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“La motivazione al lavoro e la soddisfazione lavorativa: un inquadramento"

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La motivazione al lavoro (work motivation) e la soddisfazione lavorativa (job satisfaction) sono due tra i temi più presenti nella letteratura psicologica e organizzativa. L’interesse per tali costrutti deriva dal fatto che si ritiene che essi inducano nel lavoratore comportamenti desiderabili, quali efficienza, efficacia, puntualità, disponibilità verso i colleghi. È opportuno sottolineare che si tratta di costrutti differenti, con cause ed esiti differenti, e la cui reciproca relazione è stata oggetto di indagine per decenni, ancora senza esiti definitivi. In questo capitolo verranno delineati i due costrutti dal punto di vista storico, per sottolineare come la ricerca, spesso, abbia indagato motivazione e soddisfazione più in maniera filosofica che scientifica . Questo ha generato negli anni tutta una serie di teorie di senso comune, spesso di buon successo tra professionisti, ma senza reale fondamento empirico. Questo articolo presenta una rassegna dei principali sviluppi della ricerca nei due ambiti.
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Management per le professioni sanitarieAnno 3 - N. 1
1/14
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SOMMARIO
Rivista quadrimestrale
DIRETTORE RESPONSABILE
Paolo Maggioli
DIRETTORE
DaviDe CroCe – Direttore CREMS, Università
Carlo Cattaneo – LIUC di Castellanza (VA)
PRESIDENTE COMITATO DIRETTIVO
Bruno Cavaliere – Dirigente IRCCS
Azienda Ospedaliera Universitaria San Martino IST
COMITATO DIRETTIVO
alessanDro Beux – Presidente Federazione Nazionale
Tecnici Sanitari di Radiologia Medica
nila Bonini – Fisioterapista Azienda Sanitaria Locale n. 6 Livorno
enriCo Burato – Responsabile Struttura e Sviluppo Sistemi
Qualità e Risk Management A.O. Carlo Poma di Mantova
emanuele Porazzi – Vice Direttore CREMS,
Università Carlo Cattaneo – LIUC di Castellanza (VA)
massimiliano saBatino – Presidente Consulta Professioni
Sanitarie della Lombardia
COMITATO SCIENTIFICO
seConDo BarBera – Dirigente delle Professioni Sanitarie
presso ASL Bl Biella
Giannantonio BarBieri – Avvocato
roBerto BianCat – Dirigente dell’Ufcio Relazioni col Pubblico,
Dirigente del Servizio Infermieristico, Componente del Comitato
Etico - Centro di Riferimento Oncologico, Aviano (PN)
GiusePPe BranCato – Dirigente Area
Tecnico Sanitaria e Riabilitazione – Azienda Ospedaliera
Università Meyer di Firenze
FranCesCa CastelveDere – Coordinatore Tutor Pedagogico
Aziendale S.I.T.R.A. (A.O. Spedali Civili di Brescia) e C.L.I.
emanuela FoGlia – Ricercatrice CREMS, Università
Carlo Cattaneo – LIUC di Castellanza (VA)
luCa marzola – Legale Rappresentante Sinergia & Sviluppo,
Formazione e Servizi per le Professioni Sanitarie
maria Grazia montalBano – Direttore Strutture
Residenziali per Anziani – Lusan s.r.l.
Giovanni muttilloPresidente Collegio IPASVI MI-LO-MB
annalisa Pennini – Direttore Scientico Gruppo Format sas
antonio seBastiano – Direttore Osservatorio Settoriale
sulle RSA e Vice Direttore CREMS, Università Carlo Cattaneo
– LIUC di Castellanza (VA)
DieGo snaiDero – Responsabile Servizio Infermieristico
dell’ASL 3 “Genovese”
Daniela tartaGlini – Direttore Servizi Infermieristici
Policlinico Universitario Campus Bio-Medico
COMITATO DI REVISIONE
Giovanna Asproni, Ivano Boscardini, Anna Cazzaniga,
Fortunato D’Orio, Maria Adele Fumagalli, Raffaella Garavaglia,
Silvia Mambelli, Maristella Moscheni, Salvatore Santo
EDITORIALE
5 Il benessere organizzativo nello scenario odierno
di Antonio Sebastiano
MOTIVAZIONE E SODDISFAZIONE
DEL PERSONALE
DOSSIER
6 La motivazione al lavoro e la soddisfazione
lavorativa: un inquadramento
di Filippo Ferrari
17 I sistemi incentivanti
di Gianluca Lotti
22 La formazione: apprendimento e motivazione
di Annalisa Pennini
25 Lavorare per progetti
di Elena Bonamini
29 Leadership e teamwork: spunti teorici e applicativi
di Leonardo Jon Scotta
33 Benessere organizzativo: spunti perilmiglioramento
continuo dellaconvivenza lavorativa
di Federico Ricci
38 Lo stress lavoro-correlato
di Maria Campaniello, Liliana Novella
42 Il sonno della ragione nelle organizzazioni sanitarie:
burnout e mobbing
di Francesca De Marchi
CORSO ECM A DISTANZA
REDAZIONE
AnnA VAnzAgo (CAporedAttore),
MArziA BonfAnti, frAnCesCA sColAri,
VAlentinA telesCA, siMonA rAiolo
CREMS – Centro di Ricerca in Economia e Management in Sa-
nità e nel Sociale, Università Carlo Cattaneo – LIUC, Corso Mat-
teotti, 22 – 21053 Castellanza (VA) tel. 0331.572340 – fax
0331.572513
e-mail: crems@liuc.it
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dell’8 febbraio 2012
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CONTRIBUTI E APPROFONDIMENTI
47 I determinanti del benessere organizzativo
nelleR.S.A.: un’investigazione empirica
di Antonio Sebastiano
65 La qualità dell’ambiente di lavoro percepita dagli
infermieri in contesti organizzativi agestione
infermieristica e tradizionale
di Ivan Rubbi, Sandra Montalti
CORSO ECM A DISTANZA
Motivazione e soddisfazione del personale
Corso a distanza per tutte le professioni sanitarie
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mazione per tutte le professioni sanitarie.
Responsabile scientico del corso: dott. Davide Croce
Direttore CREMS (Centro di Ricerca sull’Economia e il Management in Sanità e nel Sociale).
Progettista, direttore scientico e docente in corsi di formazione nell’ambito dell’economia e del management sani-
tario (valutazione economica in sanità, organizzazione dei servizi, politiche sanitarie, management control).
Progettista e coordinatore di attività di ricerca nell’ambito dell’organizzazione, della valutazione economica e del
sistema di formazione in sanità.
Come svolgere il corso ed ottenere i crediti ECM
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il corso è concluso: riceverete via e-mail le informazioni per scaricare l’attestato.
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MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
EDITORIALE
Il benessere organizzativo nello scenario odierno
A partire dai primi anni del secolo scorso, le organizzazio-
ni si sono profondamente trasformate, mettendo gradual-
mente al centro del loro funzionamento l’individuo, con i
suoi bisogni, le sue motivazioni e le sue aspettative. Seb-
bene l’attenzione verso le condizioni di benessere sico,
psicologico e motivazionale dei lavoratori non sia oggi
neanche minimamente comparabile con quella presente
all’inizio del XX secolo, il benessere organizzativo rima-
ne comunque un tema centrale nella gestione del persona-
le delle moderne organizzazioni, a maggior ragione nel
campo dei servizi alla persona.
L’importanza che il benessere organizzativo dei lavorato-
ri ricopre anche nello scenario odierno dipende dal fatto
che si è in presenza di un costrutto variabile, ovvero sog-
getto a inuenze e conseguenze derivanti dalle continue
trasformazioni che interessano sia i sistemi socio-economi-
ci, sia i sistemi produttivi. Tali trasformazioni non sempre
hanno determinato degli effetti esclusivamente positivi sul
benessere dei lavoratori; al contrario, spesso hanno ni-
to per mettere in discussione delle dimensioni o delle fon-
ti di benessere che i lavoratori credevano acquisite a tito-
lo denitivo.
Si pensi, a titolo esemplicativo, alle tensioni sul livello
del benessere degli individui indotte dalle nuove tecnolo-
gie utilizzate quotidianamente in ambito lavorativo e per-
sonale. Sebbene infatti tali tecnologie abbiano sicuramen-
te portato dei vantaggi enormi per l’efcacia e l’efcien-
za delle organizzazioni, nonché per il progresso umano
e sociale, il fatto di essere continuamente “connessi e rin-
tracciabili” genera anche degli svantaggi. Infatti, per mol-
ti lavoratori risulta sempre più difcile denire nel tempo e
nello spazio una signicativa separazione tra lavoro e vi-
ta privata, con la conseguente complessità di assoggetta-
re mente e sico a continue sollecitazioni senza la possi-
bilità di godere di un reale distacco dalle problematiche
professionali.
Un altro fenomeno globale che ha sviluppato degli effet-
ti sulla qualità del benessere dei lavoratori è certamente
da leggere nella globalizzazione dell’economia. Le con-
seguenze della globalizzazione non si possono però con-
siderare così univoche come nel caso delle nuove tecnolo-
gie, in quanto in certi contesti hanno comportato dei van-
taggi assoluti, mentre in altri hanno determinato dei peg-
gioramenti nelle condizioni di vita e di lavoro. In questo
quadro, seppure in maniera indiretta, vanno anche consi-
derate le trasformazioni introdotte da molti Paesi con rife-
rimento al quadro normativo che disciplina il mercato del
lavoro, tutte accomunate dalla ricerca di maggiore essi-
bilità all’entrata e all’uscita. Nonostante questa evoluzione
abbia delle ragioni di carattere macro-economico, nelle
economie tradizionali ha certamente contribuito ad abbas-
sare il benessere psicologico dei lavoratori, per lo meno
con riferimento alle percezioni sulla sicurezza del lavoro.
Al di là dell’attuale momento particolarmente drammatico
che tutte le economie avanzate stanno vivendo, anche il
settore sanitario e socio-sanitario, a prescindere dalla na-
tura pubblica o privata degli attori che vi operano, non è
immune dalle forze esogene che alimentano questo qua-
dro ambientale di grande dinamicità, che traggono la lo-
ro origine dai profondi mutamenti avvenuti nello scenario
di riferimento (es: invecchiamento cronico della popolazio-
ne, esplosione della spesa sanitaria, aumento delle croni-
cità, spostamento dell’asse di cura dagli ospedali al terri-
torio, ecc.).
Questi molteplici e specici cambiamenti del settore sani-
tario e socio-sanitario, unitamente ad alcuni effetti legati al
più generale mutamento dei contesti socio-economici delle
economie tradizionali, hanno determinato una trasforma-
zione del concetto di benessere organizzativo verso nuove
direzioni che, nell’ambito di questo numero della Rivista,
verranno esplorate più nel dettaglio, sia mediante contribu-
ti teorici, sia attraverso la presentazione di studi empirici.
Antonio Sebastiano
Direttore Osservatorio Settoriale sulle R.S.A.,
LIUC Università Cattaneo
6
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
La motivazione al lavoro e la soddisfazione
lavorativa: un inquadramento
di Filippo Ferrari
Professore a contratto di Organizzazione Aziendale presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Firenze e presso la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione dell’Università
di Bologna
Introduzione
La motivazione al lavoro (work motivation, di seguito –
per brevità – “motivazione”) e la soddisfazione lavorativa
(job satisfaction, di seguito anche solo “soddisfazione”) so-
no due tra i temi più presenti nella letteratura psicologica
e organizzativa. L’interesse per tali costrutti deriva dal fat-
to che si ritiene che essi inducano nel lavoratore compor-
tamenti desiderabili, quali efcienza, efcacia, puntuali-
tà, disponibilità verso i colleghi. È opportuno sottolineare
che si tratta di costrutti differenti, con cause ed esiti diffe-
renti, e la cui reciproca relazione è stata oggetto di inda-
gine per decenni, ancora senza esiti denitivi. In questo
capitolo verranno delineati i due costrutti dal punto di vista
storico, per sottolineare come la ricerca, spesso, abbia in-
dagato motivazione e soddisfazione più in maniera loso-
ca che scientica (Latham, 2011). Questo ha generato
negli anni tutta una serie di teorie di senso comune, spes-
so di buon successo tra professionisti, ma senza reale fon-
damento empirico.
Per cominciare, è utile distinguere tra i due concetti. La
motivazione è, genericamente, il livello di impegno che
una persona mette in ciò che fa: è quindi una spinta, una
forza verso il proprio compito e/o verso la propria orga-
nizzazione. La motivazione si traduce in un comportamen-
to manifesto: l’impegno nel proprio lavoro (lavorare di più,
lavorare meglio).
La soddisfazione è invece il livello a cui ad una persona
piace il proprio lavoro (Spector, 1997). Si tratta pertanto
di un atteggiamento, e si denisce quindi come la reazio-
ne valutativa (positiva o negativa) verso un oggetto (in que-
sto caso, il proprio lavoro) basata su sentimenti, comporta-
menti, cognizioni (Myers, 2009).
Storicamente, la soddisfazione è stata (e spesso è anco-
ra) considerata l’antecedente della motivazione: si ritiene
che lavoratori soddisfatti siano anche motivati, proprio in
virtù della soddisfazione. Ma la letteratura psicosociale ha
sempre messo in discussione la coerenza tra atteggiamen-
to (in questo caso, la soddisfazione) e comportamento (in
questo caso, l’impegno nel lavoro che caratterizza la mo-
tivazione). Le evidenze empiriche infatti mettono in discus-
sione, o addirittura negano, il fatto che un atteggiamento
sia l’antecedente di un comportamento coerente (tra gli al-
tri, Ajzen e Fishbein, 2005). In realtà, sono numerose le
evidenze del fatto che se si vuole modicare un atteggia-
mento, spesso l’unica strada è prima indurre il soggetto a
modicare il comportamento1 (Cavazza, 2007). Alla luce
di tali evidenze, si può sostenere che per alzare un livello
basso di soddisfazione, una strada percorribile sia quel-
la di indurre nel lavoratore impegno nella propria mansio-
ne (comportamento): tale impegno genererà risultati posi-
tivi, che a loro volta alzeranno il livello di soddisfazione
(atteggiamento).
In sintesi, i livelli di motivazione e soddisfazione sono mi-
sure che i dati empirici sembrano mostrare come indipen-
denti: un lavoratore può essere motivato ma insoddisfatto,
come al contrario assai soddisfatto ma del tutto improdut-
tivo (Cropanzano e Wright, 2001). Ripercorrendo i trat-
ti fondamentali della riessione scientica in tema di moti-
vazione e soddisfazione, ci si renderà conto di come fre-
quentemente tali distinzioni (tra motivazione e soddisfazio-
ne, tra atteggiamento e comportamento) siano state igno-
rate o sottovalutate.
Motivazione al lavoro: aspetti generali
La motivazione al lavoro è “un aspetto dell’individuo che
inizia, dirige, sostiene l’azione umana verso una presta-
zione lavorativa” (Steers et al., 2004): la radice latina
della parola (movere) rende l’idea della motivazione co-
me spinta, come forza, caratterizzata da intensità, persi-
stenza, direzione. Ma se su queste tre caratteristiche del-
la motivazione c’è accordo pressoché unanime in lettera-
tura, tale accordo svanisce quando si cerca di individua-
re l’origine della motivazione, e le variabili che determi-
nano la direzione dello sforzo e ne regolano l’intensità e
la persistenza.
Quaglino (1999) affronta il problema distinguendo, all’in-
terno del “campo di forze” organizzativo, la motivazione
al lavoro dalla motivazione in organizzazione. La prima
1 Si pensi al tabagismo: sono tanti i fumatori che hanno un atteggiamento negativo ver-
so il fumo, ma continuano a fumare imperterriti! Un protocollo di intervento fondato sulla
relazione comportamento-atteggiamento per smettere l’abitudine al fumo richiederebbe di
indurre prima il soggetto a smettere di fumare (modica del comportamento), per fargli poi
apprezzare i vantaggi dell’aver smesso (modica dell’atteggiamento).
7
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
è l’“insieme di fattori che rendono conto dell’impiego di
energie psicosiche dell’individuo nell’attività lavorativa”
(Quaglino, 1999, pag. 25). Si sta parlando quindi del li-
vello di impegno del titolare della mansione nello svolgi-
mento della mansione stessa, e si traduce in output qua-
li performance, livello di impegno, output di mansione. La
seconda è denita come “l’investimento di energie psico-
siche dell’individuo nell’attività professionale in riferimento
alla sua appartenenza organizzativa” (Quaglino, 1999,
pag. 26). In questo caso l’autore si riferisce alla motivazio-
ne a far parte dell’organizzazione, che si traduce in esiti
quali senso di appartenenza, orgoglio, fedeltà. C’è, quin-
di, in tutte le organizzazioni, una dialettica tra motivazio-
ne a fare e motivazione a stare (Quaglino, 1999), che si
deniscono in maniera indipendente l’una dall’altra. È pos-
sibile infatti che ci siano contemporaneamente differenti li-
velli delle diverse motivazioni, che si combinano in quattro
tipologie di assetto motivazionale (Ferrari, 2013), ma il la-
voratore ideale (almeno per l’organizzazione) è ovviamen-
te quello caratterizzato da alta motivazione a stare e al-
ta motivazione a fare. La motivazione a stare si manifesta
in comportamenti cosiddetti di cittadinanza organizzativa:
puntualità, disponibilità, contributo in termini di idee, ecc.;
la motivazione a fare si manifesta in termini di risultato, di
prestazione vera e propria legata alla mansione svolta.
Una ulteriore distinzione si pone tra motivazione intrinse-
ca (che ha origine nel lavoratore) ed estrinseca (che vie-
ne dall’esterno). La percezione di senso comune è che sia
preferibile un lavoratore intrinsecamente motivato, in quan-
to non è bisognoso di stimoli e sproni dall’esterno, ad
esempio da parte di un superiore. È naturalmente possibi-
le sostenere anche il contrario: una motivazione estrinseca
può essere vantaggiosa in quanto controllabile da chi la
esercita, nei tempi, nei modi, e soprattutto nella direzione.
I paragra successivi presentano una selezione, indubbia-
mente parziale, dei contributi teorici sul tema della work
motivation: per ogni riferimento e approfondimento, si ri-
manda alla ormai ampia letteratura anche manualistica in
materia (per una rassegna in lingua italiana, Quaglino,
1999; per una visione complessiva che utilizza anche un
approccio storico si veda Latham, 2011).
L’alba della ricerca. Tra pulsioni biologiche e ricompense
Inizialmente, la letteratura scientica non distingueva espli-
citamente tra soddisfazione lavorativa e motivazione al la-
voro, considerando i costrutti sinonimi o comunque intima-
mente correlati (soprattutto, la soddisfazione era conside-
rata l’ovvio, se non unico, antecedente della motivazio-
ne). Thorndike (1917) ad esempio, uno dei primi a occu-
parsi del tema, realizzò una serie di esperimenti nell’ambi-
to della soddisfazione lavorativa, misurando la produttività
(in termini di qualità del lavoro e velocità di realizzazione)
e la soddisfazione dei lavoratori. Rilevò che per la durata
dell’esperimento (due ore) la qualità e la velocità rimane-
vano le stesse, ma la soddisfazione calava costantemen-
te, arrivando così alla conclusione che la mancanza di ri-
poso inuenzava negativamente la volontà, l’interesse e la
tolleranza del lavoratore, ma non la produttività. Thorndi-
ke aveva così denito uno dei maggiori problemi dibattu-
ti nel XX secolo, la relazione tra soddisfazione lavorativa
e prestazione (performance): a tutt’oggi, mancano le evi-
denze empiriche che la prima generi la seconda, ma sem-
mai il contrario (aver svolto bene il proprio lavoro è fon-
te di soddisfazione; per una rassegna recente: Bowling,
2007). Echi comportamentisti sono indubbiamente presen-
ti nell’azione di Taylor (1911), ingegnere noto per lo svi-
luppo di quello che lui chiamò scientic management. L’i-
dea di Taylor era che i lavoratori dovessero essere ricom-
pensati per i risultati che raggiungevano, cioè per il lavoro
svolto efcacemente ed efcientemente, e che questo mec-
canismo premiante generasse soddisfazione. In sostanza,
condivideva l’idea abbozzata in quegli anni da Thorndi-
ke e sviluppata decenni dopo da Lawler e Porter (1967):
è la prestazione di successo che porta a una ricompen-
sa che a sua volta genera soddisfazione, e non il contra-
rio (cioè che un lavoratore soddisfatto realizzi una presta-
zione migliore).
Negli anni Venti, psicologi come Viteles (1932) ipotizza-
rono che, a dispetto dell’uso di incentivi monetari come so-
stenuto da Taylor, un’analisi più accurata rivelava non solo
performance economiche sfavorevoli ma anche un deterio-
ramento degli atteggiamenti dei lavoratori verso la direzio-
ne. Viteles puntò l’attenzione sui motivi nel lavoro in sé che
determinavano i fattori sottostanti agli atteggiamenti e alle
attività che promuovevano e ostacolavano la performance
e l’efcienza. La psicologia del lavoro spostò la sua atten-
zione dall’enfasi sulla misurazione dei lavoratori in merito
alle loro attitudini all’identicazione delle fonti di motiva-
zione nel luogo di lavoro. I dati raccolti dalle ricerche ef-
fettuate misero in discussione i principi dello scientic ma-
nagement e in particolare che le persone fossero uniforme-
mente motivate e tutte da incentivi di tipo economico. Uno
studio di Hoppock (1935) focalizzato esplicitamente sulla
soddisfazione lavorativa riportò che essa era inuenzata
da molti fattori oltre al denaro: opportunità di carriera, re-
lazioni con i superiori e con i colleghi, posizione di status
nell’organizzazione, varietà del lavoro, sicurezza, e mol-
ti altri. Uno studio di pochi anni successivo (1938) di Kol-
stad confermò ancora una volta l’ipotesi che è la presta-
zione professionale che inuisce sulla soddisfazione la-
vorativa, e non viceversa.
Per quanto riguarda le ricerche sul campo, alla ne degli
anni Trenta, in Gran Bretagna, alcuni studiosi (Wyatt et
al., 1929) scoprirono che cambiando attività a intervalli
predeterminati si riduceva la monotonia: all’interno di la-
vori poco ripetitivi, i lavoratori fornivano la prestazione mi-
gliore cambiando attività ogni ora e mezzo o due. Cam-
biamenti più frequenti interferivano con il “ritmo” del lavo-
ro. Si scoprì inoltre che lavori pagati a cottimo erano per-
cepiti come meno noiosi di quelli pagati a ore, fornendo
8
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
quindi una conferma a quanto pensato precedentemente
da Taylor (1911) e successivamente da Lawler (1965): il
denaro è un incentivo per la prestazione solo se la pre-
stazione lavorativa è il criterio per determinare la retri-
buzione della persona. In altre parole, il denaro è un in-
centivo per la prestazione solo se legato al realizzarsi del-
la prestazione stessa, non ad altri aspetti (ad esempio, le
ore lavorate, o il livello di qualica posseduto).
L’applicazione dei principi dello scientic management,
però, aumentava l’antagonismo dei lavoratori nei con-
fronti del management così come le lagnanze e il turno-
ver (Latham, 2011). Uno studioso che sarebbe diventato
assai noto, Elton Mayo (1933), attribuì tali problemi al-
la monotonia del lavoro: la soluzione da lui proposta fu
di accordare delle pause sulla base di programmi con-
cordati con i lavoratori stessi, e in conseguenza il turno-
ver diminuì e la produttività aumentò, coerentemente con
questo prescritto dall’approccio attuale del coinvolgimen-
to del lavoratore nel processo di presa di decisioni. L’i-
dea di Mayo era che il denaro è un incentivo reale sola-
mente se utilizzato congiuntamente ad altri elementi, non
in opposizione ad essi. Il nome di Mayo inoltre è lega-
to anche all’effetto Hawthorne, con il quale si indica l’in-
sieme delle variazioni di un fenomeno o di un comporta-
mento che si vericano per effetto della presenza di os-
servatori, ma che non durano nel tempo. Tale fenome-
no fu scoperto durante una ricerca su una possibile rela-
zione tra ambiente di lavoro e produttività dei lavoratori.
Presso lo stabilimento della Western Electric di Hawthor-
ne, Chicago, Mayo e colleghi (Homans, 1941; Mayo,
1933; Roethlisberger e Dickson, 1939) tra il 1927 e il
1932 realizzarono una serie di esperimenti per quanti-
care la produzione in relazione all’efcienza. Da questi
esperimenti Mayo evinse che la produttività è strettamen-
te legata all’atteggiamento nei confronti del lavoro e che
la possibilità di comunicare all’altro i propri sentimenti e
la possibilità di essere ascoltati e compresi erano fonda-
mentali ai ni della produttività e della crescita della moti-
vazione nel lavoro. È da sottolineare, però, che l’impian-
to complessivo degli esperimenti era metodologicamente
assai carente, e infatti sarebbe stato attaccato in seguito,
anche duramente (Argyle, 1987), tanto che ormai è en-
trato nella storia del pensiero organizzativo ma non nel-
la prassi fondata sull’evidenza.
In sintesi, la teoria implicita alla base di tutti gli studi dell’e-
poca è che l’atteggiamento verso il lavoro inuenza la pre-
stazione lavorativa, teoria che però già allora si comincia-
va a mettere in discussione, sulla base delle evidenze em-
piriche, evidenze fondate su notevole quantità e qualità di
dati, ma fondamentalmente senza una teorizzazione forte
alla base, come sarebbe stato invece nei decenni succes-
sivi. Il limite di questi approcci, oltretutto, era quello di con-
siderare la motivazione al lavoro un atteggiamento verso il
lavoro (qual è la soddisfazione lavorativa), e non il livello
di spinta-sforzo, confondendo quindi i costrutti.
Gli sviluppi del secondo Dopoguerra. Le teorie
generali della motivazione al lavoro
L’epoca successiva alla Seconda Guerra Mondiale fu ca-
ratterizzata dalla forte ripresa dell’economia mondiale, e
una serie di durissimi scioperi cercarono di compensare
il livello dei salari, bloccato da anni. Inoltre, in risposta
ai regimi fascisti europei si sviluppò una cultura organiz-
zativa di maggior ascolto e coinvolgimento del lavorato-
re, cultura supportata da alcuni studi empirici che dimo-
strarono che il coinvolgimento dei lavoratori nella presa
di decisioni ne migliora la prestazione lavorativa (Ma-
ier, 1946). Alla ne degli anni ‘50, gli psicologi del lavo-
ro e dell’organizzazione criticavano apertamente lo scien-
tic management, mettendone in discussione ad esempio
il concetto di costanza dello sforzo da parte del lavoratore
indipendentemente dall’organizzazione del lavoro (Ryan,
1947). Il legame deterministico tra pura ricompensa eco-
nomica e motivazione al lavoro era ormai screditato.
Le teorie dei bisogni
Verso la seconda metà del secolo scorso un folto grup-
po di studiosi compì lo sforzo di inserire le esperienze e
gli studi realizzati no ad allora all’interno di quadri teori-
ci generali. L’ambizione era quella di costruire teorie ge-
nerali della motivazione al lavoro. La teoria forse più nota
è quella formalizzata da Maslow (1943; 1954), il qua-
le considerava il comportamento umano (quindi non solo
lavorativo) originato dalla necessità di soddisfare bisogni.
Tali bisogni sarebbero gerarchicamente strutturati (la famo-
sa “piramide di Maslow”), da un livello più basso di bi-
sogni “primari” (siologici e di sicurezza) no ad un livel-
lo più alto, costituito da bisogni appunto “superiori” (auto-
realizzazione). La teoria di Maslow, in estrema sintesi, si
basa su due principi: nché i bisogni di un livello inferio-
re non sono soddisfatti, i bisogni superiori non sono moti-
vanti; quando una categoria di bisogni è soddisfatta, ces-
sa di essere motivante, e il soggetto quindi si orienta alla
motivazione dei bisogni di livello superiore. Nel comples-
so tale teoria, indubbiamente razionale, pecca di rigidi-
tà: non ammette, ad esempio, la compresenza di più clas-
si di bisogni contemporaneamente attive per il soggetto,
oppure esclude che certi soggetti siano motivati esclusiva-
mente da livelli più alti anche in assenza di graticazione
dei livelli inferiori (ad esempio, soggetti che cercano sod-
disfazione ai bisogni di relazione sociale anche in assen-
za di sicurezza). Inoltre, la teoria di Maslow non fu appli-
cata a contesti lavorativi per decenni, ma fu alla base di
altre importanti teorie.
McGregor (1957), ad esempio, riteneva l’ambito della
motivazione il migliore per indicare l’inappropriatezza dei
precedenti modi di considerare i lavoratori; chiamò “Teo-
ria X” questo approccio, e secondo tale teoria i lavorato-
ri non amano il lavoro, devono quindi essere costretti, mi-
nacciati, puniti, e vogliono essere diretti, fuggono la re-
sponsabilità, non hanno ambizioni, cercano la sicurezza.
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MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
McGregor sosteneva invece che una nuova teoria (la “Teo-
ria Y”) descrivesse meglio il comportamento lavorativo: il
lavoro è naturale quanto il riposo; non esiste solo la paura
come strumento di motivazione; le soddisfazioni sono le-
gate all’autorealizzazione. In pratica, la prima teoria pun-
tava esclusivamente sul controllo esterno del comportamen-
to del lavoratore, la seconda enfatizzava il suo autocon-
trollo e autodirezione. L’approccio teorizzato da McGre-
gor fu un successo, e gettò le basi per interventi quali la
gestione per obiettivi, il job enrichment (ossia offrire mag-
giore autonomia e responsabilità al lavoratore), l’autovalu-
tazione della prestazione.
Pochi anni dopo, McLelland (1961) sostenne che gli in-
dividui sono motivati da tre categorie di bisogni: il biso-
gno di afliazione, il bisogno di potere e il bisogno di
raggiungere il successo (need for achievement) ed evitare
i fallimenti. Solamente coloro che sono caratterizzati dalla
prevalenza del bisogno di successo otterranno prestazio-
ni elevate sul luogo di lavoro. Secondo McLelland, è però
necessario utilizzare un test proiettivo, il TAT (Thematic Ap-
perception Test) per individuare tale bisogno dal momento
che si tratta di un bisogno inconscio, e questo lo rende un
approccio manageriale di difcile attuazione.
Per quanto le teorie esposte da Maslow, McGregor e
McLelland abbiano avuto immediato successo, esse erano
prive di dati di supporto: fu solo negli anni ’60 che venne-
ro effettuate ricerche empiriche basate sulle teorie dei bi-
sogni, principalmente ad opera di Lyman Porter (Lawler e
Porter, 1967), che confermarono solo parzialmente quan-
to ipotizzato da Maslow. Nei decenni successivi, ulterio-
ri ricerche (Hall e Nougaim, 1968; Wahba e Bridwell,
1976) fallirono nel tentativo di confermare la teoria del-
la gerarchia dei bisogni di Maslow, che venne inne ab-
bandonata dai ricercatori, ma curiosamente permanendo
no ad oggi nelle prassi più “folcloristiche” di formazione
e consulenza, almeno in Italia.
Un ulteriore tentativo di riformulare la teoria dei bisogni se-
condo criteri di maggiore complessità e essibilità fu fatto
da Alderfer (1972), il quale individuò tre classi di bisogni
individuali legati al contesto organizzativo: il bisogno di
esistenza (la retribuzione, i beneci), il bisogno di crescita
(sviluppo della professionalità, realizzazione, stima) e in-
ne il bisogno di relazione (interazioni sociali, amicizia).
Secondo Alderfer le classi di bisogni non sono gerarchica-
mente ordinate ma contemporaneamente presenti, e si in-
uenzano reciprocamente secondo un rapporto più com-
plesso di quanto ipotizzato da Maslow. Numerose inda-
gini sul campo, condotte anche dallo stesso Alderfer, for-
nirono risultati non denitivi (Pfeffer, 1982), anche se le ri-
cerche sono ancora in corso (Ferrari, 2010).
Le caratteristiche del lavoro
Un cambiamento di prospettiva si ebbe quando si comin-
ciò a prendere in considerazione gli effetti motivanti del-
le caratteristiche del lavoro: l’ipotesi era che nel lavoro ci
fossero aspetti motivanti e aspetti non motivanti. Herzberg
(1959) formulò la “Teoria dei due fattori”, nota anche co-
me “Motivazione/Igiene”. Secondo l’autore, nel lavoro
sono presenti due classi di fattori: elementi insoddisfatto-
ri (igienici) necessari per mantenere la non-insoddisfazio-
ne, ed elementi soddisfattori (motivanti), correlati con alta
soddisfazione e agenti di spinta del comportamento sul la-
voro. In pratica, i fattori igienici sono pretesi e quindi non
motivanti, quelli motivanti invece genererebbero impegno
nella mansione. La più controversa conclusione di Herz-
berg fu che soddisfazione e insoddisfazione, anziché es-
sere due poli di uno stesso continuum, siano due continua
differenti. L’opposto dell’insoddisfazione non sarebbe la
soddisfazione bensì la non-insoddisfazione, e l’opposto
della soddisfazione lavorativa sarebbe la non-soddisfazio-
ne. In altre parole, secondo Herzberg i fattori igienici sa-
rebbero fonte di non-insoddisfazione quando graticati,
ma non di soddisfazione: per generare soddisfazione è
necessario graticare i bisogni motivanti.
I fattori contestuali o igienici (che possiamo immaginare
cambino da lavoratore a lavoratore) sono ad esempio le
condizioni di sicurezza sul lavoro, le politiche gestionali, la
supervisione, la retribuzione, che al massimo possono ga-
rantire la non-insoddisfazione. I fattori motivanti invece sono
legati all’arricchimento della mansione (job enrichment), e
sono i contenuti stessi del lavoro, la responsabilità, il succes-
so, la possibilità di carriera. Dal punto di vista dell’impresa,
agire a livello dei fattori igienici non sortirebbe pressoché
alcun risultato dal punto di vista degli sforzi del lavoratore.
Questa teoria fu criticata e accusata di essere un artefat-
to teorico quando ricerche empiriche rilevarono che il me-
desimo evento causava sia soddisfazione che insoddisfa-
zione, a seconda di come i lavoratori ne percepivano la
causa (interna alla persona o dovuta a fattori esterni: ad
esempio, un successo ottenuto per merito rispetto a uno ot-
tenuto per caso).
La teoria di Herzberg “Motivazione/Igiene” stabilisce che
il denaro, o meglio la sua mancanza, può essere una fon-
te primaria di insoddisfazione: tale teoria però poco dice
in merito a cosa farà un soggetto come esito della sua in-
soddisfazione.
La motivazione al lavoro come processo socio-cognitivo
La “Teoria dell’Equità”, sviluppata da Jean Adams (1963),
cerca di completare il quadro. Similmente a quanto teoriz-
zato da Festinger (1954), le persone valutano le informa-
zioni in termini di rilevanza personale, usando gli altri co-
me termine di paragone. In sintesi, il senso di giustizia de-
riva dal rapporto percepito tra risorse investite (tempo, fa-
tica, competenze espresse) e guadagni ottenuti (ricompen-
se monetarie e non), ma non solo: la percezione dell’equi-
tà dipende anche dal confronto, a parità di risorse investi-
te, tra le ricompense ottenute e le ricompense ottenute da-
gli altri per una prestazione analoga. Se il confronto è ri-
tenuto iniquo, il soggetto dovrà “alleviare” la situazione:
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MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
distorcere cognitivamente il valore degli input o dei risulta-
ti, oppure abbandonare la situazione, modicare gli input
(ad esempio, impegnarsi di meno) o gli output (ad esem-
pio, fornire prestazioni peggiori).
Tra le teorie generali che hanno avuto maggior fortuna, in-
ne, c’è la cosiddetta “Teoria dell’Aspettativa” di Vroom
(1964): secondo l’autore, il termine “motivazione” si riferi-
sce al “processo che governa le scelte fatte dalle persone
o da organismi inferiori all’interno di ‘alternative attività vo-
lontaria’” (ibidem, pag. 6). Sono centrali nella teoria due
proposizioni fondamentali: lo sforzo che un soggetto eser-
cita è in funzione delle sue aspettative (cioè le probabili-
tà soggettivamente stimate) che certi risultati occorreranno
come conseguenza della sua prestazione; la valenza (va-
lence) per il soggetto di tali risultati. La valenza, a sua vol-
ta, è funzione della sua strumentalità per ottenere altri risul-
tati e del valore degli altri risultati stessi.
In altre parole, la motivazione ad agire (o, in negativo,
a evitare) è maggiore quando la ricompensa è fortemen-
te desiderata (oppure, sempre in negativo, temuta): si ritie-
ne di avere alte probabilità di raggiungere un risultato e a
tale risultato è legata sicuramente la ricompensa desidera-
ta (o temuta). Se ad esempio un venditore desidera incre-
mentare la propria retribuzione (alta valenza), ha la con-
vinzione di potere vendere molto di più (alte aspettative),
ma il suo stipendio è sso (nessuna strumentalità), non sa-
rà motivato a impegnarsi di più; se invece fosse pagato a
provvigioni (alta strumentalità) la spinta motivazionale se-
condo Vroom sarebbe intensa. La teoria di Vroom fu con-
testata negli anni successivi per le scarse evidenze empi-
riche, in particolare per le difcoltà a spiegare l’accetta-
zione da parte dei lavoratori di situazioni non gratican-
ti le loro aspettative. In particolare, Locke (1975) conside-
rò scorretto assumere che le persone scelgano sempre di
massimizzare i risultati e che formulino calcoli complessi
nel corso della scelta. Gli sviluppi successivi fornirono ap-
procci alternativi, valutando ad esempio il ruolo dell’obiet-
tivo nel generare impegno nella mansione.
Gli sviluppi attuali: la teoria dell’obiettivo
Dagli anni ’70 no ad oggi ha assunto sempre maggio-
re interesse un diverso approccio al tema della motivazio-
ne. Ribaltando le teorie dei bisogni, la spinta motivazio-
nale non deriverebbe da una carenza o da un desiderio,
ma dalla necessità-volontà di raggiungere un risultato atte-
so. Questo approccio teorico è interessato sopratutto alla
relazione tra denizione degli obiettivi, motivazione al la-
voro e prestazione lavorativa, e gli obiettivi sono distinti in
base alla loro specicità, difcoltà e intensità (per una ras-
segna, Locke e Latham, 1990).
La “tecnica del goal setting” (lett. “denizione degli obietti-
vi”), derivata da tale teoria, riprende interamente il concet-
to di livello di aspirazione (Lewin, 1948) e lo fonde con
alcuni elementi tayloristici (il sistema di premi e obiettivi),
superandone però l’eccessiva frammentazione e favoren-
do l’iniziativa e l’autonomia dei singoli. Un goal (=obietti-
vo) è ciò che un individuo sta cercando di raggiungere, e
presenta due attributi: contenuto e intensità. Il contenuto è
l’oggetto o il risultato che deve essere raggiunto: è impor-
tante distinguere tra task (=compito) e goal (=obiettivo), in
quanto il primo indica la parte di lavoro che deve essere
fatta, il secondo si riferisce all’ottenimento di uno specico
standard di competenza su un certo compito, di solito en-
tro un tempo limite. Lintensità viene misurata dall’importan-
za del goal, dal grado di sforzo richiesto, dal contesto nel
quale viene assegnato.
Che caratteristiche devono possedere gli obiettivi per atti-
vare la motivazione nel lavoratore? In primo luogo l’obiet-
tivo deve essere sdante (challenging), cioè difcile da
realizzare ma non impossibile. Inoltre, l’obiettivo deve es-
sere specico. Gli obiettivi specici conducono a presta-
zioni più elevate rispetto a quelli poco chiari (“fai del tuo
meglio”) o alla mancanza di obiettivi. Quindi, l’obiettivo
deve essere accettato dal lavoratore. Obiettivi imposti o
completamente subìti non potranno sviluppare impegno, in
virtù della scarsa equità percepita. Un obiettivo deve es-
sere formalizzato, cioè assegnato ufcialmente al titolare
di una mansione e inne, ma di estrema importanza, mi-
surabile: la valutazione sul raggiungimento o meno deve
essere oggettiva.
Perché gli obiettivi specici e sdanti inuenzano (in posi-
tivo) l’impegno e quindi, a parità di competenze possedu-
te, la prestazione? Per rispondere a questa domanda è ne-
cessario ricordare i meccanismi con i quali gli obiettivi gui-
dano l’azione: si tratta di direzione, sforzo, perseveranza,
sviluppo di strategie, che costituiscono i mediatori attraver-
so i quali i goal regolano l’azione della persona. Un go-
al accettato canalizza l’attenzione verso le attività rilevan-
ti e attiva competenze disponibili e che altrimenti non sa-
rebbero utilizzate.
Un goal specico regola l’investimento di energia, in fun-
zione della difcoltà del compito; un goal specico inol-
tre regola la persistenza dello sforzo nelle situazioni dove
non vengono imposti limiti di tempo, ossia determina la te-
nacia di fronte a ostacoli. Se i primi meccanismi sono inef-
caci, inne, il goal stimola lo sviluppo di strategie e piani
d’azione. Inoltre, mentre il lavoratore si impegna nel rag-
giungimento del goal, lo stesso goal costituisce un mec-
canismo di confronto e regolazione con il quale è possi-
bile osservare, monitorare, valutare e adeguare il proprio
comportamento agli standard già stabiliti. Un altro media-
tore rilevante in tema di goal è rappresentato dal tempo
che trascorre tra l’assegnazione dell’obiettivo e il suo rag-
giungimento. Gli obiettivi ravvicinati nel tempo ovvero sot-
to-obiettivi di quelli distanti sono più efcaci in termini di
prestazione offerta e inuenzano la prestazione (Stock e
Cervone, 1990).
È inoltre possibile individuare una ulteriore categoria di ele-
menti, i moderatori, che agiscono sulla relazione goal-pre-
stazione potenziandola o, al contrario, diminuendola: l’im-
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MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
pegno (o commitment, rappresenta quanto il lavoratore tie-
ne realmente al goal e quindi quanto è coinvolto personal-
mente nel suo conseguimento); la self-efcacy (denibile co-
me la certezza di possedere determinate capacità necessa-
rie per la realizzazione di certi livelli di prestazioni che an-
dranno a inuire positivamente nella vita del lavoratore); in-
ne il feedback, cioè la conoscenza dei propri risultati, in-
sieme agli obiettivi, offrono una maggiore motivazione per
le prestazioni di livello superiore o possono portare a per-
formance più efcaci. Il possesso o meno di competenze,
ovviamente, è determinante nella relazione goal-perfoman-
ce. Bandura e Wood (1989) dimostrano come la consape-
volezza delle proprie capacità inuisce sulla prestazione.
Prime considerazioni conclusive
In sintesi, gli sviluppi recenti della ricerca scientica sem-
brano indicare nella gestione per obiettivi il mezzo più
potente per indurre il lavoratore ad impegnarsi nella sua
mansione, soprattutto se la retribuzione è legata (in tutto
o in parte) al raggiungimento di tali obiettivi. È ovvio che
un tale approccio deve fare i conti con la soddisfazione
del lavoratore, che sebbene non inuenzi la sua prestazio-
ne ha una ricaduta importante su altri aspetti organizzati-
vi. Per quanto riguarda la motivazione a stare, elemento
assai apprezzato dalle organizzazioni, essa pare dovuta
ad antecedenti quali la giustizia organizzativa percepita.
I cosiddetti comportamenti di cittadinanza organizzativa
(OCB – Organizational Citizenship Behaviors) sembrano
generati da quanto il lavoratore si sente trattato equamen-
te, dal punto di vista dei criteri di distribuzione delle risor-
se (giustizia distributiva), delle procedure per assegnare
tali risorse (giustizia procedurale) e del livello di condivi-
sione di informazioni e di correttezza relazionale (giusti-
zia informativa e relazionale). Per una recente rassegna
si veda Ferrari (2013).
La soddisfazione lavorativa
Anche questo costrutto ha alle spalle una lunga storia di
ricerca, lunga quanto la ricerca sugli atteggiamenti (per
una prospettiva storica si rimanda al prezioso contributo di
Wright, 2006). La soddisfazione lavorativa è “il livello di
gradimento di una persona verso il proprio lavoro” (Spec-
tor, 1997, pag. VII). Le imprese sono interessate alla sod-
disfazione lavorativa dei propri dipendenti poiché si ritie-
ne che tale soddisfazione sia positivamente correlata con
alcuni esiti desiderati, in particolare la riduzione del turn-
over lavorativo e, si pensa, del tasso di assenteismo. Alla
base dell’interesse per la job satisfaction c’è inoltre, come
detto sopra, l’opinione di senso comune che essa sia an-
che alla base di una prestazione professionale eccellen-
te: cioè che una persona soddisfatta sia anche una perso-
na motivata e quindi ottenga risultati lavorativi maggiori in
quantità (produttività) e/o migliori come qualità. Ma la let-
teratura in materia fornisce risultati controversi, in partico-
lar modo proprio in merito alla relazione tra soddisfazione
lavorativa e produttività (Bowling, 2007). La soddisfazio-
ne è un tema tanto sentito da essere considerato, dai ricer-
catori, il “Sacro Graal” della ricerca scientica sul mana-
gement, tanto desiderato e cercato quanto sfuggente nelle
sue implicazioni (Wright, 2006)
Job satisfaction: reazione affettiva, atteggiamento o
caratteristica stabile del lavoratore?
In letteratura non è univoco l’approccio al costrutto stesso
di soddisfazione. Storicamente, la soddisfazione è stata
denita anche in termini di ampiezza di emozioni positive
(o negative) provate nei confronti del proprio lavoro. Loc-
ke (1976), infatti, denì la soddisfazione come “uno stato
emotivo piacevole che deriva dal giudizio sul proprio lavo-
ro o esperienza lavorativa”. D’altro canto, Miner (1992)
afferma che “sembra desiderabile trattare la soddisfazio-
ne come un equivalente dell’atteggiamento in merito al la-
voro”; Brief (1998) afferma che la soddisfazione è l’atteg-
giamento verso il proprio lavoro.
Weiss (2002) propone un’ampia riessione teorica con
l’obiettivo di dimostrare come sia concettualmente corret-
to distinguere, in merito alla soddisfazione, tra valutazione
del lavoro, credenze riguardo a esso ed esperienze emo-
tive relative al lavoro stesso, tre costrutti distinti ma correla-
ti con la soddisfazione.
L’idea alla base di queste riessioni è che la soddisfazio-
ne sia un atteggiamento e come tale debba essere opera-
zionalizzata: un atteggiamento è una valutazione espressa
nei riguardi dell’oggetto stesso dell’atteggiamento, e non
una reazione affettiva all’oggetto, e tale valutazione può
essere espressa in generale o su aspetti specici del la-
voro. Analogamente, la soddisfazione si può denire “un
giudizio positivo (o negativo) riferito al proprio lavoro o si-
tuazione lavorativa”. Tale giudizio non è un’emozione, e
quindi non lo è nemmeno la soddisfazione. Certamente ri-
sposte affettive come sentimenti o emozioni hanno una di-
rezione positiva o negativa, ma hanno anche componen-
ti esperienziali, spesso siologiche, che vanno oltre la pu-
ra valutazione (Eeagly e Chaiken,1993). Inne, il giudizio
valutativo su un oggetto (in questo caso, il lavoro) deve es-
sere distinto dalle credenze che il soggetto ha riguardo a
quell’oggetto: questo sistema di credenze ha implicazio-
ni pratiche al di là della valutazione complessiva (si pensi
alle credenze in merito al proprio superiore, o alle retribu-
zioni degli altri presenti in azienda), e quindi è opportuno
studiarle in se stesse. In sintesi, la soddisfazione per essere
studiata necessita di essere distinta in tre componenti cor-
relate ma separate: il giudizio complessivo riguardo al la-
voro, l’esperienza affettiva sperimentata sul lavoro, le cre-
denze riguardo al lavoro stesso.
Le evidenze empiriche mostrano che la soddisfazione non è
stabile nella vita del lavoratore (Spector, 1997). In generale,
la soddisfazione cresce con l’età anagraca, ma un impor-
tante mediatore è il genere: gli uomini presentano una rela-
zione curvilinea (sono più soddisfatti nel mezzo della carrie-
12
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
ra), le donne lineare (soddisfazione crescente per tutta la vita
lavorativa). È necessario sottolineare che mancano studi lon-
gitudinali di lungo temine, e i dati si ottengono confrontando
popolazioni di lavoratori di età diversa, non seguendo gli
stessi lavoratori per tutta la carriera. A spiegazione di ciò si
può ipotizzare che gli anziani abbiano maggior rispetto per
l’autorità e minori aspettative verso il lavoro in sé, svolgano
lavori migliori e abbiano maggiori competenze, godano di
retribuzioni più alte e altri beneci (ad es. pensione vicina).
O forse, più realisticamente, i lavoratori più anziani in ruolo
adattano le proprie aspettative a ciò che hanno.
Uomini e donne hanno lo stesso livello di soddisfazione,
anzi alcune evidenze sembrano mostrare che le donne
siano più soddisfatte, e ciò è sorprendente in quanto es-
se svolgono lavori differenti, hanno solitamente retribuzio-
ni inferiori per lo stesso lavoro e svolgono mansioni preca-
rie e poco qualicate. Forse le donne si aspettano meno
dal lavoro e sono soddisfatte con meno, accettano il fatto
di avere meno probabilità di carriera e di essere meno re-
tribuite per lo stesso lavoro e, inne, per le donne il lavoro
può essere meno importante dal punto di vista valoriale e
dell’immagine di sé (Spector, 1997).
Le cause della job satisfaction
Ma a che cosa è da attribuirsi la soddisfazione lavorati-
va? Da che cosa, in altre parole, è originata? Brief (1998)
ha individuato come possibili antecedenti della soddisfa-
zione lavorativa l’umore della persona oppure la caratte-
ristica di personalità denita affettività negativa (negative
affectivity, NA), che caratterizza (Watson et al., 1986)
persone che più facilmente sperimentano insoddisfazione
e stress negativo (distress), introverse e che tendenzialmen-
te si attribuiscono la cause dei loro insuccessi ed errori. In
altre parole, tratti di personalità di quel tipo rendono i sog-
getti più sensibili di altri agli aspetti negativi della realtà,
ma essi rimangono ugualmente sensibili agli aspetti positi-
vi, vale a dire soffrono di più ma gioiscono allo stesso mo-
do di soggetti con bassa NA.
In alternativa allo studio delle caratteristiche di personali-
tà, si prendono in considerazione le caratteristiche del la-
voro in sé, la retribuzione, la possibilità di carriera, la for-
mazione e la coerenza tra competenze possedute e richie-
ste dalla mansione. Un numero rilevante di ricerche (Herz-
berg, 1959; Argyle, 1987) da tempo ha indagato l’effet-
to delle caratteristiche del lavoro sulla soddisfazione, seb-
bene tale effetto sia mediato dalle caratteristiche persona-
li del lavoratore e da aspetti istituzionali o sociali (Sousa-
Poza e Sousa-Poza, 2002): in ogni caso, l’assunto fonda-
mentale è che gli individui formulano un giudizio globale
rispetto al lavoro nel suo complesso.
Soddisfazione e caratteristiche del lavoro
Oltre agli approcci centrati sul lavoratore, esistono altri
modelli di studio della soddisfazione lavorativa che invece
si focalizzano sugli aspetti del lavoro in sé, intendendo la
soddisfazione lavorativa come un complesso costituito da
sotto-elementi. Secondo tale approccio, la soddisfazione
sarebbe quindi una macrodimensione composta da soddi-
sfazioni parziali derivanti da aspetti differenti del lavoro,
che occupano posizioni diverse nella scala della soddisfa-
zione: un mix di differenti soddisfazioni relative a singo-
li aspetti può generare il medesimo livello di soddisfazio-
ne complessiva. Il lavoro di Skalli et al. (2008) giunge al-
la conclusione che non ci siano aspetti della soddisfazio-
ne, bensì aspetti diversi dell’ambiente di lavoro che ven-
gono valutati. In altre parole, il tentativo di individuare gli
aspetti più importanti ai ni della soddisfazione complessi-
va non ha portato a risultati univoci, sembra quindi che la
soddisfazione sia qualcosa di più e di diverso dalle singo-
le valutazioni che la compongono (Highhouse e Becker,
1993; Scarpello e Campbell, 1983); inoltre, nei disegni
di ricerca spesso si è fatto ricorso a liste di caratteristiche
prodotte spontaneamente dal soggetto intervistato, con l’i-
dea (ritenuta erronea dall’autore) che cosciente sia sinoni-
mo di importante, errore già sottolineato da Locke (1976).
Hackman (1980) ha individuato cinque aspetti del lavoro
che inuenzano la soddisfazione lavorativa: l’identità (la
chiarezza del compito assegnato), la signicatività (l’im-
patto del compito stesso sulla vita delle altre persone), la
varietà, il livello di autonomia, il feedback (l’ampiezza del-
le informazioni ricevute da altri effettivamente disponibi-
li in merito al lavoro svolto). La letteratura ha conferma-
to che queste dimensioni complessivamente hanno un’al-
ta correlazione2 con la soddisfazione lavorativa (rispetti-
vamente .53 e .88 in due differenti meta-analisi: Loher et
al., 1985; Spector, 1985), ma solamente per le perso-
ne con alta motivazione alla crescita professionale e che
svolgono attività complesse, non manuali o non ripetitive.
I conitti lavoro-famiglia sono correlati signicativamente
con la soddisfazione, ma fortemente mediati dal gene-
re: gli uomini presentano una correlazione r = -.40, le lo-
ro mogli r= -.02! Le donne sembrerebbero quindi più abi-
li nella gestione del conitto, oppure gli uomini sembra-
no più sensibili al problema, in quanto attribuiscono mag-
giore importanza al lavoro rispetto alle donne (o meno im-
portanza alla famiglia…). Il dato delle libere professioni-
ste (r=-.20), però, porta a pensare che il conitto lavoro-
famiglia sia basso nelle donne in quanto, se lavoratrici di-
pendenti, hanno maggiori tutele e possibilità di cura, ad
esempio assentandosi per seguire il glio malato.
In relazione all’organizzazione del lavoro e all’orario set-
timanale, l’orario essibile non è correlato con la soddi-
sfazione, l’orario prolungato (10-12 ore al giorno) sem-
bra avere un effetto positivo sulla soddisfazione, ma at-
tiva comportamenti patologici (alcolismo, farmaco-dipen-
2 La correlazione tra due variabili indica la misura in cui una variabile cambia al cambiare
dell’altra. La correlazione può essere più o meno intensa (da 0 a 1) e negativa o positiva,
ed è misurata dal valore r di Pearson.
13
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
denza), i turni di notte sono correlati negativamente con la
soddisfazione solo quando c’è rotazione (come parados-
salmente impone la legge!) e inne il part-time non è cor-
relato con la soddisfazione (per una rassegna di tutti que-
sti aspetti il riferimento è Spector, 1997).
Soddisfazione, retribuzione e carriera
È noto che la retribuzione, in sé, ha una relazione assai
debole con la soddisfazione lavorativa, con r=-.17 (Ar-
gyle, 1987). La retribuzione diventa un indicatore miglio-
re se è considerata in senso relativo, cioè facendo un con-
fronto con le altre persone presenti sul posto di lavoro in
merito ad esperienze, competenze, età, ecc. I risultati in
relazione alla sicurezza occupazionale, intesa come rap-
porto di lavoro a tempo indeterminato, sono contradditto-
ri: dipendono dalla nazione, dal periodo storico, dall’età
del lavoratore. È forte invece la correlazione tra status la-
vorativo e soddisfazione, sia relativamente alla propria or-
ganizzazione sia sul livello sociale attribuito alla professio-
ne. La possibilità di carriera è di solito al primo o secondo
posto per importanza, n dagli studi pionieristici di Herz-
berg (1959).
Soddisfazione, formazione continua e prestazioni
lavorative
Un recente studio relativo al contesto britannico (Jones et
al., 2008) parte dall’osservazione che esistono diverse
difcoltà nello stabilire il nesso tra formazione e presta-
zioni lavorative, anche per la difcoltà di misurare le se-
conde (Grugulis e Stoyanova, 2006). Una prima ries-
sione è sul mismatch di competenze, migliore predittore
dell’insoddisfazione rispetto al mismatch del titolo di stu-
dio, come ampiamente noto in letteratura (Allen e van
der Velden, 2001). Inoltre, Barrett e O’Connell (1998)
trovarono che la formazione specica (legata alla man-
sione) ha un impatto sul salario maggiore di quella gene-
rica (competenze di base o trasversali, spendibili in più
contesti), che però ha un maggiore impatto sulla soddi-
sfazione.
La formazione continua aumenta nel lavoratore la per-
cezione di sicurezza e le ricompense non pecuniarie in-
trinseche nel lavoro. I lavoratori che hanno ricevuto for-
mazione di breve durata sono meno soddisfatti di colo-
ro che non ne hanno ricevuta affatto (forse perché si in-
staura un vissuto di frustrazione in seguito ad un aumen-
to delle aspettative). Inne, la formazione ha un mag-
gior impatto sulla soddisfazione degli uomini rispetto al-
le donne.
In sintesi, la formazione è positivamente e signicativamen-
te correlata con la soddisfazione, e la soddisfazione posi-
tivamente e signicativamente correlata con alcune presta-
zioni organizzative: avere una maggiore proporzione di
lavoratori sovra-qualicati aumenta le performance nan-
ziarie ma anche il tasso di abbandono, cosa che non ac-
cade se c’è skill match.
Le conseguenze attese della job satisfaction
Locke (1976) elaborò uno studio estensivo della letteratu-
ra, individuando una correlazione negativa tra soddisfa-
zione e turnover, anche se correlazione non implica neces-
sariamente causalità.
Freeman (1978) mostrò che la soddisfazione è negativa-
mente e signicativamente correlata alla probabilità di di-
mettersi. Secondo altri autori (Jones et al., 2008; Kinjerski
e Skrypnek, 2008), pare che la soddisfazione sia negati-
vamente correlata con il tasso di assenteismo, ossia le as-
senze dal lavoro di breve durata. Vroom (1964) trovò che
bassi livelli di soddisfazione contribuiscono a un più alto
tasso di assenteismo, fatto confermato da Clegg (1983),
che riscontrò inoltre minore puntualità e maggiore propen-
sione a dimettersi.
L’assenteismo ha per l’azienda costi rilevanti e da tempo
ben noti (Oi, 1962), anche se in realtà dal punto di vista di
psicologico può essere visto perno come una pausa con
effetti positivi (Steels e Rhodes, 1978). Barmby e Stephan
(2000) trovarono che le aziende più grandi hanno un tas-
so di assenteismo maggiore, i part-time più dei tempo pie-
no (Barmby, 2002) e il periodo di prova meno del contrat-
to denitivo (Ichino e Riphahn, 2005). Se la soddisfazione
fosse un antecedente dell’assenteismo, questi dati sarebbe-
ro incomprensibili: la stabilità, la tutela e la sicurezza di un
contratto a tempo indeterminato o dell’appartenenza a una
grande azienda dovrebbero generare più alti livelli di sod-
disfazione e quindi minor assenteismo, mentre la letteratu-
ra è unanime nel descrivere il contrario. L’ipotesi, quindi, è
che soddisfazione e assenteismo siano legati da una rela-
zione spuria: dal momento che l’assenteismo è una condot-
ta parassitaria e fraudolenta, chi agisce in tal modo si di-
chiarerebbe insoddisfatto per giusticarsi moralmente, an-
che ai propri occhi. L’assenteismo è predetto più efcace-
mente dalle responsabilità nella cura dei bambini.
Bowling (2007) attraverso una meta-analisi delle evidenze
scientiche in letteratura evidenzia che la relazione tra sod-
disfazione lavorativa e prestazione professionale può con-
siderarsi spuria, in quanto entrambi i costrutti (soddisfazione
e prestazione) sarebbero da attribuirsi a cause comuni, qua-
li aspetti della personalità, e soprattutto all’autostima legata
al contesto lavorativo. In altre parole, soddisfazione e pre-
stazione condividerebbero le medesime cause ma non sono
loro stesse legate da relazioni causali: esistono infatti perso-
ne produttive ma insoddisfatte, oppure soddisfatte ma scar-
samente produttive, e in ogni caso la relazione causale tra
questi ultimi due elementi e la prestazione lavorativa è tutta
da dimostrare, al di là delle percezioni di senso comune.
Motivazione al lavoro e soddisfazione lavorativa.
Quale rapporto?
Però, al di là di tutto, motivazione al lavoro e soddisfazione
lavorativa possono trovare una relazione. Innanzitutto, la mo-
tivazione a fare è generata dall’obiettivo che, se raggiunto,
genera soddisfazione lavorativa. Inoltre, la possibilità di svol-
14
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
gere una mansione per la quale si possiedono le competen-
ze ha un effetto positivo sia sulla soddisfazione che, aumen-
tando la self-efcacy, sulla motivazione al risultato. Inne, la
costruzione di sistemi organizzativi corretti dal punto di vista
procedurale e della distribuzione delle risorse e delle informa-
zioni genera motivazione a stare e, al contempo, è un buon
antecedente della soddisfazione lavorativa.
È possibile concludere che, alla luce delle evidenze empiri-
che disponibili in letteratura, il legame tra i due costrutti esi-
ste ma è inverso rispetto alla percezione comune: non la sod-
disfazione alla base della motivazione, bensì il suo contra-
rio. In certe circostanze, cioè, mettere il lavoratore in condi-
zione di raggiungere determinati risultati lo motiva all’azione
e, se questa è di successo, genera soddisfazione lavorativa,
che si tradurrà in un minor turnover e, forse, maggiore senso
di appartenenza.
Chi ricopre una mansione di coordinamento, responsabili-
tà, oppure si occupa di gestione del personale può trarre
da quanto scritto sopra alcune indicazioni.
Innanzitutto, per generare e sostenere la motivazione al la-
voro è opportuno che i meccanismi di coordinamento e
controllo siano sempre più basati sulla standardizzazione
degli output (ad esempio, lavorando per obiettivi deniti
con la tecnica del goal setting) e sempre meno sul control-
lo a vista, sulla standardizzazione delle procedure o delle
competenze. Ciò non vuol dire che le competenze appre-
se e i protocolli/procedure in atto siano inutili, bensì che
essi non sono, in se stessi, garanti dei risultati.
Secondo, è necessario che le organizzazioni mettano i loro
operatori nelle condizioni di raggiungere tali risultati attesi,
sviluppando percorsi formativi specici e mirati al risultato,
più che improntati a buon senso o pure logiche di adempi-
mento obbligatorio. Ciò vuol dire dotarsi di sistemi realmen-
te efcaci di gestione dei processi formativi, dall’analisi dei
fabbisogni alla valutazione di impatto organizzativo. Si ri-
corda che dal raggiungimento del risultato e dalla possibili-
tà di applicare le competenze possedute deriva la soddisfa-
zione lavorativa, e non da altro. A quanto sembra, è mol-
to difcile modicare un comportamento modicando pri-
ma l’atteggiamento, ma pare vero il contrario. Se una per-
sona modica il suo comportamento, ritenendosi libera e
non soggetta a costrizioni, è molto probabile che in conse-
guenza di ciò modichi anche l’atteggiamento primitivo. Po-
trà sembrare paradossale, ma una strada per far apprezza-
re il proprio lavoro ad una persona insoddisfatta è “spinger-
la” a farlo, assegnando un obiettivo liberamente accettato.
Terzo e ultimo, tutti i sistemi gestionali dovrebbero essere
improntati alla trasparenza, per quanto riguarda criteri di
valutazione del merito, assegnazione delle risorse, proce-
dure di valutazione (giustizia distributiva, procedurale, re-
lazionale, informazionale): ciò è un prerequisito per svi-
luppare senso di equità negli operatori, che si traduce in
comportamenti desiderati di cittadinanza organizzativa, e,
probabilmente, soddisfazione lavorativa.
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MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
I sistemi incentivanti
di Gianluca Lotti
Socio di Base sas, Afliate Teleos Leadership Institute of Philadelphia e Tower Watson, Docente Università Carlo Cattaneo – LIUC di Castellanza (VA)
Introduzione
In questo contributo cercheremo di proporre una breve di-
samina delle caratteristiche di un sistema incentivante e so-
prattutto della sua efcacia.
È importante chiarire da subito che un efcace sistema in-
centivante dovrebbe fare riferimento al più ampio concet-
to di motivazione possibile perseguendo nalità molteplici
e articolate in accordo con missione, visione, valori e stra-
tegie dell’organizzazione.
Tale sistema dovrebbe altresì garantire un approccio dina-
mico capace di tenere conto del contesto in cui ci si trova
ma soprattutto della sua evoluzione nel tempo.
Utilizzando allora la dicotomia fra work motivation e job
satisfaction potremmo affermare che un sistema incentivan-
te dovrebbe promuovere un efcace e coerente orienta-
mento ai risultati attesi dall’organizzazione e contempora-
neamente promuovere lo sviluppo di un ambiente nel qua-
le ciascun collaboratore possa godere del proprio opera-
to per un periodo duraturo.
Una visione più ampia dei sistemi incentivanti
Per comprendere le caratteristiche che dovrebbe avere un
sistema incentivante è utile introdurre il concetto di Employee
Value Proposition (nel seguito denito EVP). L’EVP identica
il bilanciamento dei riconoscimenti e dei benet ricevuti dai
collaboratori in funzione delle loro performance lavorative.
Minchington (2006) denisce l’EVP come “l’insieme delle
associazioni e delle offerte fatte da un’organizzazione in
cambio delle competenze, capacità ed esperienze che un
collaboratore porta al suo interno”.
Lo scopo dell’EVP dovrebbe essere quindi quello di agire
come elemento determinante per l’attrazione, il coinvolgi-
mento e il trattenimento delle risorse chiave.
Da un punto di vista pratico i benchmark per un efcace
EVP dovrebbero includere i seguenti fattori.
1. L’EVP dovrebbe essere formalizzato e allineato con la
posizione dell’organizzazione sul mercato: sovente le
offerte fatte ai collaboratori in funzione delle loro per-
formance sono implicite e soggettivamente interpretabi-
li. Basti pensare in questo senso alle aspettative di car-
riera in contesti nei quali i relativi percorsi non siano sta-
ti formalmente deniti e comunicati.
2. L’EVP dovrebbe garantire l’effettivo mantenimento del-
le proprie promesse: questo aspetto potrebbe sembrare
ovvio ma capita frequentemente che i collaboratori non
siano in grado nel corso di un esercizio di avere certez-
za di un compenso variabile pattuito anche a fronte del
raggiungimento dei propri obiettivi.
3. Sarebbe opportuno che l’EVP avesse un design caratte-
ristico in funzione dei gruppi specici di collaboratori a
cui viene applicato: questo aspetto è presente nelle or-
ganizzazioni con uno sviluppo avanzato dei propri si-
stemi incentivanti.
Naturalmente l’EVP deve essere collocato nel contesto di
un più completo piano di Total Reward1 (nel seguito deni-
to TR) che dovrebbe essere articolato in coerenza formale
con le strategie dell’organizzazione e con quelle del com-
parto risorse umane.
Un piano di TR dovrebbe utilizzare gli obiettivi operativi
dell’organizzazione come suoi riferimenti principali ed es-
sere integrato in strumenti di analisi organizzativa atti a mi-
surare la sua reale efcacia.
In altri termini per una corretta implementazione di un sistema
incentivante occorre identicare indicatori specici di perfor-
mance correlati agli obiettivi strategici dell’organizzazione e
allo stesso tempo disporre di un sistema per misurare l’effetti-
va efcacia delle azioni incentivanti da essi derivanti.
Le denizioni di EVP e di TR ci aiutano a comprendere l’im-
portanza di inquadrare l’implementazione e lo sviluppo di un
sistema incentivante in un contesto più ampio che vada oltre il
semplice momentaneo ottenimento dei risultati ma tenga con-
to di altri aspetti importanti per le organizzazioni. Un aspet-
to essenziale da prendere in considerazione in questo sen-
so è la capacità di un’organizzazione di attrarre e mantene-
re al proprio interno le risorse umane che le sono necessarie.
Occorre pertanto inquadrare l’implementazione di un si-
stema incentivante all’interno di una matrice multidimen-
sionale che tenga conto di molti fattori, quali ad esempio:
lo sviluppo dinamico degli obiettivi aziendali;
l’integrazione con le speciche culture organizzative in-
terne ed esterne all’organizzazione;
la promozione di contesti lavorativi capaci di orientar-
si al benessere lavorativo al ne di garantire ambienti
lavorativi “sicuri”, stabili e poco esposti alle cosiddette
“sindromi da stress correlato al lavoro”.
Proviamo allora a evidenziare alcuni elementi necessari
per l’implementazione di un sistema incentivante.
1 Semplicando, potremmo affermare che con piano di Total Reward ci si riferisce all’in-
sieme complessivo di tutto quanto viene riconosciuto a un collaboratore in funzione della
sua prestazione d’opera.
18
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
È anzitutto necessario avere un sistema di gestione delle
performance a cui collegare i riconoscimenti eventualmen-
te previsti. Tali sistemi di misurazione potranno godere di
livelli di approfondimento differenti: dai sistemi basilari che
identicano semplici performance di base a sistemi com-
plessi e dinamici che ne differenziano i tipi e i livelli in fun-
zione del contesto e soprattutto dei ruoli dei collaboratori.
In tali sistemi sovente la misurazione della performance è
collegata alla specica tipologia di attività svolta da cia-
scun collaboratore. Talvolta gli incentivi non sono connes-
si soltanto alle performance ma anche alla misurazione di
potenziale col ne di motivare i collaboratori a esprime-
re pienamente la propria capacità di contribuire ai risulta-
ti dell’organizzazione.
Con “potenziale” facciamo naturalmente riferimento alla
capacità inespressa di produrre performance di un colla-
boratore all’interno di un determinato ruolo.
In aggiunta a questi elementi di base potremmo prende-
re in considerazione altre componenti di un completo si-
stema incentivante quali ad esempio l’esistenza di percor-
si di carriera formalizzati e i cosiddetti benet.
La complessità e i sistemi incentivanti
Prima di procedere, al ne di evidenziare le complessità
implicite nell’implementazione di un sistema incentivante,
è forse opportuno fare alcune brevi digressioni sulle mo-
dalità di misurazione delle perfomance e sui relativi impat-
ti motivazionali.
Anzitutto ipotizziamo di rappresentare le performance di
un collaboratore (o di un gruppo di essi) con un graco
(v. gura 1). Lungo un asse riportiamo il valore di ogni sin-
gola performance dei suddetti collaboratori mentre sull’al-
tro riportiamo il tempo. Ipotizziamo anche che tali perfor-
mance varino in modo continuo: otterremo in tal caso una
curva che esprime il loro sviluppo nel tempo. È evidente
che la performance in un determinato intervallo di tempo
sarà determinata dal suo valore cumulativo (analiticamen-
te diremmo che tale performance è l’integrale della fun-
zione di perfomance nell’intervallo di tempo considerato).
Sempre all’interno di questa ipotesi semplicativa possia-
mo facilmente immaginare come le oscillazioni locali del-
la perfomance possano essere parzialmente indipenden-
ti dal suo valore generale cumulato. Questo è ancora più
vero in contesti complessi che possano manifestare transi-
zioni di fase.
Facciamo in questo caso riferimento a quelle situazioni nel-
le quali una piccola variazione delle variabili indipenden-
ti possa generare variazioni grandi a piacere nelle varia-
bili dipendenti. Immaginate per un momento la neve che
si accumuli lungo un pendio. Localmente il quantitativo di
neve potrebbe eccedere la quantità massima sostenibile in
funzione della pendenza. La quantità di neve che scivola
a valle in questa fase è piccola in ogni intervallo di tempo
considerato e scarsamente dipendente dal peso dei sin-
goli occhi che si accumulano sul pendio. Esisterà tuttavia
un momento specico in cui un aumento di peso insigni-
cante (un occo di neve in più, un leggero sofo di vento,
ecc.) produrrà una slavina con il relativo scivolamento a
valle di una quantità enorme di neve. In quel preciso mo-
mento avrà luogo una “transizione di fase”. Il sistema do-
po la slavina sarà totalmente diverso e non reversibile: il
togliere anche una grande quantità di neve non ripristine-
rà le condizioni iniziali.
Molti sistemi economici e organizzativi si comportano nel-
lo stesso modo: accumulano al proprio interno un grande
numero di eventi/cambiamenti senza manifestare grandi
reazioni salvo poi mutare improvvisamente e in modo dra-
stico senza ragioni apparenti2.
La ragione di questo inciso è quella di sottolineare come
la scelta dell’intervallo di tempo nel quale campionare le
performance e riconoscere i compensi relativi sia determi-
nante nella costruzione di sistemi di incentivazione: non
necessariamente la somma di singole performance positi-
ve (e i relativi incentivi) produce risultati positivi per l’orga-
nizzazione sul lungo termine.
Questo aspetto è ancora più rilevante in contesti economi-
ci nei quali gli “intervalli” di misurazione degli indici azien-
dali (risultati, obiettivi, ecc.) e i mandati delle funzioni ma-
nageriali si sono sistematicamente accorciati. I contesti so-
vente “sclerotici” nei quali si sono sviluppati i sistemi di in-
centivazione invece che promuovere il benessere duratu-
ro dell’organizzazione hanno rischiato di divenire la cau-
sa stessa di erosione del valore delle organizzazioni pro-
prio in ragione della loro impostazione eccessivamente
miope (si pensi a questo titolo al comportamento di alcu-
ni mercati nanziari).
Come seconda digressione facciamo qualche precisazio-
2 Per un approfondimento su questi temi complessi rinviamo ad altri ambiti; potrebbe
eventualmente essere di interesse la lettura introduttiva e abbastanza divulgativa del libro
Il cigno nero di Nicholas Taleb (citato in bibliograa).
Figura 1
– Esempio di rappresentazione graca della misurazione
della performance
19
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
ne sui criteri di scelta degli indicatori di performance in
quanto essi possono condizionare molto i processi di mo-
tivazione.
Proviamo a fare un semplice esperimento mentale. Immagi-
niamo di trovarci in un mondo articiale popolato da sem-
plici creature in grado di evolversi. Poniamo in essere in
questo mondo una legge di selezione genetica che premi
le creature capaci di spostarsi più velocemente. Che indi-
catore di perfomance potremmo usare per selezionare le
creature più performanti? La prima scelta potrebbe essere
quella di usare la velocità di spostamento del loro centro
di massa. In una simulazione al computer tale scelta po-
trebbe portare nel tempo all’evoluzione di creature sottilis-
sime, molto alte e instabili che all’inizio della simulazio-
ne sono crollate al suolo generando un velocissimo spo-
stamento del proprio centro di massa! Certamente questo
non sarebbe il risultato intuitivamente atteso.
Per tornare allora ai contesti aziendali possiamo immagi-
nare quale impatto potrebbero avere gli indicatori di ef-
cienza sulla qualità dei comportamenti a cui essi venisse-
ro collegati. Nulla di nuovo tutto sommato: un detto popo-
lare afferma che “il presto è nemico del bene”! Questa in-
uenza reciproca degli indicatori di perfomance nei pro-
cessi motivazionali è nota ma purtroppo sovente si è tra-
dotta nella proliferazione di indicatori di perfomance re-
ciprocamente bilanciati. I sistemi di incentivazione con un
elevato numero di indicatori di perfomance cercano di li-
mitare gli effetti distorsivi di ciascun indicatore ma aumen-
tano la complessità di comprensione del sistema stesso
rendendolo al contempo formalmente corretto e psicologi-
camente inefcace.
Qualche dato di riferimento
Per cercare di oggettivare la riessione sullo stato dei siste-
mi di incentivazione abbiamo pensato di fare riferimento
a dati tratti dal “2012 Talent Management & Rewards Sur-
vey; 17th annual study of employers’ views on trends and
issues in rewards and talent management” condotto dalla
società Towers Watson3.
Questa indagine, condotta fra il febbraio e il giugno
del 2012, ha visto coinvolte 1.605 organizzazioni nel
mondo, delle quali 19 in Italia e 366 in EMEA (Europe,
Middle East, Africa). In totale sono stati raccolti i punti di
vista di 32.000 collaboratori a tempo pieno.
Tutte le informazioni quantitative proposte in questo con-
tributo saranno tratte, salvo diversa specica, da tale in-
dagine.
A titolo introduttivo riportiamo alcuni risultati generali cluste-
rizzati, ovvero organizzati e raggruppati in base a criteri
di omogeneità, secondo aspetti che ci sembrano rilevanti
dal punto di vista dell’applicabilità e dell’efcacia dei si-
stemi incentivanti.
3 Documento a uso interno della società di consulenza (N.d.A.).
Un aspetto importante, come precedentemente descritto,
riguarda la capacità di attrarre e trattenere le risorse chia-
ve all’interno delle organizzazioni. Questo fattore pur non
essendo un indicatore diretto di “potere incentivante” con-
sente tuttavia di condurre un ragionevole confronto sulle
capacità di creare contesti lavorativi positivi in organizza-
zioni di natura eterogenea.
Possiamo constatare che la maggior parte delle orga-
nizzazioni intervistate segnala una difcoltà signicativa
nell’attrarre collaboratori con competenze critiche e alti po-
tenziali (rispettivamente il 72% e il 60% delle organizza-
zioni intervistate è in questa situazione). La stessa difcol-
tà, con valori leggermente diversi, si riscontra anche nella
capacità di trattenere tali risorse.
Per meglio comprendere le cause di queste difcoltà pren-
diamo in considerazione gli elementi di attrattiva dal pun-
to di vista dei datori di lavoro e confrontiamoli con il pun-
to di vista dei loro dipendenti.
Nella redazione di un ranking delle ragioni per le quali un
collaboratore possa “decidere” di lavorare per una deter-
minata organizzazione, i datori di lavoro hanno scelto di
assegnare i primi posti (nell’ordine all’interno di possibili
27 scelte) alle seguenti:
1. salario di base;
2. sicurezza del posto di lavoro;
3. opportunità di carriera;
4. comodità della sede lavorativa;
5. opportunità di apprendimento e sviluppo;
6. attività sdanti;
7. buona reputazione dell’organizzazione come datore di
lavoro.
La stessa domanda posta invece ai collaboratori ha pro-
dotto il seguente ranking:
1. opportunità di carriera;
2. salario di base;
3. lavoro sdante;
4. sicurezza del posto di lavoro;
5. buona reputazione dell’organizzazione come datore di
lavoro;
6. missione;
7. visione e valori dell’organizzazione.
A prescindere dall’ordine specico, quello che ci preme
rilevare soprattutto è il signicativo disallineamento fra il
punto di vista delle organizzazioni e quello espresso dai
loro collaboratori.
Questo disallineamento è a nostro avviso piuttosto presen-
te, in modo più o meno esplicito, anche nell’implementa-
zione degli attuali sistemi incentivanti: spesso questi ven-
gono costruiti a partire da un punto di vista unicamente or-
ganizzativo, trascurando di indagare in modo sistemati-
co i punti di vista dei dipendenti e le loro dinamiche com-
portamentali.
Un processo particolarmente interessante è quello dell’i-
denticazione nel ruolo da parte di coloro che lavorano in
un’organizzazione. È, infatti, difcile denire esattamente
20
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
cosa s’intenda con bisogni e obiettivi di un’organizzazio-
ne laddove sovente questi vengono fatti corrispondere con
l’interpretazione dei medesimi a opera di coloro che sono
deputati a presidiarli. In estrema sintesi, sovente ciò che
è considerato un obiettivo dell’organizzazione corrispon-
de impropriamente all’insieme dei bisogni delle persone
che operano all’interno dell’area risorse umane, o ancora
all’insieme dei bisogni del top management.
Anche per questo motivo spesso i sistemi incentivanti ten-
dono a basarsi su una visione concettuale e – come sug-
gerito in precedenza – su presupposti di tipo losoco.
La “reicazione” di un’entità astratta come un’organizza-
zione ha sovente portato a processi di “disumanizzazio-
ne” degli ambienti lavorativi, applicando in modo del tutto
arbitrario sillogismi del tipo illustrato nel seguito.
Premessa maggiore: siccome il comportamento X
è necessario all’organizzazione
(qualunque cosa si intenda con tale termine)
+
Premessa minore: siccome il collaboratore Y lavora
all’interno di tale organizzazione e partecipa
alle sue sorti (aspetto esplicitato anche
dalla presenza di sistemi incentivanti)
=
Conclusione: allora sarebbe ragionevole
che il collaboratore Y si impegnasse ad agire
il comportamento X
Il termine chiave a nostro avviso in questo caso è “ragio-
nevole”. Ci si basa infatti sul presupposto ampiamente di-
scutibile che gli esseri umani operino soprattutto sulla base
di presupposti razionali4.
Lasciamo tuttavia aperta la riessione sui temi etico-loso-
ci connessi con queste considerazioni e proseguiamo nel-
lo sforzo di comprendere come vengono realizzati oggi i
sistemi incentivanti: per farlo è utile clusterizzare le orga-
nizzazioni indagate in quattro grandi categorie.
Categoria A: livello di implementazione dei sistemi in-
centivanti “tattico”. A questa categoria appartengono il
32% delle organizzazioni prese in esame e si caratte-
rizzano per il non avere ancora formalizzato un EVP o
sviluppato un piano formale di TR.
Categoria B: livello di implementazione dei sistemi in-
centivanti integrato e strategico. A questa categoria ap-
partengono il 26% delle organizzazioni; esse hanno
formalmente articolato un EVP e un approccio di TR e si
stanno focalizzando sullo sviluppo di una strategia inte-
grata per gestire premi, riconoscimenti e per mantene-
re le proprie risorse chiave. Queste organizzazioni han-
no denito obiettivi per l’ottenimento dei premi e dei ri-
conoscimenti congiuntamente a un piano di sviluppo
dei propri talenti.
4 Si legga per un approfondimento su questo tema il bellissimo libro del premio Nobel
D. Kahneman, Thinking, Fast and Slow (citato nella bibliograa).
Categoria C: livello di implementazione dei sistemi in-
centivanti basato sulla comunicazione e sul trasferimen-
to. A questa categoria appartengono il 23% delle or-
ganizzazioni; esse hanno già condotto con successo
un programma di comunicazione delle proprie strate-
gie concernenti l’EVP e il piano di TR.
Categoria D: livello di implementazione dei sistemi in-
centivanti basato su segmentazione e differenziazione.
A questa categoria appartengono il restante 18% delle
organizzazioni che si distinguono per essersi differen-
ziate positivamente dalla concorrenza personalizzando
il proprio piano EVP e di TR per segmenti specici e cri-
tici della propria forza lavoro.
Si intende naturalmente che le organizzazioni di catego-
ria C abbiano compiuto i passi identicati per le catego-
rie precedenti (A e B) così come quelle di categoria D do-
vrebbero avere compiuto i passi delle categorie A, B e C.
Sulla base di questa clusterizzazione proviamo a identi-
care quali siano le differenze fra queste categorie organiz-
zative, ancora una volta in funzione della loro capacità di
attrarre e mantenere le risorse chiave.
Se analizziamo la presenza di problemi nel mantenere le
risorse chiave scopriamo allora che esiste una differenza
di quasi dieci punti percentuali fra le aziende di categoria
A (il 58% dichiara di avere problemi nel mantenere le ri-
sorse chiave) e le aziende di categoria D (solo il 50% di-
chiara di avere tali problemi).
Sarebbe naturalmente azzardato stabilire un rapporto di
relazione causa-effetto senza avere ulteriormente investi-
gato altri fattori di correlazione, ma il dato rimane tuttavia
signicativo. Un altro dato che ci potrebbe aiutare nell’a-
nalisi è la percentuale di aziende che ritiene di avere col-
laboratori molto motivati. In questo caso solo il 6% del-
le aziende del gruppo A ritengono di avere collaborato-
ri in questa condizione a confronto del 27% delle azien-
de del gruppo D.
È interessante notare che solo il 58% delle aziende del
gruppo A, a confronto di un 83% del gruppo D, dispongo-
no di un sistema di perfomance management.
Queste organizzazioni dichiarano nell’82% dei casi di
avere ottime performance rispetto al 57% delle altre. Se
prendiamo in considerazione le aziende del gruppo D e
le confrontiamo con quelle del gruppo A ci accorgiamo
che nel primo gruppo è molto più probabile (il 90% più
probabile) che lo stipendio di base sia uno dei principa-
li fattori di attrazione e ritenzione del personale chiave.
Questo è un aspetto di particolare interesse: sembrereb-
be di potere dedurre che non è soltanto l’ammontare del
riconoscimento economico che produce motivazione (nel
senso ampio del termine), ma anche la comprensione del-
la sua relazione con il proprio operato. Quest’ultima con-
siderazione potrebbe essere facilmente contestualizzata
nell’ambito dei recenti sviluppi negli studi sulla motivazio-
ne, presentata nell’introduzione.
Opportunità di carriera, capacità di leadership, chiarez-
21
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
za degli obiettivi restano naturalmente fattori imprescindibi-
li all’ottenimento delle performance.
Alcune considerazioni conclusive
sugliaspettipsicologici
Prima di concludere questa brevissima disamina vorrem-
mo porre in evidenza alcuni aspetti di natura maggior-
mente psicologica in merito all’applicabilità dei sistemi in-
centivanti al ne di sviluppare le performance desiderate
in un’organizzazione.
Occorre anzitutto distinguere fra comportamenti conscia-
mente agibili e comportamenti che tali non sono.
Proviamo a fare un esempio conducendo un piccolo
esperimento durante la lettura che state facendo. Potre-
ste in questo momento decidere come muovere la vostra
mano sinistra? Potreste ad esempio decidere di porla da-
vanti al vostro viso? La risposta (fatti salvi eventuali impe-
dimenti di natura siologica) è certamente sì. Per esse-
re precisi, la risposta corretta sarebbe “parzialmente sì”.
Qualunque giocatore di tennis o di golf, qualunque scia-
tore sa perfettamente bene che esiste una grande diffe-
renza fra il movimento che vorremmo fare e quello che
effettivamente compiamo. Per acquisire la totale maestria
anche di semplici movimenti del corpo occorre sovente
molto allenamento.
Provate ora a sorridere. Immaginate di essere davanti a
uno specchio e di potervi osservare con attenzione. Che
effetto immaginate possa fare il vostro sorriso, agito come
avete fatto adesso, in modo conscio? Come si fa a “deci-
dere” di sorridere? Ciascuno di noi è ampiamente consa-
pevole di cosa sia un sorriso di circostanza. Un sorriso ap-
punto generato dalle opportunità del contesto. Possiamo
farlo ma la maggior parte di noi è capace di distinguere i
sorrisi sinceri da quelli di circostanza dettati, ad esempio,
dalla buona educazione. È importante essere consapevo-
li di come questi due modi di sorridere producano risultati
signicativamente differenti.
Ora proviamo a immaginare un sistema incentivante dedi-
cato fra l’altro a promuovere comportamenti emotivamen-
te risonanti nelle relazioni fra infermieri e ospiti all’interno
di una casa di ospitalità per persone anziane.
Potremmo decidere di identicare i comportamenti con-
nessi con questo tipo di relazione, riconoscerli e premiar-
li. Sarà tuttavia sufciente? Probabilmente no: tutti noi co-
nosciamo l’effetto stucchevole e talora persino fastidioso
degli operatori di un help desk addestrati a parlare in mo-
do gentile. Quello che vorremmo è una reale empatia,
la reale capacità cioè di stabilire una profonda relazio-
ne con l’altro.
Sarà facile allora comprendere, e con questo concludia-
mo questo breve articolo, che i tradizionali sistemi incen-
tivanti possono essere efcaci soprattutto nel promuovere
i comportamenti basati su competenze e motivazioni già
possedute e consapevolmente attivabili. Tali sistemi sono
invece solo parzialmente efcaci nel caso contrario.
Bibliograa
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22
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
La formazione: apprendimento e motivazione
di Annalisa Pennini
Direttore Scientico, FORMAT sas
La formazione nell’adulto e l’apprendimento
Nel mondo professionale odierno è ormai riconosciuta la
necessità di apprendere lungo tutto il corso della vita, co-
me una priorità per le organizzazioni e per le persone. È
un diritto-dovere, necessario per rispondere ai bisogni con-
tinuamente in divenire. È un’esigenza delle organizzazio-
ni che per poter mantenere la competitività hanno necessi-
tà di poter contare su risorse umane competenti e aggior-
nate; è una opportunità che il professionista deve cogliere
per rimanere nei contesti, per uno sviluppo continuo e an-
che per mantenere o aumentare la soddisfazione lavorati-
va e la motivazione.
Sulla correlazione fra motivazione e soddisfazione lavora-
tiva diverse fonti in letteratura forniscono prospettive interes-
santi. Come ha ben sintetizzato Ferrari all’inizio di questa Ri-
vista, i due fenomeni risultano molto rilevanti per le organiz-
zazioni e per i professionisti stessi, perché possono spingere
il lavoratore ad avere “comportamenti desiderabili, quali ef-
cienza, efcacia, puntualità, disponibilità verso i colleghi”.
Riprendendo brevemente i concetti possiamo ricordare che:
la motivazione è la quota di impegno, la spinta, l’energia
che la persona mette in campo nelle azioni che intrapren-
de; la soddisfazione è il livello di gradimento del proprio
lavoro. La soddisfazione può essere considerata un prede-
cessore della motivazione, ma non sempre questa correla-
zione è certa e lineare. Oltre a questo legame incerto, che
già viene approfondito in altra sede, si vogliono qui traccia-
re alcune linee di analisi circa l’apprendimento dell’adulto,
come base per proseguire la descrizione della correlazione
fra formazione e motivazione.
Il massimo esponente della teoria andragogica è stato
Malcom Knowles, che ha indicato alcuni elementi fonda-
mentali che inuiscono sull’educazione e sull’apprendimen-
to degli adulti. Li analizziamo di seguito, tenendo in consi-
derazione che lo scopo è quello di contribuire a compren-
dere come la formazione possa essere motivante in sé, an-
che in considerazione delle strategie, modalità e approcci
che vengono usati per effettuarla agli adulti.
In sintesi, due i tratti fondamentali: l’adulto nell’apprende-
re e nel partecipare a processi formativi ha necessità di
comprendere il motivo per cui lo sta facendo e la sua ap-
plicabilità nella sua vita pratica e in particolare lavorativa;
ha inoltre necessità di vedere riconosciuta la sua autono-
mia rispetto alla dipendenza che di norma viene riservata
alla formazione in età evolutiva. Questi due elementi fon-
danti permeano tutto il suo “stare” in formazione, il proces-
so e il risultato. In quest’ottica, possiamo evidenziare co-
me, rispetto alla motivazione alla formazione, per l’adul-
to è più importante la spinta interna che non la pressione
esterna. Infatti, quando gli adulti apprendono, si evolvono
e migliorano la propria competenza o posizione, è per-
ché riescono a dare direzione alla loro autodeterminazio-
ne, che consente loro di superare eventuali ostacoli inter-
ni o esterni a se stessi.
Ricordiamo i punti essenziali di Knowles, relativi al model-
lo andragogico (Massai et al., 2010).
- Il bisogno di conoscere: ovvero sapere perché serve
apprendere e a cosa servirà quello che stanno appren-
dendo. È importante che il formatore degli adulti ten-
ga sempre conto di questo primo principio, aiutando la
persona ad acquisire consapevolezza del proprio livel-
lo di conoscenza e a contestualizzare i concetti nella
sua esperienza pratica.
- Il concetto di sé: si tratta di un concetto di sé autonomo
o tendenzialmente autonomo, a differenza del bambino
che basa questo concetto sulla dipendenza. Non poter-
si autogovernare, anche nei processi formativi, fa inne-
scare meccanismi di resistenza.
- Il ruolo dell’esperienza precedente: è molto rilevante,
in quanto l’adulto fa raffronti con il suo vissuto, in mo-
do positivo o negativo. L’esperienza precedente può in-
nescare pregiudizi, così come può essere la base sulla
quale integrare nuovi apprendimenti. Per i bambini l’e-
sperienza è qualcosa che succede loro, mentre per gli
adulti rafgura chi sono, in quanto la loro identità de-
riva dall’esperienza. È per questo che fra le metodolo-
gie didattiche sono preferibili quelle attive, con analisi
di casi e situazioni reali, discussione e riessione sull’e-
sperienza, laboratori e simulazioni.
- La disponibilità ad apprendere: è legata a ciò che ser-
ve, per cui in certo senso limitata e contestualizzata. L’a-
dulto deve vedere un vantaggio dall’impegno in termini
di apprendimento.
- L’orientamento verso l’apprendimento: è legato alla vita
reale, alla risoluzione di problemi o all’affrontare attivi-
tà. L’applicabilità è fondamentale per potersi applicare.
- La motivazione: gli adulti sono disponibili a investire
energie per formarsi e apprendere, per ragioni interne,
quali l’autostima, il desiderio di una migliore posizione
o soddisfazione.
Questo ultimo punto, sulla motivazione alla formazione, ci
fornisce le basi ed è il collegamento con i prossimi para-
23
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
gra, che indagheranno in modo più approfondito la cor-
relazione fra motivazione e formazione e fra formazione
e motivazione, ovvero come la motivazione inuisce sul-
la formazione, e come la formazione può inuire sulla mo-
tivazione, immaginando un circolo virtuoso: motivazione-
formazione-motivazione.
Ancora: avere motivazioni per apprendere, e apprendere
per migliorare la motivazione.
Motivazione e formazione: una prospettiva
Per iniziare, una denizione: “la motivazione alla forma-
zione è la misura in cui il soggetto è stimolato a parteci-
pare al training, apprende dal training e usa le conoscen-
ze e competenze acquisite nel training in seguito nel la-
voro” (Mathieu e Martineau, 1997, in Fraccaroli, 2007,
pag. 100).
Secondo Fraccaroli (2007), la training motivation (motiva-
zione ad apprendere) comprende in realtà tre tipologie di
motivazioni, che inuiscono sul comportamento delle per-
sone che si accingono a intraprendere un percorso forma-
tivo. Eccone una sintesi:
a) Motivazione a partecipare. Incide sulla decisione di ini-
ziare un percorso formativo, di continuare a frequentarlo,
di portarlo a termine. Sono importanti: “bisogni e aspet-
tative riferite a: socialità (condividere un percorso sociale
signicativo con altri); riuscita (ottenere risultati; affrontare
nuove sde); realizzazione (portare a termine progetti);
strumentalità (vantaggi derivanti dalla partecipazione)”.
b) Motivazione ad apprendere. Incide sulla partecipazione
attiva, sull’impegno durante le attività di formazione. “È
in gioco la voglia, lo sforzo e la disponibilità a seguire
le lezioni, portare a termine le esercitazioni, intraprende-
re uno studo individuale, superare le prove di valutazio-
ne, impegnarsi per rendere formativo un tirocinio”.
c) Motivazione a utilizzare i contenuti della formazione. In-
cide sull’impegno e lo sforzo a modicare prassi o a ri-
vedere criticamente atteggiamenti e comportamenti pro-
fessionali, ovvero si traduce nello “sforzo di abbandona-
re vecchie routine e adottare nuove pratiche di lavoro”.
Spesso, queste tipologie sono inuenzate una dall’altra, nel
senso che la prima può condizionare la seconda e così può
fare la seconda con la terza, complessivamente sfociando
in un unico livello, come esplicitato nella denizione iniziale.
In particolare il terzo livello della motivazione, ovvero quello
di utilizzare quanto appreso, è il ponte con il prossimo para-
grafo, cioè quello dedicato alla formazione e motivazione.
Formazione e motivazione: quali correlazioni
La prospettiva di connessione qui proposta è fra la for-
mazione e la motivazione, cioè come la formazione pos-
sa incidere sulla motivazione dei professionisti. Si è detto
che una forte motivazione alla formazione, e in particola-
re a trasferire quanto appreso, è il collegamento fra i due
aspetti. Chi è motivato ad applicare contenuti del proces-
so formativo probabilmente manterrà questo atteggiamen-
to rispetto alla motivazione complessiva. Qui entra in gio-
co il prolo personale del professionista, che è senz’altro
importante, ma per proseguire nell’analisi e riessione ab-
biamo necessità di considerare anche i fattori esterni al-
la persona, ovvero quelli legati al clima e alla cultura or-
ganizzativa.
Consideriamo pertanto alcuni elementi già analizzati nei
precedenti contributi di questo volume, dove si afferma-
va la correlazione fra la motivazione e una organizzazio-
ne e direzione per obiettivi, che contempli la standardiz-
zazione degli output piuttosto che delle procedure di lavo-
ro o del controllo.
Se si basa un’organizzazione sui risultati, ovvero su obietti-
vi raggiungibili, chiari, deniti e condivisi o diffusi, e di con-
seguenza si progetta una formazione appropriata a que-
sta struttura, è probabile che i livelli motivazionali dei lavo-
ratori aumentino. Questi percorsi formativi, a supporto de-
gli obiettivi, diventano un complemento essenziale per rag-
giungerli. Il professionista potrà e dovrà prendervi parte atti-
vamente, condividendo obiettivi e modalità, in un processo
integrato. Un modello gestionale basato sulla trasparenza
degli obiettivi, sia dell’organizzazione che della formazio-
ne a supporto del suo sviluppo, potrà contribuire a promuo-
vere comportamenti virtuosi da parte dei lavoratori. Essere
parte della mission, contribuire alla riuscita di un progetto,
al raggiungimento di un obiettivo può davvero fare la diffe-
renza. Come ci ricordano Maioli e Mostarda (2008, pag.
55), citando la prospettiva di Drucker (1999): “i veri fatto-
ri motivazionali, specie per i lavoratori professionali, sono
gli stessi, che motivano i volontari, i quali devono conosce-
re la mission e crederci, hanno bisogno di formazione con-
tinua, devono sentirsi ‘partner’ e vedere i risultati raggiunti”.
Secondo Campbell e Kuncel (2001, in Fraccaroli, 2007)
tre sono le variabili che entrano in gioco per determinare
la qualità della prestazione di lavoro: conoscenze, com-
petenze, scelte comportamentali. La formazione può agi-
re su tutte e tre le variabili, anche se comprendiamo che ri-
spetto al nostro argomento di trattazione, è l’ultima varia-
bile che manifesta maggior interesse.
La formazione diventa così una strategia gestionale e
“un’attività organizzativa che mira a rendere il comporta-
mento organizzativo dei membri più efcace e di qualità
migliore” (Fraccaroli, 2007, pag. 196).
Una formazione mirata, concreta, nalizzata, non solo in
aula, ma anche sul campo, potrà inuire sul livello di moti-
vazione e soddisfazione dei lavoratori. Alcune strategie e
approcci saranno illustrati nel prossimo paragrafo.
Come le organizzazioni possono erogare
unaformazione che motivi chi lavora
Come si è avuto modo di dire, le organizzazioni che ero-
gano una formazione efcace, ma soprattutto, per la na-
lità di questo contributo, motivante, è necessario mettano
in atto strategie, modelli, approcci e tecniche che superino
24
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
gli aspetti di obbligatorietà. Secondo Kanfer e McCombs
(2000, in Fraccaroli, 2007), la formazione risulta “nega-
tivamente condizionata da quegli ambienti formativi che
tendono a ridurre il sentimento di agenticità e di controllo
delle persone” (pag. 108). Va comunque evidenziato l’a-
spetto legato al signicato che viene attribuito all’obbligo.
Per taluni, essere obbligati da un’organizzazione a parte-
cipare a programmi formativi è un segno dell’importanza
che questo ha per l’organizzazione a cui appartengono e
di quanto seriamente vengano considerati. A questo punto
entra in gioco il senso di appartenenza all’organizzazio-
ne, come elemento che può dare una direzione diversa al
concetto di obbligatorietà.
Il processo o ciclo della formazione non potrà essere ac-
corciato per “fare il corso”, ma ogni passaggio, dall’ana-
lisi dei fabbisogni, alla progettazione, all’erogazione, al-
la valutazione (di gradimento, apprendimento e impatto)
dovrà essere affrontato con metodo, tempo e dedizione.
La formazione andrebbe progettata per le persone e con
le persone in modo che partecipino al raggiungimento del
risultato e vengano messe nelle condizioni di applicare le
conoscenze e competenze acquisite, come base per po-
terne derivare soddisfazione e motivazione lavorativa. Tre
aspetti sono fondamentali a tal proposito: “padronanza,
agenticità e autoregolazione. Le persone che potranno be-
neciare maggiormente degli esiti della formazione sono
quelle che vedono un forte legame tra la loro azione, il
loro impegno, l’investimento di risorse e i risultati ottenuti”
(Fraccaroli, 2007, pag. 123).
Se è vero, come pare, che, per modicare un comporta-
mento, la persona debba essere libera da costrizioni, è op-
portuno che anche la formazione “sdi” se stessa, l’orga-
nizzazione e le persone, attraverso obiettivi che possano
essere liberamente accettati. Le regole della formazione e
dell’apprendimento dell’adulto sono i presupposti per que-
sta strategia, in particolare il concetto di sé, la disponibilità
ad apprendere e il ruolo dell’esperienza precedente.
Una formazione “sdante” è quella che pensa al futuro
delle persone e della stessa organizzazione, che si po-
ne obiettivi nuovi, oppure tradizionali, ma visti con un’ot-
tica innovativa.
Molte fonti e ricerche hanno confermato il collegamento fra
opportunità formative nei contesti di lavoro o a essi collega-
ti e i livelli motivazionali, anche se non sempre questo lega-
me è diretto e lineare. L’apprendimento è spesso considera-
to come “l’esito dell’applicazione di altre strategie motivazio-
nali: la progettazione delle attività, l’MBO1, la valutazione e
il feedback, la partecipazione, la socializzazione e il lavoro
in gruppo” (Cortese, 2005, pagg. 66-67). Pertanto una for-
mazione come strumento manageriale, come leva e fulcro
per la crescita e lo sviluppo. Una formazione che possa dirsi
motivante non è attenta solo alla singola conoscenza o com-
1 Management By Objectives, N.d.A.
petenza, ma a creare una prospettiva, così risulta “motivan-
te soprattutto l’apprendimento che consente di cambiare, di
trasformarsi, crescere”. Cortese (2005) aggiunge a tal pro-
posito: “è motivante la consapevolezza che l’apprendimen-
to possibile in organizzazione contribuisce al percorso di co-
struzione e realizzazione del sé” (pag. 86). Secondo questa
prospettiva, quindi, vi sono due passaggi che possono costi-
tuire un percorso per rendere la formazione veramente moti-
vante e fuori da schemi tecnici o di sola obbligatorietà: pas-
sare dall’addestramento alla formazione, e poi passare dal-
la formazione all’autoformazione (pagg. 86-87). Nel primo
passaggio, non solo trasmissione di elementi utili al lavoro e
immediatamente spendibili (pur necessari, ma non esclusivi),
ma anche azione formativa sulle attitudini soggettive e capa-
cità di relazione, di processo e di sistema. Nel secondo pas-
saggio, un’evoluzione da un modello esterno a uno autore-
golato, dalla riessione, dalla volontà, dall’impegno e dalla
direzione che si vuole dare alla propria vita personale e pro-
fessionale. Massai e colleghi (2010) hanno denito l’autofor-
mazione come: “il processo attraverso il quale un soggetto
programma e organizza il proprio apprendimento rendendo-
lo coerente a un percorso formativo e di sviluppo personale
e/o professionale. Nell’autoformazione la centralità del pro-
cesso di apprendimento è rappresentata dall’individuo, che
in maniera autonoma, sceglie l’oggetto e i contenuti dell’ap-
prendimento sulla base di una pratica di riessione rispetto
al proprio sapere ai propri obiettivi di sviluppo, seguendo di-
namiche di autorealizzazione e automotivazione” (pag. 5).
In conclusione, una formazione che passi da essere co-
munque reattiva a qualcuno o qualcosa a essere proattiva,
nelle intenzioni, nei metodi e negli strumenti applicativi.
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25
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
Lavorare per progetti
di Elena Bonamini
Infermiera, psicopedagogista, counselor, formatore e consulente in ambito sanitario e sociale. E-mail: elena.bonamini@live.com
E debbesi considerare come non è cosa più difcile
a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa
a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini.
Perché l’introduttore ha per nimici tutti coloro che
degli ordini vecchi fanno bene; e tepidi difensori tutti
quelli che degli ordini nuovi farebbono bene;
laqual tepidezza nasce, parte per paura
degli avversari, che hanno le leggi in benecio loro,
parte dalla incredulità degli uomini,
i quali non credono in verità le cose nuove,
se non ne veggono nata esperienza ferma
(N. Machiavelli, Il Principe, 1513)
Perché parlare (ancora) di lavoro per progetti?
1
Di fronte alla complessità del sistema legata alla sua stes-
sa evoluzione, alla numerosità dei soggetti coinvolti, de-
gli interessi e dei bisogni in campo, i tradizionali model-
li organizzativi, di tipo gerarchico-funzionale, mostrano
tutta la loro debolezza. Il lavoro per progetti si sviluppa
negli ultimi decenni come risposta decentrata e essibi-
le alla complessità. La denizione di percorsi che van-
no dalla esplicitazione di problemi, all’identicazione di
scopi/obiettivi, no alla valutazione e implementazione
di uno stato nuovo, è diventata prassi consolidata anche
nei contesti sanitari. Progetti nascono con approcci di-
versi (top-down o bottom-up), nalità diverse, coinvolgo-
no persone, servizi e unità operative interne ed esterne
all’azienda, integrano strutture e istituzioni, si intreccia-
no, in alcuni casi sovrapponendosi e, a volte, scontran-
dosi tra loro. Una recente ricerca condotta in 13 ospeda-
li del Nord Italia con l’obiettivo di descrivere i progetti af-
dati/gestiti dai Coordinatori infermieristici ha evidenzia-
to che nel corso del 2009 essi hanno gestito complessi-
vamente 114 progetti, con una media di 1,8 ciascuno.
L’82% erano progetti di miglioramento, il 14,9% erano di
accreditamento e il 2,6% di ricerca. Purtroppo, come sot-
tolineato dagli autori, l’analisi della letteratura evidenzia
1 Considerando lo spazio necessariamente limitato di questo contributo, a fronte di una
manualistica sulla progettazione e sul Project Management molto sviluppata e che com-
prende percorsi, esperienze e metodologie applicate anche al mondo delle organizzazioni
sanitarie, a quella si rimanda per approfondire il metodo. Qui si predilige dare spazio ad
alcune riessioni critiche sul tema e ad alcuni suggerimenti per chi ha la responsabilità di
attivare e gestire progetti.
che in ambito sanitario l’80% dei progetti non raggiunge
i risultati attesi (Palese et al., 2012).
Come mai?
Competenza, motivazione e lavoro per progetti
Il lavoro forzato è ogni attività
dalla quale viene sottratto lo scopo
(F.M. Dostoevskij, Memorie dalla casa dei morti, 1862)
Esiste un legame molto forte tra agire
concompetenza e lavorare per progetti
Si può dichiarare di essere dei professionisti senza avere
degli obiettivi, senza fare dei progetti?
Il tema rimanda immediatamente a uno degli ingredienti
fondanti la competenza, l’agire intenzionale, e al concet-
to stesso di competenza: dal latinocom-pet
ĕ
re, “chiedere,
dirigersi, andare, chiedere insieme”; la competenza è la
strada più appropriata e veloce per raggiungere un risul-
tato in situazioni sempre diverse. Un comportamento sen-
za intenzione non denisce una competenza; le compe-
tenze contengono sempre un’intenzione (Spencer e Spen-
cer, 1995). La competenza non è la semplice lista o som-
ma di elementi, attività, sotto-attività o saperi vari, i qua-
li rimandano a un concetto di competenza solo in termi-
ni di “stato”; essa è un processo che mette in relazione e
collega una combinazione di risorse – interne ed esterne
al soggetto – a un’azione intesa quale contributo al rag-
giungimento di un risultato (servizio o prodotto) per un be-
neciario (cliente, paziente, utente) o alla risoluzione di un
problema (Le Boterf, 2008).
La competenza è innovazione in atto: il prescritto viene
continuamente interpretato e subisce continue revisioni e
aggiustamenti. Lo spazio della competenza sta nella diffe-
renza tra lavorare per routine, schemi consolidati, nella co-
modità di stare nel noto, nel “certo” e lavorare per proget-
ti, cioè avere un’intenzionalità, la prospettiva di uno sta-
to futuro, attivare processi/percorsi di collegamento soste-
nendo l’incertezza che questo comporta.
Che cos’è un progetto se non tutto questo?
Il valore evocativo del lavoro per progetti
Il progetto ha un forte valore evocativo su diversi piani:
quello più propriamente tecnico degli strumenti che con-
sentono di scomporre in elementi “trattabili” i problemi
complessi, quello organizzativo delle azioni nalizzate a
26
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
conseguire risultati, quello etico-valoriale in quanto siamo
in presenza di persone che agiscono con e per altre per-
sone (Borgonovi, 1992).
Ma il progetto ha valore evocativo soprattutto perché apre
alla dimensione del sogno. Il verbo inglese to project signi-
ca anche “proiettare”, “sporgersi”: quando progetto mi
sto proiettando in un domani, in un luogo che non c’è, ol-
tre i vincoli e i conni dell’oggi. In questo senso il progetto
apre a spazi di libertà, alla realizzazione del sogno, dan-
do forma al divenire.
Per questo motivo il progetto ha importanti implicazioni
con la motivazione e, in particolare, con la motivazione
al cambiamento. Il progetto è cambiamento, è uscire dal-
la routine: secondo l’Enciclopedia Treccani, “un progetto
si differenzia da un programma, generalmente ripetitivo,
in quanto si realizza una sola volta”.
Il lavoro per progetti ha la forza di tenere insieme compe-
tenza e motivazione e non a caso la tematica è inserita
nel più ampio scenario della motivazione al lavoro.
È una struttura essibile e generativa capace di combinare
elementi diversi per scopi diversi: uno strumento che, tutta-
via, a volte viene utilizzato secondo uno schema standard,
un contenitore che a volte viene confuso con il contenuto
dando origine al suo insuccesso.
Abbiamo ancora da imparare sul lavoro per progetti: per
questo ha ancora senso parlarne.
Le due facce del lavoro per progetti:
nodi critici, rischi e responsabilità delmanagement
Parlare di lavoro per progetti, oggi, signica affrontare il
paradosso che deriva dal rigore metodologico richiesto
dall’approccio “classico” con le sue tappe e le sue stru-
mentazioni, a fronte di un contesto complesso, uido e in-
certo, spesso non rappresentabile da logiche lineari, non
catturabile in schemi predeniti e che continuamente co-
stringe a fermarsi, a rivedere il progetto, a cambiare per-
corso, a essere estremamente essibili e a perseverare.
Questo è quanto i dirigenti, i professionisti e i consulen-
ti sperimentano quotidianamente nei contesti reali. A vol-
te con vissuti di impotenza e frustrazione. Per queste ra-
gioni qui si preferisce considerare quelle che generalmen-
te vengono viste come “fasi”, che nella realtà dei fatti si
intrecciano e si sovrappongono nel percorso di cambia-
mento, come due dimensioni, due facce della stessa me-
daglia che caratterizzano un progetto e che devono esse-
re sempre sotto l’attenzione del responsabile del progetto:
quella ideativa, produttiva di idee e soluzioni e quella rea-
lizzativa del fare.
Due sono i nodi critici della dimensione ideativa di un pro-
getto che inuenzano il suo potere in quanto attivatore del-
le persone e del loro auto-riconoscimento nello stesso. Il
primo è legato alla percezione e alla rappresentazione
(individuale e condivisa) che esse hanno del problema da
risolvere o del bisogno da soddisfare attraverso il proget-
to: accogliere il problema come occasione di crescita e di
miglioramento della qualità del proprio lavoro e del servi-
zio reso signica (e richiede), in alcuni casi, rompere con
le visioni precostituite della realtà, saper vedere, intuire un
modo diverso di lavorare. Tale capacità di concepire la si-
tuazione in modo nuovo può essere sviluppata fornendo al
sistema informazioni sul sistema stesso e/o il suo ambiente
e favorendo modelli di apprendimento a doppio circui to
(Argyris e Schon, 1998; Morgan, 2002; Forti e Varchet-
ta, 2003; Le Boterf, 2008).
Il secondo aspetto è legato all’altro polo del progetto,
il così detto “stato nale”, che, come suggerisce la teo-
ria del Goal setting, dovrebbe, in quanto obiettivo da
raggiungere, stimolare la motivazione a intraprendere la
strada denita dal progetto. Tuttavia, l’ampia letteratura
sul cambiamento e sulle resistenze al cambiamento, non-
ché la pratica e l’esperienza dentro le organizzazioni
con i gruppi impegnati in progetti di sviluppo e migliora-
mento, testimoniano quanto sia difcile mobilitare i grup-
pi verso il nuovo, il diverso. Morgan (2002) sottolinea (e
denuncia) come buona parte della letteratura si sia con-
centrata sul tema delle resistenze piuttosto che su come
nuovi “poli” possano attirare e attivare le energie e le
competenze del sistema no a portarle alla realizzazio-
ne di una nuova congurazione rispetto al “polo conso-
lidato”. Questa è la sda posta ai manager, che l’auto-
re chiama “arte di creare nuovi contesti” (pag. 342). Il
tema è anche quello di come le persone interessate dal
progetto, oltre che informate sull’obiettivo da raggiunge-
re, lo percepiscano più o meno di “valore” dal punto di
vista personale e professionale, per sé e per il gruppo,
e collocato all’interno di un orizzonte che gli conferisce
senso e coerenza. Progettare (dal latino tardo proiecta-
re “gettare avanti”) è anche un “modo della mente che
non rinuncia a immaginare e aggredire i problemi alla
ricerca di nuovi valori capaci di rispondere alle neces-
sità e problemi” (Kaneklin e Olivetti Manoukian, 1990,
pag. 1702). Secondo la concezione americana, e in ge-
nerale nella letteratura di project management3, gli obiet-
tivi devono essere chiari, comprensibili da tutti, “palpa-
bili”; nella concezione giapponese, invece, gli obietti-
vi e le strategie d’azione adeguate dovrebbero emerge-
re da un processo di esplorazione, comprensione e inte-
riorizzazione – da parte dei soggetti organizzativi – dei
valori cui ogni organizzazione dovrebbe ispirarsi. I va-
lori diventano punti di riferimento per la ricerca di strate-
2 Il sottolineato è dell’Autrice del presente contributo.
3 Russel D. Archibald, uno dei padri storici del Project Management (PM), lo considera
Un sistema gestionale orientato ai risultati. Possiamo denirlo come gestione sistemica di
un’impresa (o un progetto) complessa, unica e di durata determinata, rivolta al raggiungi-
mento di un obiettivo chiaro e predenito mediante un processo continuo di pianicazione e
controllo di risorse differenziate e con vincoli interdipendenti di costi-tempi-qualità” (2004,
pag. 29). Per il Project Management Institute, il PM è “La combinazione di persone, risorse
e fattori organizzativi, riuniti temporaneamente per raggiungere obiettivi unici, deniti, con
vincoli di tempo, costi, qualità e con risorse limitate”.
27
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
gie e favoriscono comportamenti autoregolativi. Una po-
sizione, questa, coerente con i moderni concetti di com-
petenza e di cambiamento-apprendimento. Un apprendi-
mento che, ponendo al centro del processo di cambia-
mento il soggetto-persona, attiva una partecipazione au-
tomotivante.
Approcci top-down ed eccessiva specicazione degli
obiettivi riducono la discrezionalità, impediscono l’emer-
gere di più efcaci strategie alternative e, così facendo,
sostengono processi di apprendimento monoroutinari. An-
ziché “nuovo stato” da raggiungere, l’obiettivo diventa
una “camicia di forza” che ingabbia il pensiero e l’azione
del professionista, lasciando immodicato lo status quo.
In aggiunta al tema cruciale della motivazione, l’analisi
della letteratura compiuta da Palese e colleghi (2012) ha
evidenziato i seguenti fattori che ostacolano il successo di
un progetto in ambito sanitario:
- la lunga durata;
- il numero di persone coinvolte: o insufciente o troppo
elevato da produrre dispersione;
- le risorse assegnate insufcienti;
- le scarse competenze del responsabile: nello sviluppa-
re la vision e nell’aggregare e convogliare intorno ad
essa il gruppo e gli sforzi, nel gestire le responsabilità e
le tappe, nel predisporre le precondizioni per la riusci-
ta del progetto.
Per quanto riguarda la dimensione attuativa e di gestione
del progetto, può essere utile richiamare i principali rischi
evidenziati da Galli e Tomè (2010).
1. Confondere oggetto con progetto: l’oggetto è ciò che
aggrega le persone e rende merito dei loro sforzi, ha
quindi una valenza importante. Talvolta, tuttavia, suben-
tra un attaccamento al progetto originale che innesca
un “effetto miraggio”, il quale impedisce al capo-pro-
getto di cogliere i cambiamenti che si vericano nella
realtà e che richiederebbero, invece, il ripensamento di
alcune variabili.
2. Ridurre il confronto tra attori coinvolti e idee: per sua na-
tura il progetto presuppone una gruppalità. Soggetti, bi-
sogni, interessi diversi producono aspettative e idee di-
verse. Le difcoltà relazionali, l’incapacità di confron-
to, accettazione e integrazione dei diversi punti di vi-
sta, oltre che generare senso di solitudine e ansia, pos-
sono spingere il capo-progetto verso una deriva difen-
siva con arroccamento attorno al progetto iniziale o, al
contrario, un transito veloce al “fare”.
3. Trasformare la committenza in auto-committenza: nei
contesti sanitari la committenza non è sempre chiara e
ben denita. A volte sono presenti contemporaneamen-
te più committenti, altre volte è un ente, altre volte anco-
ra è la normativa stessa che svolge questo ruolo. Que-
sta situazione di rarefazione e impersonalità della com-
mittenza, può indurre il capo-progetto ad accollarsi in
toto la responsabilità del progetto e a tollerare con dif-
coltà eventuali decisioni diverse della committenza.
Nuovi approcci da esplorare per lavorare per progetti
A partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso, si è
andato affermando un nuovo approccio alla gestione dei
progetti: l’Agile Project Management (A.P.M.), il quale ri-
vede molte assunzioni fondamentali del Project Manage-
ment tradizionale (T.P.M.) basato sulla prevedibilità degli
eventi. I metodi agili, che assumono alcuni elementi della
teoria del caos e della complessità, sono approcci adat-
tivi e, appunto, si focalizzano sull’adattamento piuttosto
che sull’ottimizzazione riettendo l’imprevedibilità dei si-
stemi complessi. Nel 2001 alcuni degli ideatori di tali me-
todi hanno formulato il Manifesto per lo sviluppo “agile”4
i cui principi, seppur riferiti all’ambito dell’IT (Information
Technology), possono essere efcacemente adattati ad al-
tri contesti con la sottolineatura, fatta dagli autori stessi,
che gli elementi a destra non sono da eliminare ma sono
meno importanti di quelli di sinistra:
- persone e interazioni più che processi e tools;
- consegna di funzionalità più che attività di conformità;
- collaborazione con il cliente più che negoziazione
contrattuale;
- rispondere al cambiamento più che seguire un piano.
I punti cardine dei metodi A.P.M. sono i seguenti (Abis,
2004):
abbracciare il cambiamento: accettano imprevedibilità
e cambiamento e non cercano di gestire i progetti con
predizioni precise e strategie di controllo rigide;
ordine emergente (piuttosto che “ordine imposto”):
Quando l’ambiente subisce un cambiamento l’approc-
cio deterministico va alla ricerca di un nuovo insieme
di regole causa-effetto mentre un approccio adattivo è
consapevole di come queste nuove regole non ci sia-
no” (Highsmith, 2000, citato da Abis);
self-organization: non sono basati sui compiti ma sui
componenti, per cui, al contrario dei metodi tradiziona-
li dove è il manager che denisce e assegna le attività,
essi prevedono che sia il gruppo stesso ad auto-orga-
nizzarsi per raggiungere gli obiettivi concordati.
Gestire il cambiamento: nuove competenze
peridirigenti
Morgan (2000), utilizzando un approccio multiprospettico
allo studio e al funzionamento delle organizzazioni, par-
la di arte di gestire e di cambiare il “contesto”. Egli sug-
gerisce quattro idee chiave di quest’arte che può guidare
i leader nella sda straordinaria di vedere, orientare e ge-
stire i cambiamenti superando i modelli polari dominanti
per farne emergere di nuovi.
1. Ripensare ai meccanismi gerarchici e di controllo: or-
dine e organizzazione non sono stati che si possono im-
porre dall’esterno ma fenomeni emergenti, quindi con-
centrare la propria attenzione su poche variabili critiche
4 Il testo originale in inglese è disponibile al sito http://www.agilemanifesto.org/.
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MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
e lasciare che il resto trovi il suo proprio equilibrio (rego-
la del “minimo dettaglio”: poche e semplici regole). “In
qualunque sistema complesso prima o poi un nuovo ordi-
ne è destinato ad emergere (…) La cosa più interessante
da sottolineare è che la natura dell’ordine non può mai
essere pianicata e predeterminata” (pag. 337).
2. Creare contesti che favoriscano lo sviluppo di ade-
guate forme di auto-organizzazione è il ruolo fonda-
mentale dei dirigenti: denire i parametri fondamenta-
li e lasciare che i dettagli si sviluppino autonomamen-
te. Alcune volte sarà necessario garantire stabilità al si-
stema, altre volte, invece, la sda può essere favorire o
generare instabilità. Due sono le possibili strade da per-
correre (e non necessariamente in ordine sequenziale):
a) dare vita a nuovi modi di concepire una certa situa-
zione, fornendo informazioni e promuovendo apprendi-
menti a doppia sub-routine, aumentando così la consa-
pevolezza del bisogno di cambiamento; b) attuare nuo-
ve attività e nuovi comportamenti (che possono produr-
re nuovi schemi concettuali).
3. Sfruttare i piccoli cambiamenti per dar luogo a cam-
biamenti di grande respiro: nei sistemi complessi non
lineari, piccoli e realizzabili cambiamenti, ma crucia-
li e al momento giusto, possono innescare cambiamen-
ti di grande portata (“effetto farfalla”). Cambiamenti in-
crementali possono generare quelli quantistici sia per-
ché il cambiamento tende a riprodursi, sia perché essi
possono generare un effetto da massa critica.
4. Imparare a vivere l’emergenza come una situazione
di normalità: partendo dalla consapevolezza che nei si-
stemi complessi è impossibile avere una posizione che
consenta di progettare e tenere sotto controllo le attività
del sistema in modo esaustivo. Ciò che può essere fat-
to è: a) favorire l’emergere di forme organizzative desi-
derate piuttosto che tentare di imporle; b) avviare proget-
ti pilota che consentono di comprendere meglio le pola-
rità in gioco e gli ostacoli al cambiamento, e, se hanno
successo, possono catalizzare il cambiamento; c) “gesti-
re i conni”, cioè creare frontiere per proteggere le speri-
mentazioni o, al contrario, abbatterle – diffondere i risul-
tati ed estenderne l’applicazione – quando la nuova ini-
ziativa è sufcientemente forte da reggersi da sola.
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29
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
Leadership e teamwork:
spunti teorici e applicativi
di Leonardo Jon Scotta
Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni, Referente Formazione presso la Struttura Complessa Formazione e Comunicazione dell’Azienda Sanitaria Locale BI – Biella
Partendo dall’inquadramento teorico di ruolo del leader e
dei modelli di buona leadership l’articolo vuole focalizza-
re l’attenzione sugli aspetti applicativi che queste deni-
zioni possono comportare nel contesto di un’Azienda Sa-
nitaria. La mia esperienza personale durante le fasi che
hanno portato alla progettazione e alla realizzazione del
Corso di aggiornamento sulla comunicazione interperso-
nale tenutosi presso l’Unità Operativa di Chirurgia dell’A-
zienda Sanitaria BI di Biella è quindi qui utilizzata come
esempio rappresentativo e spunto di riessione rispetto ai
temi sopraccitati.
Denizione di ruolo
Come viene denito da Galimberti (2002), il ruolo è
l’insieme delle norme e delle aspettative che convergo-
no su un individuo in quanto occupa una determinata
posizione in un sistema sociale. Ciascuno di noi eserci-
ta un’azione a seconda del proprio ufcio o funzione in
un gruppo o processo sociale. Il ruolo, per ciascun atto-
re sociale, implica una serie di azioni speciche e iden-
ticative: l’attività svolta (che cosa fare), la motivazione
(perché, a quale ne), come l’attività viene svolta (meto-
di, strumenti, procedure) e con chi viene esercitata l’azio-
ne (colleghi, risorse umane). I ruoli che ciascun attore si
trova ad agire in un contesto organizzativo si suddivido-
no in ruoli prescritti e ruoli discrezionali. I primi si con-
traddistinguono nell’essere dettagliati e rigidi contribuen-
do al risultato organizzativo attraverso una sequenza di
attività (o mansioni) prevedibili e ripetitive. Il risultato del
ruolo prescritto è garantito dall’esecuzione delle attività,
all’interno degli standard quantitativi e qualitativi deniti
e dipende da sequenze precise di attività. I ruoli discre-
zionali invece richiedono essibilità operativa per il per-
seguimento dei risultati, quindi si esprimono attraverso at-
tività non rigidamente denibili e non ripetitive. Non so-
no denibili in termini di sequenze di attività, in quanto
l’esecuzione delle stesse non garantisce da sola il conse-
guimento dei risultati attesi, anzi le stesse attività possono
portare a esiti diversi o possono essere orientate in mo-
do diverso in base agli obiettivi perseguiti. Il risultato dei
ruoli discrezionali pertanto si misura nel raggiungimento
di percorsi possibili di azione.
È facile intuire come entrambe le tipologie di ruolo sotten-
dano punti di forza e di debolezza per l’attore che li agi-
sce. In particolare un ruolo prescritto può incorrere nel ri-
schio di essere vissuto con ansia persecutoria, comportan-
do una perdita di motivazione nel tempo a causa della ri-
gidità e della ripetitività delle azioni che deniscono il ruo-
lo stesso. Al contrario il rischio di un ruolo discrezionale è
quello di essere vissuto con ansia abbandonica, generan-
do un elevato stress dovuto al peso di responsabilità che
esso comporta.
La leadership
Una particolare tipologia di ruolo discrezionale è quel-
la di leader. Il termine contiene nella sua stessa deriva-
zione inglese un signicato profondo: il verbo cui fa ri-
ferimento è “to lead”, traducibile in “condurre” ossia
“andare con”; capiamo quindi subito che il leader è de-
nito come colui che “va per primo”. Ciò signica che
tra le azioni associabili alla gura di leader non trovia-
mo il “co-mandare”, il “mandare”, il “racco-mandare”
ma l’andare per primo insieme ai propri “follower”, se-
guaci. Il leader è pertanto colui che attraverso la crea-
zione di una relazione forte con i propri collaboratori
si pone alla guida e insieme a loro accetta la sda da
perseguire. In gura 1 e in gura 2 vengono riportate
in modo sintetico e schematico le azioni che caratteriz-
zano il ruolo di buon leader e quelle che, al contrario,
ne mettono in luce gli aspetti negativi.
Figura 1
– Gli indizi del buon leader
I 20 INDIZI
DELLA LEADERSHIP
Dà la sda Rinuncia ai “segni”
di comando
Un buon leader:
Rilancia
Riconosce i suoi
UOMINI e i RUOLI
Cambia le posizioni
precostituite
Accetta
la provocazione
Chiede
Non “attacca” il passato
Costruisce ducia
attorno a sé
Costruisce la
partecipazione di tutti
Incoraggia
Insegna
Usa l’immaginazione
Rappresenta -
drammatizza
Accetta la sda
Costruisce accordo
Ironizza
Riconosce la fatica
Riconosce le singolarità
Costruisce l’ascolto
Fonte
– Elaborazione dell’autore
30
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
Figura 2
– … e l’altra faccia della medaglia
... L’ALTRA FACCIA
DELLA LEADERSHIP
Eccessivamente
ambizioso
Ossessivo
Un cattivo leader:
Esaspera
le emozioni
Egoistico
Distante
Vendicativo
Non dà spazio
all’ascolto
Arrogante
Insensibile
Grafante
Subordina, impone
Fonte
– Elaborazione dell’autore
Un modello di leader eccellente
Prendendo spunto dall’importante contributo di Auteri
(1998), e amalgamando i citati “ingredienti” di buon lea-
der, proviamo qui di seguito a costruire sinteticamente un
modello di capo “eccellente”. Un buon leader è colui che:
dà una visione chiara degli obiettivi dell’ente di cui è
responsabile; dà senso al ruolo del collaboratore, cioè
spiega a cosa serve quello che viene richiesto.
Sa ottenere collaborazione attiva, ascolta i collabora-
tori coinvolgendoli e responsabilizzandoli. Cura il rap-
porto personale e porta avanti le idee valide del colla-
boratore, dando a questo la giusta valorizzazione.
Comunica con chiarezza quello che lui si aspetta dal
collaboratore e come lo valuta (è trasparente, coerente,
afdabile, diretto). Si responsabilizza e sa dare priori-
tà; rispetta le regole del gioco, mantiene gli impegni;
comunica sistematicamente la valutazione del lavoro
svolto.
Dà supporto e si adopera per assicurare al collabora-
tore i mezzi adeguati per svolgere il proprio lavoro. Lo
aiuta nell’affrontare le difcoltà. Dà sostegno e ducia,
non prende le distanze di fronte alle obiezioni di altri.
Mette a disposizione la propria competenza e le pro-
prie informazioni: le trasferisce direttamente e favorisce
le possibilità di apprendimento.
Crea spirito di gruppo, trasmette orgoglio aziendale,
attiva i rapporti interfunzionali.
Rispetta il ruolo e valorizza la professionalità del colla-
boratore, incoraggiandolo a metterla a disposizione di
tutto l’ente.
Trova il giusto equilibrio tra delega e controllo in funzio-
ne dei compiti afdati e della professionalità dei colla-
boratori.
Rispetta la persona (il tempo, la dignità, le motivazioni);
distingue tra comportamento e persona al momento del
premio/punizione.
È accessibile/disponibile quando il collaboratore ha
problemi da vericare con lui.
Persegue criteri di equità nei riconoscimenti e nelle op-
portunità di sviluppo.
Non gestisce in termini di potere: non strumentalizza il
collaboratore.
Dalla teoria alla pratica: un esempio concreto.
La realizzazione di unpercorso formativo
sullacomunicazione interpersonale.
Costruzione delle ipotesi e del team work
La costruzione delle ipotesi è la prima fase nella qua-
le, tra le altre cose, viene costituito il team di lavoro.
Più che di vere e proprie ipotesi, si può parlare di moti-
vazioni che spingono i ricercatori, e in particolare i re-
sponsabili aziendali, a intraprendere l’iniziativa. Non è
ancora il momento degli obiettivi ed effettivamente sa-
rebbe prematuro parlarne. Semplicemente viene foca-
lizzata l’attenzione sulle problematiche, più o meno pa-
lesi, emerse nel contesto cui rivolgere l’intervento. Ci si
domanda quale sia il problema ancor prima di poter in-
dividuarne la possibile soluzione. Semplicemente il fat-
to di sensibilizzarsi al problema organizzativo è un fon-
damentale punto di partenza per la costruzione dell’i-
potesi di intervento.
È stato proposto in particolare un progetto formativo
per gli Operatori Socio Sanitari (OSS) relativamente al-
la necessità di adeguarsi alla condivisione di uno stru-
mento per migliorare l’assistenza erogata ai pazienti ri-
coverati (Piano d’Assistenza). Le difcoltà riguardano le
competenze speciche degli OSS e le conoscenze che
gli stessi Infermieri hanno a riguardo delle attività dele-
gabili al personale OSS. Per procedere a un corso im-
prontato a ridurre le lacune osservate nella prassi quoti-
diana, è stato pensato un questionario da somministra-
re agli Infermieri in cui vengono richieste le conoscenze
riguardo all’attività e alle competenze dei collaborato-
ri OSS. Ed è attraverso la compilazione del questiona-
rio che è stato compreso che, al di là di tutti i problemi
organizzativi, le difcoltà si potevano ricondurre a un
problema comunicativo tra le gure professionali, o me-
glio di condivisione delle informazioni durante l’attività
lavorativa quotidiana.
Il problema e le relative proposte di costruzione dell’inter-
vento sono stati formulati con efcacia attraverso una atten-
ta analisi del responsabile dell’iniziativa, la Coordinatrice
dell’Unità Operativa di Chirurgia dell’Ospedale di Biella.
Il ruolo da lei ricoperto, e in particolare la sua sensibilità
e attenzione ai dipendenti del reparto, sono stati sufcien-
ti come “termometro” per evidenziare il problema centrale
su cui insistere e per risolverlo attraverso una specica atti-
vità formativa. La “diagnosi” del problema è già chiara: in
reparto, in particolare tra le gure professionali degli Infer-
mieri e degli OSS, la comunicazione interpersonale non è
sempre efcace. A risentirne sono i rapporti tra i colleghi,
tra le diverse gure professionali e, ovviamente, i delicati
rapporti con i pazienti ricoverati e i loro parenti. Il proble-
31
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
ma, al di là del mancato passaggio di informazioni, sem-
bra proprio essere una difcoltà del gruppo nel riuscire a
collaborare efcacemente.
Il problema è evidenziato, inizia così la progettazione
dell’intervento formativo più adeguato al caso in ogget-
to. Gli obiettivi del corso sono semplici e chiari: si tratta
di sensibilizzare alla necessità di una corretta ed efcace
comunicazione nell’ambito del lavoro quotidiano, ponen-
do attenzione particolare sulla comunicazione tra i colle-
ghi e con i pazienti.
L’analisi dei bisogni è stata dunque sviluppata correttamen-
te dai responsabili dell’iniziativa osservando la quotidia-
nità lavorativa di reparto. Viene avvertita una carenza di
un corretto passaggio di informazioni tra colleghi e colla-
boratori che porta ad alcuni errori evidenti durante la co-
municazione tra le diverse gure professionali di reparto.
Ci si aspetta che il corso abbia un buon impatto operati-
vo sulle capacità comunicative e relazionali degli opera-
tori di reparto, nonché una ricaduta sulla qualità assisten-
ziale al paziente. È una scommessa, ma la progettazione
e gli obiettivi sono chiari.
La scelta del “campo”: luoghi, tempi e metodi
delpercorso
Questa fase, nella progettazione di un intervento, risulta
essere la chiave vera e propria perché questo abbia effet-
to. Si tratta di contestualizzare l’attività nel modo più spe-
cico possibile, delimitandone il “campo” almeno con due
coordinate: lo spazio e il tempo. Per spazio si intende
l’ambito umano dei soggetti/oggetti (personale interessa-
to, gure professionali coinvolte, ecc.) della ricerca e an-
che il luogo sico dove sono collocati e nel quale si ma-
nifestano i rapporti che li legano. Il tempo riguarda il mo-
mento storico in cui si colloca l’analisi dei bisogni e la rea-
lizzazione dell’iniziativa.
Nel nostro caso specico queste due dimensioni sono
state sicuramente analizzate nel dettaglio nella fase di
progettazione. Gli incontri del gruppo di progetto sono
stati incentrati su questi aspetti. Il contesto o “campo” è
chiaro: il corso è rivolto a Infermieri Professionali, Coor-
dinatori Infermieri e personale OSS dell’Unità Operativa
di Chirurgia dell’Ospedale di Biella. Lo stesso vale per lo
spazio utilizzato, individuato all’interno dell’Unità Ospe-
daliera: un’aula che per caratteristiche fosse sufciente-
mente accogliente e adeguata al lavoro di gruppo e so-
prattutto comoda e facile da raggiungere per tutti i par-
tecipanti.
Inoltre nella progettazione di una attività come questa non
può essere trascurata un’altra dimensione fondamentale: i
tempi con il relativo crono-programma dettagliato dell’atti-
vità formativa. Questa fase risulta delicata perché è neces-
sario tenere presenti diverse variabili: gli argomenti da trat-
tare, i momenti della giornata in cui è possibile realizza-
re l’intervento, il numero di partecipanti, la durata di ogni
singolo modulo e soprattutto le strategie didattiche da uti-
lizzare. Questa fase è stata quella che sicuramente ha ri-
chiesto il maggior impegno progettuale da parte di tutto il
team di progettazione.
Individuati gli obiettivi e compresi quali siano i bisogni for-
mativi, occorre determinare i metodi dell’intervento. Poi, in
base a quelli che sono stati individuati come bisogni for-
mativi, vengono previsti i momenti in cui verranno trattati,
rispettivamente, i temi della comunicazione personale, del-
la comunicazione tra colleghi e della comunicazione con
il paziente e caregiver, cui seguirà un momento conclusi-
vo di confronto e valutazione.
La sda per il Team di Progetto diventa a questo punto pro-
prio quella di trattare questi argomenti in modo innovati-
vo al ne di costruire la partecipazione attiva di tutti i par-
tecipanti. Se l’obiettivo è quello di sviluppare la collabo-
razione tra i colleghi di lavoro, bisognerà iniziare a far-
lo durante l’intervento formativo. Ma come? L’idea è quel-
la di rendere le giornate in aula il più interattive possibile
con i partecipanti.
La collaborazione nasce dal lavoro di gruppo e proprio
su questo il corso intende essere strutturato: parlare di co-
municazione facendo comunicazione è la sda che il
Gruppo di Progetto porta avanti.
Riettendo sulle risorse umane presenti in Azienda, si in-
dividua la gura che più può essere indicata nel nostro
contesto. La sua esperienza teatrale può diventare pre-
zioso aiuto nella costruzione di rappresentazioni di si-
tuazioni comunicative, adattabili ai temi delle diverse
giornate degli incontri. È decisamente qualcosa di inno-
vativo ma pian piano l’idea prende forma. Accanto a
brevi cenni teorici sugli aspetti della comunicazione e
sulla gestione dei conitti, ogni giornata sarà caratteriz-
zata da veri e propri esempi concreti di situazioni comu-
nicative, costruiti ad hoc. La seconda parte della gior-
nata, inoltre, dopo una discussione su quanto osserva-
to nella rappresentazione, vedrà la partecipazione at-
tiva dei partecipanti: avranno il compito, a loro volta,
di mettere in scena, secondo le richieste di un sempli-
ce canovaccio teatrale, una loro rappresentazione co-
municativa. La discussione a ne giornata sarà media-
ta poi da una gura esterna all’Unità Operativa di Chi-
rurgia, ma con lunga esperienza in campo ospedalie-
ro e sensibilità proprio su temi relativi alla comunicazio-
ne interpersonale.
Inne ai partecipanti sarà richiesto di compilare, durante
lo svolgimento della giornata, un “diario di bordo” che dia
la possibilità di comunicare tutte le impressioni e le osser-
vazioni a caldo di quanto viene affrontato in aula. Il pro-
getto e il tipo di lavoro sono quindi pianicati nei minimi
dettagli, condizione necessaria perché un’esperienza ori-
ginale di questo tipo possa venire realizzata. Sicuramente
i dubbi su come i partecipanti affronteranno gli incontri so-
no leciti, ma formalmente posso dire che a livello di piani-
cazione ogni passo è stato eseguito con professionalità
e la dovuta attenzione.
32
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
Il consiglio è sempre quello di non dare mai niente per
scontato, tenendo informati costantemente tutti gli attori nei
diversi momenti e nelle diverse fasi. Il passaggio di infor-
mazioni è fondamentale sempre, non solo nel momento
della realizzazione pratica dell’iniziativa.
Il metodo d’aula innovativo pertanto è risultato chiaro ed ef-
cace e ha creato subito un buono spirito di collaborazio-
ne nel gruppo di partecipanti. Bisogna sottolineare, a sup-
porto di quanto affermato sulla teoria del “buon leader,
come sia stato fondamentale il ruolo del Coordinatore Infer-
mieristico, che ha partecipato per primo alla realizzazione
delle rappresentazioni teatrali in aula. Una delle caratteristi-
che più importanti del leader come detto è infatti quella di
saper essere l’esempio trascinante per il gruppo mettendo-
si in gioco per primo nel trasmettere ciò che vuole sia ap-
preso. Tassello che si è rivelato fondamentale nella proget-
tazione prima e realizzazione poi di questo riuscito percor-
so di intervento formativo.
Bibliograa
AuTeri E., Management delle Risorse Umane, Guerini e Asso-
ciati, Milano, 1998.
gALimberTi U., Dizionario di Psicologia, UTET, Torino, 2002
kAnekLin C., bruno A., Progettare nel sociale: la ricerca-azio-
ne, in ALAsTrA V. (a cura di), Atti del Convegno “Valorizzare
l’Organizzazione, organizzare il valore – gestione e svilup-
po delle risorse umane che promuovono salute”, Edizioni SE-
DES, Perugia, 2003.
LeWin K., Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Il
Mulino, Bologna, 1972 (ed. orig. Field Theory in Social Sci-
ence, New York, Harper&Row Publishers, 1951).
33
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
Benessere organizzativo:
spunti per il miglioramento continuo
dellaconvivenza lavorativa
di Federico Ricci
Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia
“Solo coloro che tentano l’assurdo
raggiungeranno l’impossibile”
(Maurits Cornelis Escher)
Introduzione
Pensare e agire in termini di benessere organizzativo, ov-
vero attività che individui e gruppi attuano nalizzate al re-
ciproco benessere sul lavoro (Ricci, 2006), è indispensa-
bile per ottenere un miglioramento continuo della salute.
Si tratta di una volontà concreta che precede e rende real-
mente esigibile il rispetto delle regole, l’utilizzo di strumen-
ti organizzativi efcaci, l’adempimento reale delle respon-
sabilità formalizzate.
La salute e il lavoro, per qualcuno un binomio inconciliabi-
le, laddove il lavoro pare essere un male necessario e non
un mezzo per la realizzazione sociale. Il lavoro, per co-
me lo conosciamo attualmente, è una realtà recente, data-
ta a pochi decenni or sono. Una esperienza nel corso del-
la quale la maggior parte di noi si trova obbligata a colla-
borare, per gran parte del proprio tempo di vita, con per-
sone che non possiamo sceglierci, ma solo subire. Questo
è un elemento di rilievo per le determinanti sociali della no-
stra salute, per quelli che posso essere antecedenti del con-
itto all’interno delle organizzazioni. D’altronde se, come è
evidente, il rischio zero non esiste, infatti il fatto stesso di es-
sere vivi ci espone alla probabilità di subire danni per la
salute, allo stesso modo il conitto zero non esiste. È sio-
logico che le persone, esseri unici e irripetibili, con le pro-
prie diversità, entrino in conitto tra loro. Questa eventualità
è inevitabile tra persone che si sono scelte reciprocamente,
basta che ognuno rietta sulla propria esperienza persona-
le, a maggior ragione è probabile quando le persone non
possono scegliere di convivere professionalmente, ma si de-
vono subire a vicenda. Quindi dovremmo concludere che
il benessere organizzativo non esiste, che è solo una mera
illusione, una favola rassicurante che ci raccontiamo per il-
luderci reciprocamente. In realtà non è così, l’obiettivo non
è quello di negare i rischi che possono danneggiare il be-
nessere all’interno delle organizzazioni, ma valutare e gesti-
re questi rischi in una prospettiva concreta di miglioramento
continuo della convivenza organizzativa.
La 1a Conferenza Internazionale sulla Promozione del-
la Salute (Ottawa 17-21 novembre 1986) presentò una
“Carta” per stimolare l’azione a favore della “Salute per
Tutti” per l’anno 2000 e oltre (Ricci, 2012). Il documen-
to chiarisce che “La promozione della salute è il proces-
so che mette in grado le persone di aumentare il control-
lo sulla propria salute e di migliorarla. Per raggiunge-
re uno stato di completo benessere sico, mentale e so-
ciale, un individuo o un gruppo deve essere capace di
identicare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddi-
sfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostan-
te o di farvi fronte”.
In questo modo viene proposta una prospettiva di poten-
ziale miglioramento continuo, all’interno della quale dimi-
nuisce la probabilità per le persone di vivere l’esperienza
lavorativa come una attività subita passivamente, come un
mero obbligo, una prospettiva che, se attuata, consente di
accrescere il grado di soddisfazione lavorativa, no a vi-
vere attraverso il lavoro un’esperienza di massima realiz-
zazione, un’opportunità di felicità.
Quando il benessere è a rischio
Quello che spesso ci si pone come obiettivo nel campo
del benessere organizzativo è la percezione dei lavorato-
ri in merito alla propria esperienza professionale. Identi-
care aree critiche, in particolare quando gli enti interessati
sono coinvolti in una complessa riorganizzazione. La ten-
sione provocata da un fattore di stress dipende da come
la persona valuta quel potenziale stressor e dalle risorse
personali dell’individuo. Questa interazione tra condizio-
ni organizzative e risorse individuali mette a rischio il be-
nessere nel caso in cui scateni emozioni negative. La pos-
sibile conseguenza, per fare fronte a questo disagio, è al-
lontanarsi psicologicamente dal lavoro, ovvero mettere mi-
nor impegno e interesse per il rendimento, con conseguen-
te maggiore insoddisfazione e volontà di cambiamento
(König et al., 2011).
Lo stress e la difcoltà a poter svolgere le proprie mansio-
ni sono determinanti signicative per il grado di benessere
percepito, infatti il benessere dipende dall’avere un certo
controllo sul proprio ambiente. Il disagio può quindi sorge-
34
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
re quando al comportamento non conseguono compensi o
sanzioni, quando il comportamento non ha relazione alcu-
na con la quantità di compenso o sanzione ricevuta. Il sen-
so di impotenza, mancanza di controllo, può essere indot-
to anche giudicando con una nota di biasimo un compito
che non si può evitare di fallire. Effetti legati a un profondo
senso di abbandono sono stati rilevati anche in coloro che
semplicemente assistono all’impotenza altrui di fronte a si-
tuazioni incontrollabili (Ricci, 2008). Si tratta, quindi, di
coinvolgere i lavoratori anche nell’individuazione di pro-
poste per migliorare le condizioni di lavoro (assegnazione
delle risorse, aggiornamento professionale, ecc.). Questi
interventi possono ridurre l’esaurimento emotivo percepito
e, conseguentemente, invertire il processo in termini di sod-
disfazione lavorativa (Ieri e Cavicchioli, 2007).
Può essere utile, in termini di minacce al benessere orga-
nizzativo, rendersi anche conto di quanto emerge dall’in-
dagine psicologica dello spazio industriale, concentrando-
si sullo studio delle varie forme di interazione tra i lavora-
tori e l’ambiente circostante. Si tratta di un’analisi sociale
dello spazio, che parte dall’ipotesi che la rete lavorativa
si riette nella distribuzione dello spazio nel quale gli indi-
vidui sono parti di un sistema in cui tutti i comportamenti
dipendono dall’ambiente in cui hanno luogo. Questo mo-
dello identica due livelli di ambiente collegati ai com-
portamenti spaziali individuali: l’ambiente materiale (for-
ma geo metrica, denita in maniera obiettiva) e l’ambiente
psicologico (senso di appropriazione, denito dalle pro-
prietà qualitative). Gli studiosi che applicano questo ap-
proccio concepiscono lo spazio come un contesto oggetti-
vo pre-percettivo che modella le attività, i comportamenti,
che in esso si compiono. In sintesi, l’ambiente fornisce i fat-
tori che stimolano o impediscono specici comportamen-
ti (Ricci, 2007). Il funzionamento del gruppo, o della so-
cietà, può essere interpretato osservando la base territoria-
le che consente agli individui di esprimere il proprio istin-
to all’interno di un certo equilibrio. Il territorio, da questo
punto di vista, implica l’appropriazione o la personalizza-
zione di uno spazio mediante segnali e oggetti personali.
Il territorio può quindi anche essere denito come l’esisten-
za di barriere interpersonali, e l’avere controllo in termini
di conni tra il mio spazio e lo spazio altrui. Ogni viola-
zione territoriale, di conseguenza, provoca varie rea zioni
di difesa che possono esprimersi come aggressività, pau-
ra, disagio, ansia. La funzione del leader, anche in questi
casi, è fondamentale nel determinare e nel gestire lo spa-
zio all’interno del quale si svolgono le attività lavorative.
Un ruolo, quello del leader, decisivo nel dirimere i conitti
derivanti dalla violazione degli spazi.
Per ridurre i diversi rischi occorre che le prassi in essere,
che determinano e sono determinate dalla cultura orga-
nizzativa, sostengano e supportino l’attenzione concreta
rivolta a sicurezza, salute, benessere sul lavoro. Questo
percorso richiede di rendere comunicativamente più com-
petenti e meno subalterni tutti i soggetti che collaborano
all’interno dell’organizzazione. Attraverso la comunicazio-
ne efcace, infatti, si può ottenere il risultato di superare
il conitto tra il collaboratore che si lamenta (“qui non fa-
te mai niente”) e il capo che fugge dalla lamentela (“tanto
non va mai bene niente”), così come i casi in cui il colla-
boratore è incapace di informare efcacemente il capo (ri-
ferimenti generici, confusi) e le situazioni in cui il collabo-
ratore non mette in atto i comportamenti richiesti dal capo
(senso di sducia e impotenza) (Ricci, 2013).
Benessere nelle professioni sanitarie
Tra gli operatori sanitari sembra prodursi con una certa fre-
quenza un mancato bilanciamento tra il carico di lavoro,
che origina nella relazione d’aiuto, e ciò che l’operatore
sente di ricevere dalla propria attività. Un disagio che può
sfociare nella sindrome del burnout come conseguenza
delle caratteristiche del lavoro. Questa esperienza viene
spiegata dal modello Job Demand Resources che prevede
una classicazione dei fattori di rischio in due categorie,
quelli riferibili alle cosiddette richieste e quelli riferibili al-
le risorse. Le richieste riguardano fattori strutturali, psicolo-
gici, sociali, organizzativi che richiedono sforzi signicati-
vi sici e/o psicologici (cognitivi, emotivi), che comporta-
no costi siologici o psicologici. Le risorse, specularmente,
possono invece ridurre i costi associati alle richieste e sti-
molare il benessere. Classico esempio è la relazione con i
pazienti che nelle professioni di aiuto può essere non solo
un rischio specico, ma anche un fondamento della moti-
vazione professionale. Come quando la fatica fatta viene
ricompensata emotivamente da un ringraziamento ricevu-
to, ad esempio da un paziente, per il lavoro svolto (Marti-
ni e Converso, 2012).
Il burnout è, di fatto, uno stato di tensione psicologica che
rappresenta uno stato di esaurimento delle risorse perso-
nali che si manifesta quando il carico di lavoro percepi-
to determina un calo di rendimento professionale. In que-
sti casi non è sufciente intervenire attraverso una riduzio-
ne delle ore di lavoro del personale sanitario (Shirom et
al., 2010), poiché sono il carico di lavoro percepito e
l’autonomia individuale che determinano effetti in termini
di burnout e di sicurezza del paziente. Il carico di lavoro
rappresenta una minaccia del benessere che riguarda le
richieste caratterizzanti il lavoro, per esempio la percezio-
ne di avere troppe cose da fare o di non avere abbastan-
za tempo per fare tutto. Le richieste del lavoro riguarda-
no aspetti sici, psicologici, organizzativi del lavoro che
richiedono un signicativo sforzo sico, emotivo, cogniti-
vo. Le richieste del lavoro sono strettamente correlate agli
stress psicologici e sici. Nell’ambito di molte professioni
sanitarie esiste la possibilità di misurare il numero di pa-
zienti al giorno per individuare il carico di lavoro. L’auto-
nomia lavorativa consente di far fronte in modo più efca-
ce alle esigenze legate al lavoro in quanto consente di uti-
lizzare risorse e competenze in modo più essibile. L’au-
tonomia nel lavoro è stata tipicamente riconosciuta riette-
35
MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
re il grado nel quale un lavoro consente discrezionalità, li-
bertà, indipendenza nello stabilire i tempi del lavoro o per-
mette di assumere decisioni o scegliere metodi per esegui-
re i compiti lavorativi primari afdati. Signica la capacità
di esercitare autocontrollo sulle decisioni e attività correlate
al lavoro, comprendendo i rapporti con i pazienti. Questa
esperienza consente di nutrire ducia nella propria efca-
cia professionale e garantisce il livello di autostima dell’o-
peratore sanitario, anche in certe condizioni di aumentato
carico di lavoro (Ricci, 2007).
Il burnout è solitamente associato a conseguenze negative
per la salute, una cura non ottimale dei pazienti, la possi-
bilità che siano commessi errori, un maggior tempo di con-
valescenza dopo il ricovero per i pazienti in carico, inol-
tre varie ricerche hanno dimostrato che il livello di burnout
di un professionista può inuenzare i diretti collaboratori.
A queste considerazioni si aggiunga la distinzione fonda-
mentale tra servizi di cura intensivi (casi critici con eleva-
to rischio morte) e non intensivi. Le differenti caratteristiche
sono alla base dello sviluppo di speciche condizioni di
lavoro che a loro volta determinano il livello di benessere
dei lavoratori (Viotti et al., 2012).
Il malessere che allontana e quello che imprigiona
Una rilevante minaccia del benessere organizzativo è co-
stituita dai casi di mobbing, un fenomeno che determina
gravi ripercussioni per le prestazioni professionali, il clima
lavorativo, il tasso di assenteismo e ricambio di persona-
le, con conseguenze negative su costi e produttività. Diver-
si studi indicano che nell’ambito infermieristico il mobbing
è particolarmente diffuso, con effetti negativi per la qualità
assistenziale e la soddisfazione degli utenti. Un elemento
signicativo può derivare, per il personale infermieristico,
dall’essere sottoposti a una cosiddetta doppia dipenden-
za gerarchica (infermieristica e medica), con livelli di ten-
sione continua correlati ad aspettative conittuali in termi-
ni di autonomia professionale e di discrezionalità sui pro-
cessi assistenziali. Attraverso uno stile di leadership ade-
guato, a partire dal vertice aziendale, si possono tuttavia
prevenire e/o ridurre gli effetti del mobbing. Vi sono infat-
ti evidenze a supporto del fatto che lo stile cosiddetto par-
tecipativo rende meno diffusi i comportamenti vessatori e
persecutori tra il personale, riducendo l’insorgenza di fe-
nomeni di mobbing (Caporale et al., 2012). Chi coordi-
na i team assistenziali di unità/struttura operativa è in que-
sto senso determinante, ponendosi tra la direzione e i col-
laboratori diretti. La prevenzione del disagio deve, quin-
di, partire dall’organizzazione del lavoro e dalla gestione
dei conitti interpersonali sul lavoro. Le azioni negative in
ambito lavorativo sono infatti indicatori del rischio di mob-
bing, con rilevanti conseguenze sul benessere.
Studi condotti su casi di mobbing, utilizzando il questiona-
rio OSI, hanno individuato le aspettative conittuali lega-
te al ruolo e la frustrazione della crescita personale come
fortemente stressanti. In quelle situazioni i soggetti sentiva-
no di non essere coinvolti nelle decisioni che li riguarda-
vano e di avere possibilità di carriera nulle. La condizio-
ne peggiora quando le persone percepiscono uno scarso
supporto sociale, situazione che non permette di reagire e
di uscire dall’isolamento (Fenga et al., 2012).
Il mobbing è quindi un danno grave al benessere che al-
lontana le persone dal lavoro, ma paradossalmente esiste
anche un fenomeno opposto. Non si tratta quindi di as-
senteismo, ma di presenteismo, ovvero l’andare al lavo-
ro quando si è ammalati, un atto spesso premiato come
dimostrazione di impegno e appartenenza. In realtà alcu-
ni studi hanno dimostrato che un’alta frequenza di presen-
teismo è predittiva di maggiori assenze per malattia. Ol-
tre ai costi della produttività ridotta dati dall’andare al la-
voro in condizione di malattia, si aggiungono costi rela-
tivi all’assenteismo successivo per aver trascurato episodi
di malessere.
Alcune analisi confermano come esaurimento emotivo e
presenteismo siano reciproci, in quanto gli sforzi messi in
atto per compensare gli effetti negativi sulle prestazioni
della progressiva riduzione delle proprie energie (esau-
rimento emotivo) comportano una rinuncia ad assentarsi
per malattia (presenteismo). Ulteriore conseguenza è l’in-
cremento progressivo dell’esaurimento emotivo, dovuto a
mancanza di un recupero sico e mentale per fronteggia-
re l’insorgenza del malessere. Un circolo vizioso dentro al
quale le persone perdono in efcienza, commettono sem-
pre più errori e, a seconda dei loro sintomi, possono tra-
smettere le loro malattie a colleghi o utenti. Analogamen-
te si è visto come un livello elevato di conitto risulta esse-
re predittivo del presenteismo, in quanto il clima avverso
tra colleghi, lo scarso supporto sociale, mina la tranquilli-
tà che consente di assentarsi legittimamente (Falco et al.,
2013).
Secondo studi recenti la percezione del riconoscimento
evidente per il lavoro svolto determina una minore necessi-
tà individuale di presenteismo. Comunicare correttamente
l’apprezzamento per un lavoro svolto bene può consentire
una maggiore libertà di assentarsi quando necessario, in
quanto si determina un rapporto di ducia nel quale non vi
è spazio per dubbi o insinuazioni in merito alla legittimità
delle assenze. Un rapporto all’interno del quale ognuno si
interessa della salute degli altri, dei tempi corretti di recu-
pero, della salvaguardia da eventuale contagio.
Le ragioni per abbandonare e quelle per rimanere
L’assenza di benessere organizzativo può determinare di-
verse conseguenze dannose, tra queste anche l’abban-
dono del posto di lavoro, con l’obiettivo di trovare altro-
ve quel benessere che manca nel contesto presente. Quali
fattori dell’individuo, del lavoro, dell’organizzazione por-
tano quindi alla decisione di lasciare la propria occupa-
zione?
Alcune evidenze dimostrano che il personale infermieristi-
co con alta intenzione di lasciare l’ospedale nel quale la-
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MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER Motivazione e soddisfazione del personale
vora non sente un obbligo morale a rimanere nell’unità
operativa di appartenenza, percepisce poca collabora-
zione con il personale medico, non è soddisfatto della re-
lazione professionale con il proprio coordinatore, vive un
insufciente coinvolgimento nella denizione degli obietti-
vi della pratica infermieristica, ritiene prioritario dare dimo-
strazione delle proprie capacità professionali.
Chi ha presentato domanda di trasferimento, contrariamen-
te ad altri, si dichiara meno soddisfatto delle attività svol-
te, lamenta un minore confronto professionale con il/la
proprio/a coordinatore/trice e una ridotta collaborazione
con il personale medico, percepisce un minor supporto or-
ganizzativo e di coinvolgimento nelle decisioni che riguar-
dano il proprio ambito, oltre che un più debole attaccamen-
to affettivo al gruppo di riferimento ed una maggiore dif-
coltà a conciliare vita lavorativa ed extra-lavorativa (Ambro-
sini et al., 2013). Le relazioni conittuali o difcili con il per-
sonale medico sono frutto del non percepire una reale va-
lorizzazione delle competenze dello staff infermieristico e il
mancato utilizzo di modalità di lavoro integrate. A questi fat-
tori si aggiungono la percezione di elevati carichi di lavo-
ro, la richiesta di svolgere attività improprie ed essere coin-
volti in cambiamenti organizzativi inattesi e calati dall’alto.
L’elevata richiesta di domande di trasferimento dalle aree
medica, chirurgica e intensiva può essere associata all’al-
to carico di lavoro che spesso caratterizza questi servizi,
ma anche agli alti livelli di stress e alla difcoltà di bilan-
ciare tempi lavorativi e altre esigenze di vita. Quest’ulti-
mo aspetto è ancora più importante se si considera l’ele-
vata percentuale di personale di genere femminile e la di-
stribuzione oraria su tre turni (mattina-pomeriggio-notte). Le
richieste del lavoro, in questo caso, creano disagio, per
esempio, nel rivedere spesso la pianicazione dei propri
impegni per obblighi di servizio.
Le evidenze dimostrano, complessivamente, che il rappor-
to con il leader e una efcace comunicazione sono fonda-
mentali nel trattenere il personale infermieristico. Un capo
che è capace di fornire riconoscimenti adeguati e che aiu-
ta a risolvere problemi, che coinvolge i propri collaborato-
ri nelle decisioni che riguardano ognuno, che è disponibi-
le ad accogliere le proposte avanzate dai collaboratori e
a garantire supporto nelle fasi di cambiamento organizza-
tivo e assistenziale è un capo che determina condizioni di
benessere organizzativo. Si tratta di investire su un mag-
gior grado di autonomia e di responsabilità, in questo mo-
do si accresce il senso di appartenenza che lega l’indi-
viduo all’organizzazione. Sostenere l’autonomia è impor-
tante per rafforzare la motivazione intrinseca verso il ruolo
e l’organizzazione, ottenendo un coinvolgimento che non
deriva solo dal mero riconoscimento economico.
La tutela del benessere organizzativo nel caso
diprecarietà contrattuale
Si è visto chiaramente come il coinvolgimento lavorativo, ov-
vero uno stato mentale positivamente appagante legato al
lavoro, caratterizzato da vigore, dedizione e assorbimento,
venga messo a rischio dall’utilizzo massiccio di contratti di
lavoro precari e non tutelati all’interno delle organizzazioni.
Altrettanto evidente è la relazione tra la condizione di pre-
carietà, la sofferenza psicologica per l’individuo, le conse-
guenze negative sulle prestazioni (Vander Elst et al., 2013).
A questa problematica di grande attualità si può dare una
risposta efcace investendo ancora di più nell’interazione
e supporto sociale tra colleghi e con i superiori. Costruire
l’appartenenza è faticoso e difcile, ma necessario in ter-
mini di risultati e di clima interno. Vivere una esperienza
efcace, il poter fare cose che sono possibili solo attraver-
so la collaborazione in gruppo, essere coinvolti in un rap-
porto professionale che non è nalizzato solo alla retribu-
zione, ma anche alla socialità. Questa esperienza di per-
cepirsi come un gruppo piacevole e stimolante, sia sul pia-
no personale che professionale, determina un orientamen-
to al futuro favorevole che tutela il benessere anche in con-
dizione di precarietà (Ieri, 2006).
Quando le persone manifestano uno stato d’animo posi-
tivo, ovvero possiedono ingenti risorse personali che con-
sentono di far fronte attivamente a situazioni di disagio, si
è visto chiaramente che sono meno vulnerabili alle conse-
guenze negative degli agenti stressanti (es. precarietà). Ta-
li individui percepiscono pertanto le situazioni difcili co-
me uno stimolo da affrontare e superare, non come un
ostacolo insormontabile. Hanno ducia nel proprio spirito
di iniziativa (Vander Elst et al., 2013). Questa condizione
può essere incoraggiata attraverso una denizione chiara
degli obiettivi organizzativi cui concorrere e una equa va-
lutazione dei risultati. In questo senso si deve porre atten-
zione all’attribuzione dei compiti e delle responsabilità, al-
le condizioni che consentono di instaurare e mantenere un
rapporto di ducia nel gruppo, nella possibilità di capir-
si reciprocamente (Ieri, 2006). Questo percorso consen-
te, nel tempo, di percepire l’efcacia delle proprie azioni
professionali e l’aspirazione a migliorarsi. Un senso di pa-
dronanza professionale e di conoscenza del contesto nel
quale si è inseriti.
Conclusioni
Migliorare la qualità del lavoro, quindi tutelare la salute di
chi lavora nelle organizzazioni sanitarie, così come degli
utenti, è un circolo virtuoso difcile da avviare e faticoso
da mantenere, ma che riguarda la qualità dei servizi, la
produttività, i costi di gestione, la soddisfazione del perso-
nale. Un interesse non solo per ogni singolo operatore sa-
nitario, ma per l’organizzazione nel suo complesso, attra-
verso la soddisfazione delle legittime aspettative professio-
nali di ogni operatore sanitario (Belloni, 2013).
Questo percorso crea tra individuo e organizzazione un
rapporto che risulta essere favorevole in termini di dispo-
nibilità a rendere di più e meglio, aspetto determinante
quando vi sono bisogni crescenti a fronte di risorse eco-
nomiche calanti. Un investimento che passa attraverso una
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MANAGEMENT PER LE PROFESSIONI SANITARIE
DOSSIER
Motivazione e soddisfazione del personale
adeguata formazione alla comunicazione efcace, una
supervisione autorevole dei gruppi di lavoro, un supporto
mirato ai processi di cambiamento interno, l’ascolto di tut-
ti i collaboratori, la valutazione e riduzione dei fattori di
stress lavorativo.
Dedicare tempo e attenzione alla costruzione del benesse-
re organizzativo signica volontà reale di prevenire l’esau-
rimento emotivo, ridurre l’assenteismo dov