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Dalle Americhe all’Europa: la sfortunata trasmigrazione degli erbari di Carlo Luigi Giuseppe Bertero (1789-1831)

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Abstract

Carlo Bertero was trained in Alba and then in Turin, studying with very good teachers who taught him, in addition to botany, political and ethical principles. After having studied the domestic flora, the young botanist travelled to the Antilles (1816-1821), to Chile (1827-1830) and to Tahiti (1830-1831). Thanks to his scientific works many new species were recognized and many specimina were sent to Europe to collectors as well as to botanic gardens, being spread out in different places. When, in 1831, the boat, on which Bertero was boarded, sank into Pacific ocean, all his collection of Tahitian plants disappeared with him. Despite of the dispersion of the collected materials, the botanists have been successful in reconstructing a good part of his activity. Nevertheless his unique writing appeared on the magazine El Mercurio Chileno, when the botanist was living in Santiago during the government of F.A. Pinto, the first liberal president of such country. The historical documentation has disclosed that, during his co-operation with the magazine, the Italian botanist supported the governmental policy, being consistent with his juvenile principles. When Pinto was overthrown, after a fierce civil war, which brought the conservative party to the power, Bertero fell into disgrace and had to leave the country, while the mission to write a natural story of Chile was granted to his competitor, the French botanist Claude Gay, who joined the new political course.
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Dalle Americhe all’Europa: la sfortunata
trasmigrazione degli erbari di Carlo Luigi
Giuseppe Bertero (1789-1831)
di Claudia Borri
INTRODUZIONE*
La biografia e l’attività scientifica del botanico piemontese Carlo Luigi Giuseppe
Bertero sono note, fin dalla sua morte prematura, grazie alle informazioni raccolte dai
suoi amici e colleghi e all’attività dei cultori di storia locale, che, in quel di Santa
Vittoria d’Alba, suo paese natale, ne hanno celebrato periodicamente la figura.
Nell’attualità sono stati soprattutto i botanici a ricostruire le sue vicende umane e le
sue scoperte scientifiche, impegnandosi a rintracciare il cammino tortuoso percorso
*"Desidero qui ringraziare, quanti, in Cile e a Torino, si sono cortesemente prodigati nel dedicarmi
tempo e attenzione, nel mettermi a disposizione dati e pubblicazioni e nel permettermi di pubblicare le
foto di alcuni esemplari berteriani. La mia riconoscenza, va, in particolare, a Mauro Guolo e a Laura
Guglielmone del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino; a
Jimena Arriagada Torres, Melica Muñoz Schick e Gloria Rojas Villegas del Museo Nacional de Historia
Natural di Santiago del Cile; e, infine, all’amica Verónica Nuñez Ibañez, che mi ha prestato il suo aiuto
come fotografa."
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dalle sue collezioni sparse in tutto il mondo. Perciò, pur essendo andati dispersi (e in
alcuni casi perduti per sempre) gli erbari di Bertero, e in assenza di scritti di suo pugno
(se si escludono le poche lettere), è possibile ricostruire la sua biografia in base alla
documentazione esistente.
Partendo da questo quadro generale, la nostra attenzione si è focalizzata sulle
esplorazioni botaniche di Bertero in Cile, delle quali sono stati individuati gli itinerari, e,
in particolare, sulle ragioni che possono aver indotto il botanico piemontese a
pubblicare, proprio in quel paese e in evidente contrasto con la regola generale alla
quale si era e si sarebbe attenuto nel corso della sua vita, i risultati del suo recente
lavoro sulla rivista
El Mercurio chileno
(1829-1830). A fronte di una certa indifferenza
degli studiosi verso questa curiosa incongruenza, ci siamo chieste se tale decisione
fosse stata in qualche modo influenzata dalla situazione politica del paese
sudamericano, uscito da poco dalla lotta per l’indipendenza e in fase di
trasformazione. In questa prospettiva, l’analisi di quel momento politico e culturale ha
rivelato le probabili ragioni della scelta di Bertero, riconducibili, a nostro parere, alla
sua formazione e alle sue giovanili simpatie per il giacobinismo che lo avrebbero
indotto, in quei frangenti, a sostenere il governo liberale in carica, contribuendo alla
rinascita culturale del paese che lo ospitava. Una scelta, questa, che ne avrebbe
condizionato i passi successivi e che lo avrebbe escluso, una volta mutate le condizioni
politiche, dall’opportunità di intraprendere un lavoro più impegnativo e gratificante.
Tale conclusione non trova riscontro negli studi degli storici cileni, i quali,
peraltro, si limitano a qualche scarno accenno alla sua presenza in Cile. Questo tiepido
interesse si estende anche alla sua attività scientifica, spesso sottovalutata rispetto a
quella di altri naturalisti presenti nel paese. Conseguentemente, ci è parso opportuno
far emergere le caratteristiche dell’esplorazione botanica dell’epoca, durante la quale,
sollecitati dalle esigue conoscenze che se ne avevano, molti naturalisti giungevano in
Cile per esplorarne la flora. In questa pacifica competizione e nonostante le sue
indiscutibili competenze, Bertero partiva svantaggiato. A rendere, infatti, più improba
la sua attività scientifica attuata in solitudine, senza il sostegno di un ente scientifico o
di un’istituzione, dovendo guadagnarsi da vivere con il quotidiano esercizio della
medicina, non fu, dunque, un avverso destino, ma piuttosto la miopia del governo
sabaudo, noncurante, durante la Restaurazione, di sostenere i propri giovani talenti,
ancorché in odore di giacobinismo.
Assumendo questo punto di vista abbiamo inteso anche riscattare la figura di
Bertero dallo stereotipo che lo voleva sempre rinunciatario di fronte ai disordini
sudamericani, attribuendo, da una parte, la causa di queste sue presunte fughe dai
luoghi di esplorazione proprio alla sua particolare condizione di scienziato solitario,
come avvenne in Colombia; dall’altra, ricollocandolo, come testimone consapevole e
partecipe, all’interno di un processo politico, come avvenne in Cile.
Da ultimo, una ricognizione nel
Museo Nacional de
Historia Natural
di Santiago è
risultata fruttifera. Qui, pervenuto dopo varie vicissitudini, è conservato un erbario di
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Bertero, di cui poco si sa in Italia. Il catalogo delle specie ivi contenute, compilato
dall’eminente botanica cilena Melica Muñoz-Schick, rivela che alcuni degli
specimina
sono proprio quelli che Bertero aveva descritto ne
El Mercurio
chileno
.
DA ALBA A TORINO. GLI ANNI DELLA FORMAZIONE
Carlo Luigi Giuseppe Bertero nacque a Santa Vittoria d’Alba il 14 ottobre 1789 da
Giuseppe, agronomo presso il nobile Caissotti, e da Anna Maria Abrigo. Istruito dalla
madre durante l’infanzia, dopo la morte del padre e il trasferimento ad Alba, Bertero
ebbe la fortuna di incontrare grandi maestri che incisero profondamente sulla sua
formazione.
A costo di sconfinare dal nostro discorso centrale, perciò, occorrerà fare qualche
breve cenno a questi prestigiosi personaggi, a cominciare da Giuseppe Gardini (1740-
1816), insegnante di filosofia e di scienze naturali nel liceo della città, ma anche
letterato, medico e fisico, la cui fama aveva già travalicato i confini locali. Come fisico,
infatti, in un primo tempo Gardini si era dedicato allo studio dell’elettricità atmosferica,
sulle orme del monregalese padre Giovanni Battista Beccaria (1716-1781), e poi si era
distinto nel campo dell’elettricità animale come precursore di Luigi Galvani (1737-
1798), avendo redatto, già nel 1780, un importante saggio su quella materia. Gardini
era anche un medico illuminato, che si era battuto per l’introduzione del vaccino
antivaioloso e che, dal 1794, dirigeva il servizio sanitario dell’ospedale e delle carceri di
Alba. Tuttavia, solo due anni dopo, a seguito del soccorso che prestò ai soldati
dell’esercito napoleonico, fu vittima di un oscuro episodio di persecuzione politica.
Minacciato di morte, fu costretto a fuggire nella sua casa natale di San Damiano, e,
infine, imprigionato nel Castello di Asti, mentre la sua casa veniva saccheggiata e i suoi
scritti distrutti. Dopo la vittoria napoleonica di Marengo e il ritorno dei francesi in
Piemonte, però, Gardini fu reintegrato nell’insegnamento della filosofia, incarico che
mantenne fino al 1813 insieme a quello politico presso il Consiglio Generale del
Dipartimento del Tanaro. Nel lontano Cile, come si vedrà, ricordandosi dell’antico
maestro, Bertero gli avrebbe dedicato una nuova specie botanica, con motivazioni
degne d’interesse, come diremo in dettaglio più avanti. Grazie all’amicizia che si creò
rapidamente tra maestro e allievo, Bertero poté conoscere il figlio di una sorella del
Gardini, Giuseppe Camisola (1781-1856), fisico e botanico, il quale lo avviò allo studio
della disciplina e gli insegnò a erborizzare.
Terminati gli studi secondari, Bertero s’iscrisse alla facoltà di Medicina di Torino,
dove si laureò nel 1811 con una tesi in latino che suggeriva di utilizzare, a fini
terapeutici, erbe officinali indigene, di cui enumerava le specie più significative, invece
di quelle esotiche. Negli anni torinesi, accanto allo studio e all’attività di ricerca,
Bertero si dedicò anche alla pratica medica negli ospedali e all’insegnamento
"esercitandosi sotto valenti chirurgi alla flebotomia, alle operazioni chirurgiche ed alla
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parte ostetrica, e facendo ripetizioni di Medicina agli alunni" (Colla 1832: 5). Tra gli
ottimi docenti della facoltà, Bertero era divenuto amico di Giovanni Battista Balbis
(1765-1831), un personaggio assai noto per i suoi meriti scientifici e civili. Laureatosi in
Medicina nel 1785, aveva frequentato a Torino le lezioni di un altro famoso botanico,
Carlo Allioni (1728-1804), corrispondente, tra l’altro, di Linneo e direttore dell’Orto
botanico della città. Pur continuando ad esercitare la professione, avendo sposato la
causa giacobina e repubblicana, Balbis si era dedicato intensamente alla politica. Nel
1794, coinvolto nei moti rivoluzionari piemontesi contro i Savoia, fu costretto all’esilio
in Francia, dove, come medico militare, fece una brillante carriera. Quando, due anni
dopo, Napoleone iniziò la Campagna d’Italia, Balbis poté rientrare a Torino insieme alle
truppe francesi. Quivi, nel 1798, divenne membro del governo provvisorio filo-francese
istituito dal generale Joubert e poi, come suo presidente, si attivò per propagandare
l’annessione del Piemonte alla Francia, avvenuta nel marzo del 1799. Di a poco la
vittoria degli austro-russi sui francesi lo costrinse a riparare di nuovo oltralpe, fino al
ritorno vittorioso di Napoleone in Piemonte. A questo punto, lasciato l’esercito, Balbis
si stabilì a Torino dove fu nominato professore di Botanica all’Università e poi direttore
dell’Orto botanico. In quegli stessi anni divenne membro dell’Accademia delle Scienze
e, dal 1811 al 1814, presidente della Società Agraria, mentre la sua fama oltrepassava i
confini piemontesi e la sua competenza veniva riconosciuta a livello internazionale.
Gardini, Camisola, Balbis non erano soltanto gli autorevoli rappresentanti del
rinato fervore degli studi botanici, iniziatosi con l’opera di Linneo (1707-1778), ma
anche di un credo, quello giacobino, in virtù del quale avevano saputo coniugare
l’impegno professionale con quello sociale e politico. Sostenuti dalle proprie
convinzioni, nella loro carriera avevano saputo combinare, con quanto impegno e
aggravio di lavoro è facile intuire, la ricerca con l’esercizio pratico di un’attività di
valore sociale, come la cura degli ammalati negli ospedali pubblici e in quelli militari,
l’insegnamento nelle scuole e nelle università, le battaglie per l’igiene pubblica, da
quella a favore dell’inoculazione del vaiolo fino alla divulgazione scientifica a
vantaggio di quanti, più poveri e meno istruiti, necessitavano di potersi avvalere di
elementari conoscenze per la cura delle malattie o per il miglioramento delle colture
agricole. Una tale lezione di vita e di etica non poteva non essere recepita e condivisa
da un allievo entusiasta dei suoi maestri come Bertero. Se, perciò, non vi è alcuna
prova tangibile di un’eventuale militanza politica del giovane medico nelle fila
giacobine, vale la pena sottolineare che fu da maestri di tali tendenze politiche, che
l’albese apprese la lezione del rigore nella ricerca scientifica e quella della sensibilità
sociale nell’espletamento della propria professione. Se ci siamo soffermate
sull’ambiente e le personalità della Torino napoleonica ciò si deve alla convinzione che
proprio queste circostanze abbiano inciso profondamente sulla personalità del
Bertero, fino a costituire una premessa indispensabile per spiegare la sua attività in
Cile e la comparsa degli unici articoli da lui pubblicati proprio in quel paese.
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Nel 1814, con la caduta di Napoleone e la conseguente restaurazione della
monarchia sabauda, anche Balbis fu vittima delle repressione politica che colpì l’intera
scuola medica torinese, all’interno della quale otto docenti su nove vennero licenziati.
Radiato dai pubblici uffici e dalle accademie scientifiche piemontesi, lo studioso
dovette ritirarsi a vita privata, accettando l’ospitalità del noto chimico-farmacista
Evasio Borsarelli, cosa che gli permise di continuare il proprio lavoro nell’orto
sperimentale del suo amico. La scuola di Medicina, d’altra parte, secondo Dino
Carpanetto, fu presa di mira dalla repressione sabauda "non tanto perché responsabile
di avere cooperato a vario titolo con il regime napoleonico, quanto perché portatrice
di memoria storica e di idee politiche che rimandavano alle origini dell’opposizione
repubblicana e alle radici del giacobinismo piemontese, e che avrebbero potuto
costituire la base per una rinnovata opposizione all’assolutismo" (Carpanetto 2001: 1).
In questo contesto Bertero, giovane medico venticinquenne, solidarizzò coi propri
maestri e preferì rinunciare alla sua carica di segretario nel
Jury de Médicine
pur di non
dover sottostare ai nuovi padroni, decidendo di non entrare a far parte del Collegio
Medico, ripristinato dopo il 1814, nonostante fosse stato sollecitato a farlo.
A causa della severa repressione messa in atto dal ripristinato governo sabaudo,
le ambizioni e i progetti professionali di quanti avevano aderito al regime napoleonico
nel quale avevano visto il concretizzarsi, pur non esente da contraddizioni, dei propri
ideali giacobini, subirono dei notevoli rallentamenti. Tuttavia, grazie alle loro
riconosciute competenze professionali, alcuni di loro furono, almeno in parte,
riabilitati. A Balbis, per esempio, nel 1816, fu riconosciuta una pensione come
professore emerito dell’Università, alla quale venne poi riammesso in qualità di
docente, dopo che aveva già prestato la propria collaborazione scientifica al professor
Nocca dell’Università di Pavia che gliel’aveva richiesta e che era stato indotto a ciò non
solo dall’intento generoso di risollevare il collega dalla sua condizione di precarietà,
ma anche dalla possibilità di avvalersi delle sue straordinarie competenze con il fine di
mettere a punto la stesura e la pubblicazione della sua
Flora Ticinensis
. Date le
circostanze, tuttavia, nel 1819, com’è comprensibile, Balbis preferì accettare la
direzione dell’Orto botanico e la cattedra di professore di Botanica a Lione. Lasciò così
nuovamente il Piemonte per la Francia, dove la repressione politica, messa in atto da
Luigi XVIII contro gli ex napoleonici, evidentemente non colpiva quanti potevano
offrire al paese le proprie utili competenze scientifiche. In Francia Balbis sarebbe
vissuto fino al 1830, allontanandosene solo l’anno successivo quando la vecchiaia gli
impedì di continuare a lavorare e la nostalgia lo spinse a ritornare in patria per morirvi.
In questi frangenti, quale destino si prospettava per Carlo Bertero, non
direttamente compromesso col passato regime, ma allievo e amico di quanti lo
avevano sostenuto fino al punto di rinunciare ad un incarico di un certo peso, visto che
non era un professionista affermato, ma solo un giovane molto promettente? Bertero
ritornò in famiglia ad Alba, dove esercitò la medicina, soffrendo per l’ambiente
angusto in cui gli toccava vivere, nonostante collaborasse col Balbis, aiutandolo nel
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suo lavoro di ricerca. In questa situazione non gli restava che scegliere un’altra strada,
cercando in Francia la possibilità di continuare gli amati studi di botanica e coltivando
l’idea di partire per una spedizione nelle regioni equinoziali. Fu così che, nell’estate del
1816, Bertero si trasferì a Parigi.
Prima di partire, però, in una data imprecisata, ma sicuramente dopo la laurea e
probabilmente dopo il 1814, Bertero aveva stretto amicizia con un altro protagonista
della botanica piemontese, dilettante di genio e studioso eclettico. Si trattava
dell’avvocato Luigi Colla (1766-1848), cultore delle belle lettere, ma anche di
matematica, chimica, geografia e, soprattutto, botanica. Anche il Colla, di idee
giacobine, aveva fatto parte del governo provvisorio voluto da Joubert, facendo
propaganda per l’annessione del Piemonte alla Repubblica francese. Per il suo
impegno politico aveva subito il carcere durante il breve periodo dell’occupazione
austro-russa, ma, dopo Marengo, in riconoscimento dei suoi studi giuridici e della sua
fede politica, era stato nominato ambasciatore del Piemonte presso al Repubblica
Cisalpina e si trasferì perciò a Milano. Fu questa l’ultima sua carica pubblica duratura.
Dopo il 1808 il Colla si ritirò a vita privata continuando la professione forense, ma
dedicandosi con sempre maggior impegno alla botanica. Fu così che trasformò una
sua proprietà in Rivoli in un vero e proprio orto botanico, e che si legò di profonda
amicizia tanto con Balbis come con Bertero. La sua prima pubblicazione,
L'Antolegista
botanico
(1813-1814), venne scritta in italiano, perché era destinata, secondo gli
intenti dell’autore e le finalità sociali che abbiamo già visto essere tipiche
dell’intellighenzia giacobina, "ai Dilettanti della Botanica e i Fioristi". In seguito Colla
pubblicò molte monografie dirette a un pubblico di specialisti, ma solo nel 1824, con
l’edizione dell’
Hortus ripolensis
, ottenne riconoscimenti ed elogi a livello
internazionale.
Anche se fu pubblicato dopo la morte di Bertero, ricordiamo qui, proprio perché
in qualche modo, come vedremo, è collegato alla sua attività in Cile, l’
Herbarium
Pedemontanum
(1833-1837), un’imponente opera in otto volumi con la quale Colla
portò a compimento le ricerche dell’Allioni e del Balbis. L’edizione, di notevole valore
iconografico oltre che scientifico, si avvaleva di ben 97 tavole litografiche, opera, per la
maggior parte, della figlia dell’autore, Tecofila, nata nel 1803 dal suo matrimonio con
Fortunata Zapelloni. Tecofila Colla, che nel 1820 si era sposata con l’avvocato
Giuseppe Billotti, musicista per diletto e presidente della Società Filarmonica di Torino,
era, infatti, un’abilissima disegnatrice botanica, tanto che fu ammessa a far parte, nel
1822, della
Société Linnéenne
di Parigi. Carlo Bertero, che in tutti i suoi viaggi ebbe
come corrispondenti privilegiati Balbis e Colla, nel lontano Cile si sarebbe ricordato
anche di lei, dedicandole una nuova specie botanica.
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LE ANTILLE
Così come il Balbis, anche il Colla aveva fornito a Bertero, che stimava profondamente,
alcune "commendatizie" che gli permisero di conoscere a Parigi il celebre botanico
francese Christian Hendrik Persoon (1761-1836), il quale, a sua volta, presentò Bertero
ai "circoli" dei più noti naturalisti di quella "reggia delle scienze". Fu in uno di questi
stessi circoli che il giovane medico piemontese conobbe il generale Foujas de Saint
Fond, comandante del veliero
Guadalupa
e amante delle scienze naturali, che gli offrì
la possibilità di visitare le Antille.
In sostanza il generale francese assunse come "medico ordinario della gente a
bordo" il giovane Bertero, il quale, in questo modo, si pagò il passaggio da Le Havre
fino alla Martinica. Una scelta felice per il generale, visto che il medico piemontese
seppe affrontare con grande perizia l’epidemia di febbre gialla scoppiata a bordo,
salvando se stesso e tutti gli altri ammalati da una probabile morte, circostanza che
spinse Foujas a dare grande pubblicità al suo operato. Grazie alla fama acquisita,
Bertero poté perciò dedicarsi alla professione per i cinque anni in cui viaggiò nel Mar
dei Caraibi ottenendone considerevoli guadagni. Come ebbe a scrivere al Colla, il 30
gennaio 1817, la medicina gli rendeva dieci volte quello che gli era necessario per
vivere (Colla 1832: 6).
Nell’intraprendere il suo viaggio di studio, dunque, il giovane scienziato aveva
dovuto guadagnarsi il passaggio in nave con la professione medica, che dovette
continuare, per le stesse ragioni economiche, una volta arrivato a destinazione,
sottraendo così tempo ed energie al suo vero scopo, quello di erborizzare e di studiare
la flora esotica. L’inconveniente della sua situazione, però, non si limitava a questo
aspetto. Privo com’era di credenziali scientifiche ufficiali e del sostegno, sia economico
sia pratico, di un’istituzione pubblica, infatti, Bertero dovette fare affidamento
esclusivamente sulle proprie forze. Fu così costretto a sobbarcarsi sia le spese per i suoi
spostamenti, dal noleggio delle imbarcazioni all’alloggio, all’assunzione di aiutanti e
all’acquisto di provviste e si strumentazione, sia quelle burocratiche, soprattutto
quando si trattava di negoziare, da una posizione di debolezza, con le autorità locali
per ottenere permessi o licenze. Insomma, a differenza di quanto avveniva
generalmente per altre spedizioni naturalistiche europee, finanziate e organizzate dal
paese di partenza o dallo stesso esploratore, se questi godeva di una certo benessere
economico, nel caso di Bertero erano solo le capacità individuali a essere messe in
campo e lo studioso dovette sottoporsi ad un lavoro doppio per concretizzare i suoi
propositi di ricerca. Ciò nonostante, il giovane piemontese dimostrò di non prendere
affatto sottogamba il suo impegno e, per potersi impadronire dei necessari strumenti
di conoscenza, visto che il suo viaggio lo avrebbe portato in territori coloniali di
diversa appartenenza, "fu una delle sue prime cure quella di perfezionarsi nelle lingue
inglese e spagnuola di cui aveva già attinti gli elementi in Parigi e nel tragitto, onde gli
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riuscì poi di parlare e scrivere queste due lingue come il francese ed il latino, che gli
erano famigliarissimi" (Colla 1832: 8).
Sbarcato alla Guadalupa, preceduto, come si è visto, dalla fama di essere un
medico di valore, il 13 maggio 1818 Bertero scrisse al Colla che gli era stata addirittura
offerta dal governatore la direzione del giardino botanico e di un laboratorio di Storia
Naturale "con alloggio magnifico, otto o dieci schiavi pel manuale, un giardiniere, e
20.000 lire coloniali all’anno". Una proposta allettante, ma che Bertero affermò di non
aver voluto accettare per non dover restare alla Guadalupa per almeno due anni. Nella
sua prima lettera al Colla (3 gennaio 1817), inviata dalla
Grande–Terre
, cioè dall’isola
orientale che, insieme a quella della
Basse-Terre
, separata dalla prima da un
sottilissimo braccio di mare, compone l’intera Guadalupa, Bertero già mandava al suo
corrispondente privilegiato un esteso resoconto della situazione, sia dal punto di vista
antropologico sia da quello naturalistico, soffermandosi soprattutto sulla flora locale e
promettendo "l’invio di 200 pacchetti di semi di specie rare che già aveva raccolti"
(Colla 1832: 8).
Altrettanto interessante è la lettera inviata al Colla del 15 agosto 1817, da
Petit
Canal
, un’altra località della
Grande-Terre
. Oltre alle osservazioni meteorologiche, a
quelle più generalmente naturalistiche o più specificamente botaniche relative alla
flora locale, di cui aveva già esaminato più di 300 specie rare, Bertero vi annunziava la
spedizione di piante secche per Balbis e per lo stesso Colla, che sarebbero arrivate di
a qualche tempo e aggiungeva che, in quel modo, sperava soltanto di "provarvi il
desiderio che nutro di rendermi utile agli amici, alla patria, alle scienze" (Colla 1832: 6).
Se tale era la disinteressata ambizione di Bertero, comprovata dalla sua generosità nel
rifornire maestri ed amici di semi ed esemplari, le sue parole successive suonano ancor
più compassionevoli, ma utili a confermare quanto si è detto circa la sua precarietà
economica. Aggiungeva, infatti, Bertero: "Se l’Accademia [Reale delle Scienze], o la
Società d’Agricoltura volessero incaricarsi delle spese di trasporto, potrei spedire cose
che loro non sarebbero discare, p. e. immensa copia di conchiglie marine e fluviatili
(sic) viventi o fossili, petrificazioni, roccie, madrepore, polipi di mare, pesci, uccelli, e
rettili" (Colla 1832: 7).
Nella stessa lettera il giovane botanico illustrava anche l’itinerario di viaggio che
intendeva intraprendere nelle Antille e ne elencava le mete: "Maria Galante, la
Dominica, la Martinica, S. Lucia, S. Vincenzo, la Barbada, la Grenada, Tabago, la Trinità
spagnola, e le bocche dell’Orenoco" (Colla 1832: 11). Da tale lista è deducibile che
Bertero si era prefissato di visitare le isole principali delle Piccole Antille, che si
stendevano a semicerchio a sud-est della Guadalupa, fino a raggiungere Tobago e
Trinidad, e, di qui, le foci dell’Orinoco, in terra venezuelana. Si trattava di un percorso,
per così dire, naturale, in quanto seguiva la curva formata dall’arcipelago da nord verso
sud-est, passando, però, da territori coloniali all’epoca sottoposti al dominio di diverse
nazioni europee: alla Francia (Maria Galante, la Dominica, la Martinica
),
alla Gran
Bretagna (S. Lucia, ma solo dal 1814, e S. Vincenzo, la Barbada, la Grenada), di nuovo
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alla Gran Bretagna (Tabago e Trinidad, entrambe ex colonie spagnole conquistate
dalla Gran Bretagna alla fine del ‘700) e, sebbene ancora per poco, alla Spagna (le
bocche dell’Orenoco). Un tale percorso sembrava giustificare ampiamente lo studio
dell’inglese e dello spagnolo a cui si era dedicato il nostro in previsione del suo viaggio
e, allo stesso tempo, confermava la serietà e il rigore con cui vi si era preparato.
Tuttavia Bertero prese, o dovette prendere, per motivi di difficile individuazione,
tutt’altra direzione e dalla Guadalupa si spostò verso nord-ovest, soggiornando prima
nell’isola di S. Tommaso, una terra rocciosa e arida, dove però riuscì a raccogliere
diverse specie poco conosciute di cui mandò un elenco all’amico Colla, e poi in quella
di S. Croce, entrambe, all’epoca, possedimenti danesi. Di lì si trasferì nella colonia
spagnola di Puerto-Rico, dove, da Patillas, una località dalla vegetazione
lussureggiante, il 15 gennaio 1819 scrisse all’amico Colla mostrandosi profondamente
deluso dalle qualità umane dei suoi abitanti, critico nei confronti dell’amministrazione
civile e disgustato dal "dispotismo" e dal "fanatismo all’eccesso" che la
caratterizzavano alludendo, senza dirlo apertamente, all’oscurantismo spagnolo (Colla
1832: 11).
Di nuovo per ragioni insondabili, Bertero non proseguì nella sua corsa verso
occidente, ma seguì la rotta opposta, dirigendosi a oriente, verso le Grandi Antille, a
cominciare dall’isola di
Hispaniola
, dove soggiornò tra il 1819 e il 1820. In un primo
momento visitò la parte orientale della stessa (oggi Repubblica Dominicana e all’epoca
colonia spagnola), e poi quella occidentale, divenuta, nel 1804, dopo la lunga
rivoluzione degli schiavi e dei neri emancipati che l’aveva opposta ai francesi,
repubblica indipendente col nome di Haiti. Di qui, tra il 1820 e il 1821, Bertero si
diresse verso sud, in direzione della cosiddetta
Tierra Firme
, ossia verso le coste
dell’attuale Colombia, toccando le città costiere di Santa Marta e Barranquilla, vicine
alla foce del Río Magdalena, e di Santa Cruz de Mompós, che si affaccia sullo stesso
fiume, a poche centinaia di chilometri più a sud. Secondo Colla, Bertero fu costretto
dall’ "atroce guerra che vi ardeva" a trattenersi poco tempo nella regione e fu proprio
allora, nel 1820, che avrebbe deciso di tornare in patria (Colla 1832: 11).
La guerra citata dal Colla che si stava combattendo in quelle contrade vedeva le
ex colonie del Venezuela e della
Nueva Granada
(oggi Colombia), insorte contro la
Spagna, opporsi da un decennio alla ex madrepatria. A guidare l’esercito
libertador
era
Simón Bolívar, il generale e patriota venezuelano che aveva portato i
revolucionarios
all’indipendenza e che, in seguito, li avrebbe condotti alla vittoria definitiva di
Ayacucho, nel 1824, costringendo i peninsulari a rinunciare definitivamente alle
colonie sudamericane. Reduce dalla vittoria di Boyacá che, nell’agosto del 1819, gli
aveva aperto la strada per la liberazione di Bogotá, Bolívar era stato quivi eletto
presidente della neo-costituita Repubblica di Colombia (nota come Gran Colombia),
che comprendeva le attuali repubbliche di Venezuela e Colombia e che costituiva la
realizzazione della prima parte di un coraggioso progetto unitario che avrebbe portato
successivamente alla liberazione di Ecuador, Perù e Bolivia. Nel territorio della nuova
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repubblica, però, la resistenza degli spagnoli era ancora forte. Nonostante che nel
1820 Bolívar avesse firmato un armistizio di sei mesi con Morillo, il comandante in
capo delle forze spagnole d’occupazione, già nel gennaio del 1821 la provincia
venezuelana di Maracaibo era insorta contro gli spagnoli che ancora l’occupavano. La
guerra tra insorti e ex padroni si riaccese.
Sembrava, dunque, che Bertero avesse agito saggiamente, decidendo di
ritornare in patria in quei frangenti. Quando, nel giugno del 1821, ebbe luogo la
battaglia di Carabobo che segnò una nuova vittoria dei patrioti e la definitiva
liberazione del Venezuela dal dominio spagnolo, Bertero era già arrivato a Kingston, in
Giamaica, la colonia britannica che sarebbe stata l’ultima tappa del suo viaggio. Di lì a
pochi giorni sarebbe ripartito per l’Europa. Eppure, sempre che si potesse usufruire di
opportuni appoggi e di referenze accreditate, l’esplorazione della Repubblica di
Colombia non doveva essere poi così impraticabile, nonostante la guerra.
A sostegno di quanto affermato ci pare opportuno ricordare l’esperienza, narrata
nelle sue memorie, dell’esperto francese di miniere, nonché di vulcanologia e
meteorologia, Jean-Baptiste Boussingault (1801-1887) il quale, se così non fosse stato,
ben difficilmente avrebbe accettato la proposta di lavoro che gli veniva offerta dal
governo colombiano. Partito da Anversa il 22 settembre 1821, Boussingault era
sbarcato esattamente due mesi dopo, nel novembre 1821, a La Guaira, in Venezuela.
Di qui avrebbe poi proseguito via terra verso occidente, fino a Bogotá, dove avrebbe
dovuto mettere in piedi
una
Escuela de Mineros
oltre a continuare le sue ricerche e le
sue sperimentazioni, secondo quanto prevedevano i termini della sua assunzione da
parte del governo repubblicano di Colombia. L’avventuroso trasferimento via terra dal
porto de La Guaira verso ovest, fino alla capitale della nuova repubblica di Colombia,
sarebbe durato, secondo le previsioni, dai due ai tre mesi, e avrebbe implicato, tra gli
altri ostacoli che ne costellavano il percorso, anche l’impegnativo attraversamento
delle Ande e il passaggio in zone pericolose, perché limitrofe a quelle in cui si
combatteva. Nonostante queste difficoltà, Boussingault poté portare a termine il
difficile tragitto grazie alla protezione degli ufficiali dello stato maggiore dell’
ejercito
libertador
, da Soublette a Páez, e dello stesso Bolívar, che lo attendeva a Bogotá e al
quale era stato raccomandato caldamente e ripetutamente da Alexander von
Humboldt (1769-1859), il più noto tra i viaggiatori e gli scienziati europei che avevano
visitato quelle regioni agli inizi del secolo e che godeva ancora di un grande prestigio
presso i rivoluzionari come sostenitore della causa indipendentista (Boussingault
1892-1903).1 Un’ulteriore dimostrazione, questa, che, più che la guerra, era stata la
mancanza di appoggi scientifici e di mezzi a rendere impossibile la realizzazione del
1 Nelle sue
Mémoires
(1892-1903), Boussingault, oltre a narrare gli accadimenti del decennio
1821-1831 trascorso tra Venezuela, Colombia ed Ecuador, pubblicò le proprie lettere indirizzate a von
Humboldt, le sue risposte e la lettera nella quale Bolívar s’impegnava a proteggere il viaggiatore
francese.
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progettato itinerario di Bertero in Colombia e che furono queste contingenze a
permettere ad altri di portarne a compimento l’esplorazione botanica.
Insieme con Boussingault, infatti, dalla Francia fino a La Guaira, avevano
viaggiato altri "naturalisti" – da lui non meglio definiti – tra i quali il noto botanico
Justin Goudot (?-1845), impiegato presso il Museo botanico di Delessert, il quale,
assunto dal governo colombiano, ne sarebbe rimasto al servizio fino al 1826 per poi
proseguire il proprio lavoro autonomamente fino al 1842. Per questo gruppo di
scienziati il trasferimento sarebbe avvenuto via mare, da La Guaira fino a Cartagena,
lungo un percorso più agevole. Di Goudot avrebbe iniziato l’esplorazione
naturalistica, partendo proprio dalla foce del Río Magdalena verso l’interno, poco più
di un anno dopo che Bertero l’aveva lasciata per tornare in patria, perdendo così
l’opportunità di essere il primo botanico europeo a esplorare quella regione.
DI NUOVO IN EUROPA
Tra i desideri espressi da Bertero nell’ultima lettera dalla Giamaica (Kingston, 2 giugno
1821), c’era stato quello di poter presto riordinare le collezioni che aveva inviato
soprattutto al suo maestro Balbis e di aggiornarsi su quanto si era fatto in Europa in
campo botanico. Fu molto probabilmente per queste ragioni, che, al suo ritorno, dopo
una navigazione funestata da furti e tempeste, si fermò fin quasi alla fine dell’anno in
Francia, dove si trovava ormai stabilmente radicato il suo maestro Balbis, in qualità,
come si è visto, di direttore dell’Orto botanico e di professore nell’Università di Lione. Il
comune amico dei due, l’avvocato Colla, non si trattenne, a questo proposito, dal
criticare Balbis, pur mostrando una giudiziosa deferenza verso l’insigne maestro, per
l’uso sconsiderato che lo studioso aveva fatto del prezioso materiale inviatogli dal suo
allievo più apprezzato e amato. Invece di conservare i preziosi esemplari speditigli con
chissà quante difficoltà, infatti, Balbis li aveva ripartiti in maniera disordinata tra quanti,
tra gli studiosi di botanica, fossero interessati a possederli, fino a privarsene
completamente, senza nemmeno conservare quelli consegnatigli
brevi manu
dallo
stesso Bertero. Colla lamentava soprattutto, e a ragione, il fatto che tali esemplari,
elargiti con grande generosità e modestia anche dallo stesso Bertero, avrebbero
dovuto essere ordinati e catalogati dallo stesso raccoglitore che avrebbe così reso un
miglior servizio alla scienza, giacché nessuno meglio di lui, che scriveva con grande
chiarezza, avrebbe potuto descriverne le caratteristiche e le qualità (Colla 1832: 9).
Di fatto, molti botanici si avvalsero degli
specimina
di Bertero per le loro
pubblicazioni, lasciando, nel migliore dei casi, al loro vero scopritore il solo merito di
averli raccolti nel loro habitat. La gravità della dispersione dell’erbario antillano può
facilmente essere compresa dando anche solo un’occhiata allo splendido manoscritto
conservato a Torino, presso la Biblioteca dell’Orto botanico. Si tratta di 14 fascicoli
legati insieme a formare un unico testo di 1.095 pagine che contiene il resoconto
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scritto in latino dell’attività di raccolta e di catalogazione dei 1.746 esemplari
erborizzati sul campo, per ciascuno dei quali sono indicati le località, gli habitat, il
nome comune, gli usi medicinali, e i problemi relativi alla tassonomia e alla
sistematizzazione delle specie. Spesso, accanto alla descrizione, Bertero disegnò a
matita, con verosimiglianza esemplare, e con i dettagli morfologici più significativi per
identificarla, la specie illustrata. Anche in questo caso lo straordinario volume è giunto
ad un ente pubblico italiano più per la generosità, e forse per gli scrupoli, di un singolo
che per la solerzia di Balbis, al quale era stato donato dall’autore. Costui, infatti, lo
aveva ceduto al grande botanico ginevrino Augustin Pyramus de Candolle (1778-
1841), che non si era fatto scrupolo di utilizzarlo e talora di copiarne dei pezzi, nel suo
Prodromus
(1823-1873). Fu il figlio di Candolle, Alphonse (1806-1893), succeduto al
padre nella direzione dell’Orto botanico di Ginevra e nell’insegnamento presso
l’Università della stessa città, che lo restituì a Torino nel 1857.
Alla fine del 1821, ritornato a vivere stabilmente ad Alba presso l’amatissima
madre, dopo il soggiorno francese, Bertero occupò il quinquennio successivo a
lavorare assiduamente, esplorando ed erborizzando lungo l’Appennino ligure, le Alpi e
le valli piemontesi fino a raccogliere un’enorme quantità di materiale, tanto in piante
come in semi, che sarebbe dovuto confluire in una
Flora del Piemonte
. Il progetto non
si concretizzò a causa della nuova partenza di Bertero per l’America del Sud, ma il
materiale collezionato fu lasciato disinteressatamente al Colla, che, autorizzato a
utilizzarlo per il suo
Herbarium pedemontanum
(1833-1837), rivelò lealmente il gesto
generoso dell’amico.
Fu in questi anni che Bertero fu accolto nell’Accademia Reale delle Scienze come
membro titolare tra i non residenti a Torino, con la sobria dicitura "Bertero, dottore in
Medicina, in Alba", e fu chiamato a collaborare col professor Giuseppe Giacinto Moris
(1796-1869), docente di botanica presso l’Università di Torino, incaricato dal governo
piemontese di preparare uno studio sulla flora della Sardegna. Per ragioni non chiarite,
Bertero lavorò solo alcuni mesi nell’isola da cui fece ritorno prima della conclusione
della spedizione, fornendo ugualmente a Moris elementi sufficienti perché costui
esprimesse sinceri apprezzamenti per il suo operato. Bertero coltivava comunque già
da qualche tempo l’idea di fare un altro viaggio, questa volta in direzione delle terre
australi ed esprimeva a Colla la sua incertezza nello scegliere tra l’Africa, l’Australia e
l’America Meridionale. La morte della madre, occorsa agli inizi del 1827, segnò il
momento della risoluzione definitiva alla partenza. Si trattava, a quel punto, solo di
decidere in che direzione.
IL VIAGGIO E LESPLORAZIONE BOTANICA IN CILE
Il suggerimento di andare in Cile venne soprattutto dal Candolle (che all’epoca si
trovava a Parigi dove Bertero si era recato in previsione della progettata partenza), il
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quale, evidentemente conscio della precarietà dei mezzi e della mancanza di appoggi
di Bertero, aveva fatto presente come "molti egregi naturalisti, fra cui parecchi protetti
e sostenuti dai governi, ed avvalorati da ricche società" avessero già percorse le terre
australi dell’Africa e dell’Asia, e come fosse perciò improbabile che Bertero, coi soli suoi
mezzi, riuscisse ad aggiungere altro alle loro scoperte. Al contrario, la flora cilena si
conosceva solo attraverso le "rancide ed imperfette descrizioni" del Feuillée, del
Molina e di pochi altri oscuri viaggiatori (Colla 1832: 1813).
Questa volta, tuttavia, Bertero non andava completamente allo sbaraglio, come
era successo precedentemente. Come membro dell’Accademia delle Scienze di Torino
poteva esibire una lettera di presentazione e come botanico aveva ricevuto molte
credenziali dall’eminente imprenditore e banchiere lionese, nonché barone
dell’Impero e
patron
di quel Justin Goudot che aveva esplorato la Colombia in vece
sua, il notissimo Benjamin Delessert (1773-1847), il quale poteva contare sui suoi
rapporti commerciali col Sudamerica ed era un appassionato cultore della botanica
oltre che un esperto collezionista di vegetali e conchiglie. Un personaggio di grande
spicco, anche dal punto di vista politico e sociale, per le sue idee progressiste, al quale,
però, non competeva di fornire al viaggiatore i mezzi di sussistenza che Bertero
avrebbe trovato, come di consuetudine, nelle proprie magre risorse personali e
nell’esercizio della professione medica, che cominciò a espletare subito, come medico
di bordo.
Ai primi di settembre del 1827, dunque, Bertero si trasferì da Parigi a Le Havre,
dove avrebbe dovuto aspettare il vento favorevole alla navigazione e il momento
propizio per imbarcarsi. Poiché quest’attesa, com’è noto, poteva protrarsi anche per
molte settimane, come di fatto avvenne, il giovane studioso ne approfittò per
prendere lezioni di disegno e di pittura botanica da Pierre Jean-François Turpin (1775-
1840), uno dei più famosi artisti del suo tempo in questo campo, che si trovava per
coincidenza in quella città.
Nonostante la consueta operosità, da Le Havre, il 14 settembre 1827, il
viaggiatore inviò una lettera al Colla venata di tristezza. Più che di un presagio di
morte, come asseriva il Colla citandone una parte, le parole del mittente erano pervase
dal malessere, naturale in chi era in procinto di partire per una meta così distante, ma
anche dalla comprensibile sensazione di sconforto di un "
individu seul
", per usare le
sue stesse parole, che si trovava a dover rispondere alle infinite e insistenti richieste dei
colleghi e, allo stesso tempo, doveva provvedere, "
avec si peu de moyens
", alla propria
sussistenza e al proprio lavoro. In questo stato d’animo, non era così strano che
Bertero potesse affermare che una "
mort prématurée
" l’avrebbe sottratto agli affanni e
agli eventuali rimproveri di coloro che si aspettavano da lui il soddisfacimento delle
loro richieste patria (Colla 1832: 14). Forse per questa ansia da partenza, nello stesso
1827, si era fatto fare un ritratto, unica riproduzione delle sue fattezze giunta fino a noi,
dalla torinese Sofia (o Sophie) Clerc (o Clerk), nota pastellista e miniaturista dell’epoca
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(1778-1829) e moglie di Giovanni Giordano, un medico amico del Balbis. Un lascito
affettuoso per familiari e amici nel caso in cui il destino non gli fosse stato propizio.
Nulla si sa del lungo viaggio che portò Bertero in Cile, se non la sua durata, di 112
giorni, un tempo di percorrenza piuttosto corto per l’epoca, che dimostrava che la
nave
Fulgor
, sulla quale era imbarcato, non aveva incontrato particolari difficoltà nella
lunga navigazione che l’aveva portata dall’Atlantico al Pacifico attraverso i minacciosi
marosi dello Stretto di Magellano o di Capo Horn. Partito nella seconda metà di
ottobre 1827, Bertero sbarcò a Valparaíso nel febbraio del 1828 e di lì si trasferì
rapidamente a Santiago, la capitale che distava poco più di un centinaio di chilometri
dalla costa.
Mentre l’Europa usciva lentamente dalla Restaurazione e vedeva il riaffacciarsi di
rivendicazioni politiche libertarie, a cominciare dai moti del 1821, in Sudamerica le
colonie spagnole avevano conquistato la piena indipendenza. Il Cile aveva dichiarato
la propria fin dal 1818 e aveva costituito una Repubblica, il cui presidente era investito
di ampi poteri. Nel 1827, dopo Bernardo O’Higgins (1818-1823) e Ramón Freire (1823-
1826), era stato eletto come terzo presidente del paese un vecchio combattente per la
causa indipendentista, il liberale Francisco Antonio Pinto (1785-1858). Bertero
giungeva in Cile, dunque, poco dopo la vittoria dei liberali in un momento in cui il
Presidente tentava di costituire un governo centralizzato, in opposizione alle spinte
centrifughe dei vari
caudillos
locali, ma anche di consolidare un nuovo impianto
politico che garantisse le libertà individuali, rafforzasse i principi della sovranità e della
rappresentanza popolare e tagliasse definitivamente i ponti con il clericalismo e i
privilegi delle
élites
, retaggi del passato coloniale. La politica di Pinto, tendente ad
eliminare i particolarismi e i poteri locali, suscitò reazioni e ribellioni soprattutto nelle
guarnigioni, dando la sensazione di una turbolenza persistente, tanto che la
storiografia cilena chiama questo, il periodo dell’ "anarchia politica".
Nonostante l’instabilità politica del paese, la fine del monopolio economico
spagnolo aveva aperto le porte del Cile a commercianti e a affaristi, attirati dalle
ricchezze minerarie e dalla possibilità di proficui affari, ma anche a uomini di scienza.
Tra gli stranieri residenti i più intraprendenti erano gli inglesi, che formavano già una
piccola comunità sia a Valparaíso sia nella capitale. Nel 1825 uno di loro, John Miers
(1789-1879), esperto di miniere e appassionato di botanica, e perciò, come si vedrà,
ricordato da Bertero, aveva lasciato il Cile per ritornare a Londra, dove, l’anno
seguente, avrebbe pubblicato i ricordi del suo lungo soggiorno in Sudamerica.
Tuttavia, tra i nuovi arrivati, alcuni erano ex militari, perlopiù reduci delle campagne
napoleoniche che, conclusasi l’epopea imperiale, si erano trovati di fronte
all’alternativa di restare in una patria ormai irriconoscibile, senza stipendio e senza
saper fare null’altro che il soldato, o di cercare nell’America latina un nuovo fronte sul
quale combattere per la libertà e gli ideali repubblicani.
Santiago, la capitale, assai meno movimentata del porto di Valparaíso, era una
cittadina di 40.000 abitanti. Delimitata verso est dall’imponente catena delle Ande, di
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cui si vedevano le cime innevate, era circondata da una campagna fertile e produttiva.
Gli spostamenti via terra si facevano per la maggior parte a cavallo, non essendovi
strade da potersi percorrere in carrozza, se si escludono quella, peraltro assai
accidentata e inerpicata, che univa la capitale al suo porto e quella che, attraverso la
Valle del fiume Aconcagua, la metteva in contatto con i due passi andini di Uspallata e
di Portillo e, al di là di questi, con l’Argentina. Verso sud, attraversando una campagna
ferace, una mulattiera univa la capitale a Concepción, la città più meridionale del
paese, situata a poco più di 500 chilometri dalla capitale, sulla foce del fiume Bío-Bío, e
collegata al resto del mondo grazie al suo porto di Talcahuano, sul Pacifico, il secondo
per importanza dopo Valparaíso. A nord, il porto de La Serena, a 500 chilometri circa
dalla capitale, delimitava la regione abitata, prima dell’arido deserto di Atacama. In
sostanza, il paese si estendeva su una superficie limitata, pari a un terzo di quella
attuale, chiuso, com’era, a nord dall’inospitalità del deserto, a sud dalla presenza degli
indigeni
mapuche
, ben intenzionati a non cedere nulla del loro territorio ancestrale
allo stato cileno.
Nella prima sua lettera a Colla, scritta da Santiago l’11 marzo 1828, Bertero
manifestava una certa delusione nei confronti del paese in cui era giunto da poco,
lamentando il fatto che in quel momento le campagne fossero arse dalla siccità e dal
calore; che per 8 mesi all’anno non cadesse una goccia d’acqua; che gli era stato
malagevole ottenere dalle autorità locali sia l’autorizzazione a fare il medico sia le
normali facilitazioni che in genere i governi concedevano ai viaggiatori europei patria.
Il mittente progettava di spostarsi di lì a due giorni a Rancagua, un villaggio ubicato a
87 chilometri a sud della capitale, di fermarcisi per tre mesi e poi di continuare verso
sud, per raggiungere San Fernando, Talca, Curicó, il fiume Itata, Chillán fino ad arrivare,
come ultima tappa, a Concepción. Aggiungeva che, malgrado le difficoltà incontrate e
la stagione poco propizia, aveva già raccolto più di 150 specie, tra le quali parecchie
nuove, e preparato 100 sacchetti di semi (Colla 1832: 14). Giunto a Rancagua, Bertero
scriveva sfogandosi di nuovo. Raccontava di essere esposto a continue privazioni,
comprese quelle che riguardavano le cose più essenziali per vivere, di essere costretto
a ripararsi in abitazioni primitive e di sopportare con difficoltà il clima, a causa delle
continue piogge e del gelo. Criticava la gente, piena di pregiudizi, che lo costringeva a
fare contemporaneamente "il Medico, il Chirurgo e lo Speziale" e che era pronta a fare
a meno delle sue prestazioni se il malato, anche il più grave, non guariva nel giro di un
giorno di cure. Insomma, l’ambiente rurale sembrava confermare, agli occhi di Bertero,
la generale arretratezza del piccolo paese, isolato e lontano dal mondo (Colla 1832:
15).
Per erborizzare Bertero si doveva allontanare quotidianamente da Rancagua,
dove i pascoli, dando ricovero al bestiame, poco si prestavano alla raccolta di
esemplari interessanti. Durante la sua permanenza nell’area compresa tra Rancagua e
San Fernando, il villaggio più meridionale nel quale s’insediò, distante 55 chilometri
dal primo, il botanico piemontese si spostò fino al villaggio di Paine e al fiume Maipú, a
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nord, ripercorrendo i suoi passi, e di qui deviò a ovest fino al Lago di Aculeo; più a sud
percorse le rive del fiume Cachapoal, in direzione est, senza raggiungere, però, le già
famose terme di Cauquenes; esplorò il piccolo lago Taguatagua, del quale oggi non
resta traccia, essendosi completamente prosciugato, che si trovava a metà strada tra
Rancagua e San Fernando, spingendosi lungo il Río Claro.
Rispetto al proposito iniziale, però, l’itinerario di Bertero si ridusse di molto. Non
soltanto non raggiunse Concepción, ma non poté nemmeno arrivare a Talca e a
Chillán che si trovavano rispettivamente a 257 e a 407 chilometri dalla capitale. Le
ragioni erano molte. Oltre a quelle più ovvie, ma enormi, che riguardavano le difficoltà
di spostamento via terra, aggravate dall’avvicinarsi della stagione invernale, il territorio
a sud di San Fernando era estremamente pericoloso. Da quando, agli inizi del processo
d’indipendenza, i quattro fratelli Pincheira avevano costituito delle bande agguerrite
che lo controllavano con le armi, spostandosi agevolmente dal loro rifugio montano
nelle valli prossime a Chillán verso la più ubertosa pianura di Talca per razziare,
sequestrare e depredare. Oltrepassare questa zona pericolosa significava poter
raggiungere Concepción, al di là della quale ogni escursione diventava pressoché
impossibile, poiché, una volta guadato il fiume Bío-Bío, si entrava, come si è visto, nel
territorio dei
mapuche
, gli indigeni che, col nome di Araucani, attribuito loro dagli
spagnoli, erano diventati famosi per aver opposto un’incrollabile resistenza contro gli
stessi e per aver mantenuto la loro piena indipendenza anche dopo la formazione
dello stato nazionale cileno.
Un percorso tra
bandoleros
e
indios
risultava, quindi, difficilmente affrontabile,
soprattutto da un uomo solo e disarmato. A riprova di quanto asserito, valga
l’esperienza di Charles Darwin, che, cinque anni dopo Bertero, e provvisto di ben altra
protezione, avrebbe percorso l’identico itinerario, riuscendo ad arrivare solo un poco
oltre lungo il Río Cachapoal, fino alle terme di Cauquenes, dove, allarmato per il
profondo
cañon
che dovette attraversare, rievocò le incursioni spericolate dei
Pincheira e la fama terrificante che ne accompagnava il ricordo. Di qui, il giovane
naturalista inglese cavalcò fino a San Fernando, il punto più meridionale che, proprio
come Bertero, avrebbe raggiunto e dal quale piegò "ad angolo retto" verso la costa,
per poter visitare le miniere d’oro di Yaquil, di proprietà di un nordamericano. In
assenza di un’informazione precisa è difficile stabilire il percorso lungo il quale Bertero
effettuò il suo ritorno verso la capitale. Tuttavia è probabile che seguisse lo stesso
cammino di Darwin e arrivasse a Valparaíso da dove avrebbe potuto spedire
agevolmente i suoi preziosi pacchi. In ogni caso, agli inizi del 1829, doveva trovarsi di
nuovo a Santiago, per iniziare la collaborazione con
El Mercurio chileno
e proseguire
nelle sue ricerche, come attestano i frequenti riferimenti alle località santiaghine dove
si recò a erborizzare. Per la prima volta nella storia del Cile, sia coloniale che
indipendente, un botanico professionista aveva condotto una perlustrazione accurata
in un’area limitata (che sarebbe stata, però, ancora per molti decenni, l’unica
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accessibile ai naturalisti), e aveva messo insieme una raccolta di esemplari secondo i
più moderni criteri scientifici, catalogando, tra le altre, specie ancora sconosciute.
LA POLITICA CULTURALE DEL PRESIDENTE PINTO. LA PARTECIPAZIONE DI BERTERO
Bertero, dunque, terminata la sua ricerca sul campo, ritornò nella capitale, ma non
rinunciò ad analizzare la flora cilena anche in città. Lo si intuisce dal fatto che lo stesso
botanico, menzionando i luoghi in cui si recava a erborizzare, fa riferimento a quartieri
periferici o a zone scarsamente urbanizzate della Santiago ottocentesca. Così la
Chimbia
era, per esempio, un quartiere popoloso della parte settentrionale della
capitale; la
Quinta
un settore situato a ovest del centro, proprio dove ora si trova il
Museo Nacional de Historia Natural
; e, infine, il
Cerro San Cristóbal
era la caratteristica
collina che all’epoca limitava la parte nord orientale di Santiago e che oggi emerge dal
caos cittadino come un’oasi di verde, preservata a stento dalla cementificazione, dalla
quale si può ammirare un ampio panorama della città sottostante. A Santiago Bertero
riprese a esercitare la professione medica, in una situazione generale che, come aveva
già verificato a Rancagua, doveva essere estremamente arretrata. Basti pensare che in
Cile non esisteva una Facoltà di Medicina, essendo stata chiusa nel 1829 quella
esistente per mancanza di studenti. Benché le condizioni climatiche del paese, simili a
quelle mediterranee, non favorissero il diffondersi di malattie tropicali, tuttavia il
morbillo, la febbre puerperale, la stessa influenza potevano essere fatali ed il vaiolo
non era stato ancora debellato completamente. In questo ambito l’abilità
professionale di Bertero dovrebbe aver avuto una certa risonanza, ma i saggi di storia
della medicina cilena si limitano a registrarne la semplice presenza, senza fornire
ulteriori ragguagli.
Nella capitale, tuttavia, era in atto un tentativo di modernizzare il paese, voluto e
avviato dallo stesso presidente Pinto. Con questo obiettivo l’8 agosto 1828 era entrata
in vigore una nuova Costituzione. Il testo, opera di un’apposita commissione, era stato
redatto, in realtà, dall’intellettuale spagnolo di tendenze liberali José Joaquín Mora
(1783-1864), giunto in Cile dall’Argentina nel febbraio 1828 (più o meno
contemporaneamente a Bertero), dove aveva collaborato col presidente Bernardino
Rivadavia (1826-1827), conosciuto durante il comune esilio a Londra. Lo storico cileno
Diego Barros Arana (1830-1907), autore della prima e monumentale
Historia Jeneral de
Chile
(1884-1902) e nume tutelare della storiografia nazionale di stampo conservatore,
attribuì a Mora l’epiteto di
afrancesado
, alludendo non solo ai suoi modi, ma anche alla
sua formazione politica e alle sue simpatie verso un sistema di governo democratico e
liberale. Analogamente, trovò la nuova Costituzione troppo avanzata per i tempi.
Di fatto la nuova Costituzione introduceva importanti novità, dando, in primo
luogo, più attribuzioni al potere legislativo e diminuendo le prerogative dell’esecutivo;
costituendo delle embrionali forme di autogoverno locale; permettendo agli stranieri
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di accedere a qualsiasi carica pubblica, esclusa quella di ministro e di presidente della
Repubblica. D’ispirazione liberale e anticlericale, la carta costituzionale aboliva il
maggiorascato e riconosceva la sovranità popolare e i diritti politici e civili dei cittadini,
limitando lo strapotere della Chiesa e dell’oligarchia terriera. Come reazione alle nuove
tendenze governative, già ai primi di agosto del 1828, proprio a San Fernando, era
scoppiato un
motín
militare, e un altro, a Santiago, fu sventato dagli ufficiali fedeli al
presidente. Il 18 agosto, in ogni caso, le autorità civili e militari giurarono fedeltà alla
Costituzione.
Nel nuovo clima politico, il presidente Pinto, uomo d’armi, ma anche giurista e
amante della cultura, si adoperò per incentivare l’educazione. Essendo un
appassionato lettore, il presidente comprava di tasca propria libri per donarli alle
biblioteche pubbliche; ispezionava personalmente le scuole per verificare la qualità
dell’insegnamento; e invitava a pranzo a turno gli studenti del prestigioso
Instituto
Nacional
, che, ammettendo anche gli studenti meno abbienti, dal 1819 funzionava
come scuola superiore pubblica. In questa sua attività Pinto trovò un prezioso
collaboratore proprio in José Joaquin Mora. All’intellettuale spagnolo che chiedeva un
contributo statale per aprire un collegio, il governo concesse in uso per un decennio
uno stabile di proprietà pubblica e, invece dell’affitto, pretese che Mora cominciasse
con l’accogliere, in un internato, dieci giovani provenienti anche dalla provincia, il cui
numero si sarebbe accresciuto col tempo, ai quali lo stato avrebbe concesso delle
borse di studio. La scuola, dove s’insegnavano matematica, fisica, storia e
giurisprudenza, si chiamò
Liceo de Chile
e aprì i suoi battenti il 1° gennaio 1829, presto
seguita da quella per signorine aperta da Francisca Delauneux, la moglie francese di
Mora.
Data la collaborazione che di lì a poco si sarebbe stabilita tra Bertero e Mora, si
potrebbe dedurre che il botanico piemontese avesse in qualche modo partecipato
all’organizzazione del collegio aperto dallo spagnolo o vi avesse insegnato, ma non ci
sono prove in tal senso. Invece, quasi a confermare che le lezioni impartitegli dal
pittore botanico Turpin a Le Havre erano andate a buon fine, Bertero avrebbe
insegnato disegno botanico nel citato
Instituto Nacional
. Lo storico cileno Gonzalo
Izquierdo (1932-1990) afferma, infatti, a questo riguardo:
La Academia de San Luis impartió cursos de dibujo y cuando fue incorporada al
Instituto Nacional, la enseñanza quedó, hasta 1824, en las manos de José Gutierrez
y, luego, en las del suizo Henry Jenny. Allí se iniciaron como pintores Domingo
Matta y Santiago Zaldívar. También tuvo discípulos el naturalista Bertero, entre
quienes se interesaban por el dibujo botánico. (Izquierdo 1990: 290)
Secondo Izquierdo, che purtroppo non cita la sua fonte, dunque, Bertero
avrebbe tenuto i suoi corsi presso l’
Instituto Nacional
, proprio quando tale istituzione
scolastica fu trasferita in una sede più adatta, l’antico collegio gesuita
di
San Miguel
.
Che Bertero frequentasse questa stessa sede è peraltro confermato da un particolare
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riscontrato ne
El Mercurio
chileno
, dove, a proposito del luogo di ritrovamento della
Froelichia violacea. Spr
., l’autore avrebbe di lì a poco specificato di aver osservato
l’esemplare nel giardino dell’istituto stesso, dove si diceva che una sua radice fosse lì
"fin dal tempo dei Gesuiti" (Bertero 1833: 80). Per quello che si può dedurre dagli indizi
riscontrati nelle testimonianze citate, Bertero sembrò essere ben consapevole di
quanto stava avvenendo nel paese e, in questo contesto, prese partito per un governo
che stava avviando un nuovo corso, d’ispirazione chiaramente liberale e progressista, e
prestò la propria opera in uno dei settori, come quello del disegno botanico, che gli
erano più congeniali.
LA PUBBLICAZIONE DE
EL MERCURIO CHILENO
Una prova più consistente di questa sua presa di posizione risiede nella collaborazione
che Bertero prestò alla redazione de
El Mercurio chileno
, la rivista che accolse la sua
unica pubblicazione. La rivista, infatti, rispecchiava le idee del nuovo governo liberale,
dal quale era stata ideata e sostenuta finanziariamente. Il già citato Barros Arana
scriveva, a questo proposito, che il presidente Pinto, "grande ammiratore delle riviste
letterarie inglesi, volle rinnovare il tentativo fatto, durante la presidenza di Bernardo
O’Higgins, da Camilo Henriquez (1769-1825) con
El
Mercurio de Chile
e dotare il Cile di
una pubblicazione di quel tipo" (Barros Arana 1894: XV, 315). Il riferimento al passato,
nella figura del noto giornalista politico Camilo Henríquez, indicava, attraverso la
rievocazione di un patriota di tendenze democratiche che aveva pubblicato un
giornale ai tempi del primo presidente del Cile, l’area politica nella quale si sarebbe
mossa la pubblicazione, mentre la ripresa de suo titolo rivelava anche un’intenzione
concorrenziale nei confronti del contemporaneo
Mercurio de Valparaíso
, d’ispirazione
conservatrice.
Il presidente Pinto ne affidò la direzione a José Joaquín de Mora e sottoscrisse
250 iscrizioni, pagando una cifra annuale di 1.500 pesos, per sostenere il mensile che
sarebbe uscito, in quaderni di circa cinquanta pagine l’uno, a partire dall’aprile del
1829. Mora ne avrebbe curato la parte giuridica e letteraria, scrivendo anche le
recensioni; Bertero quella botanica, rendicontando le sue recenti osservazioni
scientifiche; il medico Passaman avrebbe scritto di igiene pubblica e avrebbe dato il
suo contributo anche Felipe Castillo Albo, un commerciante spagnolo, esperto di
misurazioni barometriche e meteorologia. Lo storico Barros Arana, sempre critico nei
confronti delle iniziative innovatrici, affermò che, pur avendo un carattere divulgativo,
la rivista era di un livello troppo alto per la cultura del lettore cileno medio e che,
perciò, pur nel breve lasso di tempo in cui fu pubblicata (l’ultimo numero uscì il 15
luglio 1829), ebbe una vita artificiale, sopravvivendo solo grazie alle sovvenzioni
governative.
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Date queste premesse, il fatto che Bertero accettasse di collaborare al
Mercurio
non può considerarsi occasionale, ma risponde, evidentemente, ad una scelta di
campo che, se da una parte poteva dipendere dall’eredità politica del giacobinismo
piemontese, dall’altra mostrava che il nostro si era ben inserito nel contesto politico
del paese ospitante e sosteneva, a ragion veduta, l’iniziativa di un governo liberale. In
questa prospettiva, anche i suoi articoli, pur nell’ambito di una disciplina scientifica,
rispondono ad una concezione aperta della cultura. Infine, il suo lavoro costituisce il
primo resoconto di una ricognizione delle piante cilene effettuata sul campo da un
esperto botanico, e non da un semplice appassionato (Bertero 1828-1829). Non a caso
tra i primi ad apprezzarne le qualità fu W. S. W. Ruschenberger (1807-1895), ufficiale
medico della Marina statunitense, ma anche appassionato naturalista, che, ritornato
dal Cile (dove aveva soggiornato nel 1828 e poi nel 1831-1832) nel suo paese,
provvide a tradurre e a pubblicare rapidamente l’intero lavoro (Bertero 1831-1833).2 Il
Colla, al quale Bertero ne inviò copia, a sua volta tradusse e pubblicò gli articoli, seppur
in versione ridotta, sugli
Annali
della Reale Accademia di Torino, avendone compreso
appieno le finalità divulgative e sociali, giacché, a suo parere, l’autore aveva
"principalmente la mira di dare un eccitamento allo studio in un paese, ove le scienze
sono nella culla, piuttosto che di formare un catalogo meramente scientifico, il quale
sarebbe per ora colà di poco o nessun vantaggio" (Colla 1830: 227).
Di particolare interesse, nel contesto generale, è il prologo che apre la
pubblicazione degli articoli di Bertero, che costituisce una sorta di breve, ma puntuale
indagine sulla natura del Cile, sulla sua flora, sulle sue risorse. L’autore vi delinea le
caratteristiche geografiche del Cile, a cui la costa del Pacifico, a ovest, offre ottimi
attracchi naturali e che le Ande, a est, proteggono dagli eccessi climatici, fornendo al
contempo abbondante acqua per l’irrigazione, in modo che il paese può essere
paragonato all’Italia. La produzione agricola e l’allevamento del bestiame sono favoriti
dalla natura, ma vi si potrebbero ulteriormente sviluppare il commercio del legname e
la coltivazione di alberi da frutta. Per quanto riguarda le ricchezze minerarie, Bertero
affida il compito, per il quale non si ritiene competente, di illustrarne le caratteristiche
e di individuare i mezzi per sfruttarle a quanti se ne intendono, spronandoli, allo stesso
tempo, a studiare il modo per evitare i gravi incidenti che colpiscono sempre più
frequentemente i minatori.
L’agricoltura è, secondo l’autore, il principale "tra i mezzi usati dalle nazioni civili,
per incrementare il loro commercio e la loro felicità" perché le rende indipendenti
dalle importazioni, assicurando l’uguaglianza tra il popolo. Infatti "una nazione è
moralmente libera se la sua popolazione è formata prevalentemente da agricoltori". E'
perciò importante che si coltivi la conoscenza botanica, dalla quale "l’agricoltura, il
commercio, la medicina, e le arti" ricevono un grande contributo; tuttavia, anche la
sola ricerca ha valore di per se stessa, perché "la conoscenza è sempre preziosa e non si
2
Le citazioni testuali, la cui traduzione è nostra, sono estratte da questa edizione.
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limita alle sole applicazioni pratiche" (Bertero 1831: 64). I risultati della sua
esplorazione, per quanto limitata nello spazio e nel tempo, perciò, sono ugualmente
significativi, anche in previsione di un’opera futura nella quale Bertero preannuncia
che avrebbe illustrato il modo di aumentare la produzione e la qualità delle
coltivazioni cilene.
Bertero sottolinea, poi, il fatto che il Cile deve ancora essere esplorato dal punto
di vista botanico, nonostante i suoi vegetali siano particolarmente interessanti, come
hanno dimostrato, benché in maniera imperfetta, dati i tempi in cui furono scritti, i
lavori di Feuillée (1660-1732) e di Frezier (1682-1773), e, soprattutto, quelli dell’abate
Molina (1740-1829), "mentre l’affondamento della nave
Pedro de Alcantara
, nel 1786,
ha privato l’Europa della bella collezione messa insieme dai celebri botanici Ruiz,
Pavón e Dompier (sic)" (Bertero 1831: 65).3
La conoscenza botanica è così rimasta "imperfetta e limitata", perché si è formata
intorno all’opera di viaggiatori che hanno visitato "accidentalmente" la costa e
"raramente" l’interno. D’altra parte, solo gli illustri botanici "Cavanilles, Lagasca,
Hooker, Lindley, De Candolle, Schlechtendal e pochi altri" hanno pubblicato la
descrizione di alcune specie che, tuttavia, "hanno ricevuto" in dono da altri. Infine, nel
1826, Miers ha pubblicato solo i nomi degli esemplari da lui stesso raccolti durante il
suo soggiorno in Cile (Bertero 1831: 65). Concludendo la sua dissertazione sulla
scienza botanica, della quale ha tracciato un profilo storico sintetico, ma preciso,
Bertero afferma che, se si riuscisse a riunire in un unico corpo tutte le informazioni
raccolte, dopo averle corrette e ampliate con i risultati delle nuove ricerche, si
renderebbe un grande servigio alla scienza e agli stessi cileni. Ma ciò non è un compito
che possa essere svolto da una sola persona. Solo il governo potrebbe favorirne
l’esecuzione, fornendo il necessario a chi sia capace di sobbarcarsi un obiettivo così
oneroso.
Bertero conclude la sua introduzione affermando che, per dare al lettore una
sintetica visione di ciò che ha raccolto ed esaminato e per facilitarne la lettura, ha
scelto di procedere in ordine alfabetico, aggiungendo, a quelli scientifici, i nomi
popolari delle piante, con l’obiettivo di spingere il lettore comune ad approfondirne la
conoscenza e, allo stesso tempo, augurandosi di fornire agli studiosi stranieri uno
strumento per abbreviare il loro futuro lavoro di ricerca. Afferma, inoltre, di non aver
trascurato di menzionare i vegetali esotici introdotti nei giardini cileni né di segnalare
quali erano da preferire per le loro possibili applicazioni pratiche. In modo particolare,
Bertero rileva di aver indicato le proprietà medicinali delle piante, un’informazione
3 La celebre spedizione botanica spagnola al
Virreinato del Perú
(1777-1784), voluta da Carlo III di
Borbone, al cui comando era stato preposto Hipólito Ruiz López (1752-1816), coadiuvato da José
Antonio Pavón y Jiménez (1754-1840) e dal medico francese Joseph Dombay (1742-1796), subì
numerosi incidenti, tra i quali la perdita di gran parte del materiale erborizzato per il naufragio della
nave citata da Bertero (1784).
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assai utile in un paese ove mancano i farmacisti, e sostiene di credere che un lavoro
specifico sulle proprietà medicinali dei vegetali cileni sarebbe di grandissimo interesse.
L’introduzione di Bertero risulta non solo efficace nell’introdurre un lavoro di
carattere divulgativo, destinato ad un lettore non necessariamente esperto, ma è
anche illuminante rispetto alla sua stessa concezione della ricerca scientifica. Erede di
una cultura tardo-settecentesca che valorizzava la pubblica utilità, Bertero sembra
riecheggiare le teorie fisiocratiche, che a questa cultura appartenevano, quando elogia
l’agricoltura non solo come strumento di benessere, ma anche come fonte di moralità,
in quanto portatrice di libertà per le comunità che ad essa si dedicano. Un intento,
quello di essere utile al benessere collettivo, che Bertero avrebbe voluto sviluppare in
un secondo lavoro che non si compì, ma la cui citazione ci è utilissima per capirne gli
intendimenti.
L’argomento utilizzato come chiusa alla sua disamina, è, tuttavia, quello che più
sorprende, dal momento che Bertero, nel prefigurare l’importanza e l’utilità di
un’opera che riunisse in un unico
corpus
non solo le informazioni raccolte, ma anche
quelle da raccogliersi, afferma che solo il governo ne potrebbe favorire l’esecuzione,
fornendo ogni mezzo a chi fosse capace di assumersi un incarico di tali proporzioni,
impossibile per un uomo solo. Se da un lato, con le sue parole, Bertero fotografava la
propria situazione d’impotenza rispetto a compiti più complessi che pure gli sarebbe
piaciuto assumere, dall’altra sembrerebbe sollecitare un intervento di Pinto per
mettere in pratica un tale progetto. Come vedremo, i radicali cambiamenti della
politica cilena e la presenza nel paese del naturalista francese Claude Gay, un
personaggio meglio introdotto nell’ambiente politico che di a poco avrebbe
trionfato, sottrassero a Bertero questa possibilità.
LE PIANTE CILENE SECONDO BERTERO
Quello che all’apparenza potrebbe sembrare solo un elenco ragionato delle specie
cilene si risolve, in realtà, in un’ampia rassegna della flora locale nel suo complesso,
che comprende sia le specie autoctone sia quelle importate, sia quelle spontanee sia
quelle coltivate, sia quelle ornamentali sia quelle utili (officinali, tessili, tintorie, ecc.),
sia i funghi sia gli alberi d’alto fusto. Entrare nel merito di ogni singola voce, ordinata
alfabeticamente dalla lettera A fino che Q, dove il lavoro s’interruppe, esula dal nostro
discorso. Tuttavia ci è sembrato importante, anche perché finora non è stato fatto,
analizzare alcune caratteristiche generali del suo lavoro. E', infatti, attraverso questi
scritti che Bertero rivela la sua concezione di una scienza che si pone al servizio
dell’uomo e che è finalizzata al suo benessere. Anche attraverso l’ordito che sorregge
la sua lista di piante è possibile rintracciare l’eredità di una formazione giovanile che
ha trovato la possibilità di esprimersi.
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Per ciascuna voce Bertero usa il nome scientifico in latino, quello popolare in
spagnolo e, molto spesso, quello indigeno, utilizzando parole del
quechua
, ereditate
dall’antica presenza incaica nel Cile centro-settentrionale, ma soprattutto del
mapudungún,
la lingua dei
mapuche
, cioè degli abitanti del territorio a sud di
Concepción che avevano lasciato tracce linguistiche anche nel centro del paese dal
quale erano stati respinti ai tempi della Conquista. Insieme a queste, vi inseriva
qualche prestito originario di lingue di altre regioni americane, come quelli
taíno
,
dell’area caraibica, e
náhuatl
, di quella messicana, entrati a far parte del linguaggio
comune anche in Cile. Così per il
Cactus coccinillifer
, il termine popolare è
tuna
, una
voce di origine taíno. La cactacea, il cui frutto noi chiamiamo fico d’India (rimandando,
ovviamente, alle Indie Occidentali) e gli spagnoli
higo chumbo
, non è, infatti, originaria
del Cile.
Questa scelta rendeva più facilmente riconoscibili le specie analizzate attraverso
il nome che era (ed è) abitualmente usato dalla gente comune e,
contemporaneamente, presupponeva, oltre che un attento ascolto della lingua
parlata, una documentazione specifica da parte dell’autore. A rivelarci quale fosse
stata la fonte delle sue conoscenze linguistiche è lo stesso Bertero, quando, seppur
con una certa aria di casualità, a proposito della specie
Oxalis. L.,
comunemente
conosciuta come "fiore delle pernici", che ad aprile ricopre i campi di un manto
rossiccio, dice:
Mi hanno detto che gli indiani chiamano questa pianta
rimu
, e la usano per la
tintura. La parola
rimu
, secondo il Padre Andres Febres (sic), significa pernice.
(Bertero 1833: 260)
La fonte berteriana era, dunque, oltre la lingua parlata, la grammatica-dizionario
del
mapudungún
(
Arte de la lengua generale del reyno de Chile
), opera del gesuita
catalano Andres Febrés, pubblicata a Lima nel 1765 con lo scopo di istruire i missionari
destinati a evangelizzare i pagani e comprendente una raccolta di sermoni, preghiere
e altro materiale per la catechesi. Si potrebbe addirittura supporre che una copia del
testo fosse stata prestata al botanico italiano dal suo futuro compagno di viaggio,
Alexander Caldcleugh, di cui avremo occasione di riparlare. Il viaggiatore inglese,
infatti, nel suo diario di viaggio, pubblicato nel 1825, a proposito degli Araucani
affermava che il loro idioma era ben conosciuto, e di possedere una copia proprio del
dizionario di Febres (sic) (Caldecleugh 1825: 337).
La maggior parte dei nomi originari delle specie esaminate, erbe, arbusti e alberi
di alto fusto, sono, quindi, in
mapudungún
, e identificano, perciò, specie autoctone
cilene. A mo’ di esempio ne abbiamo selezionato alcuni che, per ragioni diverse,
riteniamo particolarmente significativi, come quelli relativi alle piante e agli arbusti più
noti o comuni:
Cestrum Parqui. Herit.
(o, in
mapundungún, culén
),
Erineum
vitis
(
maitén
);
Escallonia rubra
(
ñipa,
cioè puzzolente);
Aristotelea Macqu. Herit.
(
maqui
), un
arbusto dalle minute bacche violette commestibili dalle quali i
mapuche
ricavano, per
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fermentazione, una bevanda alcoolica;
Lorantus quintral
(il
quintral
, che significa
"imparentato con altri", è una pianta parassita dalle belle infiorescenze rosse, delle
dimensioni del nostro vischio); la
Colliguaya Odorifera. Molina
o, nella lingua
mapuche
,
colliguay
, e
lechón
in spagnolo, un arbusto che prende il suo nome
scientifico dal fatto che, se bruciato, il suo legno emana un gradevole odore di rosa;
Gunnera scabra
, o
pangue,
pianta erbacea assai comune nel sottobosco, i cui gambi
sono eduli e dissetanti, spesso messa a dimora nei giardini per la bellezza delle grandi
foglie palmate e pelose, simili a quelle di un’enorme edera.
E, ancora, tra gli alberi, la
Drymys winteri
, che si ricopre di bellissimi fiori bianchi
in primavera, chiamata
foique
o
canelo
dai
mapuche
che la consideravano sacra e ne
utilizzavano (come fanno ancora oggi) i rami e le foglie per le loro più importanti
cerimonie religiose; il
Maytenus chilensis
(oggi
boaria
), o
maitén
, albero dioico che
produce piccole bacche rosse e che può raggiungere i 20 metri di altezza, delle cui
foglie si ciba il bestiame bovino; la svettante palma cilena, o
Cocos
Chilensis. Molina,
chiamata
palma de coco
per i frutti che assomigliano a minuscole noci di cocco, che
Bertero, visto che non apparteneva al genere
Cocos
di Linneo ed essendo pure diversa
dalla
Jubea
Spectabilis
, proponeva che fosse dedicata al celebre Molina, ma che oggi è
identificata come
Jubea Chilensis
, e, infine, la
Litrea Venenosa. Miers
, un albero simile
al nostro leccio, le cui ruvide foglie provocano, al contatto, bollicine irritanti sulla pelle.
Manca, nel lungo elenco delle piante autoctone, una conifera che si è adattata
perfettamente nei giardini dei nostri laghi settentrionali, la
Araucaria araucana
, o
pehuén
, che può arrivare ai 50 metri di altezza, superando i mille anni di età, e che vive
in un
habitat
circoscritto, non incluso nell’esplorazione di Bertero. Si tratta di una
pianta dioica che produce delle specie di pigne, che contengono fino a duecento
piccoli frutti, i
piñones
, dal sapore simile a quello della castagna. Il
pehuén
costituiva
una risorsa alimentare fondamentale per quei
mapuche
che vivevano sulle Ande, ad
altitudini rilevanti, e che perciò venivano chiamati
pehuenches
. Una conferma che
Bertero aveva pubblicato sul
Mercurio
solo esemplari che aveva visto e analizzato coi
propri occhi nella zona compresa nel triangolo Valparaíso, Santiago e San Fernando.
Tra le specie analizzate da Bertero, compaiono, numerose, anche quelle che
furono classificate da lui per la prima volta. Ci limitiamo qui a citare, perché si tratta di
una piccola pianta molto comune che caratterizza il paesaggio cileno, l’
Acacia Cavenia.
Bertero
, chiamata comunemente
espino
, che, secondo il botanico piemontese era
stata erroneamente inserita da Molina e poi da Steudel e De Candolle nel genere
mimosa
, e che si caratterizza per le minuscole e rotonde infiorescenze gialle, a forma di
piccole palle, molto profumate che, effettivamente, assomigliano alle infiorescenze
della nostra mimosa.
Bertero, però, non si limitò a dare il proprio nome alle specie nuove, ma volle
battezzarle col nome di amici e maestri. A proposito della
Gardinia Purpurescens.
Bertero
, una pianta bulbosa dai bei fiori dall’intenso colore, scovata nella già citata
Quinta
di Santiago, Bertero scrive:
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In testimonianza della mia venerazione e della mia gratitudine a colui che mi ha
dato una prima idea della botanica io ho dedicato questa graziosa pianta alla
memoria del celebre professore di Fisica, precedentemente Dottor Francesco
Gardini, un valido discepolo del Beccaria al quale il Galvani deve, in gran parte,
l’onore della sua grande scoperta. Tra i suoi lavori che affollano le Accademie
europee, io citerò solo il seguente:
De influxu electricitatis atmosphericae in
vegetantia
. Taurini. 1782. 8vo. (Bertero 1833: 81)
L’affettuosa dedica all’antico maestro non trattiene il giovane botanico dal fare
un’allusione maliziosa ai debiti scientifici che il grande Luigi Galvani (1737-1798) aveva
contratto nei confronti del Gardini, e, perciò, dallo schierarsi garbatamente, a
proposito della famosa disputa scientifica sorta negli ultimi decenni del ‘700 intorno
all’elettricità, dalla parte del suo primo e venerato maestro, come si è visto fervente
giacobino, contro il più famoso Galvani, sostenitore, com’è noto, dell’
ancien régime.
Le parole indigene, di origine diversa, appaiono anche ad indicare alcuni
prodotti alimentari derivati dalle piante, come il
chuño
(in
quechua
è la patata
disidratata, e, in generale, indica la fecola ottenuta da vari tuberi come quelli della
Alstroëmeria ligtu
citata da Bertero), il
cochayuyo
(voce
quechua
indicante un’alga, la
Macrocystis Pyrifera. Agardh
. che, seccata, costituisce un alimento molto comune
ancora oggi in Cile; Bertero la raccolse nel golfo di Valparaíso, ma riteneva, a ragione,
che potesse crescere fino a Capo Horn) e la
chicha
(voce di origine
náhuatl
per indicare
una bevanda alcoolica derivata dalla fermentazione di bacche, cereali ecc.). Bertero,
infatti, oltre a catalogare le specie, ne elenca le caratteristiche e l’uso che se ne fa tra la
gente comune, raccogliendo, per quelle autoctone, tradizioni locali e popolari,
soprattutto di origine indigena. In questo modo non solo rende più accattivante la
lettura per il dilettante appassionato, ma preserva dall’oblio usanze che avrebbero
potuto disperdersi, dando una valenza più ampiamente culturale al suo lavoro.
L’autore non si limita, però, a constatare l’utilità di ogni specie, ma indugia nel dare
consigli sulla semina; nel raccomandare l’incremento di questa o quella coltivazione;
nel suggerire usi non ancora adottati, ma che potrebbero rivelarsi produttivi e
redditizi. In questa prospettiva vengono analizzate, senza distinzioni, specie indigene,
specie europee e di altra provenienza. A proposito della già citata
Alstroëmeria
o
clavelillo
o
peregrina
, una specie autoctona selvatica, Bertero dice che si dovrebbe
tentarne la coltivazione per ricavarne fecola dai suoi tuberi. Consiglia anche di
coltivarla, a scopo ornamentale, data l’eleganza dei suoi fiori, così come si potrebbe
fare con la
Calceolaria Linn.,
il cui genere è diffuso in Cile, e con l’
Anthericum
imbricata.
Ruiz y Pavón
, dai bei fiori cerulei.
Descrivendo il
Gossypium herbaceum et arboreum. L.
, in spagnolo
algodón
, cioè
il cotone,
che è usato come pianta ornamentale, suggerisce piuttosto la coltivazione
sia della canapa, che meglio si adatterebbe al clima e al suolo cileni, sia del lino; per il
maní,
altra voce di origine
taíno
che indica le arachidi o
Arachis hypogea. Linn.
,
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consiglia che se ne aumenti la produzione per ricavarne olio commestibile; dell’
amarilli
(o
amancai
, altra parola
quechua
), che è molto comune nel paese, dice che, invece di
importare tuberi europei a scopo ornamentale, varrebbe la pena che i floricultori cileni
diffondessero le specie locali e che, per altro verso, una collezione di piante bulbose
cilene sarebbe apprezzata in Europa. Per il
berberis ilicifolia
, o
michay
, arbusto spinoso
del quale i
mapuche
utilizzano le bacche, simili ai nostri mirtilli, per farne
chicha
, e che
è usato per delimitare le proprietà e per cintare i campi proteggendoli dalle invasioni
degli animali, caldeggia il diffondersi di questa palizzata vivente invece dei muri di
fango che rendono "le strade grigie e monotone" (Bertero 1831: 304). Non trascura, in
questo panorama, di ricordare gli usi del suo Piemonte, dove il
Meum foeniculum Spr.,
in spagnolo
hinojo
, cioè finocchio, si fa in insalata, uso inesistente in Cile; o che
bisognerebbe piantare il
Morus Alba
, cioè il gelso, come "si coltiva in Piemonte"
(Bertero 1833: 254).
Bertero dedica un’attenzione particolare anche alla frutta, alle verdure, sia locali
che d’altra origine, e alle erbe aromatiche (menta, origano, basilico ecc.). Constata, per
esempio, la diffusione della coltivazione di ciliegi, susini, viti, mandorle, olivi, peschi,
albicocchi, fichi, castagni, limoni e aranci, sottolineando quali, tra queste piante, sono
competitive con quelle europee, come il fico, del quale sarebbe auspicabile sia
l’esportazione dei gustosi frutti essiccati sia l’uso del suo legno, come si fa in Europa;
mentre, ricordando che in Cile non ci sono agrumi autoctoni, raccomanda la
coltivazione dei limoni, che si sono ben adattati e danno buoni frutti; ritiene inutile,
infine, il tentativo di acclimatare la
Musa paradisiaca
, cioè il banano, in terra cilena,
dove non ci sono zone climatiche adatte. Trattando delle verdure rivela che è difficile
convincere un cileno che il
cynara cardunculus
, e cioè il carciofo, è una pianta del
vecchio continente, così come lo è l’asparago, diffuso nel paese, mentre il
Lycopersicum esculentum
, ossia il pomodoro, è una pianta americana come lo è il
peperoncino piccante, cioè l’
ají
(parola comunemente usata in Cile, ma di derivazione
taíno
), o
Capsicum
annuum. Linn.,
di cui i cileni, rileva con esperienza clinica, fanno un
uso sconsiderato fino a procurarsi delle forti gastriti. Bertero si sorprende, invece, che
non sia stato ancora introdotto in Cile il
laurus nobilis
e sostiene, con allusiva malizia,
che bisognerebbe farlo per "svegliare le Muse delle Ande, alle quali l’alloro
presterebbe i suoi rami per farne delle corone” (Bertero 1833: 90).
Tra la frutta cilena Bertero cita la
Lucuma obovata. Kunth.,
chiamandola
lucuma
di Coquimbo, perché proviene da questa località del nord, più arida, calda e secca di
quelle del
Valle Central
, ma di cui ci sono alcuni esemplari nei giardini privati di
Santiago; e, a proposito della
Cucurbita Lagenaria L.,
o
alcayota
, parola di origine
náhuatl
, ricorda che se ne prepara un’ottima marmellata (come si fa, del resto, ancora
oggi) e che questo tipo di zucca è così dolce che se ne confonde il sapore con quello
del
camote,
cioè della radice del
Convolvulus batatas L.,
che proviene da Lima.
Menziona anche il
Cactus curvispinus
, da lui scoperto, del quale suggerisce di
intensificare la coltivazione, sempre nella zona di Coquimbo, climaticamente più
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adatta, perché, oltre al frutto, si potrebbero utilizzare le sue foglie come alimento per
gli animali e per estrarne la sostanza mucillaginosa utile per fare cataplasmi
antinfluenzali, di cui ha già constatato l’efficacia su qualche paziente.
Un’affermazione, quest’ultima, che conferma quanto Bertero aveva premesso
nella sua introduzione, e cioè che avrebbe evidenziato le proprietà medicinali delle
specie esaminate e che ne avrebbe fatto uso nella sua professione. Se la farmacopea
cilena gli sembra arretrata è comunque vero che nella flora autoctona esistevano
parecchie specie officinali, già utilizzate con fini terapeutici e a volte sacralizzate dai
mapuche
, i cui sciamani, o
machi
, uomini o donne che fossero, ne facevano largo uso.
Un uso che si era diffuso a livello popolare e che è rimasto fino ad oggi nelle
consuetudini delle famiglie.
La farmacopea messa insieme da Bertero si avvale tanto di queste specie native
come di quelle di origine europea, fornendo un ampio panorama delle loro proprietà
curative. Così l’infusione delle foglie dell’
althea rosa
o
malva jaspeada
viene
consigliata per le affezioni catarrali e il decotto delle sue radici come sudorifero; da
quelle dell’aloe o
savila,
specie coltivata in Cile, si estrae un efficace purgante; le foglie
fragranti del
molle
o
Amarys
, già preso in considerazione per il suo legno di grande
robustezza, possono essere usate in vari modi: l’olio essenziale che si ricava dalle foglie
e la resina sono utili contro le affezioni spasmodiche, mentre il decotto delle sue
bacche serve contro le malattie nervose; l’
Argemone
mexicana. Linn.,
o
cardo blanco
,
sollievo al mal di denti; le foglie della
Aristotelea Macqui. Herit
., già menzionata,
hanno diverse proprietà: masticate disinfettano le ulcere della bocca, assunte come
decotto o polverizzate sono analgesiche; l’
Arundo
o
coligüe
, in lingua
mapuche
, è il
bambù cileno che serve, oltre che per coprire i tetti, per sanare le affezioni urinarie; il
decotto delle bacche della
Drimys
winteri, D. C.
, il già citato
canelo
, è usato per fissare
il color indaco e come antitarme; unito a sale e urina uccide gli insetti che infestano gli
animali; si somministra contro le eruzioni cutanee ed è considerato un detergente
nelle ulcere maligne; così con le foglie maleodoranti del
Cestrum Parqui. Herit
., o
palqui
, si fa un infuso buono per tutti i mali e dalle foglie di
Euphorbia Lathyris,
o
pichsa
,
una pianta indigena delle zone sabbiose, si fa un’infusione contro le affezioni
urinarie. Le foglie profumate del boldo, o
Peumus fragrans. Pers.,
un bell’albero cha
arriva ai venti metri, hanno proprietà digestive.
Circostanze fortunate hanno impedito che molta parte delle specie descritte da
Bertero ne
El Mercurio chileno
si disperdessero totalmente. Infatti, presso l’
Herbario
(SGO)
del
Museo Nacional de Historia Natural
di Santiago, è conservata la raccolta
delle piante erborizzate da Bertero nel triangolo compreso tra Valparaíso, Rancagua e
San Fernando, e successivamente descritte nella rivista. Un patrimonio, del quale in
Italia è poco nota l’esistenza, che, nel 1999, è stato ordinato e catalogato dalla botanica
Melica Muñoz Schick, la quale, nella pubblicazione relativa, racconta come i 400
esemplari botanici che lo compongono siano pervenuti al Museo.
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In Cile era rimasto solo un pacchetto di piante raccolte da Bertero,
presumibilmente consegnato (non si sa se da lui o da altri), a Claude Gay, il fondatore,
nel 1830, del
Gabinete de Historia Natural
, embrione del futuro museo. Nel 1853 il
prezioso pacchetto fu ritrovato da Rodolfo Amando Philippi (1808-1904), quando il
medico, naturalista e malacologo tedesco, immigrato in Cile nel 1851, divenne
direttore del Museo. Nel 1889 Philippi creò la
Sección Botánica
, di cui si sarebbe
incaricato suo figlio Federico Philippi (1838-1910), nella quale furono selezionati gli
esemplari vegetali appartenenti al Museo. Solo a partire dal 1942, nell’ambito di una
sistemazione complessiva del materiale che terminò quattro anni dopo, il pacchetto
contenente le piante fu aperto, ordinato e incorporato all’erbario del Museo, dove
costituì la collezione più antica quivi depositata, e quella sulla quale, in seguito, si
basarono molti botanici per il loro lavoro. La grande maggioranza delle specie
conservate al Museo è quella stessa illustrata da Bertero ne
El Mercurio Chileno
. A
giudizio di Melica Muñoz Schick, però, da queste si potrebbe risalire ad altre specie,
giacché il botanico piemontese talora scrisse dei nomi provvisori sulle etichette dei
vari esemplari, che poi, a seguito di ulteriori approfondimenti, cambiò nella
pubblicazione. Due fotografie, gentilmente concessemi dal museo santiaghino,
illustrano in questa sede due esemplari della collezione berteriana.
Foto 1:
Hordeum murinum
, in spagnolo volg.
Cola de ratón
, in italiano orzo murino,
Colección
Bertero
,
Herbario, Museo Nacional de Historia Natural
, Santiago, Cile.
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Foto 2:
Ribes berteroanum
,
Colección Bertero
,
Herbario, Museo Nacional de Historia Natural
,
Santiago, Cile.
NELLA VALLE DELL’ACONCAGUA. I BOTANICI EUROPEI IN CILE
Terminata l’esperienza de
El Mercurio chileno
, Bertero procedette all’esplorazione
botanica della Valle dell’Aconcagua, formata dal fiume che scende dall’omonima cima,
la più alta delle Ande e che è, ancora oggi, una delle zone più fertili e meglio coltivate
del paese. Le informazioni in proposito sono carenti e piuttosto confuse, come già
hanno segnalato Delprete e Forneris, ma, considerando i probabili tempi di
percorrenza e le mete raggiunte, è possibile farsene un quadro attendibile. Bertero,
dunque, partì da Santiago e ritornò a Valparaíso (meta accessibile e inevitabile perché
solo da questo porto era possibile effettuare le spedizioni in Europa), da dove inviò a
Delessert tre casse di esemplari e di semi, che il barone avrebbe dovuto condividere
con il Colla, il quale non esitò a rilevare che, ciò nonostante, a lui ne pervenne "una
parte assai tenue" (Colla 1832: 15).
Secondo un itinerario che era consueto all’epoca, e che fu anche quello di
Darwin nel 1834, quando volle compiere un’ascensione sul monte Campana, Bertero
prese il cammino verso nord costeggiando il Pacifico, in direzione del porticciolo di
Quintero, passando per Viña del Mar e Concón, il villaggio dove Miers aveva vissuto
durante la sua residenza in Cile. Di qui cambiò direzione, e piegò a est, verso l’interno.
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Seguendo a ritroso la Valle del fiume Aconcagua, giunse a Quillota, all’estremo
occidentale della stessa e a 53 chilometri da Valparaíso, dove fu bloccato da una
febbre che lo costrinse all’immobilità per settimane. Dovette perciò rientrare al punto
di partenza, da dove, il 28 novembre del 1829, ancora indebolito dall’affezione
intestinale che lo aveva prostrato a Quillota, inviò una lettera al Colla, informandolo di
aver raccolto 18.000 esemplari di grande interesse. Annunciando di aver individuato
parecchi generi nuovi, comunicò di averne fatto uno in onore di sua figlia, la signora
Billotti, la grande disegnatrice botanica, che non avrebbe certamente fatto torto al
genere
Billotia
, già dedicatole dallo stesso padre, Luigi Colla, e di averlo chiamato
Tecophilea
, dal nome proprio della signora, Tecofila. Ad un esemplare di questo
genere, di cui inviò semi e bulbi, caratterizzato dal colore e dalla forma di una violetta,
Bertero disse di aver dato il nome di
Tecophilea violaeflora
. Il nuovo genere, oltre ad
alludere scherzosamente al precedente omaggio fatto dal Colla alla figlia, testimonia
anche la qualità e la novità del lavoro berteriano anche in occasione della sua seconda
esplorazione in terra cilena.
Ne
El Mercurio chileno
Bertero aveva citato due volte Claude Gay (1800-1873), il
botanico francese con il quale era in contatto amichevole e che ne preservò il
materiale raccolto. Una prima volta, con la consueta cortesia, quando, a proposito
della
Malesherbia. Don. paniculata
,
diceva di essere debitore a "Claudius Gay,
Professore di Fisica e Chimica nel Collegio di Santiago" (Bertero 1833: 251) perché lo
aveva informato dell’esistenza di altre piante che lui non aveva individuato. Una
seconda volta, a proposito della
Orbignya trifolia
, un cespuglio che Bertero diceva di
aver trovato, durante la sua prima spedizione al sud, sulle alture di
Punta de Cortés
,
vicino a Rancagua, e che il professor Gay gli aveva comunicato di aver visto "anche
sulla cima del Cerro San Cristoval (sic)" (Bertero 1833: 259) e cioè a Santiago. Bertero
aggiungeva che aveva dedicato questo bel genere al signor D’Orbigny (1802-1857),
"un dotto e diligente naturalista che ora sta esplorando le rive del Rio de la Plata, e che
visiterà presto la Patagonia con lo scopo di arricchire le scienze che professa" (Bertero
1833: 259). Curiosamente, parlando di colleghi che sono già in Cile o che ci stanno
arrivando, Bertero non accenna mai alla presenza nel paese di Thomas Bridges (1807-
1865), valente botanico inglese che viaggiò nel paese dal 1828 al 1833 collezionando
piante vive e componendo un ricco erbario. Bridges, prima di trasferirsi in Perù, visitò
un’ampia parte del territorio cileno, spingendosi molto a sud, fino all’isola di Chiloé e al
porto di Valdivia. A lui è, comunque, dedicato il genere
Bridgesia Bertero ex
Cambessedes,
cosa che lascerebbe intendere che Bertero lo conoscesse.
Quello che ci sembra importante sottolineare a questo proposito è che, sebbene
al momento della partenza di Bertero dall’Europa le terre del Cile potessero
considerarsi "quasi vergini" dal punto di vista botanico, come diceva il Colla, e forse
proprio per questa ragione, al momento della sua residenza stavano diventando meta
delle esplorazioni di altri botanici. Lo stesso Colla, del resto, aveva avvertito l’esistenza
di questo piccolo, ma significativo, flusso di botanici diretto verso il Cile, quando
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diceva che "contemporaneamente e dopo il Bertero, non mancarono distinti botanici i
quali gareggiarono nell’esplorazione del Chilì" (Colla 1832: 13, nota f), citando, un po’
alla rinfusa dal punto di vista cronologico, i nomi di Bridges, Cuming, Poeppig, Miers e
Gay de Draguignan.
Fu, a nostro parere, proprio questa imprevista concorrenza, insieme al
peggiorare della contesa politica tra liberali e conservatori, rapidamente trasformatasi
in guerra civile, che indusse Bertero a intraprendere il viaggio all’arcipelago Juan
Fernández, da secoli parte del territorio cileno. Rimasto a Valparaíso, Bertero decise di
effettuare la sua esplorazione botanica in quelle isole in compagnia del già citato
viaggiatore inglese Alexander Caldcleugh (1795-1858), appassionato di mineralogia e
di botanica, divenuto, perciò, fin dal 1823, membro della
Linnean Society
, avendo
raccolto molti esemplari per conto di A. B. Lambert, direttore dei
Kew Gardens
.
Secondo quanto racconta nel suo diario di viaggio, al ritorno da un viaggio in Brasile e
in Argentina e prima di arrivare sulla terraferma cilena, Caldcleugh era sbarcato per
pochi giorni a
Más a Tierra,
l’isola principale di Juan Fernández, e forse per questo
poteva proporsi a Bertero, se non come guida, almeno come accompagnatore
consapevole. Di ritorno dalla spedizione con l’amico italiano, il giovane inglese si
sarebbe stabilito in Cile fino alla morte e sarebbe stato raccomandato al giovane
Darwin, come chimico e geologo, oltre che come persona gradevole, da H. S. Fox,
l’ambasciatore inglese a Rio de Janeiro. Nel 1834 Darwin lo visitò a Santiago e a
Valparaíso e l’anno seguente ricevette da lui ospitalità e assistenza quando il giovane
naturalista organizzò la sua escursione sulle Ande.
L’ARCIPELAGO CILENO DI JUAN FERNÁNDEZ
L’arcipelago Juan Fernández, così chiamato dal navigatore che lo aveva scoperte nel
1563, si divide in due gruppi di isole: il primo si trova approssimativamente alla
latitudine di Valparaíso, a 667 chilometri dalla costa, e comprende l’isola di
Más a Tierra
(oggi Robinson Crusoe), che si eleva ad un’altezza di circa 1.000 metri, quasi si trattasse
di una montagna emergente dalle acque, e ha una superficie di 4.794 ettari; l’isolotto
di
Santa Clara
, di appena 220 ettari; e alcuni faraglioni, i cosiddetti
morros
. Il secondo
gruppo è formato unicamente dall’isola rocciosa di
Más Afuera
(oggi Alejandro
Selkirk), che si trova, come indica il suo nome, più lontano dalla costa, a 180 chilometri
a ovest di
Más a Tierra,
la cui superficie è poco più estesa di questa. Com’è noto,
l’arcipelago fu il teatro delle vicende di un marinaio inglese, Alexander Selkirk, che vi fu
abbandonato nel 1704, per poi essere imbarcato di nuovo, dopo 4 anni e 4 mesi di
completo isolamento, da un’altra nave che lo portò in salvo in patria. La sua avventura
avrebbero ispirato a Daniel Defoe il suo romanzo
Robinson Crusoe
e a Bertero
l’allusione scherzosa alla sua esperienza sull’isola, che definì "robinsoniana" nella
lettera del 6 febbraio 1830 all’amico Colla (Colla 1832: 16, nota a).
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La precisazione geografica era necessaria sia per correggere le inesattezze del
Colla, che considerava Juan Fernández una terza isola (mentre, come si è visto, questo
era il nome dell’arcipelago o semmai, per antonomasia, solo quello dell’isola più
facilmente raggiungibile dal continente) sia per circoscrivere, rispetto ad altre ipotesi
formulate, l’esplorazione di Bertero all’isola più vicina alla costa,
Más a Tierra
, l’unica
che visitò dal marzo al maggio 1830. Sull’isola, assai inospitale per il clima
estremamente piovoso e per la difficoltà di collegamento con la terraferma, gli
spagnoli avevano posto un presidio militare e una prigione per criminali comuni, ma,
tra il 1813 e il 1814, nel periodo del loro ripristinato dominio, vi mandarono al confino
anche alcuni eminenti patrioti. Una volta resisi indipendenti, i cileni avevano tentato,
con scarso successo, di installarvi dei coloni (anche oggi, del resto, gli abitanti dell’isola
sono poco più di 600). L’esplorazione dell’isola implicava, quindi, disagi notevoli, ma,
dal punto di vista botanico, rappresentava una vera e propria riserva di caccia tutta da
esplorare.
Prima di Bertero c’erano stati pochi passaggi significativi. Nel corso dei secoli,
navigatori e pirati vi avevano fatto sosta, soprattutto per rifornirsi di acqua, e vi
avevano lasciato riprodurre capre e cani. La prima significativa esplorazione era stata
quella di Lord Anson, che, nel 1740, durante una pausa del suo viaggio intorno al
mondo, vi fece alcune importanti osservazioni botaniche e seminò, perché nel futuro
fossero di sostentamento per altri visitatori, molti alberi da frutta, come susini,
albicocchi e peschi. Perciò, nel 1823, la viaggiatrice inglese Maria Graham, versata in
botanica, che sostò qualche giorno nell’isola prima di riprendere la navigazione verso
Capo Horn e di lì passare in Brasile, poté scrivere nel suo diario di aver visitato il "parco
di lord Anson" dove aveva trovato ancora "alberi di pere, di mele e quindici ciliegi coi
frutti quasi maturi" (Graham 1824: 350). A lei, sposata in seconde nozze con il pittore
Callcott, fu dedicata, in ricordo di questa escursione, la
Escallonia calcottiae
, una specie
fernandezina, e alcuni esemplari, da lei raccolti in quell’occasione, sono conservati nel
suo bell’erbario custodito ai
Kew Gardens
. L’anno seguente, anche il botanico scozzese
David Douglas (1799-1834) sostò brevemente nell’isola e vi raccolse qualche
esemplare, oggi ai
Kew Gardens
.
Tuttavia, secondo il botanico cileno Friederich Johow (1859-1933), quella di
Bertero, che vi raccolse 330 specie, fu la prima e la più importante esplorazione che, da
sola, esaurì quasi interamente la conoscenza delle specie di
Más a Tierra
. Johow
lamenta soltanto che Bertero non avesse esplorato anche
Más Afuera
, dove, proprio
mentre il piemontese si trovava nell’altra isola, si recò il naturalista inglese Hugh
Cuming (1791-1865), da tempo residente a Valparaíso, il quale vi raccolse alcuni
esemplari che poi spedì, com’era consuetudine per gli inglesi, ai
Kew Gardens
.
Secondo la stessa fonte, però, la sua collezione non sarebbe nemmeno lontanamente
paragonabile, per importanza e bellezza, a quella di Bertero.
Al suo ritorno a Valparaíso, il botanico piemontese avrebbe spedito alcuni
specimina
a sir William Hooker, a Londra; a Delessert, a Parigi; alla Reale Accademia
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delle Scienze a Torino; e ad altri orti botanici europei. Oggi, dopo la dispersione, a
ricordo della preziosa collezione messa insieme da Bertero, resta solo l’elenco fatto
dallo stesso Bertero nella sua lettera del 7 luglio 1830, indirizzata al Colla.
Data la qualità dell’impresa compiuta da Bertero, che coronava le precedenti
esplorazioni a sud e a nord di Santiago, sarebbe stato naturale che il presidente Pinto
affidasse proprio a lui l’incarico ufficiale di mettere mano ad una collezione cilena,
nonostante la concorrenza di Claude Gay, già presente in Cile, e quella di D’Orbigny, in
procinto di arrivarci. Le cose andarono assai diversamente. Pinto, colui che aveva
caldeggiato, tra gli altri interventi innovatori, la pubblicazione de
El
Mercurio chileno
e
che rappresentava i liberali del Cile, fu costretto a dimettersi a seguito
dell’ammutinamento dei reggimenti del sud, che erano stati sobillati dai conservatori.
Le truppe ribelli, guidate dal generale Joaquín Prieto, marciarono contro Santiago
dove i liberali organizzarono la resistenza armata. Dopo un primo scontro ad
Ochagavía, nei pressi della capitale, che portò ad un accordo provvisorio, la battaglia
risolutiva tra i due schieramenti ebbe luogo, il 16 aprile 1830, sulle rive del fiume
Lircay, vicino a Talca. Il comandante in capo dell’esercito dei liberali era Ramón Freire;
dello stato maggiore facevano parte l’immigrato inglese William De Vic Tupper, e due
reduci delle campagne napoleoniche, il francese Benjamín Viel e il parmense Giuseppe
Rondizzoni, che, dopo Waterloo, aveva preferito stabilirsi in Cile. Nella cruenta
battaglia i conservatori sbaragliarono i liberali. Tupper fu barbaramente trucidato; Viel
si rifugiò su una nave francese; Rondizzoni, ferito, fuggì in Centroamerica. Gli ultimi
reduci delle battaglie napoleoniche erano stati così sconfitti, e definitivamente, per la
seconda volta. Insieme con loro periva anche la speranza di rinnovare il paese espressa
dalla politica del presidente Pinto.
La vittoria militare, infatti, diede passo a quella politica che si concretizzò nella
nuova Costituzione del 1833, con la quale si istituiva un assetto politico centralizzato e
fortemente autoritario. A guidare il nuovo corso, pur non diventando mai presidente,
fu l’onnipotente ministro Diego Portales (1793-1837). La repressione si abbatté
pesantemente sugli sconfitti e ci furono condanne all’esilio e fucilazioni; tra gli altri,
José Joaquin Mora fu costretto ad andare all’estero insieme alla moglie, mente le
scuole da loro fondate furono chiuse.
E', quindi, plausibile supporre che il nuovo corso politico mettesse fuori gioco
anche Bertero, il quale, con l’esperienza della rivista, si era schierato a favore del
governo rovesciato, e che la nuova situazione lo inducesse a proseguire altrove le sue
ricerche, scegliendo una meta facilmente raggiungibile dal Cile, ma lontana dal nuovo
scenario politico, come Tahiti. Ben diversa fu la sorte di Claude Gay che era arrivato a
Valparaíso, poco dopo Bertero, il 18 dicembre 1828. Secondo la tradizione, Gay
avrebbe intrapreso il viaggio in Cile suggestionato dai discorsi di un certo Pedro
Chapuis, giornalista e avventuriero, che gliene tesseva gli elogi. Con maggior
attendibilità, lo storico cileno Rafael Sagredo B. sostiene che, in realtà, essendo il
governo francese interessato a consolidare la propria incipiente presenza in America
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latina, affidò a Gay l’incarico di fondare in Cile un collegio, nel quale avrebbero
insegnato solo docenti francesi (Sagredo 2004: 11). Gay, difatti, fondò il collegio e vi
insegnò fisica e chimica, come si è visto che lo stesso Bertero segnalava sul
Mercurio
chileno
. In queste circostanze, José Vicente Bustillos, il farmacista più celebre della
capitale, presentò Gay a Diego Portales, che, di a poco, come abbiamo anticipato,
sarebbe diventato l’arbitro della politica cilena.
Nel clima politico instauratosi dopo Lircay, il 30 luglio 1830, Gay scrisse una
lettera proprio a Diego Portales per offrire le proprie competenze al fine di raccogliere
informazioni per una storia geo-politica e naturalistica del paese. La sua proposta fu
accettata e gli fu così assegnato l’impegnativo, ma prestigioso, incarico di redigere una
storia politica e fisica del Cile, dove, oltre a narrare gli avvenimenti compresi tra la
conquista spagnola e l’indipendenza, l’autore avrebbe descritto la geografia, la flora, la
fauna, la geologia, la fisica terrestre, la meteorologia, la statistica, gli usi e i costumi
degli araucani; il tutto corredato da un atlante composto da centinaia di incisioni di
autori diversi.4
Il contratto tra il naturalista e il governo cileno fu firmato il 14 settembre 1830,
due settimane prima che Bertero salpasse per Tahiti. Gay incominciò le proprie
ricognizioni naturalistiche proprio da dove le aveva iniziate Bertero, istallandosi a San
Fernando e portando a termine, da qui, quattro escursioni esplorative. Come lui
avrebbe costeggiato il fiume Cachapoal e si sarebbe spinto un po’ oltre, fino alle terme
di Cauquenes, per poi spostarsi verso la costa, dopo aver esplorato le rive del piccolo
lago Taguatagua, lungo le quali anche Bertero aveva erborizzato. Di lì a qualche anno,
Darwin, ricordando le formazioni vegetali, vere e proprie "isole galleggianti", che vi si
trovavano, segnalò Gay come scopritore dell’inconsueto fenomeno (Darwin 1989:
247). Né in questo passo del suo diario di viaggio né altrove, il naturalista inglese
menzionò mai Bertero, nonostante che la sua familiarità con Caldcleugh induca a
supporre che tra i due inglesi si fosse parlato del botanico italiano.
Nel
Mercurio chileno
, come si è anticipato, Bertero, oltre a Gay aveva citato
anche un altro francese, in procinto di giungere in Cile, Alcide D’Orbigny inviato, nel
1826, dal
Musée de Histoire Naturelle
di Parigi a condurre una missione scientifica in
America latina. Dopo aver visitato Brasile, Argentina e Uruguay, D’Orbigny sbarcò a
Valparaíso il 16 febbraio 1830 e di qui ripartì l’8 di aprile alla volta del Perù, il cui
presidente, generale Santa Cruz, lo aveva invitato, preannunciandogli che avrebbe
ricevuto tutte le facilitazioni per svolgere il suo compito, come effettivamente
avvenne. Il viaggiatore francese ebbe in seguito a scrivere, nelle sue memorie di
viaggio edite tra il 1835 e il 1847, di aver interrotto il suo viaggio di ricognizione in Cile
per non danneggiare il lavoro del compatriota Gay.
Questa intricata situazione finì coll’appannare la figura e la preziosa attività di
Bertero agli occhi degli storici cileni. Curioso, a questo proposito, è, per esempio, il
4
La Historia física y política de Chile
, in 30 volumi, fu portata a termine tra il 1844 e il 1871.
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fatto che il più volte citato Barros Arana, dopo aver illustrato brevemente la biografia
del nostro, segnalò che, quasi contemporaneamente a lui, dal 1827 al 1829, un altro
naturalista, il tedesco Eduard Poeppig (1798-1868), aveva percorso i dintorni di
Valparaíso in compagnia del compatriota Friederich Heinrich von Kittlitz (1799-1874),
esperto disegnatore botanico, e, da solo, la poco accessibile valle del vulcano Antuco,
nel sud del paese. Per quanto il
réportage
di viaggio di Poeppig sia estremamente
interessante, la considerazione di Barros Arana, secondo la quale il naturalista tedesco
sarebbe stato un botanico "
de más
saber que
" Bertero, se da una parte appare del
tutto priva di fondamento, dall’altra rivela la marginalità dell’italiano agli occhi dello
storico che pure, per primo, ne aveva tracciato il profilo biografico nella sua
Historia
Jeneral,
documentandosi su una fonte italiana.5 Alla stessa stregua, stupisce che nel
recente lavoro di Waldo Lazo il suo nome sia solo citato di sfuggita, senza alcuna
ulteriore referenza, nella voce dedicata a Alexander Caldcleugh.
L’ULTIMO VIAGGIO
Il 28 settembre 1830, dunque, Bertero salpò da Valparaíso diretto a Tahiti, dove sbarcò
il 3 novembre 1830. Era in compagnia del belga Jacques Antoine Morenhout (1796-
1879) al quale era stato presentato al suo ritorno da Juan Fernández. Costui, un reduce
napoleonico che, ancora adolescente, era stato ferito nella battaglia di Brienne (1814),
si era trasferito in Cile, dove aveva avviato un redditizio commercio di madreperla,
legname, olio di cocco con le isole del Pacifico, compresa Tahiti. Qui, dove aveva una
casa e una base per i suoi traffici, nel tempo lasciatogli libero dai suoi affari, Morenhout
studiò i costumi delle popolazioni indigene fino a diventare un riconosciuto etnografo.
Data la sua conoscenza dei luoghi e della gente, fu l’artefice della istituzione del
protettorato francese sull’isola, mentre regnava la regina Pomare IV, che lo stesso
Bertero ebbe occasione di conoscere
in loco
. Prima di partire con lui, Bertero aveva
scritto al Colla (10 settembre 1830) che la sua intenzione era quella di fermarsi almeno
sei mesi nelle isole, di visitarne alcune e di ritornare a Valparaíso, dove aveva lasciato,
presso la casa di commercio Lebris et Barthaume, "qualche fondo, una porzione del
suo equipaggio, ed il suo erbario delle piante che aveva fino allora raccolte nel Chilí"
(Colla 1832: 17). Nulla si sa di come Bertero reagisse di fronte alla lussureggiante
vegetazione dell’isola, dove, svettavano, tra le altre, l’albero del pane e altre specie
rare, come quelle a cui avrebbe fatto cenno Darwin, affascinato dalla natura e dalla
amabilità dei tahitiani, ormai ammansiti dai missionari e dalla proibizione di
consumare di liquori, quando, dall’ottobre al novembre 1834, il
Beagle
restò all’ancora
nell’isola.
5 Barros Arana segnala di aver ricavato le notizie biografiche su Bertero da un necrologio
pubblicato "nel luglio 1833 sul numero CCXI, p. 123, della
Biblioteca Italiana
, rivista scientifica milanese"
(Barros Arana 1894: XV, 315).
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A Morenhout si devono le ultime notizie su Bertero, raccolte nel suo diario
Voyages aux îles du grand Océan
(1837). Per la verità, si tratta di un paio di aneddoti
riguardanti la sua ferma reazione di fronte agli eccessi, uno verbale e l’altro fisico, di
due marinai ubriachi, e della conferma che, durante la permanenza a Tahiti, Bertero
continuò a esercitare la professione medica con ottimi risultati, tanto da salvare la vita
al missionario inglese Pritchard, che poi Darwin ritrovò in ottima forma. Il 9 aprile 1831,
giusto sei mesi dopo il suo arrivo, stanco dei frequenti disordini causati dall’abuso di
alcool tra gli indigeni e venuto a conoscenza, seppure con l’ovvio ritardo di un anno,
dello scoppio della Rivoluzione di luglio, Bertero s’imbarcò su una piccola nave di
proprietà dell’amico con destinazione Valparaíso insieme alla sua raccolta di piante.
Fece una prima tappa a Raiatea, l’isola che si trova a 290 chilometri a nord-ovest di
Tahiti, dove sostò fino al 15 aprile e da dove scrisse a Morenhout la sua ultima lettera.
Poi la nave proseguì per la sua rotta. Nel novembre 1831, sette mesi dopo la partenza
di Bertero, all’arrivo di una nave proveniente da Valparaíso, Morenhout venne a sapere
che quella su cui era imbarcato l’amico italiano non era mai arrivata nel porto cileno.
Per quanto presunta, la morte di Bertero era irrefutabile. Con lui erano andate
completamente perdute le collezioni polinesiane. Che sorte sarebbe toccata a quelle
cilene? Verso la fine del 1833 Morenhout spedì la parte della collezione di piante
lasciatagli dall’amico botanico, secondo le sue indicazioni, a Parigi, incaricando la
persona che le avrebbe ricevute di dividerla con l’Accademia torinese, alla quale, a dire
del Colla, non sarebbero mai arrivate, mentre una parte giunse nelle mani del botanico
francese Jean Baptiste A. Guillemin (1796-1842), nella capitale francese. La casa di
commercio che le teneva in custodia a Valparaíso spedì il tutto alla biblioteca di
Delessert, secondo la volontà del defunto, compreso il suo erbario, che il Colla poté
esaminare nel maggio 1834 e di cui una parte fu pubblicata dallo stesso Delessert nelle
Icones selectae plantarum
(1820-1846), l’imponente raccolta di specie, disegnate dal
già citato Turpin, e descritte da Candolle.
Per quanto riguarda l’erbario, gli eredi preferirono che fosse messo all’asta a
Parigi, dove, nonostante la somma raccolta dagli accademici torinesi, più che
sufficiente per riscattarlo, per una cattiva, o fraudolenta, gestione della stessa, fu
aggiudicato ad una società tedesca, che ne rifornì i propri soci. Il materiale botanico
berteriano, sparpagliato negli orti botanici italiani (Torino, Firenze e Bologna ecc.) e
d’Europa (Ginevra, Berlino, Parigi, Monaco ecc.), è servito agli studi di molti altri
autorevoli botanici. Come è possibile dedurre dagli innumerevoli riscontri esistenti in
rete, del resto, in ogni continente si conserva qualche esemplare berteriano ed è
probabile che solo attraverso le nuove tecnologie sarebbe possibile portare a
compimento la previsione del Colla, che così scriveva:
Verrà il tempo che, per mezzo del confronto delle descrizioni sparse in tante
scritture, qualche valente botanico, tolta ogni confusione, presenterà al pubblico
una compita flora del Chilì, la quale doveva essere riservata al Bertero; e quella
sarà l’onorata sua tomba. (Colla 1832: 21)
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L’avvocato piemontese si era, del resto, adoperato per non disperdere la
memoria dell’amico né quella delle sue piante e dei suoi semi, che aveva provveduto a
mettere a dimora e a seguire nella loro crescita, per poi renderne conto in
Plantae
rariores,
una pubblicazione in latino del 1834. Tra gli esemplari conservati presso
l’Erbario dell’Orto Botanico di Torino, due, raccolti in Cile, sono stati cortesemente
fotografati e messi a nostra disposizione per questa occasione.
Foto 3:
Robinsonia thurifera,
esemplare raccolto da Carlo Bertero durante la sua spedizione
botanica all’isola cilena di Juan Fernández,
Herbarium
, Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei
Sistemi, Università di Torino.
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Foto 4:
Robinsonia thurifera
, particolare della fotografia precedente nel quale si ravvisano, tra
l’altro, il luogo e la data del ritrovamento dell’esemplare (isola Juan Fernández 1830),
Herbarium
,
Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi, Università di Torino.
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Foto 5:
Sisymbrium cinereum
, esemplare raccolto da Carlo Bertero durante la sua spedizione
nella valle di Quillota (Cile),
Herbarium
, Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi,
Università di Torino.
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_____________________________________
Claudia Borri Laureata in Lettere, dopo gli anni d’insegnamento nelle scuole
secondarie, ha conseguito un
Magister en Historia de América
presso l’
Universidad de
Chile
di Santiago nel 1993. Si dedica alla ricerca nell’ambito della storia
latinoamericana, con particolare attenzione per il Cile e l’Argentina (
Aventueros-
patriotas en el proceso de indipendencia chilena
, 2012). Ha pubblicato saggi sulla
storia di questi paesi e sui viaggi femminili (
Viajeras entre dos mundos
, 2012). E'
docente a contratto presso la Facoltà di Mediazione Linguistica e Culturale (Università
degli Studi di Milano).
claudia.borri@tin.it
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Article
Full-text available
Carlo Giuseppe Bertero (1789–1831) is, among the famous Italian botanical collectors that contributed toward the knowledge of New World flora, the one who collected and travelled the most. Bertero gathered a large number of specimens, which were in turn distributed to many of his correspondents, and are now present in many herbaria worldwide. During his travels he also collected seeds, which he sent to numerous botanists, contributing toward the collections of private and public gardens. Several hundreds of his botanical collections turned out to be plants unknown to science, which were in turn described by many of his contemporary European botanists. The botanical work of Carlo Bertero in Italy has already been extensively treated by many specialists. Nevertheless, his botanical expeditions and collections in the New World have never been completely studied, although partial reports have already been published. Such studies need further investigations as new data have been recently obtained through correspondence, field books and herbarium label data in order to reconstruct the itineraries and the chronological sequence of Bertero’s first expedition to the Antilles and northern Colombia (1816–1821), and his second expedition to Chile (1827–1830), Juan Fernández Islands (1829) and Tahiti (1830–1831).
Article
Historical botanical collections, are important for many aspects of botanical research (nomenclature, taxonomy and floristics), and for information on past and present Biodiversity. The present paper considers five cases of study in order to point out the role of the Italian Historical botanical collections from Latin America. Le collezioni botaniche storiche rappresentano un importante strumento nella ricerca botanica (nomenclatura, tassonomia e floristica), e nella comprensione della biodiversità passata e attuale. Il presente contributo considera cinque casi di studio con l'obiettivo di evidenziare il ruolo delle collezioni storiche botaniche realizzate nell'America Latina da botanici italiani nel secolo XIX, oltre alla loro insostituibile funzione negli studi attuali di Tassonomia Vegetale. Vengono inoltre trattati altri contributori italiani con le relative collezioni neotropicali da essi studiate.
Reescrituras de la Independencia
  • Giuseppe Los Casos De Thomas Cochrane Y
  • Rondizzoni
Los casos de Thomas Cochrane y Giuseppe Rondizzoni", in C. Cattarulla e I. Magnani (a cura di), Reescrituras de la Independencia, Corregidor, Buenos Aires. Boussingault J. B.,1892-1903, Mémoires, Chamerot et Renouard, Paris. Caldecleugh A., 1825, Travels in South America, during the Years 1819-20-21.
Si dedica alla ricerca nell'ambito della storia latinoamericana, con particolare attenzione per il Cile e l'Argentina (Aventuerospatriotas en el proceso de indipendencia chilena
  • Claudia Borri Laureata In Lettere
Claudia Borri Laureata in Lettere, dopo gli anni d'insegnamento nelle scuole secondarie, ha conseguito un Magister en Historia de América presso l'Universidad de Chile di Santiago nel 1993. Si dedica alla ricerca nell'ambito della storia latinoamericana, con particolare attenzione per il Cile e l'Argentina (Aventuerospatriotas en el proceso de indipendencia chilena, 2012). Ha pubblicato saggi sulla storia di questi paesi e sui viaggi femminili (Viajeras entre dos mundos, 2012). E' docente a contratto presso la Facoltà di Mediazione Linguistica e Culturale (Università degli Studi di Milano).
Colla in lucem editae Parte 1-3
  • A Bertero Nuper Detectae
  • Mem
Bertero nuper detectae et ab A. Colla in lucem editae", Parte 1-3 ["1"], in Mem. Reale Accad. Sci. Torino 37, pp. 41-85, pls. 1-20.
Lista de las plantas que han sido observadas en Chile por el Dr. Bertero en 1828
  • C G Bertero
Bertero C. G., 1828-1829, "Lista de las plantas que han sido observadas en Chile por el Dr. Bertero en 1828" in El Mercurio Chileno, n. 4, pp. 194-195 (1828), n. 12, pp.
Voces indígenas de uso común en Chile Glosario etimológico Plantas medicinales de uso común en Chile
  • J Grau
  • Santiago Oikos
  • A Hoffmann
  • C Fraga
  • J Lastra
  • E Veghazi
Grau J., 2000, Voces indígenas de uso común en Chile. Glosario etimológico, 3 voll., OIKOS, Santiago. Hoffmann A., Fraga C., Lastra J. e Veghazi E. (a cura di), 1992, Plantas medicinales de uso común en Chile, Ediciones Fundación Claudio Gay, Santiago. Izquierdo G., 1990, Historia de Chile, tomo II, Editorial Andrés Bello, Santiago.
Publicación Ocasional N. 53, Museo de Historia Natural
  • M Muñoz-Schick Mschick
  • V Morales
  • A Moreira-Muñoz
Muñoz-Schick M., 1999, La colección de Carlos José Bertero depositada en el Herbario del Museo Nacional de Historia Natural, Publicación Ocasional N. 53, Museo de Historia Natural, Santiago. Muñoz-Schick M., Morales V. & Moreira-Muñoz A., 2012, "La colección de tipos de plantas vasculares del Herbario Nacional de Chile (SGO): Análisis histórico, temporal y especial", in Gayana Bot. 69 (1), pp. 123-135.
Variazioni di stile Le immagini nel processo di formazione dell'identità nazionale cilena (1780-1840)
  • C Borri
Borri C., 2006, "Variazioni di stile. Le immagini nel processo di formazione dell'identità nazionale cilena (1780-1840)", in C. Cattarulla (a cura di), Identità americane: corpo e nazione, Cooper, Roma, pp. 42-65.