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L’approccio integrato in sessuologia: teoria e prassi
clinica
Francesca Tripodi*, Filippo Maria Nimbi**, Adele Fabrizi*, Roberta
Rossi*e Chiara Simonelli**
Negli ultimi anni in sessuologia si è diffusa rapidamente l’integrazione
di specialisti, modelli e tecniche. Questo articolo descrive l’evoluzione
degli approcci nella terapia sessuale fino alla diffusione del modello
biopsicosociale (BPS) nel sistema sanitario. L’approccio integrato è la
diretta conseguenza e implementazione del modello BPS in sessuologia
clinica. A partire dall’esperienza dell’Istituto di Sessuologia Clinica (ISC)
di Roma nella clinica e nei corsi di formazione, brevemente descritta,
vengono evidenziati i limiti e le risorse dell’approccio integrato, che prende
idealmente in considerazione e dà la stessa importanza a corpo, mente,
relazioni e contesto.
Parole chiave: Sessuologia clinica, Medicina Sessuale, Approccio
integrato, Modello biopsicosociale, Disfunzioni sessuali, Formazione
Integrated approach in sexology: theory and clinical practice
During the last years, integration in sexology between specialists,
models and techniques has rapidly increased. This paper describes the
evolution of approaches in sexual therapy until the spread out of the
biopsychosocial (BPS) model in the health-care system. Integrated
approach is the direct consequence and implementation of the BPS model
in clinical sexology. Moreover, a brief report of the experience of the
Institute of Clinical Sexology (ISC) of Rome in clinical practice and
educational courses is presented. This example can underline limits and
resources of the integrated approach, which ideally takes into consideration
and gives the same importance to body, mind, relationship and
environment.
Key words: Clinical sexology, Sexual Medicine, Integrated approach,
Biopsychosocial model, Sexual dysfunctions, Education
* Istituto di Sessuologia Clinica (ISC) di Roma
** Università “Sapienza” di Roma, Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica
Contatti: Francesca Tripodi, Istituto di Sessuologia Clinica, Via Savoia 78, 00198 Roma
mail: francitrip@hotmail.com telefono: 0685356211
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Introduzione
Nel campo della sessuologia gli ultimi 15 anni sono stati densi di novità
e l’interesse per gli aspetti clinici ha trovato un nuovo slancio a partire dai
numerosi studi empirici e dalle efficaci proposte farmacologiche. Si sono
moltiplicate le riviste, le società e i congressi scientifici, si sono aggiunti al
Viagra® altri prodotti efficaci per il trattamento delle disfunzioni sessuali, si
è ampliato il dibattito sui modelli e sulla “normalità” della risposta
sessuale, così come sulla nosografia dei disturbi sessuali (soprattutto dopo
la pubblicazione del DSM 5). L’interesse clinico si è concentrato di più
sulla dimensione della soddisfazione che su quella tradizionale della
prestazione, considerando come fondamentali gli aspetti qualitativi del
vissuto personale e di coppia sia nella diagnosi che nel trattamento (Tripodi
e Silvaggi, 2013; Tripodi et al., 2015). Si è imposto all’attenzione
scientifica internazionale un nuovo panorama, più complesso e stimolante.
Già nel 1975 l’Organizzazione Mondiale della Salute definiva la salute
sessuale come il risultato dell’integrazione degli aspetti somatici, affettivi,
intellettivi e sociali dell’essere sessuato che consentono la valorizzazione
della personalità, della comunicazione e dell’amore. Questa definizione è
stata aggiornata nel 2002 in collaborazione con la World Association for
Sexual Health (WAS) e descrive la salute sessuale come: “uno stato di
benessere fisico, emotivo, mentale e sociale legato alla sessualità; non è
semplicemente l’assenza di malattia, disfunzione o infermità. La salute
sessuale richiede un approccio positivo e rispettoso alla sessualità e alle
relazioni sessuali, così come la possibilità di avere esperienze sessuali
piacevoli e sicure, libere da coercizioni, discriminazioni e violenza”.
Purtroppo siamo ancora lontani da uno scenario positivo e le aree della
prevenzione e della promozione in questo campo sono ancora da
potenziare. Il ritardo di una prassi educativa efficace e riconosciuta è
controbilanciato dall’evoluzione veloce e ricca di proposte sul trattamento
clinico in cui si è affermato con decisione e credibilità proprio il modello
integrato. La situazione naturalmente non è idilliaca né compatta: esistono
ancora molte realtà in cui stenta ad essere accettata la visione olistica della
sessualità e, cosa ancora più negativa, del paziente. In questo senso,
purtroppo dobbiamo registrare un discreto ostacolo culturale che vede
ancora il corpo e la mente come due aree indipendenti e scisse.
Storia degli approcci terapeutici in sessuologia
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La storia degli approcci psicologici in sessuologia moderna potrebbe
essere riassunta in tre momenti principali (Colman, 2009; Kirana et al.,
2013): la nascita all’interno dell’approccio psicoanalitico europeo, lo
sviluppo americano all’interno della scuola cognitivo-comportamentale
(CBT) e l’odierna diffusione internazionale del modello Biopsicosociale
(BPS).
Fino alla fine degli anni ‘60, le difficoltà sessuali venivano
prevalentemente affrontate all’interno della cornice psicoanalitica, così
come la maggior parte degli altri sintomi psicologici. Secondo tale
prospettiva i sintomi sessuali sono causati da conflitti irrisolti che risalgono
all’infanzia, in particolare conflitti che riguardano un attaccamento
problematico o una tensione particolare nei confronti delle figure
genitoriali. Il trattamento è perciò focalizzato sullo “svelamento” e la
risoluzione matura dei conflitti intrapsichici inconsci alla base del disturbo.
In questo senso i sintomi non vengono affrontati direttamente dal clinico e
le psicoterapie sono solitamente molto lunghe (Weiderman, 1998; Leiblum,
2007).
In contrasto con l’approccio psicoanalitico, Masters e Johnson (1970)
pubblicarono Human sexual inadequacy, diffondendo la prima proposta sul
trattamento “breve” per le disfunzioni sessuali. Il volume segnò la data di
nascita della terapia sessuale: il trattamento, intensivo e limitato nel tempo,
era diretto al sintomo e prevedeva la prescrizione di mansioni
comportamentali da fare in separata sede e un training di comunicazione
per la coppia allo scopo di ridurre l’ansia da prestazione e ripristinare una
“naturale” risposta sessuale. Il modello fu una vera rivoluzione degli
standard terapeutici tanto che, da quel momento in poi, il campo della
sessuologia clinica è stato caratterizzato da un fervore crescente di idee e
creatività. La terapia sessuale di Masters e Johnson aderì principalmente al
modello CBT, con l’inserimento di alcuni elementi tratti dalla
psicodinamica, dalla psicologia educativa e dalle tecniche di
comunicazione (Almas e Landmark, 2010). Il modello teorico della CBT
postulava che i comportamenti e le reazioni emotive vengono appresi
durante lo sviluppo. L’obiettivo della terapia era aiutare le persone a capire
come cambiare il proprio comportamento, in modo da facilitare un
miglioramento delle sensazioni e delle emozioni. Nell’esempio storico di
Masters e Johnson, la coppia risiedeva nella clinica per un periodo di 2-3
settimane e il terapeuta proponeva delle esperienze sensoriali e sessuali con
l’obiettivo di far provare alla coppia dei momenti sessuali piacevoli, che
avrebbero cambiato le loro attitudini e sbloccato eventuali problematiche
nelle varie fasi della risposta sessuale (Kirana et al., 2013). Sempre nel
filone della CBT, è da segnalare il lavoro pionieristico di Barlow (1986)
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che, sulla base di dati empirici, pose per primo l’attenzione su uno dei
fattori più comuni delle disfunzioni sessuali maschili e cioè pensieri di
fallimento circa la prestazione (performance) durante l’attività sessuale.
Helen Kaplan (1974; 1979) introdusse, nella seconda metà degli anni
‘70, la sua versione di terapia sessuale nata da una combinazione di diversi
approcci psicoterapeutici (psicodinamico, CBT e sistemico-relazionale) e
l’utilizzo ad hoc della farmacoterapia. In questo modo venivano integrati
alcuni elementi direttivi e mansionali del protocollo di Masters e Johnson,
aspetti più individuali e profondi tipicamente di matrice psicodinamica, e i
concetti base della teoria dei sistemi. In particolare, la prospettiva sistemica
spostò il focus della terapia sessuale dall’individuo alla relazione,
concentrandosi sulle dinamiche interpersonali e sui modelli di interazione
all’interno della coppia. Da allora in poi, i problemi sessuali vennero anche
letti come difficoltà principalmente relazionali da spiegare all’interno delle
dinamiche della specifica coppia (Jurich, Myers-Bowman, 1998; Kirana et
al., 2013). Con il modello della Kaplan, l’esperienza del piacere e la
possibilità di rielaborazione del proprio vissuto corporeo venivano ad avere
uno spazio di discussione, non trascurando l’inquadramento medico e
l’utilizzo di farmaci. Un uso abile ed esperto di approcci diversi, seppur
difficile da praticare per clinici con poca esperienza, permise di aumentare
l’efficacia delle terapie psicologiche in campo sessuologico. Per molto
tempo questo modello rimase un caposaldo della sessuologia clinica e la
prima forma di approccio integrato ai problemi sessuali.
Negli stessi anni, anche in campo medico venne avvertita la necessità di
spiegare la patologia utilizzando lenti multifattoriali. Il primo ad introdurre
il concetto di “complessità” nel campo sanitario, e ad elaborare un modello
teorico sulla malattia davvero alternativo fu Engel (1977), il quale ipotizzò
che la genesi delle patologie va rintracciata nell’interazione di diversi
fattori, biologici, psicologici e sociali (Fig. 1). Per secoli la visione medica
aveva visto la patologia come esito di una semplice relazione di causa-
effetto provocata da un fattore eziologico biologico, in cui l’interazione fra
salute e malattia avveniva in maniera meccanicistica. Il modello BPS
proposto da Engel deriva dalla teoria generale dei sistemi complessi e pone
l’individuo ammalato al centro di un ampio sistema influenzato da
molteplici variabili. Per comprendere e risolvere la malattia, il medico deve
occuparsi non solo dei problemi di funzioni e organi, ma deve rivolgere
l’attenzione agli aspetti psicologici, sociali, familiari dell’individuo, fra loro
interagenti e in grado di influenzare l’evoluzione della malattia (Engel,
1977; Becchi e Carulli, 2009). Il concetto di “unità psicobiologica”
dell’uomo richiede che il medico accetti la responsabilità di valutare
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qualsiasi problema il paziente presenti e di raccomandare una serie di
provvedimenti, incluso l’invio ad altri professionisti.
Fig. 1. Schema del modello Biopsicosociale (BPS)
Ecco perché la conoscenza professionale di base del medico e le sue
competenze devono comprendere gli aspetti sociali e psicologici, oltre che
biologici, per poter decidere e agire nell’interesse del paziente che è
coinvolto in tutte e tre le dimensioni (Engel, 1977). I concetti base di
questo modello si sono diffusi velocemente in ambito sanitario fino ad
arrivare alla sessuologia clinica.
I numerosi progressi fatti negli ultimi anni nel campo della medicina
sessuale hanno modificato il modo in cui intendiamo e trattiamo le
disfunzioni sessuali nella pratica clinica. La grande rivoluzione concettuale
è rappresentata dall’introduzione degli inibitori della fosfodiesterasi di tipo
5 (PDE-5) nel 1998, che ha stimolato un’attenzione positiva verso il
funzionamento sessuale ed ha migliorato le prospettive di uomini e donne
sulla soddisfazione sessuale nell’arco di vita. Oltre agli inibitori della PDE-
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5 (etichette commerciali quali Viagra®, Levitra®, Cialis® e Spedra®), altri
farmaci sono stati introdotti ed utilizzati nell’ambito della medicina
sessuale come gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina, impiegati
nel trattamento dell’eiaculazione precoce, la flibanserina e la bremelanotide
per le disfunzioni femminili (non ancora disponibili in Italia). Per qualche
anno si è anche pensato che l’introduzione di questi farmaci avrebbe
eliminato la necessità di terapie psico-sessuologiche, ma chiaramente le
cose non sono andate in questo modo e la terapia sessuale è ad oggi uno
degli strumenti elitari per il successo del trattamento delle disfunzioni
sessuali (Althof, 2010). L’efficacia e la sicurezza di queste molecole è stata
provata da numerosi studi; nonostante questa evidenza scientifica, ci si è
dovuti confrontare con una grande percentuale di pazienti che usava i
farmaci con discontinuità, fino ad arrivare a veri e propri drop-out, che, in
alcuni casi, hanno raggiunto anche il 50% (Althof, 2002; 2013), o di
inefficacia del trattamento (non-responder). Un tale fenomeno non è
facilmente spiegabile; la questione sembra legata alla complessa
interazione tra l’efficacia, la soddisfazione del trattamento, gli eventi
sfavorevoli, le preoccupazioni, i costi e i fondamentali fattori psicosociali
che gravano sulla sfera sessuale. Il trattamento medico da solo non può
sostenere tutti questi elementi e questa evidenza ha aperto sempre più la
strada al modello BPS nella sessuologia contemporanea.
Il modello biopsicosociale come riferimento teorico della terapia
sessuale
Il vissuto personale e relazionale del sintomo sessuale, come
sottolineato anche dal DSM 5, è uno degli elementi più importanti che il
clinico deve valutare e di cui deve prendersi cura. Nello specifico viene
data una grande rilevanza al distress percepito rispetto alla sintomatologia
sessuale (Althof, 2010; APA, 2013). Questi aspetti fanno riferimento non
solo alla risoluzione della disfunzione, ma al concetto più generale di
miglioramento della Qualità della Vita (QoL), obiettivo centrale per coloro
che lavorano in ambito sanitario secondo una visione BPS.
Perché il modello BPS inquadra bene la terapia delle disfunzioni
sessuali? La sessualità è esperienza di integrazione per sua stessa natura:
essa parla di corpi, sentimenti, emozioni, credenze, culture, pensieri,
esperienze passate e desideri futuri, da soli ed in relazione fra essi.
Inoltre, la terapia sessuale si differenzia da altri approcci per una serie di
assunti (Almas e Landmark, 2010):
• il focus primario è il trattamento del sintomo sessuale;
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• perseguendo l’obiettivo principale, il clinico si fa carico di
aspetti contestuali, biologici e psicologici che possono
influenzare il sintomo (fattori predisponenti, precipitanti, di
mantenimento e di contesto);
• nel trattamento vengono impiegati una serie di tecniche e
metodi psicologici, farmaci o interventi chirurgici in sinergia fra
loro per il miglioramento della condizione del paziente.
L’evoluzione della terapia sessuale verso un modello che tenesse conto
di diversi livelli nella valutazione del sintomo era perciò in qualche modo
già scritta, anche se il riferimento al modello BPS è stato una conquista
raggiunta con grande fatica nel corso degli anni, e trova tutt’oggi diverse
resistenze da parte dei clinici nella sua applicazione.
Molti professionisti della salute sessuale hanno un’idea intuitiva di che
cosa sia il modello BPS, ma all’atto pratico mancano spesso le conoscenze
fondamentali sul suo funzionamento. Ciò nonostante, vi è ampio consenso
sui principi di questo modello, come indicato dalle varie edizioni delle
International Consultation on Sexual Medicine (Lue et al., 2004; Montorsi
et al., 2010; McCabe et al., 2016a; 2016b) e dai manuali più importanti e
recenti sulla sessuologia clinica e la medicina sessuale (Kirana et al., 2013;
Reisman et al., 2015). È inoltre largamente condiviso che l’approccio BPS
rappresenti il gold standard del trattamento sessuologico (Carvalho e
Nobre, 2011; Giraldi et al., 2013; Almas, 2016). Manca spesso una
formazione specifica sulle linee guida già in buona parte pubblicate, che
aiuti i clinici a trasformare in prassi terapeutica ciò che già hanno
orecchiato e approvato. Un grande limite è anche rappresentato dalla quasi
totale assenza di studi randomizzati e controllati che possano comprovare
l’efficacia oggettiva di questo modello, sebbene sia sempre molto difficile
condurre ricerche sugli esiti delle psicoterapie (Berry e Berry, 2013).
Il modello BPS afferma che i fattori biologici (fisiologia, sintomatologia
somatica, manifestazioni del corpo), psicologici (pensieri, emozioni e
comportamenti) e sociali (economici, ambientali, relazionali e culturali)
giocano tutti un ruolo significativo nel funzionamento umano, sia rispetto
alla salute che alla malattia. Di conseguenza, in questa cornice, viene
respinto l’algoritmo di trattamento unimodale che prescrive esclusivamente
un trattamento biomedico o psicosociale per un problema sessuale.
L’eziologia e gli esiti di tutte le disfunzioni sessuali comportano una
qualche combinazione di questi fattori e il trattamento dovrà tener conto di
tutte le variabili coinvolte (Fig. 2). Il clinico dovrà osservare l’impatto della
biologia, della psiche e dell’ambiente sociale sul sintomo, analizzando
quindi un cluster di sistemi interagenti quando incontra un paziente. La
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sfida che il clinico deve affrontare è quella di trovare empaticamente le
connessioni significative fra la storia del paziente e le difficoltà che porta in
valutazione (Engel, 1997).
Fig. 2 Aree coinvolte nella valutazione delle disfunzioni sessuali
L’effettiva attuazione clinica del BPS è però più impegnativa del
previsto. Come osserva Goldstein (2012): «Tutti noi siamo d’accordo nel
dire che la medicina sessuale sia multidisciplinare e che un approccio
biopsicosociale sia necessario per una corretta presa in carico dei nostri
pazienti, ma parlare è molto diverso da fare». Rowland (2007) ha
sintetizzato alcuni problemi che si trovano ad affrontare i sessuologi clinici
e i ricercatori di oggi, tra cui la predominanza del modello biomedico
nell’ambiente sanitario, la preferenza dei pazienti ad affrontare
problematiche sessuali con un intervento medico piuttosto che psicologico
e la predominanza di ricerche guidate dagli interessi dell’industria
farmaceutica a discapito degli aspetti psicologici.
Inoltre, lavorare seguendo il BPS può essere molto difficile per una serie
di limitazioni intrinseche al modello stesso (Simonelli, 2013). Prima di
tutto è necessario che vi sia una condivisione di tempo per la formazione, il
lavoro e lo scambio di idee all’interno dell’équipe curante, oltre che la
condivisione di uno spazio adeguato. Per poter lavorare insieme è
necessario avere la capacità di operare in gruppo e condividere uno stesso
linguaggio professionale che faccia da ponte fra discipline differenti (es.
medicina e psicologia). Altro punto importante è l’essere “centrati sul
paziente”, che significa riuscire a disegnare un trattamento adeguato e
Sexual
dysfunction
biological
psychological
social
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personalizzato sulle necessità dell’individuo. Questo elemento è
indispensabile per l’efficacia della terapia, ma rende più difficile il lavoro
perché allontana dai protocolli standardizzati di trattamento. Infine, la
situazione in cui si lavora in ambito sanitario è solitamente caratterizzata da
risorse limitate di denaro (prevedere l’impiego di più figure professionali e
strumenti è costoso) e di professionisti formati e/o disposti a formarsi.
Le società scientifiche e le nuove pubblicazioni nel campo della
sessuologia contribuiscono enormemente al dialogo interdisciplinare. La
disponibilità di corsi multidisciplinari in sessuologia, internazionali (di cui
l’esempio europeo è la ESSM School of Sexual Medicine) e nazionali (tutti
le scuole in sessuologia clinica post-lauream che aderiscono agli standard
della Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica), aperti a figure
specialistiche diverse, fa ben sperare per il futuro. Costruire un terreno
comune formandosi spalla a spalla è utile non solo per poter parlare “la
stessa lingua”, ma anche per costruire la rete professionale per
l’applicazione del modello BPS (Platano et al., 2008; McCabe et al., 2010).
Chiaramente, questo non è un percorso né breve né semplice, ma è un
grande progetto. I leader del settore sembrano riconoscere chiaramente
l’importanza dell’integrazione e si stanno adoperando fattivamente per
ottenere risultati concreti (Berry e Berry, 2013).
L’approccio integrato in sessuologia clinica
Da quanto finora discusso, risulta chiaro che attualmente si tende a
pensare che l’intervento clinico sulla sessualità debba rispettare
un’impostazione di tipo psicosomatico e somatopsichico (Simonelli et al.,
2010). Quando si parla di eziologia delle disfunzioni sessuali, occorre tener
sempre presenti gli aspetti fisiologici, psicologici, relazionali e culturali,
non solo nelle loro peculiarità, ma soprattutto nelle loro interazioni
reciproche (Fig. 3). Inoltre il concetto di somatopsichico amplia le
impostazioni precedenti perché prende in considerazione anche le
ripercussioni psicologiche che possono associarsi ad un sintomo sessuale
con eziologia prettamente organica. Basti pensare al vissuto di un uomo che
soffre di Disfunzione Erettile (DE) a causa di un grave problema vascolare.
Probabilmente verranno esperiti anche sentimenti di inadeguatezza,
depressione o frustrazione; inoltre la partner avrà un suo vissuto e sarà
coinvolta la relazione di coppia. È compito del clinico prendere in carico
questi aspetti che non possono essere risolti solo con la cura farmacologia
del sintomo (Borràs-Valls e Gonzales-Correales, 2004).
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Considerando proprio la relazione come punto di contatto fra il disagio
individuale e quello relazionale, la terapia sessuale integrata predilige un
lavoro con la coppia centrato sul binomio individuo-sistema; la maggior
parte degli studi clinici dimostra che un trattamento che consideri anche gli
aspetti relazionali ha più possibilità di rivelarsi efficace, anche a lungo
termine, rispetto ad un trattamento medico o psicologico basato soltanto
sulla risoluzione del sintomo (Perelman, 2006; Rowland, Cooper, 2011).
Fig. 3 Fattori biopsicosociali (adattato da Berry e Berry, 2013)
Nell’approccio sessuologico integrato si possono considerare tre livelli
di integrazione: l’integrazione all’interno della mente del terapeuta,
l’integrazione fra modelli e strumenti e quella fra i diversi specialisti.
(Simonelli et al., 2010). Questo modello prevede un setting in cui il gruppo
di lavoro è un’occasione per differenti figure professionali di discutere i
casi e indirizzare le competenze specifiche verso il benessere del cliente,
valutando gli strumenti da usare, il loro ordine temporale e di impostare gli
obiettivi terapeutici intermedi. In particolare, il medico e lo psico-
sessuologo, entrambi con training specialistico in sessuologia clinica,
dovrebbero partecipare fin dall’inizio al processo diagnostico, valutando gli
aspetti psichici e somatici e il loro specifico peso nella genesi del disturbo.
Basandosi sull’esperienza clinica e sulle ricerche empiriche, Althof e
Leiblum (2004) hanno identificato una serie di fattori che sembrano essere
predittivi di una prognosi favorevole:
• motivazione della coppia ad intraprendere un trattamento
• buona qualità della relazione di coppia
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• attrazione fisica tra i partner
• motivazione dell’uomo ad ottenere risultati di successo
Viceversa, gli autori evidenziano quattro variabili che possono incidere
sul drop-out:
• relazione conflittuale tra i partner
• basso livello socio-culturale
• scarsa motivazione del partner non disfunzionale al trattamento
• limitati progressi dopo il terzo incontro
Tuttavia, le terapie sessuali integrate possono essere portate avanti con
successo anche con un paziente single o quando il partner di una coppia
non è disponibile al trattamento. In questo caso si lavorerà sullo stile
relazionale del paziente e non soltanto sul miglioramento della sua
performance sessuale (Simonelli et al., 2010). Questi presupposti hanno
consentito di creare nuove possibilità terapeutiche con l’integrazione di
approcci teorici e strumenti clinici diversi: farmaci, consulenza sessuale,
interventi psicoterapeutici ad orientamento psicodinamico, cognitivo-
comportamentale, sistemico-relazionale, mansioni, tecniche di
rilassamento, in modo da individuare piani di intervento efficaci che si
adattino alle esigenze della persona piuttosto che ai principi di un
determinato modello (Ramsay, 2001; Rowland et al., 2008).
Purtroppo, spesso accade che il medico, solo dopo aver constatato
l’assenza di patologie organiche, consigli al paziente una consulenza
psicosessuale. Questa modalità “residuale” è, a nostro parere, poco
rispettosa della visione olistica del paziente e ne danneggia la prognosi
perché quando il medico afferma che “non ha niente”, il paziente, da una
parte può temere di avere un disturbo psichico grave, dall’altra può temere
che i fattori che determinano il suo problema non sia importante e non
necessiti o possa essere trattato adeguatamente (McCabe et al., 2010).
L’esperienza dell’Istituto di Sessuologia Clinica (ISC) di Roma:
training, processo diagnostico e terapeutico
Rispetto alla formazione professionale, l’Istituto di Sessuologia Clinica
di Roma opera dal 1988 portando avanti un corso quadriennale in
sessuologia clinica, suddiviso in due bienni. I primi due anni sono
finalizzati a formare la figura del consulente sessuale e sono rivolti a
medici, psicologi, operatori di consultori familiari, insegnanti e in generale
a tutti coloro che si trovano a dover rispondere in maniera professionale
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alle tematiche che riguardano la salute sessuale. Nel primo biennio gli
allievi sviluppano la capacità di accogliere e comprendere la domanda
clinica e di rispondere in maniera appropriata; inoltre, agli allievi vengono
forniti gli elementi pratici e teorici per poter organizzare dei corsi di
educazione sessuale.
Il secondo biennio è rivolto esclusivamente a medici e psicologi e la
formazione è indirizzata ad acquisire le competenze cliniche per il
trattamento delle disfunzioni sessuali, le disforie di genere, le parafilie e
tutte le altre problematiche riferite alla sfera sessuale (abusi sessuali,
ipersessualità, cyber addiction, dismorfofobie genitali, ecc.).
Il programma prevede una metodologia integrata nella presentazione
degli argomenti. I docenti di diversa formazione hanno un’esperienza
consolidata di lavoro in campo sessuologico formatasi con l’integrazione
delle diverse discipline scientifiche che riguardano la sessualità. Infine agli
allievi viene richiesto di seguire un training di psicoterapia individuale, con
l’obiettivo di acquisire una profonda consapevolezza di sé stessi e dei
propri limiti e di prevenire proiezioni e interferenze dannose nelle loro
future relazioni con i pazienti. A questo successivamente si aggiunge la
necessità di una supervisione con colleghi esperti su casi clinici presi in
carico (Simonelli et al., 2010). La FISS, Federazione Italiana di
Sessuologia Scientifica, ha inoltre redatto un codice etico per i
professionisti che operano in questo campo, al quale la scuola aderisce.
Relativamente all’area clinica, l’Istituto rappresenta un valido esempio
dell’evoluzione e del consolidamento dell’approccio integrato nella terapia
sessuologica, grazie alla proficua collaborazione tra operatori di diversa
specializzazione (andrologi, ginecologi, psicoterapeuti, psichiatri,
fisioterapisti) e alla continua riflessione teorica su contributi e tecniche
provenienti da numerosi approcci della psicologia e della medicina.
L’algoritmo di diagnosi e trattamento delle disfunzioni sessuali segue, in
linea generale, quello proposto dalla ICSM-5 (Hatzichristou et al., 2004,
Fig. 4) ed è, ad oggi, ampiamente utilizzato in campo internazionale.
Un trattamento flessibile e tagliato sulle esigenze dei pazienti necessita
di essere supportato da una serie di informazioni che il clinico deve ottenere
nei primi incontri che possono essere così schematizzate:
• anamnesi medico-psicologica
• sviluppo psicosessuale
• qualità delle fasi della risposta sessuale (desiderio, eccitazione,
orgasmo, risoluzione) e frequenza dell’attività sessuale
• contesto socio-culturale
• storia del sintomo (insorgenza, tipo, severità, cambiamenti, ecc.)
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• fattori predisponenti, precipitanti, di mantenimento e contestuali
del sintomo
• assessment della funzionalità/disfunzionalità sessuale del
partner
Fig. 4 Algoritmo diagnostico e terapeutico dell’ICSM-5 (Hatzichristou et al., 2004)
Nell’assessment diagnostico, il clinico deve accertare se il sintomo è
situazionale (limitato a particolari partner o situazioni) o più generalizzato,
consistente e persistente (Hatzimouratidis et al., 2010). Chiedere al
paziente di raccontare sentimenti, pensieri e comportamenti che avvengono
prima, durante e dopo la manifestazione del sintomo può aiutare a
comprendere più profondamente il quadro clinico (Rowland e Cooper,
2011). Altre aree di indagine sono: storia di vita personale con particolare
attenzione agli eventi critici, relazioni sessuo-affettive precedenti, rapporto
con la sessualità ed il piacere (educazione sessuale, masturbazione,
pregiudizi, credenze e valori), analisi dei fattori di personalità (ansia,
controllo, difficoltà ad esprimere emozioni, ecc.) (Simonelli et al., 2010). È
inoltre fondamentale che il clinico rilevi la compresenza di altri disturbi
della sessualità in entrambi i componenti della coppia. L’anamnesi sessuale
deve essere sempre condotta in modo culturalmente sensibile, tenendo
conto del contesto e dello stile di vita del soggetto, del rapporto con il
partner, della confidenza ed esperienza del clinico con l’argomento (Althof
et al., 2013).
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Prima di chiudere la fase diagnostica e di delineare le opportunità di
trattamento, è utile approfondire le motivazioni ad un’eventuale terapia e
chiedere quali siano le aspettative sia del paziente che del partner. Spesso le
persone hanno delle aspettative magiche nei confronti dell’intervento,
hanno un atteggiamento passivo e non accettano di mettere in discussione
le loro opinioni. Altri elementi di valutazione in fase diagnostica sono la
presenza di disturbi psichiatrici severi o conflitti intrapsichici profondi del
paziente o del partner, o una grave conflittualità di coppia. In questi casi il
clinico dovrà tener conto di queste variabili nella valutazione della proposta
terapeutica, che possono anche costituire criterio di esclusione per la terapia
sessuale. È sempre in questa fase (Step 1-2), che il clinico valuta
l’opportunità di una consulenza con un altro specialista, laddove ci siano i
presupposti per richiedere degli approfondimenti diagnostici. L’esperienza
dell’Istituto insegna che è sempre buona norma, soprattutto con problemi di
ordine funzionale o con sintomi che abbiano a che fare con il dolore
pelvico, richiedere una visita di controllo dal ginecologo o dall’andrologo.
Questo passaggio permette di evidenziare eventuali compromissioni
organiche, che saranno certamente oggetto della prima fase terapeutica.
Spesso è anche l’occasione per pazienti adulti di effettuare la prima visita
da questi specialisti.
Tutte le informazioni raccolte verranno schematizzate nella griglia
rappresentata in Fig. 5, in modo da incrociare le variabili in gioco e stabilire
su quali aree è possibile o auspicabile un cambiamento ed in quali è
pressoché inutile spendere delle risorse.
Fig. 5 Griglia per l’assessment biopsicosociale
Quando la fase diagnostica è conclusa, le diverse opzioni terapeutiche
sono descritte e discusse con il paziente o con la coppia in modo che il
cambiamento possa avvenire in tempi e modalità che più si adattano alle
persone coinvolte (Simonelli et al., 2010).
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Molte volte, i pazienti si rivolgono al clinico perché sono “preoccupati”
di qualcosa relativo alla sessualità e non per difficoltà o disturbi in
quell’area. In questi casi, ma non solo, è particolarmente importante lo Step
3 dell’algoritmo, ovvero la fase in cui, prima di avviare trattamenti veri e
propri, si può proporre qualche seduta di “educazione alla sessualità”. In
questi casi si incoraggia il paziente a fare domande dirette sui suoi dubbi, si
restituiscono informazioni corrette sulla “normalità” della risposta sessuale
e dello sviluppo nell’arco di vita, vengono esplorate le possibili soluzioni
(anche non professionali) alle situazioni di stallo presentate e si verifica che
il paziente abbia chiarito i suoi dubbi. Su questioni molto specifiche, può
essere utile consigliare di rintracciare alcune risorse su internet come siti
dedicati, documenti scientifici o divulgativi. In alcuni casi questa azione è
risolutiva rispetto alle necessità del paziente e l’intervento si conclude
molto velocemente. Altre volte i pazienti si avvalgono dell’aspetto
educativo e delle nuove informazioni veicolate durante gli incontri per
“normalizzare” o a dare una cornice di senso alla sintomatologia presentata.
In questo modo sono più pronti a partecipare attivamente e condividere il
piano di trattamento terapeutico. Il clinico dovrebbe offrire ai pazienti e ai
loro partner un ventaglio il più possibile completo delle opzioni disponibili,
con pro e contro, benefici e rischi, di ciascun percorso. I reali bisogni del
paziente, così come le sue preferenze, diventano centrali in questa fase: più
l’intervento è condiviso, accettato e compreso dal paziente o dalla coppia,
più sarà di successo, poiché tutti gli attori coinvolti (paziente e équipe
curante) collaboreranno allo stesso obiettivo (Simonelli et al., 2010).
Il protocollo terapeutico può prevedere trattamenti medici e
farmacologici che possono alleviare rapidamente il disturbo e favorire il
ripristino di una buona funzionalità sessuale; essi sono più efficaci quando
il paziente è d’accordo sull’assunzione, consapevole del loro utilizzo ed è
in grado di gestire gli eventuali aspetti critici della relazione di coppia
(Michetti et al., 2007; Simonelli et al., 2008).
Qualora il paziente abbia adeguate risorse personali, all’interno di una
terapia individuale, l’introspezione può essere incoraggiata. Oggetto di
indagine saranno i sexual scripts (copioni mentali più o meno rigidi
riguardanti la sessualità), l’ansia, il senso di inadeguatezza, le aspettative
irrealistiche e i pensieri maladattivi riguardo l’amore e la sessualità. Questi
aspetti sono valutati al fine di rendere il paziente più consapevole circa la
sua motivazione al cambiamento, perché il sintomo sia compreso come un
compromesso difensivo fra la paura e il desiderio di esplorare nuovi
territori.
16
Gli elementi di processo che il clinico deve tenere in considerazione per
sviluppare la qualità della relazione terapeutica, sono sintetizzati da
Rowland e Cooper (2011):
• comprendere come le esperienze e le prospettive personali dei
pazienti stanno condizionando la loro vita, compresa quella
sessuale
• esprimere empatia, genuinità e considerazione positiva
• sviluppare la motivazione al cambiamento, che solitamente
comporta un lavoro sulle resistenze
• identificare sentimenti, convinzioni e comportamenti correlati al
sintomo, compresi i pattern relazionali con il partner
• supportare il senso di autoefficacia
In particolare, l’importanza del senso di autoefficacia e del livello di
soddisfazione sessuale del paziente non andrebbe sottostimato come esito
positivo del trattamento.
Qualunque sia il metodo terapeutico adottato (mansionale, CBT,
sistemico-relazionale, farmacologico o combinato), l’approccio integrato
prevede che il clinico si ponga costantemente in un’ottica multifattoriale e
possa sempre coinvolgere altre figure professionali, sia durante il percorso
nella gestione di una fase della terapia, sia relativamente al ragionamento
su quel paziente, in modo da garantire il migliore risultato rispetto al
processo di cura (Simonelli et al., 2010).
Durante il trattamento verrà dedicata particolare attenzione al
monitoraggio degli eventi avversi, della soddisfazione rispetto ai risultati
ottenuti e alla relazione di coppia, alle reazioni e all’eventuale disvelamento
di problematiche da parte del partner asintomatico. La valutazione del
benessere sessuale (ultimo Step di questo algoritmo) è di particolare
importanza prima di chiudere un percorso terapeutico. I risultati del
trattamento possono essere misurati schematicamente su tre linee:
• la risoluzione del sintomo e/o la ripresa della funzione sessuale
• la riduzione della preoccupazione e del distress
• l’aumento della soddisfazione sessuale del paziente e del partner
In caso di risultati positivi, anche la qualità della relazione sarà
migliorata, così come la qualità di vita in generale.
Conclusioni
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Come abbiamo visto, l’approccio integrato permette interventi mirati e
su misura. Allo stesso tempo, la flessibilità dell’approccio integrato può
anche essere il suo punto debole: clinici poco esperti possono combinare in
modo confuso e caotico varie tecniche e modelli, pensando di essere
eclettici e di fornire al paziente le opportunità di trattamento più variegate.
Questo atteggiamento è lontano da ciò che in sessuologia clinica viene
considerata competenza. Questo rischio può essere limitato da una
formazione seria, da un costante aggiornamento scientifico e dall’essere
inseriti in una rete di professionisti specializzati. A tal proposito, durante la
formazione, lo studio e il confronto di casi clinici che presentino
sintomatologie simili è molto utile: i diversi contributi degli specialisti
coinvolti, la motivazione del paziente e/o della coppia al cambiamento
possono portare a costruire percorsi diversi, ma ugualmente efficaci.
Prendere in esame i fallimenti terapeutici è altrettanto utile per la crescita
professionale del clinico, dell’équipe e del paziente stesso. L’approccio
integrato è più facile da implementare in un contesto privato, come
l’Istituto di Sessuologia Clinica di Roma, piuttosto che in uno pubblico
come gli ospedali, sebbene la nostra esperienza recente (Simonelli, 2013)
suggerisca che investire risorse nel coltivare una cultura più moderna al
trattamento delle disfunzioni sessuali porta risultati incoraggianti anche in
contesti tipicamente più “resistenti” ai cambiamenti.
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