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L’Uomo, 2014, n. 2, pp. -6
Non esistono culture innocenti.
Gli antropologi, le famiglie spossessate
e i bambini adottabili
Simona Taliani
Università degli Studi di Torino
Breve digressione
Nonostante si debba riconoscere con Lallemand e Le Moal (1981) che l’an-
tropologia si è occupata tardivamente di quei piccoli soggetti che sono
i bambini, è altrettanto vero che le rappresentazioni e ancor più i culti
sulle nascite straordinarie, come per esempio quelle dei gemelli, hanno da
sempre riscontrato un grande interesse nei ricercatori di questa disciplina,
fin dalla fine dell’Ottocento. L’attenzione per le rappresentazioni culturali
nasceva dalle analisi delle cosmologie locali, che spesso assegnavano ai ge-
melli, o ad altri bambini ritenuti eccezionali e sovra-umani, un indiscusso
protagonismo nei miti di fondazione e di creazione, perché la metafora del
doppio offriva fertile materiale per la costruzione di un pensiero binario
e dicotomico costituito sugli opposti. I gemelli sono stati per molti de-
cenni un materiale buono-per-pensare il rapporto tra gli umani e il divino,
da un lato, e quello tra l’uomo e la natura dall’altro. Nel celebre lavoro
Twins, Birds and Vegetables: Problems of Identification in Primitive Reli-
gious Thought, Raimond Firth (1966) riprese questo profilo squisitamente
simbolico, insistendo sul fatto che i gemelli costituivano un vero e proprio
operatore logico che obbligava il ricercatore a ripensare la dicotomia tra le
categorie del metaforico e del letterale perché rompevano ogni possibilità
di classificazione e facevano precipitare la distanza, necessaria al pensiero
umano, tra termini opposti. Tutto con loro, e in loro, si confondeva. Ha
dunque certamente ragione Cartry (1973: 28) a ricordarci che «non esiste
società in Africa sub-sahariana in cui non si sia elaborato un sistema com-
plesso di rappresentazioni e riti sui gemelli».
Ad interrogare ancor più gli antropologi sono state, però, le pratiche
sociali connesse a nascite doppie, cioè i culti dei gemelli, per il loro ca-
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simona taliani
rattere fortemente cruento e, per certi aspetti, traumatico. Il dialogo
infervorato tra nativi, da un lato, e amministratori, missionari, medici
dall’altro, sui destini di questi bambini doppi (Taliani 2006) costruiva le
premesse per un discorso intorno a due limiti invalicabili: da un punto
di vista “emico” questo limite sanciva la distinzione tra l’umano e il non-
umano; da un punto di vista “etico” proprio il culto dei gemelli faceva
degli Altri dei Barbari e Primitivi da civilizzare ed educare, perché nel
caso dei gemelli nascita e morte erano eventi quasi simultanei, e nu-
merose famiglie sacrificavano i loro figli, abbandonandoli in foresta o
lasciandoli ai bordi del mare o di un fiume, perché riprendessero la loro
vera forma e la via di casa. L’Africa sub-sahariana è il vaso di Pandora
di queste doppie morti bianche. Chinua Achebe è tra quegli scrittori che
non hanno risparmiato colpi, fin dai suoi primi romanzi: in Things Fall
Apart (198) ha svelato per intero la sofferenza che queste pratiche socia-
li generarono all’interno delle comunità igbo, senza eludere il problema
del colonialismo e scagliare una feroce critica contro la violenza eserci-
tata tanto dai missionari quanto dagli amministratori, per salvare delle
anime “pure” da una morte certa, non sacrificandone però di meno (non
era forse una morte sociale quella inflitta ai genitori primitivi e selvaggi
di questi bambini straordinari, messi in carcere e poi processati?). L’au-
tore non vuole dimenticare nessuno, come a volerci ricordare che una
violenza non ne lava via un’altra.
Cosa fa di un bambino un figlio desiderabile?
Molto più recentemente, e a partire da una prospettiva squisitamente an-
tropologica, Misty Bastian (2001) scrive che è stata proprio una strana iro-
nia della storia che la donna festeggiata a Houston, in Texas, nel 1998 per
aver avuto il primo parto plurigemellare avvenuto negli Stati Uniti fosse
di origine igbo. Degli otto gemelli avuti, sette oggi sono ancora vivi. Nkem
Chukwu e Iyke Louis Udobi erano entrambi cittadini americani, d’origine
nigeriana: erano Igbo speakers, provenienti cioè da quell’area della Nigeria
sud-orientale conosciuta proprio come Igboland.
Gli Igbo della Nigeria sono stati descritti, nei lavori pionieristici di
Thomas e di altri osservatori inglesi1, come condannabili per le pratiche di
infanticidio che colpivano i gemelli (vero e proprio “abominio contro il
Dio cristiano” per missionari ed evangelizzatori: ivi: 13). La strana ironia
della storia è stata dunque quella di veder festeggiare una donna igbo con-
tenta di aver messo al mondo otto gemelli, tutti figli desiderati.
A partire da questo episodio che ha avuto dell’eccezionale, Misty Ba-
stian ha voluto ricostruire il processo storico che ha lentamente ma ine-
sorabilmente trasformato i gemelli in figli da tenere. Nel suo articolo in-
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non esistono culture innocenti
troduttivo al numero monografico di “Ethnology”, Re-Viewing Twinship
in Africa, l’autrice analizza i documenti conservati in quelle missioni pro-
testanti che si erano insediate nel Sud-Est della Nigeria fin dai primi anni
del Novecento. L’antropologa porta così alla luce dei testi in cui si face-
va esplicito riferimento al fallimento di salvare i bambini gemelli in area
Igbo, a partire da alcuni tentativi messi in atto da Mary Elms, nel 1910, a
Onitsha.
Mary Elms, un’infermiera protestante, istituì una casa-per-gemelli, in
modo tale da accogliere i bambini destinati alla morte e dimostrare agli
Uffici britannici che era possibile sviluppare programmi di salute e pre-
venzione in quest’area dell’Africa sub-sahariana. Gli anziani igbo accetta-
rono la proposta e indicarono una donna come balia per i gemelli inseriti
nella comunità d’accoglienza. Il progetto andò incontro ad un dramma-
tico esito (solo un bambino sopravvisse) e ad incessanti rinegoziazioni
(cambio delle balie). Mentre gli anziani igbo e i missionari discutevano sul
significato astratto e ideologico della gemellarità, le donne igbo e quelle
inglesi si confrontavano su un terreno molto più problematico, perché
erano loro che, concretamente, tenevano in vita o facevano morire i ge-
melli; erano loro, in altri termini, che avevano materialmente il controllo
sulla vita di questi bambini. La dimensione di genere svelò un profilo (for-
se) inedito di quella violenza al femminile che è la violenza delle “madri”:
le donne igbo erano restie a far sopravvivere i gemelli. Bastian suggerisce
che l’invito della missionaria Mary Elms fu accolto dagli anziani dei paesi
igbo non per motivi umanitari o filantropici (come era nelle intenzioni
dell’infermiera). Essi avevano piuttosto intravisto in questa casa-per-ge-
melli l’occasione per liberarsi sia dei bambini che di altre figure marginali
della comunità, altri fuori-casta. Oltre ai gemelli, potevano allontanare
dai villaggi anche le donne ritenute animate da desideri antisociali e causa
di disgrazie per l’intera comunità: la prima balia era infatti la vedova del
capo, che avrebbe avuto un destino tragico se fosse rimasta a vivere presso
la casa del marito (perché la sua presenza, da viva, avrebbe potuto causare
danni morali o materiali ai suoi ex sudditi); la seconda balia era ricono-
sciuta come una “strega” dai suoi compaesani.
Resta, dunque, un processo storico complesso e non scevro da violen-
za quello che vide trasformare i gemelli da “oggetti da buttare” in “sogget-
ti da considerare” degni di vita: figli, dunque, desiderabili.
Infanzie contese, destini aggressivi2
Sebbene l’antropologia si sia occupata tardivamente dei bambini, ad un
certo punto è cambiato il modo di occuparsi di loro. Oggi questi piccoli
soggetti sono infatti collocati nello spazio che spetta loro di diritto, al cro-
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cevia tra il pubblico e il privato, il politico e il personale, lo Stato e l’istinto
materno (Scheper-Hughes 1993; Stephens 199; Scheper-Hughes, Sargent
1998).
La questione dei bambini è stata, dagli anni Novanta in poi, indissolu-
bilmente legata alle politiche discriminatorie che hanno ancora oggi nella
razza, nella classe e nel genere la loro articolazione più feroce e diretta.
Parlare di bambini – parlare soprattutto dei bambini dei colonizzati e de-
gli ex colonizzati in Inghilterra (Bailkin 2009) e in Francia (Saada 2009)
– ha obbligato e tutt’ora obbliga a riaprire un dossier troppo frettolosa-
mente chiuso, o ridotto al silenzio invocando la differenza culturale come
neutrale discorso sull’alterità. I figli degli Altri, come ricordava Michel
de Certeau (2007) per i figli degli immigrati in Francia, sono piuttosto
un “cumulo” di elementi, culturali ed economici, psicologici e politici,
così come lo sono i loro genitori. Queste variabili non stanno tra loro in
un rapporto antinomico, ma si intersecano in queste biografie ad angolo
retto, sommando foschi “effetti di destino” (Bourdieu 1993). Il brillante la-
voro sulle famiglie postcoloniali di Jordanna Bailkin (2012) può essere qui
un esempio efficace per tratteggiare questi “effetti d’Edipo” (l’espressione
è sempre di Bourdieu).
Quando le madri nigeriane e ghanesi davano in affidamento3 i loro
figli in Inghilterra, tra il 190 e il 1970, erano per lo più giovani studen-
tesse o mogli di studenti che, già durante il periodo coloniale e poi oltre,
investivano alcuni anni della loro formazione accademica o professionale
nella metropoli per poi tornare nel proprio Paese, sperando di poter ri-
vestire ruoli dirigenziali. Queste aspettative coincidevano con quelle del
Colonial Office, che sperava in questo modo di gestire la transizione del-
la decolonizzazione, mantenendo scambi politici e commerciali floridi
tra la metropoli e alcune delle sue periferie più ricche. In una seconda
fase e a seguito di alcuni gravi incidenti mortali nelle famiglie affidatarie
questi bambini iniziarono ad essere studiati – al pari dei loro genitori
biologici – da alcuni ricercatori delle scienze umane e sociali perché vi
era l’interesse, non solo accademico ma anche del Dipartimento a tutela
dell’infanzia, di comprendere l’evoluzione psicologica (o meglio, psico-
patologica) della famiglia africana. La pratica dell’affidamento diventava
l’emblema patologico della mobilità famigliare africana. Bailkin sugge-
risce che tanto la lettura antropologica (a firma di figure di spicco nel
panorama universitario, come Esther Goody) quanto quella economica
(nei lavori più recenti di Caroline Bledsoe) non esaurivano il problema
e restava aperta la questione del perché le madri nigeriane dessero in
affidamento i loro bambini.
Secondo Bailkin, tale pratica non poteva essere ricondotta interamen-
te né alla riproduzione urbana di tradizionali forme di accudimento, come
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non esistono culture innocenti
voleva Goody (1970, 1978; cfr. anche Muir, Goody 1972), che leggeva nelle
pratiche di circolazione del bambino immigrato un’azione educativa, tesa
a cercare vantaggi sociali legittimi per questi bambini da parte delle loro
madri; né poteva esaurirsi tutta nell’esigenza economica di risparmiare
sulla crescita dei figli (Bledsoe 2002), a fronte di risorse finanziare esigue
(d’altra parte erano madri che pagavano i servizi resi loro dalle donne
inglesi). Per l’autrice, le madri nigeriane e ghanesi davano in affidamento i
loro figli soprattutto perché la maternità era diventata per loro un «gravo-
so compito sotto le schiaccianti nuove domande di Bowlbismo» (Bailkin
2009: 107).
Le madri africane in Inghilterra iniziavano ad essere considerate
non-idonee se valutate rispetto alle nuove aspettative di maternità gene-
rate dalla psicologia emergente e dai modelli di attaccamento proposti
da John Bowlby. Queste madri non rispondevano ai bisogni emozionali
dei loro figli e non emergeva nella relazione filiale un legame affettivo
significativo con il bambino. Prima dunque che lo Stato intervenisse,
molte di loro – sentendosi giudicate come inadeguate – decidevano di
dare spontaneamente i propri figli in affidamento, attraverso degli ac-
cordi privati e pagando le famiglie affidatarie, perché non venissero
loro irrimediabilmente tolti con l’adozione (ciò che in alcuni casi av-
venne comunque).
Penso che qualunque antropologo/a si trovi oggi a lavorare con fami-
glie e bambini debba tentare di sciogliere la questione delle aspettative di
genitorialità di una data società. Occuparsi di bambini non ha mai signi-
ficato percorrere un territorio neutro, raccogliere o rubricare le rappre-
sentazioni delle infanzie altrui: da ricercatori, si è fin da subito immersi
nelle pragmatiche di genitorialità esercitate all’interno di una comunità; ci
si è sempre dovuti confrontare con il potere che si esercita sul corpo del
bambino (e sul suo destino).
Per quanto attiene più strettamente all’antropologia, la questione è
stata lambita da Alma Gottlieb (200), quando in Costa d’Avorio iniziò
le sue ricerche tra i Beng e un episodio in cui era coinvolto suo figlio la
obbligò ad esplicitare la sua posizione sul campo.
Un giorno, Tahan schiaffeggiò suo figlio così forte sulla faccia che il labbro del
bambino iniziò a sanguinare. Nathaniel [figlio della Gottlieb, N.d.T.] – sconvolto
per essere stato testimone, per la prima volta, di un caso di maltrattamento ge-
nitoriale così violento – andò verso Tahan, la picchiò sulle spalle e la rimproverò
aspramente in inglese. […] Mi sentii divisa. […] Espressi il mio sconcerto per il
comportamento di Tahan nei confronti di suo figlio, e menzionai che negli Stati
Uniti lo Stato sarebbe potuto intervenire per allontanare un bambino così abusato
dalle cure di sua madre, dandolo ad un parente perché venisse cresciuto in un’altra
famiglia (ivi: 32; traduzione e corsivi miei).
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simona taliani
Aspettative di genitorialità:
diventare madri e padri nella migrazione
Ci sono nell’esempio di Alma Gottlieb tutti gli ingredienti che incontro
regolarmente anche nel mio campo, forse persino qualcuno in più (lo
schiaffo, per esempio). La direzione del mio sguardo però segue un’altra
traiettoria, o meglio si fa strabico: guardo una qualunque Tahan, una
madre che ha schiaffeggiato il figlio, forse anche senza ragione alcuna,
e mi chiedo cosa definisca la maternità (chi è madre per il “suo” bam-
bino?) e cosa il maltrattamento; ma, a differenza della Gottlieb, non
assumo come data la mia società (che saprebbe cosa fare e come inter-
venire per limitare il potere di un genitore nei confronti di un figlio) e
mi sforzo di guardare allo Stato moderno e democratico, che risolve una
presunta disarmonica relazione madre-bambino quasi sempre per sot-
trazione: togliendo, recidendo, separando. Ho sviluppato in altri lavori
le difficoltà affrontate in questi anni: dall’analisi dello spazio deputato
all’osservazione e alla valutazione come panopticon in miniatura (Bene-
duce, Taliani 2013) al sistema di adozione dei figli degli immigrati come
potente macchina di ingegneria sociale fondata su pseudo-saperi e sulla
rimozione sociale delle nostre Istituzioni (Taliani 2012, 201). Confesso
un certo malessere nel lavorare in questo ambito di ricerca, non sapendo
più delimitare con nitidezza i contorni di chi abusi chi. Il mio interesse,
in queste note, è dunque molto limitato, perché faccio fatica a vedere
con chiarezza tutte le implicazioni e le conseguenze di questo “campo”:
tenterò qui soltanto di documentare un aspetto delle mie ricerche che
concerne l’uso della cultura dell’Altro negli spazi in cui le decisioni ven-
gono prese. Mi chiederò se e come la differenza culturale possa costi-
tuire un potente alibi per un sistematico misconoscimento dell’Altro e,
nei casi più estremi, un detonatore volto ad attivare una serie di precisi
interventi disciplinari.
Sebbene la recisione del legame tra un genitore e suo figlio sia neces-
saria in casi specifici – ma non dimentichiamo che l’adozione nasce legi-
slativamente con la constatazione di uno stato di abbandono del minore:
ciò che non è nel caso di molte, troppe famiglie immigrate, appartenen-
ti a classi sociali meno abbienti o svantaggiate e marginali, o ai gruppi
di minoranza – c’è qualcosa di marcio in questo sistema oggi. Nella mia
esperienza etnografica – consistita nel leggere molto materiale d’archivio
(relazioni, perizie, provvedimenti), nell’aver incontrato i genitori, nell’a-
ver assistito ad alcuni incontri in luogo neutro, nell’aver risposto alle do-
mande dei giudice, scritto a mia volta perizie di parte (ctp), risposto a dei
contraddittori in sede di udienza, intervistato avvocati e curatori dei mi-
nori6 – ho stratificato vissuti di violenza, accumulando un certo malessere.
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non esistono culture innocenti
Sta a me ora dimostrare, con carte ed esperienza etnografica alla mano,
quanto alcuni esperti si limitano solo a sussurrare.
Cercherò di farlo attraverso la storia del signor Michel, un uomo nato
in Costa d’Avorio nel 1966. Michel (pseudonimo) aveva i genitori apparte-
nenti al ceppo socio-linguistico akan: entrambi convertitisi al cristianesi-
mo, hanno avuto dieci figli e una vita relativamente tranquilla. Le sorelle
di Michel risiedono tutte in Costa d’Avorio; un fratello è in Italia e due dei
suoi fratelli maggiori sono morti in seguito a due diversi incidenti (uno sul
posto di lavoro). I suoi genitori non hanno avuto altri legami matrimonia-
li, e i fratelli e le sorelle di cui parla sono tutti consanguinei (stesso padre,
stessa madre). Michel ha avuto, da una relazione sentimentale, due figli,
attualmente in Costa d’Avorio. L’arrivo in Italia è stato possibile grazie
all’aiuto del fratello che gli ha permesso una situazione lavorativa stabile
fino al 2011. Michel ha incontrato dopo alcuni anni dal suo arrivo una
donna italiana, dalla quale ha avuto un figlio.
Il Tribunale per i minorenni ha disposto un’apertura di pratica di
adottabilità per il minore, a pochi mesi dalla sua nascita, perché ritenuto a
rischio di abbandono: il bambino, nato all’interno di una coppia descritta
come conflittuale dai servizi socio-assistenziali e priva di mezzi idonei al
suo sostentamento (mancanza di un lavoro e di una casa), è stato inserito
con la madre in una comunità d’accoglienza mamma-bambino. Qui sono
emerse le fragilità della donna, già seguita dai servizi (sia socio-assistenzia-
li che di salute mentale) per un “leggero ritardo cognitivo”, confermato in
sede peritale. Il Tribunale per i Minorenni dispone una perizia psichiatri-
ca anche sul padre, per poter rispondere ai quesiti inerenti alla personalità
del signore e alle sue capacità genitoriali, e valutare nel miglior interesse
del minore la sua collocazione futura. Consapevole della complessità della
situazione familiare, che richiederebbe un maggior dettaglio di informa-
zioni circa le ragioni dell’inadeguatezza materna7, mi limito qui a riportare
la parte del documento dove si analizza “la figura paterna nella cultura
africana” da parte del perito incaricato.
Per cercare di inquadrare e di dare un significato culturale alle modalità di funzio-
namento sul piano genitoriale del sig. M., si è approfondito il tema della famiglia
e, in particolare, quello della figura paterna, nella cultura tradizionale africana. Il
sig. M. è originario della Costa d’Avorio, uno stato appartenente all’Africa Occi-
dentale, che confina con Ghana, Burkina Faso, Mali, Guinea e Liberia.
Seppur consapevoli che i gruppi culturali e le tradizioni che attraversano la
Costa d’Avorio sono innumerevoli e diverse tra loro, si propone di seguito un’in-
terpretazione generale delle tradizioni maggiormente diffuse e conosciute.
Il padre di famiglia riceve il suo status sociale dallo status della famiglia.
La figura del padre è fondamentale, ma esistono altre figure, altrettanto cen-
trali, basti pensare alla figura dello zio materno, figura questa, come ricordato
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simona taliani
da Malinowski, che detiene la parentela reale, cioè identità di sostanza, identità
fisica, la quale si esprime ed esiste solo attraverso la madre e la matrilinearità.
Il padre, in tale senso, è un estraneo, che può talvolta incidere sulle decisioni
che riguardano il figlio, ma che generalmente si occupa solo della dimensione
pubblica e legata alla trasmissione orale dei valori familiari. Nella società tradizio-
nale africana l’educazione è molto legata alle differenze sessuali, così che l’econo-
mia domestica e la cura dei figli è totalmente delegata alla donna.
Un Proverbio Rowandese [sic!] recita: “Il toro genera, ma non urla dietro ai
piccoli”.
La relazione con la famiglia è per l’africano la principale fonte di affetto e
di sicurezza psico-affettiva. Sono molto forti e profondi i legami che vincolano
l’individuo alla sua comunità familiare: l’amore paterno viene esercitato con auto-
rità, severità, protezione e sollecitudine; l’amore per il padre deve essere fatto di
rispetto, timore, obbedienza, riverenza e venerazione (gli stessi sentimenti vanno
coltivati anche verso le persone anziane). […]
Il concetto della famiglia allargata presenta differenze notevoli rispetto al con-
cetto occidentale di famiglia nucleare. Nella comunità familiare africana non esi-
stono zii, cugini e nipoti, ma genitori, fratelli e figli. I fratelli del padre sono tutti
padri; i figli dei fratelli di un padre sono tutti fratelli. Così tutti i figli e le figlie dei
fratelli vengono considerati figli.
Ogni grado di parentela obbedisce a norme di riferimento ben definite e che
non si devono offuscare. L’individuo viene accolto o rifiutato nella misura in cui è
capace di assimilare, rispettare ed identificarsi con queste norme della comunità.
L’africano non può andare contro le norme tradizionali della sua comunità,
perché altrimenti provocherebbe la rottura nell’equilibrio della partecipazione
vitale, attirando disgrazie per sé e per tutta la famiglia. La persona non ha tanto
paura di Dio, ma del giudizio della comunità.
Il timore del giudizio della comunità è maggiore di quello della propria co-
scienza. […]
Emerge quindi come la figura paterna sia spesso delegante e non accudente
nei confronti della prole, occupandosi maggiormente del sostentamento e delle
relazioni pubbliche in occasioni di feste tradizionali o eventi oppure, in altri casi,
di prendere decisioni che possono incidere sul futuro dell’intera famiglia e della sua
immagine pubblica, come matrimoni o affiliazioni familiari.
Rispetto al modello culturale, il sig. M. mostra delle lacune poiché non sostie-
ne sul piano dell’accudimento il bambino (corsivi miei).
A parte non ritrovare in nessuna parte della relazione redatta l’informa-
zione che, più di altre, potrebbe legittimare le riflessioni sulla famiglia
matrilineare à la Malinowski – non è dato in altri termini sapere se il
signor Michel arrivi da un gruppo akan matrilineare o patrilineare8 –
prima di ogni altro commento è bene sottolineare che è difficile indicare
chi sia l’“autore” del documento sopra riportato. Il testo è la trascrizione
di una perizia psichiatrica, ma il medico che l’ha redatta ha ripreso, let-
teralmente parola per parola, l’articolo (Dah Ould 2011) pubblicato su
un libro curato da Maurizio Andolfi (2011), Il padre ritrovato. La perizia
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non esistono culture innocenti
non è altro che un “copia e incolla” del capitolo “Il padre nella cultura
tradizionale africana”, scritto appunto da Dah Ould (ivi: 2 ss.), salvo
introdurre uno psicologismo nel titolo del paragrafo (Il padre diventa La
figura paterna)9.
Estendere “qualità”, “attitudini”, “predisposizioni”, “valori” – gene-
rali e generalizzanti – all’africano/a è un’operazione discutibile sul piano
teorico e perniciosa da un punto di vista metodologico, perché la cultu-
ra dell’altro rischia di essere banalizzata e sezionata attraverso categorie
di pensiero “astratte” e “generalizzate”, che non dicono necessariamente
il falso (un uomo ivoriano akan è certo africano come lo è un uomo ni-
geriano edo o un ragazzo senegalese lebou); semplicemente non dicono
abbastanza. Questa forse è la prima lezione di antropologia, che qualun-
que studente impara seguendo un qualunque corso introduttivo. Queste
descrizioni non dicono nulla né delle appartenenze simboliche e sociali di
genitori (e figli), né delle alterazioni o alienazioni a cui la migrazione ha
sottoposto questi genitori, né delle scelte obbligate operate in seno alle
società in cui si è abitato e si abita.
Cosa significa che “rispetto al modello culturale, il Sig. M. mostra del-
le lacune poiché non sostiene sul piano dell’accudimento il bambino”? È
perché non ha organizzato eventi pubblici o feste? Se il padre nella cultu-
ra africana non è accudente, come trascrive il perito, aderendo in modo
acritico al modello proposto, è legittimo chiedersi: cosa ci si aspettava da
questo padre?
Se possiamo pensare che il lavoro di Dah Ould non sia antropologica-
mente significativo – la sua resta una sorta di testimonianza delle sue espe-
rienze di vita, una descrizione senza pretese al pari di altri récit de voyage
o diari più o meno autobiografici – è significativo l’uso che ne viene fatto,
e non possono lasciare indifferenti le conseguenze di una simile scrittura
dell’Altro.
Gli antropologi dovrebbero essere vigili su come viene usata da parte
di altri professionisti la “cultura” degli Altri? O la difesa di un territo-
rio disciplinare rischia di esporci a quanto più temiamo, che non è tanto
l’accusa di relativismo, quanto quella di reificare la nozione che fonda il
nostro stesso sapere? Siamo tra i pochi ricercatori delle scienze umane e
sociali ad avere un oggetto di studio così camaleontico, così sfuggente,
così altamente imbarazzante che ci ha paralizzato. La domanda relativa al
cosa si sarebbe potuto/dovuto dire in sede peritale circa la personalità e
genitorialità di un padre ivoriano akan è subordinata qui alla questione su
chi avrebbe potuto o dovuto parlare. Chi può definire?
Non è forte la tentazione di rispondere che neanche un antropologo
avrebbe potuto dire nulla? Ricordo il no, grazie di Unni Wikan (1999),
quando esplicitava nel lavoro Generous Betrayal le risposte che dava
simona taliani
a quegli avvocati che le chiedevano di parlare della cultura iraniana in
un’aula di Tribunale, evocando la bella metafora di una cultura ormai lo-
ose in the street, che se ne va, letteralmente, a briglie sciolte per strada.
Dovremmo assumerci una qualche responsabilità – quando si tratta di
decidere della vita degli Altri – o possiamo solo limitarci a dire che la cul-
tura akan non esiste se non in modo già contaminato e sempre meticcio?
Disponiamo o no di un solido capitale culturale per poter suggerire agli
altri nostri simili (professionisti ed esponenti di un sapere umano e sociale
limitrofo al nostro: psicologi, psichiatri, avvocati, giudici) che le domande
andrebbero altrimenti poste e le risposte non dovrebbero mai essere così
tanto banalizzate.
Se esaminiamo approfonditamente un contesto preciso, come quel-
lo della Regione Piemonte, ci rendiamo conto che sulle linee guida pub-
blicate nel Bollettino n. del gennaio 2010 veniva scritto che quando
uno dei due conviventi, genitori del minore, fosse stato straniero sareb-
be stato necessario, ai fini valutativi, ricostruire il modello “antropolo-
gico-culturale” della famiglia. Chi si pensava di incaricare per questo
lavoro?
Prima di tentare di dare una risposta a questa domanda, riportiamo
ancora alcuni passaggi dei documenti utilizzati in sede peritale, per resti-
tuire al signor Michel quell’umanità che gli è stata negata nel testo della
perizia e nella sentenza del Tribunale; un’umanità che invece riesce ancora
a trasparire nel linguaggio, burocratico e distaccato, dell’osservatore in
quegli spazi angusti che sono i luoghi neutri. Guardiamolo per un istante,
quest’uomo, muoversi insieme a suo figlio, nelle sue relazioni più intime
e private, costrette a esprimersi al cospetto di un educatore attento a regi-
strare ogni piccolo dettaglio, ogni minuto gesto10.
Monitoraggio in Luogo Neutro, osservazioni dell’educatore che è presente agli
incontri.
2013
Il sig. M. si presenta puntuale e ben vestito. Si dirige verso il figlio che è ancora
seduto sul seggiolino, lo sgancia, lo prende in braccio per salutarlo. All’interno
del Luogo neutro sveste il bambino appoggiandolo sul fasciatoio. Per una buona
parte del tempo mette il bambino su un tappetino e lo fa giocare con dei giochi
presenti nella stanza e sollecitandolo e stimolandolo verbalmente. Il bambino fa
“versetti” e lallazioni, il padre gli risponde e cerca di stimolarlo.
2013
Il sig. M. si è presentato puntuale all’incontro e vestito in modo adeguato. Ha
salutato l’educatore e si è diretto verso il bimbo che ha salutato affettuosamente,
Nel Luogo neutro ha giocato con il bimbo stimolandolo verbalmente e fisicamen-
te. Si è poi informato sulla salute del bimbo. “Lo sento che respira male, sta pren-
dendo le medicine?” Il sig. M. ha poi chiesto con tono amichevole all’educatore
non esistono culture innocenti
se voleva andare al bar a bere un caffè, l’educatore ha risposto negativamente,
sottolineando che avrebbe dovuto utilizzare l’ora a disposizione per stare con
il bimbo. Al termine dell’incontro il sig. M. ha controllato il pannolino che era
pulito. Ha poi vestito accuratamente il bambino e lo ha portato sul seggiolino
dell’auto. Il sig. M. ha salutato affettuosamente il figlio.
2013
[Sempre puntuale e ben vestito]… gli parla (in francese); gli dice che lui è furbo,
è un bambino furbo che diventerà grande e farà il capo.
Il sig. M. chiama il figlio [con il nome francese] per tutto l’incontro e tende a par-
largli in francese (come al solito). «C’est qui? Bonjour madame, bonjour petit» Dice al
figlio che lui deve parlare italiano e francese. «Bonjour, mon petit. Petit, mon coeur».
2012
… ha continuato a scherzare con il bambino poi ha chiesto ridendo se mangiasse
la pasta e ha continuato dicendo al bambino «No, eh, che poi cresci troppo, devi
mangiare africano, e devi anche parlare francese e italiano» Lo ha ribadito più di
una volta durante l’incontro.
Quello che è dato dunque sapere ad oggi è che l’uomo si è sempre
presentato puntuale agli incontri con il bambino (percorreva 126 km
alla settimana per raggiungere il luogo degli incontri); sempre “adegua-
to” nell’abbigliamento (curato, pulito, ordinato, sportivo); nel modo di
prenderlo in braccio e farlo uscire dalla macchina; nel modo di appog-
giarlo sul fasciatoio (ma lento nel modo di cambiargli il pannolino); nel
modo di lallare con lui e fare versetti; nel modo di giocare con lui sul
tappeto; nel modo di rivolgersi al bambino; nel modo di cullarlo, coc-
colarlo e farlo addormentare tra le sue braccia; nel modo di riposizio-
narlo in macchina, allacciando le cinture di sicurezza del seggiolino; nel
modo di salutarlo e salutare l’educatore, e di seguire “con lo sguardo la
macchina che si allontana”… Su venticinque relazioni, redatte nell’arco
di sette mesi, tutte esordiscono sulla puntualità e l’abbigliamento del
signore (solo in un caso arriva alle 16:10 invece che alle 16:00 «senza
scusarsi e motivare il ritardo»). Quando il padre insiste nel chiamare il
figlio con il nome francese o nel parlargli in francese, questi elementi
non fanno che confermare la sua consapevolezza del ruolo affettivo che
si instaura nella relazione: un padre può trasmettere i contenuti emotivi
al proprio figlio solo parlando la lingua che conosce meglio (in questo
caso il francese, sebbene non sia la sua lingua materna).
Come risponde il bambino?
2012
Durante tutto l’incontro il sig. ha tenuto in braccio il bambino e non ha man-
cato di farlo divertire, non utilizzando i giocattoli a disposizione ma parlando-
gli molto e interagendo in modo adeguato e ricevendo risposte dal bambino
divertito.
6
simona taliani
Il bambino si è svegliato e gli ha risposto con dei gridolini, ridendo.
Il sig. spesso ha asciugato le “bavette” del bambino… Il bambino si è addor-
mentato tra le braccia del papà. [Il bambino ha qui sette mesi]
Il bambino si sveglia spaventato e piange. Il papà lo ha tranquillizzato facendogli
delle coccole, coprendolo con la coperta e chiamandolo per nome, dopo un po-
chino il bimbo si è tranquillizzato.
Il bambino sorrideva al papà e sembrava incuriosito dai giochi proposti.
Le conclusioni della perizia redatta dal medico-psichiatra non lasciano
però scampo a questo padre: «Le competenze genitoriali del padre sono
pressoché nulle, se non in modalità di gioco, sintonizzandosi sulle parti di
bebè del bambino, ma senza possibilità di evoluzione» (vale la pena ricor-
dare che il bambino ha tre mesi quando incontra per la prima volta il papà
nel luogo neutro e ne avrà circa dieci quando vengono sospesi gli incontri:
resta un mistero per me che scrivo capire quali siano le “parti bebè” di un
neonato di tre mesi, di quattro mesi… di dieci mesi). Il padre viene rite-
nuto incapace di introdurre delle variazioni nel corso degli incontri, che si
ripetono identici nel tempo: «Non è possibile ipotizzare un progetto che
faccia maturare funzioni genitoriali».
Per i giudici della Corte d’appello – a cui il padre e la madre avevano
fatto ricorso contro la decisione del Tribunale per i minorenni di dare in
adozione il figlio – le ipotesi di un mantenimento del legame padre-figlio
proposte dall’avvocato del signore sono state ritenute irrealizzabili, per
l’inadeguatezza genitoriale e l’irresponsabilità della coppia ad occuparsi
del minore. La risposta dei giudici di Corte è in proposito inequivocabile
(pp. 11-2 della sentenza):
Ritiene la Corte che, innanzitutto, sia da rilevarsi come la ctu [Consulente tecnico
d’ufficio, perito incaricato dal Tribunale, N.d.A.] debba considerarsi immune dalle
censure che alla stessa (segnatamente da parte del signor M.) sono state mosse […]
Esaminata all’odierna udienza, infatti, il dott. xx, non solo ha dato giustifica-
zione delle modalità di effettuazione della consulenza (ridotto numero di colloqui
con il padre e la madre del bambino, mancata osservazione diretta degli incontri
padre-bambino, mancata somministrazione di test proiettivi…) ma ha anche dato
ampiamente conto di come ella abbia tratto validi elementi di giudizio proprio
dalle situazioni contingenti che lo costrinsero ad adottare tali modalità operative
(“non ho visto il sig. M. più di due volte, perché non parla italiano; ho video-
registrato i colloqui anche per dare atto della sua incapacità di parlare pure in
francese”). […]
adr [a domanda risponde]: “I contenuti dei colloqui erano molto poveri e
non descrivevano in modo articolato la sua quotidianità. Ho richiesto per iscritto
che portasse gli esami clinici, a fronte del suo problema di salute, che non mi
ha mai portato. Al secondo colloquio mi ha portato dei chiarimenti del medico
curante”.
7
non esistono culture innocenti
[…]
adr: “Sì, è possibile fare una valutazione delle capacità genitoriali dell’appel-
lante senza bisogno di osservare il concreto rapporto padre-bambino, in quanto
ho da subito ravvisato la carenza della funzione predittiva, cioè della capacità
dell’adulto – padre responsabile – di progettare una vita per sé e per il figlio. Mi
sono basato sulle relazioni acquisite e ho rilevato che il sig. M. non è in grado di
badare a se stesso, ha una grave patologia scompensata. Lui stesso non sapeva
dire che cura facesse. Il positivo andamento dei ln, che prende in esame solo
la funzione ludica è solo un segmento della relazione padre-figlio, non dà conto
dell’aspetto di responsabilità di cui ho parlato”.
Il perito viene chiamato in causa perché possa approfondire una situazio-
ne ritenuta complessa, rispetto alla quale la camera di consiglio o la corte
ritengono di non poter decidere nel migliore interesse del minore. Che
questo signore parlasse in modo elementare l’italiano o un francese non
accademico si evince dalla documentazione già agli atti, perché dunque
video-registrarlo (sembra un uso della registrazione difensivo e dimostra-
tivo, non finalizzato ad alcun approfondimento)? Avendolo incontrato
personalmente più volte posso dire che il francese parlato dal signor Mi-
chel è quello diffuso nel mercato linguistico ivoriano: comprensibile, una
volta fatto l’orecchio ad una pronuncia diversa da quella attesa.
Ci si potrebbe chiedere poi perché il perito usi il dispositivo dell’inter-
pretariato, e non quello della mediazione culturale: perché a fronte delle
prime difficoltà, non chieda cioè autorizzazione al Tribunale per indivi-
duare un mediatore africano francofono (sarebbe stato sufficiente per non
arrivare a delle controvertibili e ridicole conclusioni sulla padronanza del
francese, per esempio). La perizia sembrerebbe orientata più a dimostrare
le incapacità del signore, che non a metterlo nelle condizioni per esprime-
re al meglio le sue potenzialità.
Il perito chiede per iscritto degli esami clinici e asserisce che non ven-
gono mai portati: avendo due colloqui a disposizione, sarebbe più corret-
to dire che al secondo colloquio il signor Michel porta dei chiarimenti del
medico curante. Se anche è vero che non ha mai portato gli esami clinici,
il signor Michel si reca dal suo medico perché egli scriva, da “collega”
capace di riferire ad un altro “collega”, quanto necessario rispetto alla sua
grave patologia (il diabete). Non sembra il comportamento di una persona
disinteressata, né di qualcuno non collaborativo (aggettivi spesso usati in
sede di perizia medico-psichiatrica).
Il perito non ritiene di dover osservare direttamente la relazione
padre-figlio; ancora una volta non approfondisce perché ravvisa da su-
bito – ma non si capisce come: leggendo quali relazioni? A partire da
quali atti? – la carenza della funzione predittiva che dovrebbe avere ogni
buon padre responsabile…
8
simona taliani
Il piccolo è dunque ritenuto dalla Corte purtroppo in stato di abbandono,
perché il padre mostra totale «incapacità a pianificare la propria vita […] an-
che dalla riferita, inammissibile trascuratezza nel “fronteggiare” una patologia
tanto grave, quale il diabete» (ctu, Archivio Centro Fanon, 2013) e perché,
«nel complesso, appare come una persona capace e scaltra nel porre se stes-
so in una luce favorevole, negando così le sue oggettive difficoltà e limiti. La
prognosi è sfavorevole e il bambino si trova in una condizione di alto rischio»
(Relazione dei servizi socio-assistenziali, Archivio Centro Fanon, 2013).
Regimi di famiglia
(come non buttare il bambino con l’acqua sporca)
Nel momento in cui la potestà genitoriale è diventata, nelle nostre società
democratiche, monopolio di Stato, si è istituito un regime di famiglia fon-
dato sulla revoca del rapporto biologico motivata da ragioni cliniche e/o
sociali. Lo Stato manifesta il suo potere di demiurgo attraverso i propri
organi, le proprie istituzioni: i servizi socio-assistenziali, quelli di neurop-
sichiatria infantile e i centri di salute mentale dove vengono redatte le
relazioni (personalità, capacità genitoriali, situazione socio-economica).
Una famiglia viene dis-fatta e una nuova famiglia fatta.
Accade così che, nelle voci di questi genitori immigrati, l’istinto ma-
terno (ma anche quello paterno) prenda corpo come contrappunto: nel
momento in cui provano a difendere il rapporto con i propri figli, è
spesso nell’asserzione di una nuda proprietà biologica o di una riaffer-
mazione del loro ruolo fisiologico che articolano le loro grida11. Sono
genitori senza molti argomenti, che ci lasciano senza argomenti. Il signor
Michel non va molto in là nelle sue argomentazioni sul perché insista a
voler mantenere un legame con suo figlio, neanche quando parliamo
scioltamente in francese: «andrò avanti per mio figlio, non mi fermo
perché è mio figlio». Rimbomba alla fine un unico significante rafforzato
da quell’aggettivo possessivo che da sempre ha contraddistinto l’istituto
materno e paterno: «è mio», «è mia». Mi chiedo cosa si potrebbe dire
d’altro: cosa ci aspettiamo che l’altro dica per ravvisare che ci sono gli
elementi di una genitorialità consapevole e responsabile, capace di pre-
dire e progettare?
Cosa avrebbe potuto dire quest’uomo per non cadere nell’etichetta
morale della “scaltrezza” (rigurgiti di un vocabolario che puzza di stan-
tio), né in quella diagnostica della mancanza e del deficit (di una qualche
capacità o competenza essenziale per la genitorialità)?
Nei provvedimenti dei Tribunali tutto si rovescia di segno, arbitra-
riamente e impunemente. Riporto qui l’ultima sentenza che mi è arrivata
qualche settimana fa (Archivio Centro Fanon, 201), insieme al messaggio
9
non esistono culture innocenti
sms del collega perito con cui avevo collaborato: «Ho letto la sentenza,
sono sotto choc».
In questo caso, siamo al cospetto di due genitori rumeni (il padre rom
“metà-metà”, come lui stesso dice in più di un’occasione) che da cinque
anni non hanno più la loro bambina a casa; e che hanno subito già tre
perizie, due a loro favore (nel senso che ben due periti chiedono nelle
loro conclusioni un graduale riavvicinamento della figlia all’intero nucleo
d’origine: madre, padre, sorella e due fratelli)12. Negli ultimi due anni,
dopo che la Corte d’appello aveva disposto il graduale riavvicinamento
della bambina al nucleo familiare naturale, gli operatori dei servizi – che
non hanno mai fatto nulla per rendere operativa la sentenza – iniziarono
una campagna educativa feroce, assillante: quella madre e quel padre, per
dimostrare di essere genitori responsabili e attenti ai bisogni della minore,
dovevano capire che la bambina stava ormai bene presso gli affidatari,
farla tornare da loro avrebbe significato farla soffrire. Educatori, assistenti
sociali, psicologi… tutti convergevano nel costringerli a ripensare la loro
modalità di essere genitori, incontro dopo incontro. Nella lacerazione che
ho visto sotto i miei occhi – di una padre e una madre che dicevano:
«Dobbiamo pensarci… non è facile, per noi non è facile» – alla fine la
resa: anche il padre, piangendo, si era convinto che la sua bambina stava
bene nell’altra famiglia. A questo punto, i genitori chiedevano soltanto che
non venisse reciso il legame, che la bambina potesse tornare a trascorrere
almeno una giornata a casa durante la settimana, per stare con i fratelli e
la famiglia tutta.
Scrive invece il giudice estensore: «Peraltro, gli stessi genitori non pa-
iono avere ambizioni a svolgere un ruolo genitoriale, bensì avanzano richie-
ste solo nel senso che sia consentito di mantenere loro un rapporto con
la figlia» (corsivi miei). L’affondo arriva puntuale, dopo qualche riga e in
forma perversa, perché si riportano distorcendole le parole della madre
raccolte da un’educatrice. Si scalzano su due piedi le conclusioni del pe-
rito che aveva chiesto un graduale riavvicinamento della bambina alla sua
famiglia, e si cancellano le parole dette dai genitori.
La madre, in un colloquio con l’educatrice, le ha riferito di “aver capito che la
bambina non può tornare a vivere con loro, che lei sa che gli affidatari la trattano
bene e che le danno tutto quello di cui ha bisogno. Ha poi aggiunto che è sicura
che gli affidatari vogliono bene alla figlia, e che per lei è sufficiente sapere che sta
bene e vederla ogni tanto”.
La pseudo-oggettività della frase «in un colloquio con l’educatrice» è fin
troppo facile da svelare. Quando? Dove? Quale educatrice? Era stato
esplicitato che si trattava di un “colloquio”. O era forse una conversazio-
ne dopo l’incontro in luogo neutro, quando i genitori sono sempre usciti
60
simona taliani
distrutti dalla stanza, alla vista della loro bambina che lentamente si
allontanava per tornare dai “genitori affidatari”, dovendo attendere un
nuovo mese per rivederla? Si rivela per intero la faziosità della scena e
della scrittura. In queste poche parole si palesa la malafede del metodo:
la sig.ra Mariana (pseudonimo) non si esprime in questo modo, non
parla così in italiano; queste non sono parole sue. Per lei non è suffi-
ciente sapere che la bambina stia bene; per lei non è sufficiente vederla
ogni tanto. Così parlano questi genitori spossessati, quando si riportano
correttamente le loro parole.
Noi non conosciamo la famiglia [affidataria, N.d.A.] ma nostra figlia ci sta bene,
noi non chiediamo che torna a casa perché non abbiamo una casa, magari più
avanti, quando saremo sistemati, perché non vogliamo farla soffrire… vogliamo
nostra figlia felice.
Il padre (tradotto dalla moglie aggiunge) “non voglio vedere mia figlia una
volta al mese… non vogliamo fare problemi per non renderla felice. Non voglia-
mo portarla in campo. Lei è cresciuta in una casa, nemmeno vogliamo che venga a
vederci in un campo, ma in una casa. Quando avremo una casa per lei, la bambina
potrà decidere se stare delle ore a casa nostra… […]
È mia figlia, voglio che stia bene, non posso dire io ti prendo per forza, non
sono d’accordo [di poterla incontrare solo una volta al mese] per un’ora, voglio
conoscere la famiglia e che la famiglia mi conosca. Non posso forzare la bambina,
stai con papà o con mamma. Ma non un’ora e mezza. Questo non lo voglio” (pas-
saggi tratti dalla perizia, 201).
Nel caso di Michel si è usata la “sua cultura africana” – o meglio, una
cultura africana costruita a tavolino e con una certa superficialità di analisi
– per evidenziare delle inadeguatezze genitoriali non altrimenti dimostra-
bili (dal momento che quel padre è risultato sempre “adeguato” con il
bambino e non ha in alcun modo danneggiato la sua crescita); nel caso di
questa famiglia rumena rom “metà-metà” si è abusato del tentativo della
coppia di aderire alle richieste della “nostra cultura” (istituzionale) che le
domandava una rinuncia difficile da accettare (far crescere la loro figlia
più piccola in una famiglia affidataria italiana) contro ogni evidenza giuri-
dica (dal momento che una sentenza della Corte d’Appello aveva stabilito
il graduale ritorno a casa della piccola).
Suonano per certi versi imbarazzanti, eppur ancora oggi vere e pro-
vocatorie, le conclusioni di quel Bronisław Malinowski, che mai aveva
lavorato in Africa, ma a cui si “ispira” il medico-psichiatra per le sue con-
clusioni sul padre ivoriano, che scelgo a chiosa di queste prime e ancora
acerbe riflessioni per un’antropologia impegnata:
Il cosiddetto selvaggio è sempre stato un giocattolo per l’uomo civilizzato – in
pratica un soggetto da sfruttare, in teoria una fonte di brividi sensazionali. I sel-
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non esistono culture innocenti
vaggi sono stati, per il pubblico dei lettori degli ultimi tre secoli, una riserva di
possibilità impreviste nella natura umana, e il selvaggio è servito per adornare
questa o quella ipotesi a priori, diventando crudele o nobile, licenzioso o casto,
cannibalesco o umano a seconda dell’osservatore e della teoria.
In realtà, il selvaggio che abbiamo conosciuto nella Melanesia non corrispon-
de a nessuna fotografia in bianco e nero, scattata nell’ombra o in pieno sole.
La sua vita è ben equilibrata, la sua moralità è più o meno allo stesso livello di
quella di un europeo medio – almeno se i costumi di quest’ultimo fossero descritti
altrettanto francamente come quelli dei trobriandesi (Malinowski [1929] 200:
39; corsivi miei).
La metafora del “giocattolo”, proposta da Malinowski quasi un secolo fa,
ci obbliga a tenere come antropologi uno sguardo strabico sulle “culture”,
affinché i nostri costumi siano altrettanto francamente descritti in tutta la
loro ambivalenza e violenza al pari di quelli degli Altri. Sento l’urgenza di
un’antropologia in grado di spingere gli altri ambiti disciplinari (se ha sen-
so porre la questione in questi termini) e soprattutto certe Istituzioni ad
usare la nozione di cultura, senza abusarla, saccheggiarla, sciommiottarla,
ridicolizzarla; e ad interpellare un antropologo, se il quesito è attinente
all’ambito antropologico-culturale. Ritengo che a questa interpellazione (in
senso althusseriano) gli antropologi debbano infine voltarsi sviluppando,
ogniqualvolta sia possibile, un doppio discorso.
Note
1. Già nel 1919 venivano pubblicate su “Man” alcune descrizioni sui culti dei gemelli in
area Igbo. In queste “note nigeriane”, Thomas (1919) estendeva la pratica dell’uccisione dei
gemelli anche ad aree limitrofe a quelle degli Igbo, riportando tra gli altri i culti degli Edo.
Cfr. più recentemente Chappel (197: 20) e Renne (2001). Cfr. anche Schapera (1927) e Leis
(196), che analizzano le pratiche d’infanticidio in Sud Africa.
2. Riprendo qui il titolo di un lavoro molto suggestivo di Tristan Platt (2001), che riper-
corre le pratiche dell’infanzia a Potosí, in Bolivia. Platt analizza in particolare l’espressione
locale diablos gentiles per nominare i feti (ritenuti esseri “aggressivi” perché non ancora
battezzati).
3. Nel 196, solo a considerare l’area sud-orientale dell’Inghilterra, 1.73 bambini nige-
riani erano alloggiati in famiglie inglesi, con il pagamento di una retta da parte dei genitori
biologici; nel 197, dei 10.000 bambini dati in affidamento, con un accordo privato tra le
famiglie, 6.000 erano africani.
. Lo scandalo della morte di 18 bambini nelle famiglia affidatarie, tra il 1961 e il 196,
contribuì di certo a valutare con maggiore rigidità queste forme di affidamento concordato
(Bailkin 2009: 89 ss.).
. I luoghi neutri sono quegli spazi deputati all’osservazione e al supporto della relazio-
ne genitore-figlio. Questi incontri hanno una cadenza solitamente settimanale (di un’ora) e
sono monitorati da un operatore sociale incaricato dai servizi, il cui ruolo è principalmente
quello di descrivere la relazione genitori-figli. La funzione di osservazione e controllo ha
negli ultimi decenni sostituito quasi totalmente quella di supporto, che figurava invece tra
gli obiettivi centrali della loro costituzione; cfr. Saletti Salza (2013; 201); Beneduce (201).
62
simona taliani
6. Conduco ricerche con famiglie immigrate dal 200 (Taliani, Vacchiano 2006). Sto oggi
sviluppando due diversi progetti di ricerca che hanno come tema la valutazione delle capacità
genitoriali quando il nucleo familiare è straniero: “Il rovescio della migrazione. Un’analisi com-
parativa su tutela e diritto alla salute” (fei 2013 prog 10189) e “Infanzie contese: i bambini e le
politiche della cultura” (Fondi d’Ateneo 201-1). I fascicoli delle famiglie di cui parlo in questo
articolo sono contenuti nell’archivio che il gruppo di ricerca, coordinato da Roberto Beneduce,
sta costruendo per il Progetto FEI 2013 “Il rovescio della migrazione”. Svolgo le mie ricerche
presso il Centro Frantz Fanon di Torino, presso altri Centri di salute mentale del Nord Italia
(Piemonte e Emilia-Romagna) e attraverso i contatti instaurati con avvocati dell’asgi (Associa-
zione Studi Giuridici sull’Immigrazione) sia di Roma che di Torino.
7. La madre del bambino era già andata incontro ad un fallimento genitoriale con il
primo figlio, ora maggiorenne, che da adolescente aveva deciso di tornare a vivere con il
padre. Con il Signor Michel si erano verificate tensioni intorno ad alcune questioni (prin-
cipalmente economiche), che avevano spinto la donna ad allontanarsi dal compagno. Oggi
il nucleo si è ricomposto: i due vivono insieme in una casa popolare e il signor Michel ha
trovato una collocazione lavorativa che può garantire un sostentamento per entrambi.
8. Se la maggior parte dei gruppi di parentela akan sono strutturati secondo principi di
successione matrilineare, la successione patrilineare è anch’essa presente in gruppi specifici
o per quanto attiene a cariche particolari. La parentela in sé (e al di là dei meccanismi di
successione) riconosce poi sia principi di filiazione matrilineari che patrilineari. Per questo
si può parlare di bilinearità per quanto attiene ai gruppi akan. Alcuni gruppi akan-baoulé
della Costa d’Avorio sono specificamente patrilineari (Dino Cutolo, comunicazioni perso-
nali). Cfr. Cutolo (200, 2007).
9. Hanno contribuito a queste riflessioni diversi colleghi che qui ringrazio: Roberto
Beneduce, Dino Cutolo, Simonetta Grilli, Alessandro Gusman, Fabio Mugnaini.
10. Il materiale che qui si riporta è estrapolato dalle relazioni di aggiornamento che i
servizi socio-assistenziali hanno prodotto e depositato in Tribunale. Gli originali mi sono
stati consegnati dal Signor Michel, che tramite il suo avvocato ha avuto accesso al “fascico-
lo”. In particolare, qui si tratta delle osservazioni fatte da un educatore durante gli incontri
in luogo neutro (cfr. nota ). I documenti qui citati non sono stati inseriti nella perizia,
perché il medico-psichiatra incaricato dal Tribunale non ha ritenuto significative queste
relazioni ai fini della valutazione della relazione padre-figlio. Le relazioni sono comunque
pervenute al giudice e alla camera di consiglio, tramite i servizi territoriali.
11. Disorientante resta l’urlo di alcune madri nigeriane, capaci di dire l’indicibile: «È
uscito dalla mia vagina. È mio» o «L’ho fatta io, l’ho tenuta io nove mesi nel mio ventre,
sarà sempre mia».
12. Scrive l’ultimo perito, iniziando con una certa timidezza ma concludendo in modo riso-
luto: «Pare […] di potersi ritenere che [la bambina] potesse essere restituita loro, certamente
con i sostegni necessari, a suo tempo, se il dispiegarsi delle vicende non avesse creato tante
perdite di informazioni, travisamenti e tanti giudizi clinici parziali o distanti dagli elementi
presenti o contraddittori con essi […] che allo stato ahimè non risultano più rimediabili, nella
misura in cui, già smentiti dalla seconda ctu e accolti dalla Corte d’Appello, non hanno avuto il
potere di rimettere a posto le cose in tempo utile» (201, relazione del perito del Tribunale: ).
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Riassunto
Sebbene l’antropologia si sia occupata tardivamente dei bambini, oggi questi
piccoli soggetti sono finalmente collocati nello spazio che spetta loro di dirit-
to: al crocevia tra il pubblico e il privato, il politico e il personale, tra lo Stato
e l’“istinto materno”. Nelle storie di adozione dei figli degli immigrati vanno
prese in considerazione le estetiche e le tecniche del corpo presenti nelle famiglie
– l’eccesso di melanina (per riprendere l’espressione di Fanon) o il body odor
(per usare le parole delle madri nigeriane) – ma emerge anche un uso superfi-
ciale della nozione di “cultura” nelle istituzioni deputate alla tutela e alla cura
dell’infanzia. L’articolo vuole sviluppare quest’ultimo profilo, analizzando quegli
impensati sociali dello Stato-nazione borghese per quanto attiene alle tecnolo-
gie della cittadinanza e della genitorialità imposte ai vari subalterni (minoranze,
immigrati, rifugiati, meticci), in una perturbante continuità con quanto già acca-
duto nelle colonie e, ancor prima, durante la nascita stessa degli Stati moderni e
delle cosiddette famiglie postcoloniali. Come si costruisce un bambino adottabile
quando figlio di genitori immigrati? Sembra emergere qui per intero una forma
di incorporazione “democratica” di questi bambini in seno allo Stato italiano e
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non esistono culture innocenti
alle sue “buone famiglie” una volta costruita ad hoc la loro alterità nazionale, so-
ciale e culturale rispetto ai loro genitori (non sufficientemente buoni). La cultura
di questi genitori – qualunque cosa voglia dire l’espressione – viene stereotipa-
ta attraverso un discorso pseudo-scientifico costruito su categorie bio-mediche e
socio-giuridiche usate in malafede. L’articolo intende interrogare un campo di-
sciplinare, l’antropologia, per comprendere se sia possibile spingere verso una
nuova consapevolezza gli Altri (psicologi, educatori, assistenti sociali ecc.). Come
gli antropologi possono usare il loro capitale culturale per consolidare i pilastri di
un’antropologia impegnata?
Parole chiave: migrazione, legami familiari, adozione, infanzia, parentele dispos-
sessate, antropologia impegnata.
Abstract
Although anthropology has been slow to take children into account, these small
subjects are at long last being located in a space that is theirs by right: at the cross-
roads between public and private, the political and the personal, between the State
and the “maternal instinct”. When considering adoption of immigrant children,
aesthetics and techniques of the body cannot be ignored – the “excess of melanin”
(in Frantz Fanon’s words) or differences in “body odour” (as many Nigerian moth-
ers say). But a depthless use of the notion of culture at work in public institutions
involved in the protection and care of children also must be considered and the
aim of this article is to analyse this latter. In my research I seek to reveal the social
assumptions of a bourgeois state buried within policies on childhood with refer-
ence to technologies of citizenship and parenting imposed upon various subaltern
groups (minorities and immigrants). This happens, I argue, in striking continuity
with conditions found in European colonies, and with conditions observed during
the origin and consolidation of modern states and postcolonial families. How do
you make an adoptable child from the offspring of immigrant parents? A form
of “democratic” incorporation of these children into the Italian state, and into its
“good families” seems to emerge here. This is done after purposefully constructing
their Otherness (in terms of national, social and cultural development) from their
parents (construed as not good enough). The culture of these parents – whatever
that may mean – is stereotyped through a pseudo-scientific discourse into biomedi-
cal and socio-juridical categories. This article interrogates the disciplinary field of
anthropology, to understand whether it is possible to promote a new awareness of
these Others (among professionals, social workers, lawyers and judges). As anthro-
pologists, how can we use our cultural capital for the consolidation of an embedded
anthropology?
Key words: migration, family ties, adoption, childhood, dispossesed kinships, em-
bedded anthropology.
Articolo ricevuto il 30 settembre 201; accettato in via definitiva per la pubblicazione il 2
novembre 201.