelo Guglielmi, Fausto Curi, Ferruccio Masini, Adrian
Marino, Gregor Gazda, Stefan Morawski ) non fanno in pratica che ripetere la triste
litania della finis avanguardiae. Certamente se ci si limita a considerare le
avanguardie storiche, quelle che operarono essenzialmente a cavallo fra le due guerre
mondiali e poi le loro stracche prosecuzioni del secondo dopoguerra, in cui delle
avanguardie storiche si mantenevano ( e si mantengono tuttora ) solo i procedimenti
formali ma per abbandonare completamente l’anelito alla Gesamtkunstwerk e
all’inveramento del momento estetico in quello politico, non si potrebbe non
concludere che fra le macerie della modernità verso le quali l’Angelus Novus di
Benjamin è impotente ad operare una sua restitutio ad integrum, l’avanguardia
costituisce uno dei ruderi più tristi e totalmente inadatti a fornire un sia pur minimo
rifugio. Non importa siano neo o trans o qualsiasi altra aggettivazione si voglia
apporre davanti al nome e non importa che tutte queste neo, trans od altro
avanguardie continuino a praticare l’uso dell’allegoria, del montaggio e della
citazione, se ci si limitasse a considerare solamente le esperienze estetiche
sviluppatesi nell’ambito delle società industriali avanzate post seconda guerra
7 T. Adorno, Aesthetic Theory, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997, p.349.
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mondiale la conclusione, se proprio non si vuole cadere in un’interpretazione
idealistica all’Adorno dove l’arte non viene data per morta unicamente per il fatto che
si presenta come antitesi e momento totalmente altro rispetto all’ideologia e alla
struttura economica ( e a questo punto sarebbe più onesto ricorrere ad Hegel che già
molto prima in una sorta di avanguardismo rovesciato ed ante litteram dava l’arte per
morta, per lui assorbita dalla filosofia ma noi potremmo dire dal trionfare del
disincanto del mondo ), si sarebbe comunque costretti ad accettare, de facto, il
trionfo della postmodernità, appunto caratterizzata dall’ uso spregiudicato della
tradizione reinterpretata attraverso l’allegoria, la citazione e il montaggio ma in cui
questi procedimenti sono ridotti a puro gioco combinatorio dove, al contrario delle
avanguardie storiche, è completamente assente l’eroica tensione costruttiva verso la
Gesamtkunstwerk e ad una mutazione antropologica che investi direttamente anche il
politico.
Ma come si era suggerito, questa impostazione denunzia innanzitutto una sorta di
fallacia interpretativa intorno all’intima teleologia dell’avanguardia, in cui i
procedimenti espressivo-linguistici altro non sono appunto che gli strumenti per
operare un rovesciamento del disincanto del mondo capitalistico, un rovesciamento
che, ne fossero più o meno consapevoli, è stato l’autentico primum movens di tutti i
movimenti di protesta politica ed esistenziale che hanno costantemente turbato la
stabilizzazione capitalistica del secondo dopoguerra. E un rovesciamento che, come
nelle avanguardie storiche - anche se con minore consapevolezza teorica ma come in
una sorta di tacita eredità culturale - sempre attraverso i principali procedimenti
creativi delle avanguardie storiche questi movimenti continuavano ( e continuano ) a
perseguire.
Mentre in alcuni autori questo legame non viene rilevato limitandosi le loro
interpretazioni a denunziare l’esaurimento delle avanguardie, per una sorta di ironia
della storia il giudizio liquidatorio verso questi movimenti di protesta viene dato da
colui che meglio di ogni altro ha saputo individuare questo nesso. Scrive infatti Hans
Magnus Enzensberger nelle Aporie dell’avanguardia:
E’ a Jack Keruac, il supremo comandante della setta Beatnik, canonizzato dai suoi
partigiani come il Santo Jack, che noi dobbiamo la seguente massima, centrale nel suo
“Credo”, insieme ad una indispensabile lista di infallibili procedimenti per lo scrittore : “ Sii
sempre idiotamente distratto”. Questa frase può essere il motto per la corrente produzione
di massa del tachismo, dell’arte informale, dell’acting painting, della poesia concreta, come
pure di una larga parte della musica più recente.8
Se si è ad un passo dall’ “arte degenerata”, possiamo almeno dire che in
Enzensberger, a differenza ad esempio che in Bürger,9 tutto proteso a formulare una
“teoria dell’avanguardia” risolta unicamente nella critica alle avanguardie storiche e
8 H. M. Enzensberger, “The Aporias of the Avant-Garde”, in P. Rahv (ed.), Modern Occasions,
New York, The Noonday Press, 1966, p. 89.
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nell’assorbimento della loro carica antisistema nell’ambito dell’organizzazione
commerciale e museale del mondo artistico, emerge chiaramente il legame fra
avanguardia e le spinte radicali di critica al sistema. Che poi queste “aporie
dell’avanguardia” siano viste come una sorta di “distruzione della ragione” questo fa
parte dell’incapacità del marxismo classico ( ma sarebbe meglio dire scolastico ) di
capire il cambiamento e della sua conseguente deriva verso il totalitarismo. Ma oltre
al mancato abbinamento fra avanguardia e spinte antisistema ( Bürger ) o quando
questo viene effettuato ad una sua valutazione di fondo negativa ( Enzensberger ), le
classiche teorie dell’avanguardia soffrono di un elementare quanto fondamentale
problema, il soffermarsi cioè unicamente sul mondo occidentale sviluppato retto da
forme di stato liberaldemocratiche o presunte tali. E così fino a non molto tempo fa
venivano totalmente ignorate tutte quelle esperienze avanguardistiche che nascevano
al di fuori dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti d’America ( considerando
tuttalpiù distrattamente la sua diretta dépendance dell’America latina ). Hic sunt
leones quindi per l’Africa e l’ Asia e scarsa e superficiale conoscenza anche per
quanto avveniva oltrecortina, per l’ apparentemente ovvia ma anche del tutto errata
considerazione che col realismo socialista non poteva svilupparsi alcuna forma d’arte
diversa da quella consacrata ed autorizzata dallo stato . Se per quanto riguarda il
cosiddetto “ Terzo mondo” sarebbero una buona volta da intraprendere, sul modello
degli studi giuspubblicistici, serie ed approfondite indagini in merito al vicendevole
scambio e recezione col “Primo mondo” dei modelli estetici e delle dinamiche della
sociabilità dei gruppi dediti alla produzione artistica ( e il fatto che ciò non sia
avvenuto è da attribuire al persistere di una superficiale mentalità coloniale ed anche
al fatto che, almeno, fino a non molto tempo addietro, i cosiddetti studi culturalistici e
di genere avevano una profondissima idiosincrasia verso tutto quello che avesse il pur
minimo sentore di discorso estetico ), per quanto riguarda l’est Europa si doveva, da
un lato, fare i conti con la narrazione liberaldemocratica per la quale tutto quanto
veniva prodotto nei sistemi comunisti o era viziato all’origine per aver dovuto
sottostare al diktat totalitario o doveva essere unicamente catalogato come dissenso,
dissolvendo in questa comoda definizione tutte le varie soggettività e particolarità
artistiche, e per l’altro, si doveva scontare lo storico ritardo della sinistra marxista per
la quale affrontare l’argomento era, per farla breve, come parlare di corda in casa
dell’impiccato. E invece, per una sorta di eterogenesi dei fini, possiamo affermare che
se ci fu un luogo nelle coordinate spazio-temporali novencentesche dove
l’avanguardia ha saputo mantenere vive le sue possibilità di trasmissione e
reviviscenza dopo la caduta del muro di Berlino e attraverso ( come vedremo ) le reti
9 P. Bürger, Theory of The Avant-Garde, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1984. Oltre
al saggio di Bürger, l’altro testo assolutamente seminale per una “teoria” dell’ avanguardia è R.
Poggioli, The Theory of the Avant-Garde, Cambridge, Mass., Belknap, 1968. Secondo Poggioli l’
essenza dell’avanguardia poggia sulla resistenza dell’artista all’alienazione capitalistica. Le note
che seguiranno, pur facendo proprie le considerazioni di Adorno e Poggioli intorno all’ineludibilità
del problema strutturale nel determinare il fenomeno arte e/o avanguardia, intendono indicare la
possibilità di un rapporto autenticamente dialettico fra arte e momento strutturale, dove fra arte e il
“resto del mondo” deve esistere ed esiste veramente la possibilità di un reciproco scambio ed
influenza.
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digital-cibernetiche questo è il mondo dell’ex socialismo reale. Gesamtkunstwerk
Stalin,10 oltre il titolo del saggio nel quale Boris Groys magistralmente mette in
rilievo che le avanguardie russe non lamentavano al sistema comunista la poca libertà
ma la troppa libertà ( in quanto questa contrastava con la spinta totalitaria di
rimodellamento ab imis della società su cui puntavano queste avanguardie ), sono due
parole il cui potere euristico si spinge ben al di della descrizione della situazione
sovietica e in generale dei paesi comunisti e che ci forniscono anche la chiave
interpretativa fondamentale del fenomeno avanguardistico e della produzione
culturale più in generale: e cioè che storicamente ed empiricamente parlando le
liberaldemocrazie mature non sono ambienti propizi per lo sviluppo di grandi imprese
spirituali. E comunque, oltre alla mera evidenza che fu proprio in Unione Sovietica
che l’avanguardia giocò la sua ultima carta di rimodellamento del mondo e oltre
anche all’ altra ovvia ( ma non secondaria ) considerazione che l’arte nell’ex URSS e
nel mondo sovietizzato fu sottratta coattivamente all’influenza, anch’essa totalitaria
almeno nelle sue conseguenze, del “libero” mercato dell’arte ( possiamo paragonare
la committenza dei partiti comunisti a quella praticata un tempo dalla Chiesa
cattolico-romana, con tutti gli svantaggi ma anche i vantaggi che questa situazione
comportava ), ciò che deve essere con forza sottolineata è la profonda affinità fra la
mentalità totalitaria politicamente intesa e la mentalità totalitaria nel campo dell’arte
d’avanguardia. Non fu legato a circostanze fortuite che i futuristi abbiano svolto
un’azione parallela e di collaborazione/concorrenza col fascismo e non fu un caso che
i suprematisti russi fossero, in un certo senso, più comunisti e totalitari di Stalin.
Questo non significa, come vorrebbe una certa facile vulgata ma non ancora del tutto
estinta, che i futuristi fossero fascisti e i suprematisti comunisti. Molto più
semplicemente significa che le avanguardie vollero politicamente sposare sempre
soluzioni politiche totalitarie11 perchè in queste vedevano la traduzione nella sfera
pubblica dei loro ideali estetici. ( E in realtà i futuristi e i suprematisti potevano
essere indifferentemente fascisti e comunisti, se non contemporaneamente sia l’uno
che l’altro. Insomma, tutto fuorché liberali ).
Come si sa, il “gioco” a chi era più totalitario alla fine risultò vincente per i
totalitarismo politico e nel campo delle arti plastiche e figurative la sola arte
consentita fu quella del realismo socialista. Ma questo non significa che una volta
abbattuto il muro di Berlino, il disgregarsi del sistema sovietico comportasse una
omologazione ai modelli occidentali. E se questa mancata omologazione a livello
politico ha significato la fallita democratizzazione che sarebbe perfettamente inutile
deprecare ( sarebbero semmai da spedire con pratica accelerata nella famosa
10 B. Groys, Gesamtkunstwerk Stalin. Die gespaltene Kultur in der Sowjetunion, München-Wien,
Carl Hanser Verlag, 1988 ( traduzione in italiano: Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale,
Milano, 1992 ).
11 Id., “More Total than Totalitarianism”, in Irwin (ed.), Kapital, Ljubljana, 1991; A. Hewitt,
Fascist Modernism: Aesthetics, Politics, and the Avant-Garde, Stanford, Stanford University
Press, 1993.
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pattumiera della storia tutti coloro che avevano predetto “la fine della storia”12 stessa,
beotamente risolta nell’ oppiaceo e definitivo sistema liberaldemocratico ), a livello
artistico ha permesso il riemergere di quelle avanguardie che erano state
ferocemente represse dal totalitarismo comunista ma la cui persecuzione non aveva
significato tanto una loro cancellazione ma bensì una loro ibernazione nelle profonde
e oscure caverne delle società del socialismo reale.13
La Neue Slowenische Kunst ( NSK ) è l’esempio più convincente che la finis
avanguardiae è stato un luogo comune della critica che, perlomeno, doveva rimanere
confinato all’ Europa occidentale, e che questo errato giudizio non può essere salvato
nemmeno ricorrendo all’adozione di un modello pluralistico a livello topologico
(cioè affermando che, comunque, anche se limitata al mondo non comunista, la
consunzione dell’esperienza storica di queste avanguardie aveva assunto un carattere
più generale perché la loro fine era stata accompagnata anche dell’ esaurimento non
solo sul piano pratico ma soprattutto teorico delle possibilità di un’espressione
avanguardistica ), perché la NSK, fin dalla sua nascita agli inizi degli anni ’80, si
propone non più solo come avanguardia ma molto più concretamente come
retroavanguardia. Non si pensi di essere di fronte ad un giochino di parole, come
quello inventato ad uso commerciale dai galleristi e dai critici d’arte, tipo post o
transavanguardia. Se nel caso della post, della trans, o quant’altro si possa escogitare
come specchietto per le allodole, si è di fronte, nella migliore delle ipotesi, a fiacche e
svirilizzate fotocopie di quelle che furono le vere avanguardie ( e ad un qualche
nuovo nome più o meno accattivante per ragioni di marketing del sistema artistico-
commerciale occidentale si doveva pur ricorrere ), la definizione retro apposta
davanti ad avanguardia significa nel caso dell’ NSK una duplice consapevolezza,
teorica intorno al suo modus operandi e storica riguardo la sua responsabilità nei
riguardi della società. Teorica innanzitutto perché se è vero come è vero che la
caratteristica principale delle avanguardie del Novecento è stata la citabilità di tutti
gli stili che le avevano precedute, questa libertà ed anche cinismo verso la tradizione
deve riguardare, secondo la NSK, da un lato anche l’avanguardia storica stessa e
dall’altro, non solo il realismo socialista ma anche l’arte totalitaria fascista e nazista e
questo per l’assoluta buona ragione che sia il realismo socialista che l’arte totalitaria
fascista e nazista frutto altro non furono della Gesamtkunstwerk politico-totalitaria
profondamente affine all’arte totale delle avanguardie. Una applicazione pratica di
12 F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, New York, Free Press, 1992.
13 Per le forme di resistenza delle avanguardie durante i lunghissimi anni che in URSS e
nell’Europa sovietizzata fu vigente la dura lex del realismo socialista, fondamentale Inke Arns,
Subversive Affirmation. On Mimesis as Strategy of Resistance. Attualmente su
http://www.projects.v2.nl/~arns/Texts/Media/Arns-Sasse-EAM-final.pdf . Per quanto invece
riguarda la condizione dell’arte nell’ultimo scorcio di vita del socialismo reale, fondamentale A.
Erjavec, J. Martin, B. Groys, Postmodernism and the Postsocialist Condition. Politicized Art under
Late Socialism, Berkeley, University of California Press, 2003.
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questo retroprincipio della citabilità rivolto anche - se non soprattutto - alla negatività
storica del nazismo e del socialismo reale fu da parte della sezione arti grafiche della
NSK ( la NSK è composta da varie sezioni, i cui nomi ed anche le suddivisioni stesse
sono cambiati nel corso del tempo ma che nel loro insieme, pur mantenendo ciascuna
di queste ripartizioni una loro autonomia, intendono rappresentare unitariamente
l’intera gamma di tutte le forme di espressione artistica), la produzione nel 1987 di un
manifesto in occasione della celebrazione annuale della giornata della gioventù
iugoslava. Il manifesto vinse il primo premio divenendo l’immagine propagandistica
ufficiale dei festeggiamenti e, con grande sfortuna della nomenklatura politica e
culturale che l’aveva scelto, subito dopo si scoprì che il manifesto altro non era che
una copia quasi letterale di un manifesto nazista degli anni Trenta. In pratica, il tiro
mancino dell’NSK consistè nel riprodurre tale e quale un baldo ed atletico giovanotto
ariano che a torso nudo e in posa plastica esaltava “le magnifiche sorti e
progressive” del Reich millenario, sostituendo la bandiera tedesca che questo reggeva
con la bandiera della federazione iugoslava e l’aquila nazista in cima all’asta con una
pacifica colomba. Ne seguì un enorme scandalo, poco mancò che i componenti della
NSK non venissero incarcerati ma il triste epilogo della storia ( almeno per coloro
che ancora credevano nella vitalità della federazione iugoslava ) fu che il 1987 fu
l’ultimo anno che questi festeggiamenti vennero celebrati. Quale il senso
dell’operazione montata in quell’ormai lontano 1987 dalla NSK? Sul piano
meramente artistico, l’ integrale applicazione del retroprincipio che si basa sulla
piena citabilità di ogni frammento espressivo del passato ( in questo caso dell’arte
nazista che con sottile e feroce ironia la NSK dimostrava essere del tutto affine alla
retorica figurativa comunista ). Ma se si fosse trattato solo di questo, tanto di cappello
al coraggio dimostrato - si rischiavano anni di carcere per fortuna poi non scontati in
ragione della incombente dissoluzione della federazione jugoslava - ma si sarebbe
trattato solo di un’operazione di demistificazione dell’autoritarismo comunista
dell’establishment iugoslavo giocando sull’ignoranza dell’arte nazista da parte della
commissione giudicatrice del concorso. Una sorta, insomma, di goliardata, che, se
anche molto rischiosa, non avrebbe colpito al cuore l’immaginario dell’ideologia
comunista. Si trattava, invece, di qualcosa di altro e di ben diverso. Se da un lato, al
livello più esteriore, gli autori del manifesto intendevano segnalare una affinità
iconografica fra l’arte comunista e quella nazista, dall’altro, alla luce del
retroprincipio che impone la piena e reale citabilità di ogni stile artistico, compresi
quelli totalitari, essi non volevano ironicamente indicare che l’arte nazista e quella
comunista fossero per le loro similitudini entrambe da condannare ma, al contrario,
in solido da salvare, o almeno da citare. Si trattava, insomma, di un “balzo di tigre”
verso il passato, solo che ora dal Jetztzeit benjaminiamo scaturiva una inquietante
monade che non univa più la rivoluzione ad un momento della storia oggetto da
sempre della mitizzazione da parte dell’ideologia rivoluzionaria di sinistra ( come ad
esempio il movimento spartachista, la Roma repubblicana, la Rivoluzione francese o
la Rivoluzione sovietica ) ma con quello che da sempre è considerato il suo
demoniaco rovescio, il fascismo ed il nazismo e , ancor peggio, ciò non al fine di
dimostrare almeno la loro comune negatività ( una analogia che in finale di partita
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della repubblica federale iugoslava poteva trovare, almeno in linea di principio, dei
sostenitori ) ma di dimostrare la piena citabilità, artistica in primo luogo ma poi anche
politica, di entrambi.
Se come dicono gli inglesi, il giudizio se un budino è buono lo si può formulare solo
assaggiandolo e se adottando per analogia lo stesso principio empiristico il giudizio
sulla bontà di un’avanguardia è la sua dimostrata capacità di operare provocazioni
non solo esteriori ma anche, e soprattutto, nell’ inespresso inconscio dei nostri sogni
ed incubi, l’operazione che fu condotta col manifesto dall’ NSK era stato il segnale
della resurrezione dell’avanguardia. Ma a questo punto sorgeva un problema, sulla
cui soluzione - o, come vedremo, sulla sua perenne non soluzione - si giocava tutta la
credibilità della NSK. Riguardo infatti alla responsabilità verso la società, un punto
fondamentale era - in quanto da vera avanguardia la NSK non poteva rifugiarsi nella
turris eburnea dell’arte per l’ arte o, se vogliamo, nella provocazione per la
provocazione - come metterla col fatto che il retroprincipio rischiava di trasformarsi
nella piena citabilità del nazismo ?, e cioè per parlare con un chiaro linguaggio
politico, che il retroprincipio sembrava presentarsi come il più pericoloso tentativo -
perché portato avanti con strumenti espressivi raffinatissimi che non erano certo
quelli dei naziskin e del revivalismo nazifascista - di rendere rispettabile e riproporre
il più bestiale totalitarismo del Novecento?
Come s’è detto la soluzione fu appunto una non soluzione ma non nel senso che si
volle evitare di affrontare il problema ( ciò avrebbe avuto l’inevitabile risultato di
rubricare la NSK o come una larvata apologia del nazifascismo o al più, come una
bizzarra manifestazione di nazicomunismo il cui interesse in sede teorica sarebbe
semmai stato simile a quello che in campo bioetico si potrebbe avere intorno al
problema se sia più o meno lecito mantenere in vita in laboratorio i bacilli del vaiolo,
la vexata quaestio, cioè, se si sarebbe dovuta tollerare l’ esistenza dell’ennesimo
gruppuscolo neonazifascista ) ma nel senso che la NSK adottò ogni azione possibile
perché il problema fosse al contempo pubblicamente all’ordine del giorno ( e chiarito
in senso antifascista ) ma rimanesse costantemente nella pratica artistica
ambiguamente irrisolto. Concretamente cosa significò questo ? Da una parte significò
che l’ NSK non indietreggiò di un solo millimetro nell’ impiego delle fonti estetiche
comuniste e nazifasciste ( con provocatorie contaminazioni nelle arti figurative, negli
happening teatrali ed anche nella musica pop, di cui parleremo fra breve ), che
continuarono ad essere assemblate in una inestricabile fantasmagoria nazicomunista.
Ma dall’altra significò anche disvelare apertis verbis la strategia comunicativa del
gruppo, il cui scopo non era assolutamente compiere sgangherate ed orribili apologie
ma dimostrare la pericolosità del totalitarismo, evidenziata però non attraverso la sua
ridicolizzazione ma facendo emergere quegli elementi di fascinazione che
costituiscono l’appeal delle estetiche e delle politiche totalitarie. Si trattava insomma,
di una sorta di inversione ad U della strategia del teatro epico brechtiano dello
straniamento dove all’emersione del problema attuata attraverso una
rappresentazione distaccata che impedisce l’immedesimazione e che è quindi
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propedeutica ad un approccio razionale e al conseguente superamento del problema,
si preferisce, al contrario che in Brecth, una integrale identificazione con lo stesso,
anzi, per usare la terminologia della NSK, una sovraidentificazione.
Il compito di rendere nota questa strategia del gruppo fu affidata all’oggi notissimo
filosofo politico Slavoj Zizek, il quale in numerosi suoi interventi pubblici
(interviste, saggi, articoli ) volle dimostrare perché la NSK non ha nulla a che spartire
con il fascismo ma è da considerarsi invece come uno dei suoi più sottili e temibili
avversari.14 A tutt’oggi non sappiamo se ci fu un espresso incarico affidatogli dalla
NSK o se questo fu un ruolo che Zizek volle ritagliarsi di sua iniziativa e poi
accettato dalla NSK ( Zizek non appartiene infatti strictu sensu alla organizzazione e
le interviste rilasciate dai membri del gruppo e dallo stesso Zizek non aiutano a
risolvere il problema ), quello che invece importa è che attraverso Zizek il
retroprincipio della citabilità anche dell’incitabile acquista una sua cittadinanza nel
mondo del polically correct in combinazione con il principio della
sovraidentificazione, la cui applicazione permette d’esperire e rivivere i momenti
estetici del totalitarismo che sono poi propedeutici ad una successiva presa di
distanza dallo stesso.
Questa è la teoria su cui si può più essere o meno d’accordo ( noi la riteniamo
convincente sia per quanto riguarda le “buone” intenzioni politiche del gruppo sia dal
punto di vista teorico ) ma che, un po’ come il fantoccio benjaminiamo del
materialismo storico che necessita per vincere del nano della teologia che si nasconde
sotto il tavolo, ha bisogno per essere funzionante di un elemento che la teoria non può
né dire renderci visibile: e cioè che, pena la riduzione della sovraidentificazione
totalitaria in una grottesca, disgustosa ed inutile mascherata nazifascista, la
sovraidentificazione deve poter comprendere il rischio concreto che si trasformi in
reale apologia di quello che sinceramente si voleva dominare e sconfiggere.
Abbiamo detto che NSK è una sigla che comprende diversi gruppi avanguardistici
presenti nei vari settori delle arti e uniti dai medesimi ideali e procedimenti artistici.
Ora, la sezione della NSK dove il principio della sovraidentificazione ha avuto più
larga applicazione ed anche il maggior successo ed impatto di pubblico è il gruppo
musicale Laibach. Abbiamo altrove già parlato dei Laibach15 e basti dire che la loro
musica appartiene al genere industrial, un industrial, nel caso specifico di questa band
slovena, in cui la parte ritmica sovente richiama marce o motivi militari e la
costruzione armonica riecheggia la lezione wagneriana. Se considerati dal punto di
14 A. Monroe ( foreword by Slavoj Zizek ), Interrogation Machine. Laibach and NSK, Cambridge,
Mass., MIT Press, 2005. Tuttavia possiamo considerare l’intervento più importante di Zizek intorno
al problema Laibach-fascismo Everything Provokes Fascism ( an Interview with Slavoj Zizek),
reperibile presso l’indirizzo internet
http://sitemaker.umich.edu/herscher/files/everything_provokes_fascism.pdf .
15 M. Morigi, S. Salmi, Cyberfascismus: il domani appartiene a noi ( Aesthetica Fascistica IV ),
relazione presentata al V Colóquio Internacional Tradição e Modernidade no Mundo Ibero-
Americano. Rio de Janeiro 28-30 de maio de 2008.
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vista di una propria produzione originale, il gruppo potrebbe esibire un palmarès
particolarmente deludente, in quanto i suoi maggiori successi sono delle cover, che
nella terminologia dell’industria dicografica significa semplicemente il rifacimento di
pezzi musicali composti da altri. Poco varrebbe a questo punto rammentare che uno
dei principali moduli espressivi delle avanguardie è la disinvolta citazione degli stili
ed anche dei concreti prodotti artistici del passato e ancor meno varrebbe, per quanto
riguarda la NSK, giustificarsi col retroprincipio, che, abbiamo già detto, significa
portare il principio della citabilità alle sue estreme ( e pericolose ) conseguenze, se in
tutti questi anni le proposte musicali dei Laibach non fossero risultate altro che pigri
rifacimenti di cose fatte da altri. Ma il punto è proprio questo. Molto spesso non solo
le cover dei Laibach risultano molto migliori degli originali ( già solo questo potrebbe
essere un ottimo risultato ma al quale si potrebbe replicare con la considerazione che
chi viene dopo anche se nano vede più lontano di un gigante perchè si arrampica sulla
sua testa ) ma queste cover riescono letteralmente a capovolgere, fornendo un’intensa
coloritura fascista e marziale, lo spirito originale dei pezzi, che in ossequio alla
cultura pop sono sempre inni ad una visione non gerarchizzata della società nella
quale siano bandite l’autorità, la guerra e la repressione sociale. Uno dei più perfetti
esempi di totale rovesciamento del senso musicale e culturale operato dai Laibach è
“Live is Life” degli Opus. Per farla breve, nella versione originale degli Opus, “Live
is Life” era una stucchevole canzoncella reggae-pop che esaltava un facile carpe
diem. Nelle mani dei Laibach, come altrove abbiamo già sottolineato,16 “Life is Life”
( il nuovo titolo leggermente modificato dal gruppo ) diviene un terribilmente
coinvolgente inno ai peggiori miti fascisti e nazionalsocialisti. Le nuove parole del
testo non parlano più della bellezza del “lasciarsi andare” ma esaltano la terra, il
sangue, il popolo e la sublimità dell’eterno ritorno ( cosa importa infatti se il
nazifascismo è stato l’incarnazione del male ed è stato alla fine sconfitto se ha saputo
sviluppare attimi ineffabili di eternità, questo è l’evidente messaggio ) e la musica
che accompagna, pur rispettando quasi alla lettera l’originale degli Opus, in virtù di
una geniale orchestrazione ( uso dei fiati anziché delle chitarre e percussioni
bandistiche al posto della batteria ) si trasforma in una delle più coinvolgenti marce
militari che siano mai state udite. Se quello che si cercava ( ed era proprio quello ) era
una sovraindentificazione con i miti nazifascisti, il risultato è stato pienamente
raggiunto perché anche a costo di vergognarsene ( ed anzi il proposito era proprio
far provare un profondo piacere estetico verso una cosa che razionalmente si
disprezza ), dopo aver ascoltato “Life is life” non si può, a meno di non essere
insinceri verso stessi, non rimanere assolutamente affascinati da questa
fantasmagoria nazifascista.17 Un altro esempio di pari forza degli stravolgimenti
16 Ibidem.
17 Anche Susan Sontag se ne sarebbe vergognata ma, contrariamente alle nostre tesi, avrebbe risolto
il problema dicendo che “Life is Life” non è altro che un monumento al peggior kitsch neonazista.
Per un visione del pensiero della Sontag in merito sul rapporto fra arte, nazismo e fascinazione che
questo può indurre anche in chi non lo è ma anche su quanto una impostazione rigidamente
politically correct ( quella della Sontag per intenderci), pur animata dalle migliori intenzioni, sia
“propedeutica” a sviluppare un bel paio di paraocchi, cfr. il celeberrimo e, ahinoi, troppo celebrato
S. Sontag, Under the Sign of Saturn, New York, Farrar-Straus-Giroux, 1980.
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operati dai Labach è “Geburt einer Nation”, che è la cover di “One Vision” dei
Queen. Se c’ è da dire che a ben guardare già in “One Vision” si potevano cogliere
vischiosi grani di spirito fascista ( ma non ci risulta che nessuna critica musicologica
abbia evidenziato che la pulsione per un pensiero unico di “One Vision” contenesse
germi di autoritarismo e questo comunque la dice lunga sul livello culturale dell’
odierno stato dell’arte nel campo ), “Geburt einer Nation” risulta essere la prima
esplicita ( e terribilmente coinvolgente) messa in musica degli “ideali” del
totalitarismo nazista sfruttando ( e stravolgendo) gli stilemi espressivi ed ideologici
del pop ( mentre “Life is Life” esaltava piuttosto i miti - terra, sangue, popolo,
eterno ritorno - che precedono tale ideologia ). Per non dilungarci nell’esegesi che in
parte riprenderebbe quanto già detto per “Life is Life” basterà accennare al fatto che
il titolo “Geburt einer Nation” è un’espressa citazione del celebre film “Birth of a
Nation” di Griffith e per rimanere in tema Stati Uniti quel che più importa è che le
prime note di “Geburt” sono un diretto calco, con una ironicamente spiazzante
riscrittura metallica e marziale, dell’attacco di The Star Spangled Banner”, l’inno
nazionale degli USA. Segue poi senza soluzione di continuità l’usuale e riuscitissimo
stravolgimento, in questo caso di “One Vision”, che ancora una volta ci fa capire a
quale livello di fantasmagoria nazifascista possa precipitarci la cinica, spietata e
geniale applicazione dei procedimenti del retroprincipio e della sovraidentificazione.
La data di pubblicazione sia di “Life is Life” che di “Geburt einer Nation” è il 1987 e
al periodo furono tratti da questi due brani anche due videomusicali ( e che vedevano
i membri del gruppo Laibach in pose e abbigliamenti marziali e richiamanti
l’immaginario nazionalsocialista ), di cui tralasciamo la descrizione tranne che per
dire che contribuivano assai incisivamente alla narrativa nazionalsocialista già molto
efficacemente ( e terribilmente ) svolta dalla musica.18 Fin qui tutto bene ( o tutto
male se si vuole ma noi siamo convinti tutto bene perchè il totalitarismo fu
l’espressione di profondissime e radicate pulsioni e nessuno meglio delle produzioni
artistiche della NSK e della musica dei Laibach è capace di farcelo comprendere ) ma
i problemi posti dalla sovraidentificazione erano destinati a riproporsi decuplicati con
il tumultuoso sviluppo del Web. E per quanto riguarda in particolare i Laibach,
accade ora che le loro produzioni videomusicali che se certamente non riservate ad
una ristretta élite non per questo si può proprio dire che raggiunsero la vastissima
popolarità cui possono attingere i tradizionali gruppi pop, sono state immesse nella
rete, - in particolare tramite il website You Tube - e sono così alla portata di tutti,
anche di coloro che con l’avanguardia, il retroprincipio e la sovraidentificazione non
hanno apparentemente nulla da spartire. Se da un certo punto di vista il non essere a
conoscenza di questi principi - o esserne estranei culturalmente - porta l’esperimento
estetico all’espressione massima della sua entelechia, in quanto come abbiamo già
rilevato il gioco della sovraidentificazione non ha senso, pena la sua trasformazione
in una stupida mascherata nazifascista, se non si materializzasse concretamente il
18 Cliccando su http://www.youtube.com/watch?gl=IT&hl=it&v=1YE_j0xIsJA
si può prendere visione del videomuisicale di “Geburt einer Nation”. Per il videomusicale di “Life
is Life” si veda nota successiva.
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rischio effettivo e reale che il significante totalitario estratto dal suo contesto storico
anziché operare un disvelamento del suo significato totalitario operi con esso un
ricongiungimento, se non esistesse cioè il rischio che la sovraidentificazione
totalitaria si traducesse in una autentica adesione al totalitarismo, questo rischio,
quando la platea di fruizione era in fondo abbastanza ridotta ed anche
sufficientemente informata, era da un lato remoto ed anche qualora in qualche
sporadico caso si fosse manifestato ( come talora è accaduto ), costituiva comunque
una vicenda di ridotte dimensioni e di relativamente facile gestione politica. Con
l’immissione dei videomusicali dei Laibach nella rete il discorso cambia
radicalmente. E che cambi radicalmente non è solo un nostro timore suscitato
dall’immenso allargamento della platea di ascolto ma anche dal fatto che questi
videomusicali possono prima essere modificati dai gruppi cyberfascisti che popolano
la rete per poi venire di nuovo immessi nel Web. Come è accaduto per esempio per
“Life is Life” dove nella nuova versione immessa in You Tube non dai Laibach ma
da alcuni utenti nazisti della rete, le immagini originali di riferimento ( già cariche di
forte simbologia nazifascista ma che esigevano comunque uno sforzo interpretativo e
quindi ponevano un limite alla sovraidentificazione ) sono state sostituite con le
bellissime immagini del “Triunph des Willens” di Leni Riefensthal. Bellissime ma
anche dannatamente ed espressamente naziste, attraverso la visione delle quali si può
concludere senza tema di essere stati precipitosi che in questo caso la
sovraidentificazione è sfociata nell’apologia e che quindi “Life is Life” è stata fatta
propria o da qualcuno che si è convinto, non conoscendo le basi teoriche del gruppo
avanguardistico NSK e dei Laibach, della bontà del nazismo attraverso la visione
ingenua del loro video originale o da qualcuno che già nazista ha ritenuto comunque
il videomusicale “Life is Life” un buon punto di partenza per propagandare il suo
infame credo. E il problema in tutta questa vicenda non consiste tanto nello
stravolgimento delle intenzioni dei Laibach ma piuttosto nel fatto che, per assurdo, è
avvenuto il suo esatto contrario in quanto, in primo luogo, non ci si può certo
appellare ad un concetto di autorialità in quanto il principio avanguardistico della
(retro)citazione tende a dissolvere e il concetto di opera originale e della personalità
individuale dell’artista su cui poggiava la vecchia concezione dell’ opera d’arte
( “Life is Life” è tutto fuorché un originale e se c’è una cosa che manca a questo
prodotto artistico è l’auraticità ) e, in secondo luogo, è tutto da dimostrare che questa
mutazione maligna della sovraidentificazione in un’accettazione tout court del
nazismo sia un effetto non desiderato dai Laibach19 e questo non perché essi siano
nazisti ma per la semplice buona ragione ( anche se dura da accettare ) che la
segnalazione degli eterni pericoli della mentalità totalitaria risulta estremamente
difficile, se non impossibile, se alla fine questo totalitarismo sprofonda
nell’inconscio e abbandona apparentemente del tutto il campo del politico.
19 Il video originale “Life is Life” dei Laibach è reperibile presso l’ indirizzo
http://www.youtube.com/watch?v=JbB1s7TZUQk mentre “Life is Life” ad opera dei fan nazisti
della band slovena e dopo la “cura” Leni Riefensthal è sempre presso You Tube cliccando su http://
www.youtube.com/watch?gl=IT&hl=it&v=vVHq0gViMLU .
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Se le cose stanno come le abbiamo ipotizzate è allora di tutta evidenza che il Web
rappresenta per il gruppo Laibach una sorta di definitiva ed ultima frontiera sulla
quale collocare il loro progetto avanguardistico e aggiungendo una ultima e
sostanziale differenza rispetto alle avanguardie storiche del Novecento, le quali,
limitate dalla tecnologia del tempo proponevano le loro ricerche espressive a ristrette
élite e superando sempre con grande difficoltà il ristretto limes della nazione. Ora, di
fatto, il progetto avanguardistico dei Laibach si mostra all’immenso transnazionale
mare magum degli utenti del Web. Questo sovvertimento dei luoghi di fruizione del
messaggio avanguardistico reimposta nei Laibach radicalmente i termini
dell’estetizzazione della politica ( l’obiettivo ultimo delle avanguardie storiche ), che,
da obiettivo da realizzarsi in primo luogo all’interno dei confini nazionali e poi
successivamente extra moenia, trova ora la sua epifania ineluttabilmente traslata e
inverata sulle reti telematiche. Questa traslazione a sua volta origine ad una sorta
di avanguardia di secondo livello che, a differenza dei fruitori delle avanguardie
storiche, in virtù delle nuove possibilità della tecnologia informatica, opera ed
interagisce sui risultati di quella che possiamo ora chiamare l’avanguardia di primo
livello. Se nel progetto dei Laibach il Web svolge quindi l’importantissimo ruolo del
disvelamento e della riattivazione del “lato oscuro” del principio di
sovraidentificazione ( che rischiava di perdere la sua efficacia sia perché ormai
troppo conosciuto - e quindi di fatto disinnescato - ed anche perché dopo gli anni
Ottanta era avvenuta la dissoluzione del mondo totalitario comunista - non avendo
molto più senso sovraidentificarsi con una mentalità totalitaria che non trovava più i
suoi referenti politico-statali ), innescando un inedito rapporto fra un’avanguardia di
primo livello e una di secondo livello ( al di dell’inaccettabilità del messaggio, i
prodotti estetici ottenuti attraverso la citazione dei lavori “originali” dei Laibach,
sono, come abbiamo visto, anch’essi di assoluto alto livello e denunziano, da parte
dei cyberfascisti, non la conoscenza teorica ma, nella prassi, sicuramente l’ormai
consolidata intuitiva applicazione dei procedimenti tipicamente avanguardistici ), i
Laibach operano in questo modo una affascinante ( ma anche estremamente
pericolosa ) mutazione dell’originale messaggio di estetizzazione della politica, così
come era stato svolto all’inizio nell’era preinternet da questa avanguardia slovena.
Mentre i Laibach erano e sono profondamente consapevoli dei pericoli insiti nel
rapporto fra estetizzazione della politica e fascismo, è di tutta evidenza che queste
avanguardie di secondo livello intendono ripercorrere tout court, e a livello estetico
ed anche di politiche pubbliche, le esperienze totalitarie fasciste del Novecento.
Quello che perciò si può dire della odierna strategia dei Laibach riguardo al Web è
che ponendosi come cyberavanguardia di primo livello ci mettono così di fronte ad
un progetto che ha abbandonato totalmente ogni legame con una seppur minima
Aufklärung, perché si basa sull’evidente degrado morale del messaggio
avanguardistico innescato dalla sua trasmissione/reimmissione sulle reti telematiche
ma, al tempo stesso, in una sorta di estrema fedeltà al proprio mandato artistico, nel
mantenimento delle valenze estetiche di questo messaggio, che vengono comunque
recepite, e a volte anche potenziate, dalle avanguardie di secondo livello, che pur
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avevano ingenerato il suo azzerramento morale.
Questa nuova dialettica fra superidentificazione/abbassamento etico del
messaggio/innalzamento della potenza estetica rende del tutto incomparabile l’
operazione dei Laibach con quella di altre formazioni industrial presenti nel Web,
magari simili a livello di scelte di genere musicale ma in cui l’esplicito ed
inequivocabile viraggio totalitario operato attraverso i gruppi cyberfascisti non viene
assolutamente accettato ( il riferimento cade inevitabilmente sul gruppo musicale
Rammstein direttamente responsabile di videomusicali di chiara e torva - ancorché
debolmente dissimulata - ispirazione nazista, vedi il caso di “Reise Reise” dove viene
utizzato “Das Triunph des Willens” di Leni Riefenstahl o di “Stripped” dove sempre
si ricorre per il supporto d’immagine alla Riefensthal con “Olympia” ma che, quando
i supporter si permettono di mettere in rete una versione “migliorata” di “Stripped”,
ancor più apologetica dell’originale, dove accanto ad “Olympia” scorrono le
immagini della presa al potere del nazismo, per esempio il rogo dei libri - visto da
questi fan nazisti in chiave del tutto positiva - dopo non molto il video viene ritirato
per ordine, evidentemente, dei Rammstein stessi, i quali così facendo dimostrano una
notevole coda di paglia e certamente intenti poco avanguardistici ma molto
commerciali, i.e. non curandosi delle terribili conseguenze, sfruttare cinicamente i
gruppi neonazisti che infestano la Germania e l’ Europa ma, nel contempo, praticare
un’occhiuta sorveglianza sui propri videomusicali per potersi salvare dall’accusa di
essere nazionalsocialisti ed evitare così probabili boicottaggi ).20
In conclusione, l’odierno progetto dei Laibach riguardo al Web si ricollega
direttamente, più che ad un’idea costruttivistica tipica delle vecchie avanguardie
20 “Stripped” in una versione autorizzata dai Rammstein: http://www.youtube.com/watch?
v=bbUej2HRKaY e l’indirizzo You Tube che ospitava la versione “migliorata” dai fan ma rimossa
su disposizione degli stessi Rammstein: http://www.youtube.com/index?
ytsession=ZELk2n3MdkWV2Asyjlkf4Vrn7aSnyIRi88wp1QWaoVjYVN-
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yd4N5PjAB0IjLtgKtVBc7fX2olCxO-4THMn1SfWD0oPk9nk-_IoE6LQwaOIhOudat-
tzzOno2NBKlZLv2AbVshA6AhurnTM4PL6HXf-6LeHYGmeIYc6f7t3crmqR9kLY. Prima di tale
rimozione abbiamo comunque provveduto a scaricare questa versione presso il nostro Archivio
Storico Digitale Massimo Morigi-Stefano Salmi ( ASDMMSS ).
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( futurismo, suprematismo, surrealismo ) all’origine filosofica dell’avanguardia
storica, a Nietzsche e al suo amor fati, verso il quale il miglior suggello del suo
percorso filosofico ed esistenziale - e Stella Polare anche della band slovena -
potrebbe esser ben riassunto nel suo “naufragium feci, bene navigavi”. Si tratta di un
passo decisivo rispetto alle vecchie estetizzazioni politiche tipiche delle avanguardie
novecentesche, in cui il totalitarismo non veniva vissuto come incombente tragedia
ma solo come possibilità superomistica e in cui era completamente assente la
percezione della dimensione demoniaca di fine di civiltà che alla fine doveva essere
innescata da una Gesamtkunstwerk politico-estetica che senza mediazioni si volle
riversare sul corpo vivo della società. In questo modo l’azione dei Laibach continua a
mantenere anch’essa un altissimo livello di potenzialità tragiche ( come abbiamo
visto la risposta sul Web che essi suscitano da parte di gruppi cyberfascisti è
terribilmente angosciante ) ma risulta anche radicalmente sovversiva verso una piatta
stabilizzazione liberaldemocratica e la sua ideologia che ha a tutt’oggi dimenticato
ogni seppur minima genealogia con l’idea, dinamica e responsabilizzante, dell’antica
Res Publica costantemente armata e all’erta contro i pericoli esteriori ed interiori che
continuamente minacciano di dissolverla, configurandosi perciò questa azione
“totalitaristicamente” eversiva riguardo tutte le ipotesi di fine della storia e di
cessazione postmoderna delle narrative, una afasia sociale, storica e politica che, di
fatto, si presenta come la negazione più assoluta di una pubblica Vita Activa e quindi
come il peggiore dei fascismi. In questo senso l’ operato dei Laibach più che un
servizio reso al totalitarismo, come vorrebbero i loro detrattori ( secondo i quali il
gioco della sovraidentificazione sarebbe sostanzialmente scappato di mano ) si
configura, questo sul solco delle avanguardie storiche, come una “interrogation
machine”21 le cui domande e citazioni, proprio perchè inquietanti, le nostre ormai
perse e confuse liberaldemocrazie non possono certo illudersi di poter ignorare se
vogliono darsi un’estrema possibilità di ripercorrere la loro antica strada repubblicana
per ora del tutto smarrita.
Encuentros en el Sur
PODER, COMUNICACIONES Y PROPAGANDA
Sala de Juntas, Edificio Millares Carlo, Campus del Obelisco, Universidad de Las
Palmas de Gran Canaria
Desde 25-11-2009 hasta 26-11-2009
MASSIMO MORIGI
21 A. Monroe ( foreword by Slavoj Zizek), Interrogation Machine, cit.
Repvblicanismvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via
DIALETTICA DEL POSTMODERNISMO: SUI VECCHI
(E NUOVI) FASCISMI E LA FINE E (L’INIZIO) DI
VECCHIE (E NUOVE) MESSIANICHE METARRAZIONI
Indubbiamente, se non rischiasse di risultare irriguardoso per le vittime, paragonare una vicenda,
il fascismo, che fu il catalizzatore della catastrofe per antonomasia della civiltà occidentale con una
Weltanschauung, il postmodernismo, che è rimasta dopotutto confinata, anche nei momenti della
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sua maggiore fortuna, a ristretti ambiti accademici, si potrebbe ben dire con Marx che la storia si
ripete sempre due volte: “la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”.22 Ma,
nonostante l’inevitabile ritegno che ci tratterrebbe dall’accostare una tragedia che ha distrutto e
devastato milioni di vite umane con una pagliacciata che ha direttamente danneggiato solo il
cervello di un relativamente ristretto numero di intellettuali,23 parte dei quali per soprammercato,
con lo “scherzetto” del postmodernismo ha potuto lucrare su comode carriere universitarie ed anche
su una visibilità pubblica come maîtres à penser, riteniamo che l’accostamento debba essere
mantenuto, e questo non solo per la semplice buona ragione che fra fascismo ed ideologia del
postmoderno siamo in presenza di analogie che ad una analisi un po’ meno che superficiale
emergono evidenti ma perché, molto di più, il postmodernismo, oltre alla sua evidente espressività
sintomatologica dell’attuale fase postideologica, deve essere inquadrato come il più subdolo
tentativo di “rimozione” di quello che ha significato la II guerra mondiale e il fascismo che ne è
stato all’origine. In realtà, mai come in questo caso, la farsa si presenta così strettamente intrecciata
alla tragedia, una sorta di sua caricatura che per darsi importanza indossa i coturni ed atteggia la
voce ed il portamento, ma se vogliamo usare un’allegoria ancor più perspicua al nostro caso, il
postmodernismo altro non è che il nano nascosto dentro l’automa che gioca a scacchi. Con una non
piccola differenza rispetto alla prima tesi di filosofia della storia di Benjamin. Qui il nano
postmoderno è tutt’altro che infallibile (alla fine sbaglia tutte le mosse) e sarebbe stato quindi del
tutto sconsigliabile da parte del fascismo assumerne i servizi.24 Ma siccome fra i due compari più
che una sorta di collaborazione vige, ancor più di un rapporto simbiotico, un rapporto speculare
anche se mediato da uno specchio deforme riflettente distorte immagini (infatti, non c’è nessun
pensatore postmodernista, che non si sia dichiarato e probabilmente superficialmente in buona
fede – come il più fiero avversario di ogni totalitarismo, fascismo compreso ça va sans dire), questo
servizio anche se non richiesto, di fatto, è sempre stato reso.
Che la “cattiva coscienza” del postmodernismo non sia solo rilevata dalla sua presuntuosa
certificazione di morte di ogni metarrazione fatta eccezione, ovviamente, per la propria (una
affermazione che al di delle dichiarazioni di facciata antitotalitarie, lascia però in vita una sola
metanarrazione, quella postmoderna appunto. Almeno il pensiero reazionario nel rifiuto della
rivoluzione francese manteneva la barra dritta sulla trascendenza e quindi la possibilità di una
dialettica fra terreno ed ultraterreno e per il fascismo il rifiuto del mondo scaturito dall’ ’89
significava l’abbandono delle idee universalistiche ma un abbandono attuato attraverso una
dialettica almeno tutt’altro che pacifica e condivisa) ma si manifesti, anche al di fuori della sue
elucubrazioni, come un sorta di sintomo più rivelatore di mille trattati di psichiatria è del resto la
storia dei suoi fasti (e nefasti ) a rendercene chiaramente edotti. Certamente di fronte al Il n’y a
22 Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori Riuniti, 1991, p.7.
23 Richard Wolin, The seduction of unreason: the intellectual romance with fascism: from Nietzsche to postmodernism , Princeton
(N.J.), Princeton University Press, 2004; Fredric Jameson, Tardo marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica, Roma, Manifesto
Libri, 1994; Id., Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi Editore, 2007; Terry Eagleton, Le
illusioni del postmodernismo, Roma, Editori Riuniti, 1998.
24 “Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una
contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera,
poggiata su un’ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà
c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino.
Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato “materialismo
storico”. Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che
non deve farsi scorgere da nessuno.” (Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura
di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1995, p.75). Al contrario di Benjamin che per far vincere il materialismo storico voleva assumere a
servizio la piccola e brutta teologia, al nuovo fascismo rappresentato dall’attuale fase postdemocratica e turbocapitalistica può
inizialmente essere stata funzionale l’assunzione a mezzo servizio dell’ideologia postmodernistica. Ma allo scadere del Secolo breve
questa sgangherata e grottesca liaison si era già dissolta per il semplice motivo che, al contrario della teologia benjaminiana (e anche
di quella schmittiana), il postmodernismo non è piccolo e brutto ma, semplicemente, è stupido. E noi tutti sappiamo qual è sempre
stato il destino degli utili idioti…
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pas de hors-texte sostenuto con tanto zelo da Derrida, il primo istinto sarebbe quello di applicare a
questa “singolare” affermazione le stesse categorie in uso alla psicopatologia se non fosse per il
fatto che la psichiatria e la medicalizzazione del dissenso e del diverso sono state le armi principali
dei regimi totalitari –, e cioè concludere che siamo di fronte ad un interessante caso di autismo che
anziché colpire una mente infantile si è accanita contro un povero filosofo ma se poi vediamo che
questa singolare forma di nichilismo testuale viene non solo fatta propria in Francia e negli Stati
uniti da interi dipartimenti di filosofia politica ma soprattutto è funzionale a far passare
definitivamente – ma nel peggior modo, rimuovendolo – un passato che si ostina a non passare, più
che la psichiatria è bene chiamare in nostro soccorso la commedia dell’arte italiana dove Arlecchino
prova ad essere servitore di due padroni. E il primo padrone è il pensiero antilluminista e
irrazionalista che travolto dal disastroso esito della II guerra mondiale, è riuscito a sopravvivere e a
prosperare, nonostante la fine come movimenti di massa del fascismo e del nazismo, proprio
nell’ideologia postmodernista. Quando Derrida nell’ambito dei suoi assalti “decostruttivi” si scaglia
contro il “logocentrismo”, sembra proprio di veder riassunto con uno slogan di facile presa tutto il
senso della battaglia della “rivoluzione conservatrice” degli Ernst Jünger, Arthur Moeller van den
Bruck ed Ernst Niekisch, o per essere ancor più precisi, si esempla direttamente, celando la fonte,
Der Geist als Widersacher der Seele (l’intelletto nemico dell’anima) di Ludwig Klages.25 E quando
Lyotard paragona il consenso con il terrore non siamo solo di fronte ad una generica seppur
radicale svalutazione del metodo democratico – che molto difficilmente potrebbe essere avvicinata
al timore tocquevilliano per cui una democrazia in cui predomina il conformismo finisce per
comprimere de facto gli spazi di libertà dell’individuo – ma si attinge direttamente alla demonologia
antidemocratica di Carl Schmitt, il giuspubblicista fascista per il quale la decisione sta al di sopra
della norma e la decisione fondamentale costituente il politico è quella della discriminazione fra
amico e nemico. Come del resto di diretta filiazione schmittiana è la derridiana “fondazione mistica
dell’autorità”26 dove con linguaggio da decostruttore e con molto meno coraggio del giurista
principe del nazionalsocialismo vengono scimmiottate le tesi della Politische Theologie.27 Si
25 Ludwig Klages, Der Geist als Widersacher der Seele, Leipzig, Barth, 1929-1932.
26 Jacques Derrida, “ Force of Law: The ‘Mystical Foundation of Authority’ ”, Cardozo Law Review 11, 1990, pp. 920-1045.
27 Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur lehre von der Souveränität, München und Leipzig,Duncker und Humblot4
1922. E come Carl Schmitt fu un grande ed acuto cultore di Thomas Hobbes (Carl Schmitt, Der Leviathan in der Staatslehre des
Thomas Hobbes: Sinn und Fehlschlag eines politischen Symbols, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1938), similmente alla
scimmiottatura del giuspubblicista di Plettenberg si può anche leggere il tradimento di Derrida riguardo all’ autore del Leviatano
nella Bestia e il Sovrano (cfr. Jacques Derrida, Séminaire: La bête et le Souverain, Vol. I (2001-2002), a cura di Michelle Lisse,
Marie-Louise Mallet, Ginette Michaud, Paris, Éditions Galilée, 2008, trad. it. Jacques Derrida, La Bestia e il Sovrano, Vol. I (2001-
2002), Milano, Jaca Book, 2009), il titolo dell’ultimo seminario di Derrida prima della sua scomparsa e che può essere considerato
come il condensato e la chiara esplicitazione della filosofia politica di Derrida, insomma una sorta di suo tristo testamento morale:
“[…] non dovremmo mai accontentarci di dire, malgrado qualche tentazione, qualcosa come: il sociale, il politico, e in essi il valore o
l’esercizio della sovranità non sono che manifestazioni mascherate della forza animale o conflitti di forza pura, di cui la zoologia ci
rende la verità, cioè in fondo la bestialità o la barbarie o la crudeltà umana”. ( Ibidem, p. 34) “[per cui] nella sovrapposizione
metaforica delle due figure, la bestia e il sovrano, [si] intuisce l’opera di una profonda ed esistenziale coppia ontologica”. ( Ibidem,
p.38). Una scimmiottatura perché l’uscita dalla ferinità dello stato di natura avviene per Hobbes attraverso un patto che istituisce la
società e che crea il Leviatano. Hobbes quindi, pur asserendo che il punto di partenza è l’ homo homini lupus, attraverso il patto
prefigura una società ed un sovrano designati ad oltrepassare la violenza iniziale degli uomini, anche se lo scotto da pagare è la fine
della libertà ad opera del sovrano assoluto Leviatano. In Derrida, invece, siamo alla presenza di uno stato di natura al quale non c’è
alcun rimedio e dove la metafora che più si addice al sovrano assoluto non è il Leviatano di Hobbes (immagine mitico-zoologica di
origine biblica e che nell’elaborazione simbolica hobbesiana assume la forma di un enorme essere artificiale e composito, le cui unità
cellulari sono i suoi sudditi che hanno deciso di conferire la propria libertà individuale al sovrano assoluto Leviatano, una
elaborazione metaforica che parte da un mito inizialmente ferino ma che lo oltrepassa ed è, quindi, in polare antitesi con
l’interpretazione animalesca datane da Derrida e che rimanda inequivocabilmente, piuttosto, all’invincibilità terrena si passa,
infatti, dalla ferinità del biblico Leviatano al Leviatano hobbesiano, essere artificiale, composito e che non conosce eguali su questa
terra: “Dio mortale”, lo chiama Hobbes, perché è sottomesso solo al Dio immortale; invincibile, perché il suo immenso corpo nasce e
prende forma dalla somma dei corpi giuridici e politici di tutti gli uomini, i quali, tramite un patto razionale definito per accordo fra
tutti loro come irrevocabile e mai più negoziabile, hanno deliberato di spogliarsi della propria libertà individuale, possibile solo nello
stato di natura dalla quale hanno deciso di uscire, per traslarla in toto al sovrano Leviatano, la cui nascita significa l’automatica
fuoruscita dallo stato di natura e la nascita della società civile) ma la bestia tout court, cioè l’uomo del tutto privo di morale e di
vincoli sociali e culturali. Come si vede, con l’ultimo Derrida il nazismo rivela la sua piena entelechia e, se Schmitt fu sì il giurista
del nazismo ma la sua formazione di cattolico reazionario gli sbarrò la strada a diventare un intellettuale organico del regime
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potrebbe continuare su questo registro ed osservare, per esempio, che i simulacri baudrillardiani28
potrebbero anche cogliere una parte di verità sulla realtà odierna dominata dai media ma così
facendo ometteremmo fatalmente il punto che può riassumere tutto il discorso postmodernista: e
cioè che quando tutte queste varie “decostruzioni” non riescono (perché non vogliono) separare il
momento descrittivo da quello prescrittivo, quello che inevitabilmente accade è che la descrizione
della crisi della civiltà sorta dall’Illuminismo si risolve in una astoricizzata ed anacronistica
condanna senza appello dei Lumi, come del resto accade nel pensiero controrivoluzionario e
reazionario dal quale il postmodernismo trae diretta ispirazione. Il culmine di questo essere servo
del padrone chiamato pensiero antilluminista lo abbiamo però in due casi. Il primo riguarda
Heidegger. Nel tentativo di sottrarre quello che se non può essere chiamato il filosofo del nazismo
(infatti il nazismo di tutto aveva bisogno tranne che di filosofia e/o di filosofia politica e a questo
proposito si veda la misera fine che fecero, in seguito alla presa del potere del nazionalsocialismo,
molti esponenti della rivoluzione conservatrice che con sincerità e con sicuramente meno brama od
abilità per il potere dei nazisti avevano avversato con tutte le loro forze il mondo sorto dall’ ’89),
certamente fu il pensatore che meglio seppe esprimere la parte antimodernista della
Weltanschauung nazionalsocialista, l’ineffabile Derrida arriva a sostenere sulla falsariga della
Arendt (la quale però, come ben sappiamo, aveva fondati e privati motivi per prendere questo
abbaglio) che in realtà Heidegger non fu che un nazista per caso, che non aveva assolutamente
capito la vera natura del nazismo e che nel nazismo aveva creduto per troppa generosità avendo
visto il movimento come una sorta di nuovo umanesimo in grado di ricomporre le scissioni
caratteristiche della modernità e in cui il Dasein avrebbe potuto superare la sua condizione di essere
“gettato” ed esercitare così la sua decisione fondamentale di vivere nel mondo. A riprova di questa
ardita tesi, Derrida arriva ad affermare che il cambiamento del giudizio del filosofo sul nazismo fu
chiaramente formulato nella sua dottrina in seguito alla Kehre, la svolta con la quale Heidegger
inizia la sua riconversione antiumanista e in cui al Dasein viene in pratica sottratta qualsiasi azione
sul mondo per porlo unicamente in condizione di ascolto dell’essere. Ora su questa ardita
hitleriano (quello che all’inizio, il nazismo, gli era sembrato una buona rappresentazione del Katechon, il frenatore dell’Anticristo
Anticristo che tradotto nella situazione politica tedesca del tempo aveva per Schmitt preso le sembianze della rivoluzione bolscevica
–, in brevissimo tempo assunse sempre più le sembianze dell’Anticristo stesso anziché quelle del suo Katechon, e a Schmitt,
nonostante la sua ambizione di rimanere ai vertici dello stato totalitario, non riuscì l’operazione di dissimulare questa sua dimensione
cattolico-reazionaria ma intrisa di profondissime suggestioni bibliche), in Derrida questa assoluta mancanza di una qualsiasi
dimensione etica sia a livello individuale che sociale e culturale (Schmitt avrebbe giudicatoIl n’y a pas de hors-texte come una
delle moderne manifestazioni dell’Anticristo, un non esserci nulla al di fuori del testo animato degli stessi propositi di annichilimento
della dimensione storica, tradizionale e religiosa del tutto simili a quelli che ebbe il nazismo) sfocia nella zoolatrica sovrapposizione
fra bestia e sovrano, operazione ideologica del tutto analoga a quella del nazismo che unendo il più criminale darwinismo sociale alle
pseudomitologie nordiche e allo stupido e volgare mito nietzschiano della “bestia bionda” (“Al fondo di tutte queste razze scelte
non è da disconoscere l'animale da preda, la splendida bestia bionda che si aggira avida di preda e di vittoria; per questo fondo
nascosto c’è bisogno di tanto in tanto di uno sfogo, la belva deve di nuovo venir fuori, deve tornare nell’aperta natura nobiltà
romana, araba, germanica, giapponese, eroi omerici, Vichinghi scandinavi in questo bisogno sono tutte eguali tra loro. Sono le
razze aristocratiche che si sono lasciate dietro su tutte le loro orme, dovunque siano andate, il concetto di “barbaro”; anche la loro più
alta cultura attesta una consapevolezza e perfino una fierezza di ciò (per esempio quando Pericle dice ai suoi Ateniesi, nella sua
famosa orazione funebre: “il nostro ardimento si è aperto la strada in ogni terra e su ogni mare, innalzando dappertutto monumenti
imperituri nel bene e nel male”.”) (Friedrich Wilhelm Nietzsche, Genealogia della morale, a cura di Sossio Giametta, Milano, BUR,
2009, p. 75)), aveva fatto della delirante convinzione della supremazia razziale ariana il principale strumento di conquista e
mantenimento del potere, un potere totalitario in cui il Führerprinzip altro non significava che il diritto al comando assoluto ed
incontrastato da parte di quel sovrano/bestia i cui requisiti zoologici risultavano carismaticamente superiori a quelli del resto del
branco (nel caso in questione, a quelli di tutto il resto del popolo tedesco). L’unica “piccola” differenza fra il postmodernismo à la
Derrida e il nazismo è che il secondo fu un movimento politico reale mentre il primo non fu nemmeno una ideologia reale ma bensì
virtuale, visto che i suoi seguaci non furono che una sparuta schiera di intellettuali naufraghi nel disastro dell’epoca
turbocapitalistica, non abbastanza coraggiosa ed intelligente per elaborare i “fondamentali” dialettici della critica alla società
capitalistica (per questo del resto in buona compagnia anche col pensiero neoliberale) e desiderosa di reazionari ritorni ma senza
doverne pagare lo scotto (da qui l’esaltazione di una soggettività “selvaggia” che non deve passare attraverso il momento della
socialità).
28 Jean Baudrillard, Le Système des Objets: la consommation des signes, Paris, Gallimard, 1968; Id., Simulacre et simulation, Paris,
Éditions Galilée, 1981.
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ricostruzione c’è semplicemente da affermare quanto segue. Vero è che Heidegger vide
inizialmente il nazismo (e poi anche in seguito, rimanendo infatti egli fino alla fine intimamente
legato al movimento) come lo strumento politico in virtù del quale il Dasein poteva assumere la sua
decisione fondamentale di vivere nel mondo ma è altrettanto vero che questa decisione
fondamentale per Heidegger comportava sul piano ontico il diretto rifiuto del lascito storico e
filosofico dell’Illuminismo, con le conseguenze politiche che è inutile ripetere. Vero è, infine, che
con la Kehre si evidenzia uno scollamento di Heidegger dal nazismo ma questo raffreddamento non
avviene perché Heidegger si è accorto dei frutti avvelenati del nazionalsocialismo (Heidegger non si
mostrò mai toccato dalle violenze del movimento e, per quanto di sua competenza, colloborò
attivamente come rettore di Friburgo, anche tramite delazioni ad personam, alle brutali ed
anticulturali politiche hitleriane) ma perché aveva giudicato alla fine il nazionalsocialismo troppo
borghese ed umanista. E, infatti, la Kehre, fu una svolta ma una svolta antiumanista (ed
antitecnologica: se si fosse dato ascolto ad Heidegger non avremmo avuto la Germania nazista così
come la conosciamo ma una sorta di Medioevo dove però al posto del cristianesimo e della filosofia
tomistica avremmo avuto un neofeudalesimo dominato da una filosofia razzista-esistenzialista), una
svolta antiumanista ed antitecnologica che però non aveva fatto i conti con il modernismo
reazionario29 che risultò essere la componente ideologica (e la prassi) egemone all’interno del
nazismo. E giusto per la cronaca, è proprio l’Heidegger della Kehre quello che ha pesantemente
influenzato il poststrutturalismo, solo che molto più semplicemente che in Heidegger, il rifiuto di
articolare un discorso con la storia non viene più risolto tramite il Volk misticamente trascinato
dall’auscultazione dei vati che indicano imperscrutabili destini (Heidegger individuò in Hölderin
questa funzione profetica) e dall’assorta meditazione dei nuovi miti neopagani (per Heidegger i miti
generatori erano: cielo, terra, immortali, mortali) ma si affronta più radicalmente eliminando la
storia tout court (il “ non c’e niente al di fuori del testo” di Derrida).
Ora se l’essere servitore di questo padrone antilluminista nella modalità che qui si è illustrata
potrebbe avere, da un punto di vista meramente estetizzante e di rassicurazione psicologica, una sua
logica (se si possiede una Weltanschauung incentrata sull’esistenza del soggetto cartesiano, il
soggetto monadico e anelante alla salvezza della tradizione cristiana che celebra i suoi fasti e
inizio tramonto con l’idealismo e che poi con Nietzsche inizia la sua irreversibile e consapevole
decadenza,30 Heidegger potrebbe sembrare l’ultima carta da giocare per questo soggetto messo in
crisi dai processi di secolarizzazione e massificazione che, prendendo slancio con la prima
rivoluzione industriale, hanno ora assunto caratteristiche di chiaro segno totalitario ad opera delle
odierne moderne società postindustriali, turbocapitalistiche, postdemocratiche e come non si era
mai visto nella storia umana, antitradizionali – e, soprattutto, come non mai, liberticide –, mentre
invece se si propende verso soggettività multiple e decentrate non si vede proprio cosa dovremmo
farcene di tutto questo sgangherato armamentario di poeti e profeti e di questi fondi di bottiglia e
rimasugli mitico-archeologici di mortali, immortali, terra e cielo, grotteschi saldi di fine stagione
dell’irrazionalismo e della teratogenesi ideologica nazifascista), incontestabile emerge però il fatto
che attraverso il rifiuto della storia, il postmodernismo si dimostra di fatto come il più inusitato
tentativo di superare l’ancora non sanato profondissimo trauma generato dal fascismo. Un trauma
29 Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario: tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Bologna, Il
Mulino, 1988.
30 “Solo per il fatto di dimenticare quel mondo primitivo di metafore, solo per l’indurirsi e irrigidirsi della massa originaria delle
immagini sgorganti con ardente fluidità dalla facoltà originale della fantasia umana, solo per la fede invincibile che questo sole,
questa finestra, questo tavolo siano verità in sé, insomma solo per il fatto che l’uomo si dimentica come soggetto, come soggetto
artisticamente creativo, egli riesce a vivere con una certa calma, sicurezza e coerenza. Se potesse, anche solo per un momento, uscire
dalle pareti di questa prigione della fede, la sua “autocoscienza” si dissolverebbe in un lampo. Gli costa più fatica ammettere che
l’insetto o l’uccello percepiscano un tutt’altro mondo che l’uomo, e che la questione: quale delle due percezioni sia più giusta, sia del
tutto priva di senso, dato che a tal fine bisognerebbe misurare col metro della percezione giusta, cioè un metro che non esiste.”
(Friedrich Wilhelm Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Id., Verità e menzogna, a cura di Sossio Giametta,
Milano, BUR, 2006, p. 178).
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che a differenza del becero revisionismo negazionista (Faurisson, Irving & C. per intenderci, e, per
essere chiari discorso totalmente a parte – ed in larga misura positivo per De Felice ed anche in
parte diverso per Nolte, il quale però, al contrario del primo, non può essere totalmente staccato da
una strategia di occultamento e rimozione), non intende negare i dati della storia ma la storia stessa,
la possibilità, cioè, attraverso una narrazione potenzialmente condivisibile dal punto di vista
culturale e/o politico, di compiere un pubblico resoconto sulle vicende umane che abbia una minima
pretesa di approssimazione al dato événementielle e di conferimento di senso per l’uomo.
Che il rifiuto della “metafisica della presenza” (sostenere cioè da parte di Derrida e in
condivisione con gli altri pensatori postmodernisti e poststrutturalisti che la presenza di un qualcosa
al di del testo, la storia cioè, è pura metafisica), potesse presentarsi come un buon servizio reso
alla rimozione del fascismo è suggerito dal fatto che, proprio attraverso questo rifiuto “metafisico”,
emerge chiaramente la “cattiva coscienza” non solo di questi intellettuali ma di tutta una società
capitalistica che vuole dimenticare (e quindi per un certo verso è sinceramente dimentica) quello
che è stato il fascismo e il Secolo breve (ed anche il lungo Ottocento). Il problema è che qui, a
differenza del crasso cinismo e malafede dei negazionismi alla Faurisson o alla Irving, impermeabili
ai fatti perché nati e costruiti su una consapevole menzogna, la cattiva coscienza postmodernistica,
in quanto frutto di una reale e sincera sofferenza traumatica, non può che mostrarsi interiormente
inadeguata di fronte alla lezione della realtà.
E la realtà, il momento della verità, nel caso del decostruzionismo postmodernista, fu costituito
dal caso Paul de Man.
Paul de Man, di origine belga, si era trasferito negli Stati uniti nel 1948 dove aveva intrapreso la
carriera universitaria contribuendo in maniera decisiva a diffondere in quel paese il credo
poststrutturalista e decostruzionista del suo collega ed amico Jacques Derrida. Secondo de Man il
significato di un testo scritto è puramente ed unicamente riconducibile alle sue figure retoriche e, va
da sé, che per de Man nell’ermeneutica del testo vanno rigorosamente escluse sia l’intenzione
dell’autore che il contesto (sia culturale che tradizionale e storico) in cui questo testo ha avuto la
ventura di venire al mondo. Sia come sia (sia cioè quanto questa tesi possa apparire cervellotica ed
irreale), verso la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta il decostruzionismo di de Man-
Derrida raggiunse una vasta eco ed influenza, finché alla sua morte, giunta nel 1983, il mondo
accademico statunitense celebrò de Man come uno dei suoi più illustri esponenti e la rivista Yale
French Studies, nel 1985, dedicò interamente un suo numero per illustrare la sua grande influenza
pedagogica.
Ma, come si suol dire, il diavolo (il postmodernismo) fa la pentole (la decostruzione, il rifiuto
della “metafisica della presenza”) ma non i coperchi (la possibilità che la decostruzione possa
opporsi non alla storia intesa come discussione dei massimi sistemi che da questa promanerebbero
ma ad una storia con la s minuscola che è fatta dalle concretissime presenze al mondo di tanti
uomini che in questo mondo hanno sofferto ed agito). Il 1° dicembre 1987 il New York Times diede
alle stampe la scoperta di una intensa attività letteraria collaborazionista e nazista di de Man.31 Il
ricercatore Ortwin de Graef rese così noto che de Man aveva scritto sulle colonne dell’ampiamente
diffuso quotidiano belga Le Soir 169 articoli, fra recensioni di libri, di concerti e di conferenze. In
questi articoli, de Man si mostrava favorevole all’occupazione tedesca del Belgio ed esprimeva
convinzioni filonaziste. Fra questi, particolarmente imbarazzante e vergognoso risultava l’ articolo
“Le Juifs dans la littérature actuelle”, articolo che, nonostante la vergognosa indifendibilità delle
tesi antisemitiche che vi si sostenevano, causò nel 1988 il goffo tentativo “decostruttivo” e
31 Cfr. Richard Wolin, The seduction of unreason, cit., p. 10 e Id., “Deconstruction at Auschwitz: Heidegger, de Man, and the New
Revisionism”, in Labyrinths: Explorations in the Critical History of Ideas, Amherst, University of Massachusetts Press, 1995.
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difensivo di Derrida,32 evidentemente non perché la causa fosse in difendibile ma perché
bisognava comunque far qualcosa per salvare le sorti del decostruzionismo che rischiava di crollare
assieme all’annichilimento morale di uno dei suoi principali esponenti (un’altra spiegazione della
maldestra difesa di Derrida è che il supremo reggitore del decostruzionismo intendesse non tanto
difendere de Man impossibile, viste le prove addotte agli atti o il decostruzionismo ma in
definitiva volesse difendere Derrida stesso dall’accusa di criptonazismo).
Come abbiamo detto, mission impossible e come tale dovette essere consegnata alla storia.
Dopo aver cercato di ingraziarsi la benevolenza del lettore affermando che si condivideva la
costernazione ed anche l’orrore che promanavano dallo scritto di de Man (un profondissimo
imbarazzo che comunque risultava come chiara smentita della critica alla “metafisica della
presenza” perché questi sentimenti derivavano non dalla qualità meramente letteraria del testo di de
Man ma dal contesto da cui questo testo traeva forza ed ispirazione), Derrida credé di aver trovato
la chiave di volta della difesa di de Man in quanto ad un certo punto del testo era presente la
condanna all’ “antisemitismo volgare”. Ma dalla lettura del testo di de Man è del tutto chiaro che
non siamo in presenza dell