ArticlePDF Available

Abstract

Gli antropologi hanno tradizionalmente trascurato moralità e giustizia come oggetti di studio etnografico e teoria etnologica. Questa evidente lacuna è certamente peculiare nel contesto intellettuale, e non senza conseguenze, specialmente se si considera che gli antropologi del ventunesimo secolo si confrontano con problematiche contemporanee in cui la normatività in generale costituisce un’implicazione fondamentale. Tali problematiche includono l’espandersi di un movimento transnazionale dei diritti umani (soprattutto a seguito della fine della guerra fredda), le crescenti e aggressive campagne di conversione religiosa attuate in nuovi spazi e con nuove modalità nei paesi in via di sviluppo, il tentativo di creare un regime legale internazionale attraverso istituzioni come la Corte Penale Internazionale, e, più recentemente, l’implementazione di imponenti operazioni militari e interventi politici – per esempio a opera degli Stati Uniti attraverso il linguaggio della crociata morale. Considerato il fallimento nel produrre – mediante le sue piroette teoriche – un quadro epistemologico capace di comprendere e spiegare la crescente normatività nel contesto sociale contemporaneo, l’antropologia si è trovata ad affrontare i dibattiti attorno a tali problematiche con un repertorio discorsivo povero e claudicante.
Mark Goodale
Antropologia, immaginazione morale e pratica etica
Gli antropologi hanno tradizionalmente trascurato moralità e giusti-
zia come oggetti di studio etnografico e teoria etnologica. Questa evi-
dente lacuna è certamente peculiare nel contesto intellettuale, e non
senza conseguenze, specialmente se si considera che gli antropologi del
ventunesimo secolo si confrontano con problematiche contemporanee
in cui la normatività in generale costituisce un’implicazione fondamen-
tale. Tali problematiche includono l’espandersi di un movimento trans-
nazionale dei diritti umani (soprattutto a seguito della fine della guerra
fredda), le crescenti e aggressive campagne di conversione religiosa at-
tuate in nuovi spazi e con nuove modalità nei paesi in via di sviluppo, il
tentativo di creare un regime legale internazionale attraverso istituzioni
come la Corte Penale Internazionale, e, più recentemente, l’implemen-
tazione di imponenti operazioni militari e interventi politici – per esem-
pio a opera degli Stati Uniti – attraverso il linguaggio della crociata mo-
rale. Considerato il fallimento nel produrre – mediante le sue piroette
teoriche – un quadro epistemologico capace di comprendere e spiega-
re la crescente normatività nel contesto sociale contemporaneo, l’antro-
pologia si è trovata ad affrontare i dibattiti attorno a tali problematiche
con un repertorio discorsivo povero e claudicante.
Gli studiosi hanno sviluppato tradizioni sufficientemente robuste li-
mitate a certe aree, quali la religione, il diritto, la politica e, negli ultimi
decenni, i diritti umani, senza realmente considerare che ognuno di que-
sti ambiti è, almeno da una certa prospettiva, espressione di una fonda-
mentale normatività: si tratta di pratiche sociali attraverso le quali valori
astratti (illusori) sono interpretati e applicati in quanto condotte stan-
dard di diritto, concezioni del bene, del legale, del proibito e così via.
Questa antropologica assenza comporta anche alcuni non voluti be-
nefici: primo, che l’improvviso interesse per il normativo può proce-
dere in maniera non-paradigmatica, senza un pesante carico di aspet-
tative; secondo, un’antropologia della normatività può divenire real-
mente critica, poiché rispondere alla questione “perche non l’antropo-
logia?” (in campo morale, per esempio) implica il chiedersi “perché i
valori sono contrapposti ai fatti?”, oppure “c’è un modo in cui le nor-
me possano essere comprese in quanto oggetto di attenzione etnogra-
fica e allo stesso tempo in quanto fugaci categorie del sociale?”; infine,
come in altri ambiti in cui l’antropologia è arrivata in ritardo, le recen-
ti riflessioni spingono a interrogare con una certa veemenza e spirito
sovversivo ciò che in precedenza veniva affrontato in maniera, per co-
sì dire, pacata. Come emerge dal presente volume, gli antropologi han-
no iniziato a rispondere a queste domande mostrando un certo poten-
ziale, non ultimo il fatto di mettere in luce un apparente filo condut-
tore che connette differenti forme di pratica normativa.
Certamente, l’antropologia non è stata del tutto assente dai dibat-
titi sulla normatività. A carriera ormai inoltrata, Bronislaw Malinow-
ski ha preso in considerazione la relazione tra moralità e libertà nel
suo Freedom and Civilization (1944), sebbene il grande padre sia ben
più noto per il fatto di aver lasciato la sua veranda, degnandosi di aiu-
tare i nativi a costruire le loro canoe, che non per ciò che ha avuto da
dire sulla moralità.
Una più approfondita antropologia della normatività rimanda al
lavoro svolto da Mary Douglas e altri divenuti neo-durkheimiani, sep-
pur ispirati da diverse teorie della più generale opera francese; e al fi-
losofo-antropologo David Bidney, rinomato per aver introdotto ciò
che è noto come “umanesimo” all’interno della disciplina, e che si è
concentrato su un ampio spettro di tematiche socio-normative, in par-
ticolare nel saggio Normative Cultureand the Categories of Value,ap-
parso in Theoretical Anthropology (1953). È degno di nota il suo con-
tributo, come anche quello di Malinowski prima di lui, di riversare
forme antropologiche di conoscenza nell’ambito di questioni morali e
normative – sia in astratto sia nel concreto.
Bidney ha cercato di portare l’antropologia più vicina alla filosofia:
uno sforzo dimostratosi vano, nonostante l’impegno di un piccolo ma
appassionato gruppo di antropologi americani1.Ma Bidney avrebbe
fatto molto di più – e il suo nobile sforzo avrebbe dovuto lasciare una
più duratura influenza; ciò risulta più chiaro se invertiamo i termini
della precedente equazione, nel tentativo quindi di portare la filosofia
più vicina all’antropologia, o di suggerire una modalità attraverso la
quale la natura dell’indagine normativa avrebbe potuto essere rifonda-
ta, e infine di ripensare al significato delle domande e delle risposte che
trascendono i livelli empirici dell’etnografia malinowskiana.
MARK GOODALE 76
Il presente articolo è una riflessione su questo percorso intellettuale,
eallo stesso tempo una specie di contro-discorso dello stesso, un modo
di immaginare l’antropologia della normatività come disciplina dispo-
nibile a orientarsi in differenti direzioni epistemologiche e un po’ meno
disponibile a concedere terreno a coloro secondo i quali il livello empi-
rico costituisce una fastidiosa distrazione. Nel fare ciò, cercherò di spie-
gare cosa può significare dedicarsi a un’antropologia della normatività,
sviluppando ciò che altrove (Goodale 2006a) ho descritto come “an-
tropologia filosofica dei diritti umani”. In altre parole, prenderò in con-
siderazione le implicazioni del portare la filosofia più vicina all’antro-
pologia. Illustrerò inoltre questi problemi e alcune possibili soluzioni in
riferimento a certi cambiamenti normativi nella Bolivia contemporanea.
Come vedremo, discutere di un framework epistemologico alterna-
tivo, attraverso il quale questioni di giustizia, moralità, diritti e norme
possano essere comprese, non significa semplicemente rimpiazzare un
sistema artificiale astratto con un altro. Piuttosto, si tratta di concet-
tualizzare tale sistema in termini di pratica sociale, ancorandolo al di-
sordine della quotidianità. Le questioni normative sono anche faccen-
de reali di vita e di morte per gli attori sociali, presi tra reti insidiose di
ogni tipo. Di conseguenza, vi è inevitabilmente una dimensione etica
connessa a tale dibattito, che deve essere in qualche modo messa in lu-
ce. Concluderò infine questo articolo suggerendo come quella che
chiamo un’antropologia della pratica etica possa (modestamente) apri-
re nuove direzioni di ricerca, di critica e di azione socio-politica.
Antropologia tra fatti e norme
Nella prima parte del ventesimo secolo l’antropologia era la scien-
za dell’uomo, uno studio del sé che aveva conseguenze epistemologi-
che e storico-intellettuali. Questa condizione era il risultato di una di-
visione intellettuale e accademica, che ha determinato l’emergere del-
la disciplina in entrambe le sponde dell’Atlantico ma con diverse
identità. L’antropologia culturale americana sembra sia stata maggior-
mente influenzata dallo storicismo tedesco e dagli sviluppi del contro-
illuminismo austro-ungarico (Stocking 1996), mentre l’antropologia
socio-culturale britannica è emersa dall’empirismo britannico (Goody
1995; Stocking 1988); ma entrambe erano impegnate nello studio em-
pirico della cultura e della società, espresso in termini di “fatti socia-
li” – per usare un concetto di un’altra importante tradizione discipli-
nare di quel tempo –, attraverso i quali inafferrabili immaginari inte-
ANTROPOLOGIA, IMMAGINAZIONE MORALE E PRATICA ETICA 77
riori divenivano manifesti in quanto oggetti di studio scientifico. In al-
tre parole, l’antropologia era impegnata nell’osservazione, descrizione
espiegazione di ciò che rientrava nel paradigma scientifico dominan-
te del post-illuminismo; le inevitabili controversie – e ve ne furono di-
verse – presero forma in questo circoscritto spazio epistemologico.
Ovviamente, designare confini come questi significa definire una
gamma di fenomeni dentro e fuori quegli stessi confini che delimitano
tale spazio. Senza dubbio, sia i problemi normativi specifici, sia quelli
che potremmo definire meta-normativi – quelli che ruotano attorno al-
la natura della moralità, dei valori, della legge – erano convenzional-
mente esclusi dal dominio della scienza dell’uomo. Questo primo tipo
di problemi coinvolgeva questioni di sentimento, credenza, significato,
che erano forse, a un certo livello, fenomeni empirici, ma molto diffici-
li – se non impossibili – da osservare, misurare, prevedere e indagare,
perfino attraverso le più creative applicazioni del metodo scientifico. Si
trattava inoltre di comprendere e distinguere quei problemi non-empi-
rici che rientravano nel campo della filosofia e che erano dunque sog-
getti a una differente epistemologia, dove la conoscenza è prodotta at-
traverso un processo deduttivo e la derivazione di implicazioni logiche.
Un buon esempio di come questa distinzione epistemologica abbia
portato notevoli conseguenze per l’antropologia è il caso dell’antropo-
logia culturale americana e dei diritti umani. Ho parlato altrove (Goo-
dale 2006a; 2006b) della sollecitazione dell’UNESCO nei confronti di
Melville Herskovits per la stesura di una “opinione consultiva” che in
seguito ha prodotto un’ufficiale Dichiarazione sui diritti umani2,adot-
tata poi dall’Assemblea Esecutiva dell’American Anthropological As-
sociation e da altre associazioni di antropologi nel mondo. Nel suo te-
sto Herskovits rifiutava l’idea di una dichiarazione universale dei dirit-
ti umani per una serie di motivi. Quello che in questa sede mi preme
sottolineare è l’opinione di Herskovits secondo la quale l’idea di dirit-
ti umani crea rivendicazioni basate sulla percezione di valori universa-
li. All’antropologia era richiesto di valutare questo assunto e di legitti-
marlo – perlomeno questa era la speranza. Tuttavia Herskovits esitò.
Spiegò che l’antropologia è una scienza impegnata nell’osservazione
empirica e, in quanto tale, incapace di dire qualsiasi cosa sui diritti
umani, o quanto meno niente che sia basato sulla ricerca antropologi-
ca in sé. Il formale confronto con i valori e la loro attuazione come nor-
me era lasciato ai filosofi, ai teologi, e ad altri le cui speculazioni non-
empiriche fossero fermamente ed epistemologicamente fondate.
Il risultato della dichiarazione del 1947 fu che le indagini antropo-
logiche non giocarono pressoché alcun ruolo nello sviluppo dei diritti
MARK GOODALE 78
umani almeno fino agli anni Ottanta, quando un piccolo gruppo di an-
tropologi americani cercò di trasformare la relazione tra i diritti uma-
ni e la disciplina3.Ciò avvenne attraverso una serie di commissioni spe-
ciali istituite per investigare diversi resoconti di violazioni dei diritti
umani contro popolazioni indigene, la maggior parte delle quali con-
centrate nel Sud America. Questo intenso e appassionato attivismo
gettò le basi per la creazione di un comitato permanente sui diritti
umani all’interno della AAA,portando, nel 1999, alla promulgazione
della Dichiarazione su antropologia e diritti umani, che, in maniera
inequivocabile, ripudiava la dichiarazione del 1947. Nel nuovo testo si
tracciavano alcuni fondamenti mediante i quali gli antropologi avreb-
bero potuto (dovuto) usare la loro conoscenza di culture particolari
per sostenere e sollecitare la protezione di popolazioni a rischio.
Ma questo riallineamento radicale non era basato su una nuova
concezione dei problemi normativi – come i diritti umani –, i quali po-
tevano ora rientrare in quei confini epistemologici che li avevano pre-
cedentemente esclusi. La riconfigurata relazione tra antropologia
(perlomeno quella americana) e diritti umani non si inseriva in uno
slittamento epistemologico ben articolato. Era invece conseguenza di
una decisione politica, secondo la quale non era più tollerabile per la
disciplina che individui/informatori/collaboratori fossero vittime, per
ragioni e in modi differenti; anche se le fondamenta di tale decisione
rimanevano, per molti versi, ambigue.
Quello che ci dice questo processo nel corso della storia dell’an-
tropologia è che ogni cambio di prospettiva nei confronti dell’ambi-
to normativo ha preso luogo, in forme talvolta inaccettabili in pre-
cedenza, non per mezzo dell’epistemologia ma, è il caso di dire, con-
tro di essa. L’emergere di un’antropologia attivista, impegnata nella
tutela e nel supporto dei diritti umani internazionali, per esempio,
dovrebbe essere vista alla luce dell’ondata contemporanea di auto-
critica della disciplina, che ha fatto tremare le aule universitarie e
scaldato le pagine delle riviste nel corso degli anni Ottanta. Occor-
re ricordare che antropologi di ambo le sponde dell’Atlantico sono
coinvolti, da sempre, in accesi dibattiti inquadrati all’interno di una
più generale riflessione su cosa l’antropologia può, o non può, fare
in quanto disciplina.
Ciò che caratterizzava le critical battles degli anni Ottanta era il fat-
to che alcuni schieramenti suggerissero che qualsiasi concezione del-
l’epistemologia implicasse di per sé un’impalcatura discorsiva atta a
escludere e marginalizzare. Come se incombesse un’ombra scura alle
proprie spalle, ciò che alcuni sostenevano era che qualsiasi tipo di teo-
ANTROPOLOGIA, IMMAGINAZIONE MORALE E PRATICA ETICA 79
ria della conoscenza tendesse a trasformarsi d’incanto nella temuta
grande narrazione. Ciò ha significato, tra le altre cose, che perfino il
più semplice gesto verso una differente fondazione epistemologica,
mediante l’impegno antropologico nei confronti del normativo, fosse
di fatto precluso, perché considerato una sorta di ritirata reazionaria
nella cittadella comtiana.
Il problema con queste due opposte correnti – quella dell’antropo-
logia come scienza dell’uomo e quella dedita a un’anti-epistemologica
decostruzione – è che entrambe hanno escluso (ed escludono), in modi
diversi, ma con uguali e profondi effetti, la possibilità di ripensare nuo-
ve basi sulle quali l’antropologia possa fondare il proprio interesse per
iproblemi super-empirici, senza dover divenire una semplice variante
del metodo filosofico.
Il reale contributo della nostra comprensione del normativo giace
altrove, in un approccio radicalmente riconfigurato della conoscenza,
che si dispiega in uno spazio concettuale che rimanda a entrambi i po-
li del classico spettro fatti-valori, senza posizionarsi in nessun luogo
tra di essi. In altre parole, come spiegherò meglio più avanti, un dif-
ferente orientamento antropologico del normativo può essere perse-
guito tramite la combinazione del peculiare tipo di conoscenza pro-
dotta dall’incontro tra l’etnografia e la pratica normativa con una for-
ma di conoscenza che trascende l’empirico. Queste dimensioni – che
chiamerò poi “pratica etica” – sono reciprocamente e inseparabil-
mente costitutive: una comprensione etnografica della pratica norma-
tiva è necessaria, ma non sufficiente, e una teorizzazione della norma-
tività non fondata sulla pratica normativa è, da questo punto di vista,
un castello di carte.
Cambiamenti politici e immaginazione morale in Bolivia
Dal 1999 la Bolivia è stata scossa da una serie di agitazioni politi-
che, economiche, sociali, discorsive, le cui implicazioni sono piene di
ambiguità. Sebbene non possa in questa sede offrire un quadro com-
pleto degli sviluppi chiave del recente passato boliviano (Postero
2006; Goodale 2008), la seguente sinopsi dovrebbe fornire un senso a
ciò che più mi preme sottolineare qui in relazione ai dilemmi dell’an-
tropologia della normatività.
Tra il 1999 e il 2005 il tradizionale establishment politico – o quan-
to meno quello che era emerso dopo la (in apparenza permanente) re-
staurazione delle regole civili nei primi anni Ottanta – è stato sman-
MARK GOODALE 80
tellato, pezzo per pezzo, in parte a causa dell’incapacità di compren-
dere le trasformazioni del corpo politico indigeno, ma anche come ri-
sultato di uno slittamento discorsivo transnazionale all’interno del
quale la Bolivia ha rappresentato una linea di faglia.
Un susseguirsi di élite di ogni schieramento politico – da Gonzalo
Sánchez de Lozada a Hugo Banzer Suárez – ha portato avanti quello
che è noto in Bolivia (come altrove) come neoliberalismo, che ha si-
gnificato, tra le altre cose, lo sviluppo di relazioni d’affari con corpo-
razioni multinazionali, per impadronirsi della gestione di servizi pub-
blici (come l’acqua), uno sfruttamento delle risorse naturali, di cui le
compagnie straniere controllavano l’estrazione assicurandosi maggio-
ri profitti per il futuro, e anche, forse ancor più importante, una for-
te accoglienza del discorso dei diritti umani a tutti i livelli, che ha in-
cluso sia la codificazione nell’ambito della legge nazionale di stru-
menti chiave dei diritti umani internazionali (per esempio ILO 1694e
CEDAW5), sia una ricezione rilevante del lavoro di organizzazioni non
governative, molte delle quali dopo gli anni Ottanta avevano rivisto le
loro mission in termini di diritti umani6.Allo stesso tempo, diversi
movimenti sociali si andavano cristallizzando in Bolivia, quasi sempre
ancorandosi a nuove forme di “indigenità”. I due più importanti era-
no il partito politico Movimento al Socialismo (MAS), capeggiato da
Evo Morales, leader del movimento sindacale dei coltivatori di coca
boliviani, e il Movimento Indigeno Pachakuti (MIP), sotto la guida di
Felipe Quispe, ex katarista,il quale si è adoperato per costruirsi una
posizione a sinistra del MAS.
Il malcontento sociale e le forme di resistenza assunsero apparen-
temente la forma usuale del passato: marce per le strade di La Paz,
Cochabamba e El Alto, immerse in un mare di wiphalas;blocchi del-
le principali arterie di trasporto nazionale; scontri tra manifestanti,
polizia ed esercito (che nell’ottobre 2003 massacrarono circa 100 per-
sone a El Alto, in quello che è ricordato come l’“ottobre nero”); gas
lacrimogeni e proiettili di gomma; un crescente disagio del potente al-
leato boliviano al Nord, che vedeva il relativamente basso prezzo dei
gas naturali aumentare settimana dopo settimana; e infine il vecchio
slogan dei leader della resistenza che il momento era giunto per una
nuova alba della maggioranza indigena. Ma, sebbene le forme di pro-
testa tra il 1999 e il 2005 avessero evocato memorie del passato, le agi-
tazioni si conclusero con quello che da una mera prospettiva storica si
può considerare un risultato sorprendente: l’elezione alla presidenza
della Bolivia nel 2005 di Evo Morales, che, con una moltitudine di
candidati in competizione, fu il prodotto di un rovesciamento della ri-
ANTROPOLOGIA, IMMAGINAZIONE MORALE E PRATICA ETICA 81
partizione dei voti, in cui le classi medie mestizos egli abitanti delle
aree urbane si unirono agli indigeni delle zone rurali e delle periferie,
dando un duro colpo all’ancien régime.
Malgrado gli andamenti politici, sociali e legali nei sei anni consi-
derati abbiano preso sorprendenti direzioni, le forme di tali anda-
menti devono essere considerate come “variazioni sul tema”, la con-
clusione logica dell’influenza di secoli di identificabili fattori struttu-
rali. In altre parole, seppur straordinaria per svariate ragioni, l’elezio-
ne di Evo Morales e la sconfitta dei simboli della vecchia élite politi-
ca non costituì una rottura epocale, o l’inizio di una fase epistemica,
oltre la quale solamente una realtà completamente nuova era possibi-
le. Piuttosto, le marce, le proteste e i proiettili di gomma questa volta
condussero a ciò a cui si era sempre supposto dovessero condurre: la
concessione alla maggioranza indigena di ciò che gli era storicamente
dovuto, ovvero il ritornare su binari dai quali la Bolivia aveva per lun-
go tempo deragliato – i binari della giustizia e della dignidad humana.
L’ultima fase di questo percorso storico fu la serie di riforme lega-
li, politiche ed economiche, istituite durante la fine degli anni Ottan-
ta e gran parte degli anni Novanta sotto il segno del “neoliberalismo”.
L’apoteosi del neoliberalismo boliviano rimanda al periodo 1993-
94, a metà del primo governo di Gonzalo Sánchez de Lozada, quan-
do la parola “indigeno” improvvisamente comparì sulle labbra della
classe media e della popolazione urbana, e vi fu una crescente sensa-
zione – tra gli intellettuali progressisti – che una Bolivia pluriculturale
fosse la svolta per emanciparsi da quelle condizioni che avevano im-
pedito al paese di realizzare il suo vero potenziale. Ma la creazione di
una Bolivia multiculturale comportava una serie di conseguenze,
comprese quelle relative ai legami tra la nazione in trasformazione e i
networks economici transnazionali. E, ovviamente, vi erano le sempre
presenti e rapaci pretese dei proprietari terrieri, molti dei quali inse-
diati nella regione di Santa Cruz, che non si sarebbero fatti spazzare
via dal torrente di wiphalas che invocava una redistribuzione delle ter-
re. Tutt’al più, vedevano la decentralizzazione della struttura politica
decisionale in materia di denaro e suolo pubblico – elemento chiave
della Law of Popular Participation di “Goni”7come un’opportunità
per esercitare i loro “diritti umani” (in particolare per accrescere e di-
fendere il diritto di proprietà). Dunque, nonostante le buone inten-
zioni di alcuni segmenti – gruppi di intellettuali, giornalisti, ufficiali,
accademici – del quadro politico dei tempi di Goni, le riforme della
metà degli anni Novanta finirono con il rinforzare quei fattori strut-
turali che intendevano indebolire.
MARK GOODALE 82
Tutto ciò non rimanda a nient’altro se non a una questione evi-
dente: fattori economici, politici e sociali affermati da tempo hanno
oppresso la maggioranza indigena boliviana, dal Norte de Potosí (la
zona che conosco meglio) alle foreste del Beni. Questi fattori costitui-
scono le fondamenta della Bolivia moderna, anche se nel corso degli
anni hanno assunto forme diverse e hanno coinvolto differenti scena-
ri governativi o corporativi e differenti attori sociali; tali fattori non
sono fenomeni astratti e spirituali, ma materiali e concreti (alla base
della povertà endemica per esempio), che si esprimono in forma di ge-
rarchie sociali, pregiudizio di classe, razzismo, diseguale accesso ai
servizi sanitari; essi sono, considerati insieme, la causa di lungo termi-
ne del pervasivo disincanto delle popolazioni indigene, e, più di re-
cente, la ragione profonda delle sommosse avvenute nei sei anni con-
siderati (tra il 1999 e il 2005). Come hanno sottolineato osservatori at-
tenti di questi fenomeni, da Marx a Guevara, il sistema storico-mon-
diale da cui questi fattori emergono difficilmente potrà continuare a
sostenerli in maniera incondizionata, e la versione politico-economica
della terza legge di Newton potrebbe non essere più valida: quando le
forze del cambiamento sociale spingono sufficientemente forte, non vi
èmodo di contrastarle.
Certamente, l’antropologia può giocare un ruolo nell’accompa-
gnare e spiegare questi processi, dal momento che essi prendono la
forma di quei fatti sociali suscettibili dell’applicazione del metodo
scientifico della disciplina: l’etnografia. E per quegli esponenti del-
l’antropologia contemporanea che rifiutano energicamente il metodo
scientifico e l’ordine epistemologico che lo giustifica, vi è un’altra ri-
sposta: la critica auto-referenziale, espressa in maniera generalizzante
eamorfa, non è sufficiente per spiegare gli sviluppi e i processi all’in-
terno di quello che James Ferguson (2006) ha descritto come l’“ordi-
ne mondiale neoliberale”. Quindi, gli antropologi dovrebbero a mio
avviso superare i recinti concettuali in modo da fare i conti con gli im-
portanti cambiamenti che stanno interessando la Bolivia contempora-
nea e con i significati di lungo termine che tali cambiamenti mettono
in moto.
Anche se l’elezione di Evo Morales, la presenza dei manifestanti
nelle strade, la cancellazione dei contratti con le multinazionali vengo-
no considerati fatti empirici (e sociali), che possono essere (bene o ma-
le) osservati, descritti e spiegati, mentre i valori che modellano questi
fatti rimangono chiusi allo studio etnografico (per aprirsi poi ai teorici
critici e ai filosofi), dobbiamo comunque tener presente che i cambia-
menti sociopolitici nella Bolivia contemporanea hanno luogo proprio
ANTROPOLOGIA, IMMAGINAZIONE MORALE E PRATICA ETICA 83
tra questi fatti e valori. Ora, ciò che intendo fare è suggerire un nuovo
modo per comprendere l’ontologia sociale dei processi socio-culturali
attuali, un modo basato su una differente analisi dello spazio delle im-
plicazioni normative attraverso le quali gli attori sociali tentano di af-
ferrare il senso della modernità. Questo tentativo avviene tramite la
proiezione di un’immaginazione morale, una complessa azione sociale,
alungo mal compresa dalle convenzionali interpretazioni politiche.
L’operazione da compiere, dunque, consiste nel farsi largo nello spazio
concettuale, sociale e normativo tra valori e azioni sociali, tra moralità
eriforma politica, tra norme e fatti sociali. Non c’è dubbio che il fer-
mento socio-politico in Bolivia si sia dischiuso a una molteplicità di li-
velli. Ma ciò che caratterizza gli sviluppi contemporanei è che il qua-
dro discorsivo è stato profondamente riconfigurato, fondando l’azione
socio-politica sulle trasformazioni della soggettività. Bisogna infatti ri-
cordare che negli ultimi secoli un ordine di idee completamente diver-
so aveva motivato gli attori sociali e politici boliviani, per i quali la que-
stione dell’agency era, in un certo senso, rimossa dai processi storici.
Per i contadini boliviani, i minatori, i coltivatori di coca, gli inse-
gnanti delle zone rurali (e altre classi discriminate), il cambiamento è
sempre stato un grido di richiamo, che ha portato a un’evoluzione del
sistema politico-economico.
Con l’arrivo in Bolivia del discorso dei diritti umani verso la fine de-
gli anni Ottanta, la tendenza a spostare al di fuori dei propri confini il
focus delle trasformazioni è giunta a un brusco stop. Gli attori sociali
hanno smesso di guardare all’esterno per cercare le cause e i significati
del cambiamento sociale. L’idea di diritti umani ha prodotto un’inte-
riorizzazione dell’impeto al cambiamento, circoscrivendolo all’interno
dei confini della persona stessa. In altre parole, l’idea di diritti umani
ha fatto della soggettività l’alpha el’omega di quello che possiamo de-
scrivere come progresso morale. Ciò che è peculiare, da una prospet-
tiva storico-intellettuale, è che lo sviluppo di una coscienza dei diritti
umani coinvolga una persona alla volta, senza certezze circa il modo in
cui questa rivoluzione normativa interna si suppone trovi senso. La ri-
nascita del liberalismo in Bolivia è essenzialmente monadica, nel senso
leibniziano del termine: ogni persona è un piccolo specchio dell’uni-
verso morale, indivisibile, completo; l’umanità di ogni persona è la fon-
te dei diritti umani, immortale, in cui ognuno è espressione concreta di
una più universale essenza umana. Questo è alquanto distante dalle
classiche ontologie sociali in Bolivia, che avevano fatto dell’individuo
un piccolo ingranaggio senza potere di una macchina storicamente fra-
gile; era stato solo en bloc,come classe sociale, o gruppo etnico, o an-
MARK GOODALE 84
cora come “oppressi”, che i boliviani avevano potuto esercitare la pro-
pria agency.Di contro, la recente iteration del liberalismo in Bolivia ha
reso il soggetto morale per molti versi hyper-agentive.
Per capire i cambiamenti socio-politici nella Bolivia di oggi al livel-
lo dell’immaginazione morale, e non dentro quelle strutture economi-
che e politiche che hanno sempre teso, paradossalmente, a escludere e
isolare la Bolivia moderna, bisogna adottare un quadro esplicativo so-
stanzialmente non-teologico. Il liberalismo (o neoliberalismo, per quel-
lo che ci riguarda) è ancorato a un serie di assunti circa il mondo so-
ciale e morale, laddove alcuni di questi assunti implicano un certo tipo
di movimento.Per esempio: se gli esseri umani sono, in ultima analisi,
esseri razionali il cui fine è rimuovere gli ostacoli sociali, politici e le-
gali per poter affermare la loro razionalità, allora il “progresso” po-
trebbe essere definito come un movimento in direzione di questa con-
dizione ideale. E l’ampio respiro del discorso dei diritti umani, anche
laddove la visione di un universo morale e politico è stata sommersa, o
perfino assente, può essere visto come un particolare tipo di progres-
sione verso una condizione umana fondata sulla dignità e l’autonomia.
Ma tutto ciò è ben lontano dalle teorie profondamente teologiche
della storia che in Bolivia hanno condizionato (strutturato) i processi
storici di auto-comprensione. Per gran parte del secolo scorso la con-
testata modernità in Bolivia si è attorcigliata con quella che Rorty
(2000) ha descritto come “speranza sociale”, producendo una sorta di
de-umanizzazione della storia stessa8.Se le persone avevano un ruolo
sociale, questo ruolo poteva essere compreso solo all’interno di un
lungo processo come somma di pezzi del “puzzle” storico, che le ren-
deva attori simbolici di una sintesi crescente.
La rivoluzione morale e discorsiva che emerge dalla Bolivia contem-
poranea, di contro, non definisce un punto d’arrivo; in termini kantia-
ni, è una end unto itself.Isuoi obiettivi sono realizzati ogni qualvolta un
altro attivista indigeno invoca l’idea di diritti umani o parla di “dignità
essenziale” per le popolazioni indigene boliviane. Per certi versi, questa
mancanza di un punto d’arrivo e questo muoversi verso l’ignoto rap-
presentano l’enorme potenziale e, allo stesso tempo, il pericolo di que-
sta nuova trasformazione dell’immaginazione morale in Bolivia.
Piuttosto che vedere le sfere sociali e politiche come antecedenti a,
odeterminanti, i più sfuggenti livelli morale e normativo, vorrei pro-
porre una inversione categorica di questa relazione. Con la fase
(neo)liberale degli ultimi venti anni, in cui certe idee della persona
hanno assunto nuova importanza, l’immaginario morale è divenuto la
lente principale attraverso cui guardare i significati dei cambiamenti
ANTROPOLOGIA, IMMAGINAZIONE MORALE E PRATICA ETICA 85
socio-politici. Con immaginario morale intendo quegli spazi socio-
cognitivi all’interno dei quali individui e collettività costruiscono le
loro visioni della vita, ciò che Grace Jantzen (2001) ha descritto come
l’habitus delle nostre attitudini e azioni etiche.
Dunque, vi è qui una sorta di priorità dell’ordine normativo, seb-
bene non sia mia intenzione offrire una formale teoria della normati-
vità. Possiamo a ogni modo intendere i valori come il quadro di rife-
rimento di principi dinamici da cui gli individui derivano il significa-
to. Nella letteratura dell’antropologia simbolica, l’equivalente dei va-
lori potrebbero essere i simboli chiave riassuntivi (Ortner 1973).
Le norme sarebbero il primo gradino per dare ai valori una forma
sociale, nonostante questi precedano le sfere istituzionali. Le pratiche
etiche consistono in norme come pratiche sociali, dove con sociali si
intende ciò che sta al di fuori dell’individuo. E parlare di normativo
non è altro che un modo per descrivere quel continuum tra valori e
pratica etica. Altre operazioni concettuali sono possibili all’interno di
questo schema. Per esempio, la moralità può essere vista come un in-
sieme di pratiche etiche istituzionalizzate; le leggi potrebbero rappre-
sentare il passaggio ultimo, più burocratico e formale, di questo con-
tinuum normativo; e così via.
Ma ciò che è più importante ai fini di questa analisi è il fatto che la
reale rivoluzione nella Bolivia contemporanea stia avendo luogo da
qualche parte tra valori e pratiche etiche. Nuove idee di cittadinanza,
l’impatto trasformativo del discorso dei diritti umani, e un quadro in-
digeno cosmopolita stanno spostando la traiettoria della Bolivia mo-
derna, e questi sviluppi devono essere rintracciati in articolati spazi
normativi sub-politico-economici. L’antropologia sarà in grado di leg-
gere questi sviluppi?
Per un’antropologia della pratica etica
In quest’ultima parte vorrei affrontare alcune questioni concer-
nenti una riconfigurata antropologia della giustizia e della normativi-
tà. All’inizio di questo articolo ho osservato come l’antropologia ab-
bia fallito nello sviluppare un’epistemologia del normativo che si di-
stinguesse dalle posizioni dominanti del tempo, in particolare quelle
basate sul diritto e sulla filosofia ancorate a procedure deduttive, lo-
giche, non-empiriche.
Sebbene Émile Durkheim avesse delineato diversi modi per inte-
grare l’empirico con il normativo – e ovviamente l’influenza di Dur-
MARK GOODALE 86
kheim sull’antropologia francese e britannica della metà del secolo
scorso è ben nota – il suo lavoro su norme sociali, leggi e regole non
ispirò gli antropologi così come avvenne per altri ambiti della sua ope-
ra (per esempio la religione). Questa riluttanza da parte dell’antropo-
logia nel prendere in considerazione la normatività può essere legata al
tentativo e all’impegno di una ortodossa, e ristretta, auto-consapevo-
lezza della disciplina come scienza dell’uomo. Il che ha significato che
si dovesse rimanere avvinghiati a ciò che poteva essere osservato e de-
rivato a livello empirico. Con questo non intendo dire che gli antropo-
logi fossero limitati da un rigido empirismo, ma vi era un accordo ge-
nerale circa quegli aspetti dell’esperienza umana che risiedevano oltre
l’empirico, e che quindi restavano al di fuori del recinto dell’antropo-
logia. Il normativo era accessibile agli antropologi in quanto scienziati
come fenomeno di secondo ordine, per esempio quando i valori veni-
vano legalmente codificati. E, persino in questi casi, l’accessibilità non
riguardava la natura del significato dei valori-come-norme, ma piutto-
sto l’espressione di forme legali osservabili nella pratica politica.
D’altro canto, la fase di auto-critica della disciplina – come abbia-
mo visto – non ha portato l’antropologia più vicina allo sviluppo di
quadri interpretativi per apprendere e concettualizzare il normativo.
La possibilità di sviluppare nuovi approcci è anzi sembrata ancora più
improbabile, specialmente dal momento che la nuova antropologia
critica si è dedicata alla destabilizzazione di quella teoria sociale che
era d’altra parte necessaria per creare un’alternativa alle epistemolo-
gie filosofiche.
Come abbiamo visto parlando della Bolivia contemporanea, que-
sta miopia epistemologica ha avuto profonde conseguenze per l’an-
tropologia, così come profonde sono state le implicazioni per la più
generale comprensione dello studio della normatività in sé, proprio
dal momento che l’assenza del contributo antropologico dai dibattiti
attorno alla soggettività legale, ai diritti umani, ai valori, ecc., ha ge-
nerato una comprensione limitata (e spesso errata) delle dimensioni
non-empiriche dell’immaginario morale. Molti studiosi, infatti, non
hanno saputo leggere l’emergente rivoluzione in Bolivia a partire pro-
prio dal livello dell’immaginazione morale (Goodale 2006c). Una
comprensibile – in termini di pensiero storico intellettuale – ossessio-
ne per le relazioni sociali e strutturali del potere in Bolivia, e per le
strutture economiche transnazionali che queste incorporano, ha si-
gnificato, tra le altre cose, che gli spazi interni di cambiamento socia-
le fossero ignorati, in favore di una realtà considerata più concreta e
fondamentale.
ANTROPOLOGIA, IMMAGINAZIONE MORALE E PRATICA ETICA 87
Gli indigeni boliviani hanno ora la possibilità di pensare a sé stes-
si in modi profondamente diversi, per esempio come cittadini di una
nuova comunità globale composta da individui latori di diritti umani.
Eche ne è a questo punto della povertà? Del tasso di alfabetismo?
Della violenza domestica? Della mortalità infantile? Sono questi i rea-
li “campi di battaglia”, gli indicatori delle trasformazioni sociali.
Traendo spunto dalle intuizioni delle tradizioni empiriche, critiche, fi-
losofiche, possono aprirsi nuove possibilità per un’antropologia della
normatività, una sintesi capace di captare il ruolo dell’ordine norma-
tivo nella vita sociale. Questo spinge il discorso al di là dei dibattiti di-
sciplinari, soprattutto se si considera la centralità delle pratiche nor-
mative nelle lotte circa l’identità, il significato e la sostenibilità della
vita stessa per gli attori sociali. Descriverei questa sintesi come antro-
pologia della pratica etica. Come abbiamo visto, le pratiche etiche so-
no “sedi” di un più ampio spettro di normatività in cui valori concet-
tuali e ontologici prendono forme diverse: processi legali, dibattiti sul-
la moralità, argomentazioni circa la relazione tra culture e diritti uma-
ni e così via. Il punto è: se i valori possono fornire una finestra attra-
verso la quale guardare all’immaginazione morale, come si può co-
munque accedere a essi? Cosa significa “comprendere”, in questo
contesto?
Partendo da una considerazione metodologica e ontologica, biso-
gna innanzitutto tener presente che valori e pratiche etiche non esi-
stono in una relazione lineare, sono piuttosto co-istantanei, cioè esi-
stono nella loro co-istantaneità e co-espressività.
Per fare dell’idea di co-istantaneità il cuore di un’antropologia del-
la pratica etica, è necessario riconoscere il debito nei confronti di uno
studioso in particolare, Habermas, il quale ha articolato differenti teo-
rie simili a quella che potremmo chiamare “azione comunicativa nor-
mativa”. Nel suo monumentale studio su diritto e democrazia, Ha-
bermas (1996) esamina il diritto attraverso quelli che chiama “co-ori-
ginal systemsdell’azione e della conoscenza (dell’autonomia pubbli-
ca e privata), sistemi che, sebbene distinti, coesistono in un reame co-
municativo all’interno del quale le categorie sociali trovano legittimi-
tà e potenzialità. Ma la tesi di Habermas è troppo dicotomica per i no-
stri scopi: la co-istantaneità, allora, deve essere intesa come un modo
per teorizzare la relazione tra valori e pratiche etiche che non riduce
le possibilità concettuali a queste due categorie solamente, dando la
possibilità di teorizzare altre relazioni, come per esempio quella tra la
natura intima dell’identità morale di un individuo e la natura sociale
della moralità (un’altra forma di pratica etica).
MARK GOODALE 88
Infine, considerando una questione più pragmatica: come può tra-
durre un antropologo questa idea all’interno della sua pratica profes-
sionale? Come si può, metodologicamente, cogliere questo momento in
cui valori e pratiche etiche sono co-espressi? L’etnografia è certamente
attrezzata per penetrare le dimensioni empiriche di questi processi, ma,
dal momento che la normatività va oltre la portata della percezione di-
retta, il tipo di critica non-filosofica che propongo mira a non rifugiar-
si né esclusivamente in un approccio metafisico, né in una osservazione
di fenomeni empirici che emergono in un secondo momento.
L’antropologia cui mi riferisco tenta di proiettarsi in quel com-
plesso essere-tra della relazione valori-pratiche etiche, nel tentativo di
dare luogo proprio a un’antropologia della pratica etica. Gli antropo-
logi che intendono indagare problemi di giustizia, moralità, diritti e
valori, con nuove prospettive e creatività, sono quindi in una buona
posizione per dare forma a una grammatica analitica capace di legge-
re le plurime dimensioni della normatività.
(Traduzione di Antonio De Lauri)
Note
1Anche se il tentativo di Bidney di istituire un’appropriata cioè basata sui criteri di una fi-
losofia contemporanea deduttiva – antropologia teorica modellata dai fondamenti della reine
vernunft si è rivelato inutile, la sua tendenza ad abbandonare il bisogno di etnografia sembra
aver aperto d’altro canto alcuni spazi epistemologici, al punto che una rivista come «Anthropo-
logy and Humanism», legata ad alcuni allievi di Bidney come Bruce Grindal e Dennis Warren,
continua a dare rilevanza a tutte le forme di scrittura sperimentale, compresa la poesia.
2Statement on Human Rights,1947 (N.d.T.).
3Si potrebbe osservare che la precedente fondazione di Cultural Survival (1972) a opera di
David Maybury-Lewis e di sua moglie Pia fu un primo segno che anticipò i cambiamenti che se-
guirono quindici anni circa più tardi. Anche se C.S. concentrò poi il suo lavoro in favore delle
popolazioni indigene attraverso la prospettiva dei diritti umani, le sue premesse organizzative
evidenziavano altri fondamenti per giustificarne l’azione.
4International Labour Organization,convenzione n. 169 per Tribal Peoples and Independent
Countries (N.d.T.).
5Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women (N.d.T.).
6Ci sono in realtà due passaggi che non ho esplicitato. La Bolivia ha inizialmente adottato
una serie di importanti strumenti internazionali dei diritti umani (ILO 169 nel 1991 [dopo Nor-
vegia e Messico] e CEDAWnel 1990), “regolamentandoli” poi all’interno della legge nazionale,
un processo che ne ha lasciato la struttura più o meno intatta. A seguito di questa “regolamen-
tazione” il governo boliviano si è spinto oltre, creando una serie di ministeri incaricati di assi-
curarsi che lo spirito del CEDAW fosse messo in atto attraverso una serie di passaggi, come l’isti-
tuzione di cliniche legali – i Servicios Legales Integrales (SLIs) – che hanno rappresentato una ri-
sorsa per le donne vittime di violenza domestica e di violazioni dei diritti umani.
7“Goni” è il soprannome di Sánchez de Lozada, chiamato anche da alcuni – in maniera di-
spregiativa – “El gringo(N.d.T.).
ANTROPOLOGIA, IMMAGINAZIONE MORALE E PRATICA ETICA 89
8In realtà, questo avvicinamento dell’idea di “speranza sociale” di Rorty con la più utopica
speranza sociale che si suppone fluisca dall’inevitabilità del materialismo dialettico deve essere
preso con una certa dose di “ironia”, dal momento che Rorty stesso rimarrebbe pietrificato nel
vedere il suo “postmodernist bourgeois liberalismassociato a una visione sociale che potrebbe
essere considerata sostanzialmente opposta alla sua di visione. Ma sono sicuro non me ne vorrà
più di tanto, considerando che Rorty stesso ha fatto una carriera sviluppando le sue profonde
riflessioni in parte giustapponendo le idee di altri spesso in modi sorprendenti, talvolta in con-
trasto con il loro “volere”.
Bibliografia
Bidney, D., 1953, Theoretical Anthropology,New York, Columbia University
Press.
Ferguson, J., 2006, Global Shadows: Africa in the Neoliberal World Order,
Durham, Duke University Press.
Goodale, M., 2006a, Toward a Critical Anthropology of Human Rights,«Cur-
rent Anthropology», (47) 3, pp. 485-511.
Goodale, M., 2006b, Ethical Theory as Social Practice,«American Anthropo-
logist», (108) 1, pp. 25-37.
Goodale, M., 2006c, Reclaiming Modernity: Indigenous Cosmopolitanism and
the Coming of the Second Revolution in Bolivia,«American Ethnologist»,
(33) 4, pp. 634-649.
Goodale, M., 2007, The Anthropology of Human Rights: Critical Explorations
in Ethical Theory and Social Practice,Philadelphia, University of Penn-
sylvania Press.
Goodale, M., 2008, Dilemmas of Modernity: Bolivian Encounters with Law
and Liberalism,Stanford, Stanford University Press.
Goody, J., 1995, The Expansive Moment: African Anthropology in Britain
1918-1970,Cambridge, Cambridge University Press.
Habermas, J., 1996, Between Facts and Norms: Contributions to a Discourse
Theory of Law and Democracy,Cambridge, MIT Press.
Jantzen, G., 2001, Flourishing: Towards an Ethic of Natality,«Feminist Theory»,
(2) 2, pp. 219-232.
Malinowski, B., 1944, Freedom and Civilization,New York, Roy Publishers.
Ortner, S., 1973, On Key Symbols,«American Anthropologist», (75) 5, pp.
1338-1346.
Postero, N., 2006, Now WeAreCitizens: Indigenous Politics in Postmulticul-
tural Bolivia,Stanford, Stanford University Press.
Rorty, R., 2000, Philosophy and Social Hope,New York, Penguin.
Stocking, G., 1988, Functionalism Historicized: Essays on British Social Anth-
ropology,Madison, University of Wisconsin Press.
Stocking, G., 1996, Volksgeist as Method and Ethic: Essays on Boasian Eth-
nography and the German Anthropological Tradition,Madison, University
of Wisconsin Press.
MARK GOODALE 90
... However, research offers evidence that promoting of human rights involves a change in consciousness at the individual level. Mark Goodale [33] has argued that social actors will no longer look outside themselves for both the causes and meanings of social change. Rather, once an individual gains an understanding of human rights, he/she effectively internalizes the impetus for change, and, in a way, circumscribes it within the boundaries of personhood itself. ...
Article
In anthropological and legal literature, the phenomenon termed ‘legal pluralism’ has been interpreted as a co-presence of legal orders which act in relation to their own ‘levels’ of referring ‘fields’. The Afghan normative network is generally described in terms of pluralism, where different normative systems such as customs, shari’a (Islamic law), state laws and principles deriving from international standard of law (e.g., human rights) coexist. In order to address the crucial question of access to justice, in this article, I stress the category of legal pluralism by introducing the hypothesis of an inaccessible normative pluralism as a key concept to capture the structural injustices of which Afghans are victims. Access to justice can be considered a foundational element of every legal project. Globally, the debates concerning the diffusion and application of human rights develop at the same time ideologically, politically, and pragmatically. Today in Afghanistan, these levels are expressed in all their complexity and ambivalence. It is therefore particularly significant to closely observe the work done by the Afghanistan Independent Human Rights Commission and to discuss the issue of human rights by starting from a reflection on what might be defined a socio-normative condition of inaccessibility.
Article
In anthropological and legal literature, the phenomenon termed 'legal pluralism' has been interpreted as a co-presence of legal orders which act in relation to their own 'levels' of referring 'fields'. The Afghan normative network is generally described in terms of pluralism, where different normative systems coexist: such as customs, shari'a (Islamic law), state laws and principles deriving from international standard of rights (e.g., human rights). In this article I abandon the neutral category of legal pluralism in order to bring forward a hypothesis of an inaccessible normative pluralism as a key concept in order to capture the structural injustices, of which Afghans are victims. Globally, the debates concerning the diffusion and application of human rights develop at the same time ideologically, politically and pragmatically. Today in Afghanistan these levels are expressed in all their complexity and ambivalence; it is therefore particularly significant to closely observe the work done by the Afghanistan Independent Human Rights Commission. Starting with my research fieldwork in Afghanistan (2005-2012) - where I studied judicial practices in the courts of Kabul, developing a reflection which weaves the spread of human rights with the themes of injustice and inaccessibility - I argue in this article the urgency and the necessity to concentrate on the contingent dimension of (in)justice.
Article
Full-text available
This article represents a search for a different analytical language through which anthropology can engage with human rights. This effort is intended to contribute to what is an expanding range of ways in which anthropologists conceptualize, advocate for, and critique contemporary human rights. Its central argument is that current ethnographic studies of human rights practices can be used as the basis for making innovative claims within human rights debates that take place outside of anthropology itself. To do this, ethnographic description that captures the contradictions and contingencies at the heart of human rights practices is not enough. What is needed is a different understanding of how the idea of human rights comes to be formed in context. In this article, I suggest several possible ways that an anthropological philosophy of human rights can accomplish this. I conclude by locating this approach in relation to a longer history of anthropological skepticism toward universalist discourses.
Article
Full-text available
Some 17 years after the end of the cold war, the international and transnational human rights regimes that emerged in the wake of the 1948 Universal Declaration of Human Rights are at a crossroads. On the one hand, the political openings created by the end of the bipolar postwar world have allowed what Eleanor Roosevelt described as the curious grapevine of nongovernmental actors to carry ideas and practices associated with universal human rights into different parts of the world as part of broader transnational development activities. On the other hand, this spread of human rights discourse has only magnified the different problems at the heart of human rights, problems that are theoretical, practical, and phenomenological. Anthropology has an important part to play in addressing these problems and in suggesting ways in which human rights can be reframed so that their original purposes, those embodied in documents like the UDHR, stand a better chance of being realized.
Article
Full-text available
In this article I explore the emergence of complicated new forms of indigeneity in Bolivia over the last 15 years. I argue that although what I describe as a second revolution is under way in contemporary Bolivia, there is a danger that this revolution will be misread by scholars, political commentators, and others because of the prevailing tendency to interpret social and moral movements in Bolivia (and elsewhere) in rigidly neopolitical–economic terms. I offer an alternative theoretical framework for understanding current developments in Bolivia, which I describe as “indigenous cosmopolitanism”: the ability of national political leaders, youth rappers in El Alto, rural indigenous activists, and others to bring together apparently disparate discursive frameworks as a way of reimagining categories of belonging in Bolivia, and, by extension, the meanings of modernity itself.
Article
How can feminist moral philosophy redeem the present? In this article I present the idea of a moral imaginary as the habitus of our ethical attitudes and actions, and argue that the moral imaginary of the West is preoccupied with gendered violence and death. I use a psychotherapeutic model of change through analysis and suggestion, and a Foucauldian account of the history of the present, to present the beginnings of an imaginary of natality centred in a symbolic of flourishing as a resource for discursive and material transformation.