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The "Patrocleia" by Ruperto in Gerusalemme conquistata: The Homeric model and the rewriting of the Tasso poem

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Abstract

Example par excellence of rewriting, the reworking of Tasso's masterpiece leading to the Gerusalemme conquistata represents a fundamental literary question on which critical attention has been increasingly growing in the last few years. However, previous studies have always overlooked the core of the problem, that is the marked and pervasive rapprochement to the archetypal epic model, Homer's Iliad, where the sense of the rewriting lays. The present article takes thus into account in a comparative and intertextual perspective a central episode (significantly absent in the Liberata) within the reworked poem new structural arrangements, which deals with the deeds and death of the new character of Ruperto, constantly reading it in the light of Patroclus's episode hypotext (Iliad XVI) in order to detect its contribute to a new - not necessarily pejorative - meaning strategy. From the analysis emerges how the rewriting constitutes definitely not a mere flattening of the previous masterpiece on Iliad's text, but rather, though massive, a certainly not gratuitous reuse of the hypotext, always aimed at pursuing a clear and not banal meaning strategy. On the whole, such an awkward presence of the Iliadic model - also relevant for Homer's Renaissance fortune - can be explained not as a homage to the illustrious model but rather on the base of literary genres history considerations.
Maia 63 (2/2011) 330-365
LA “PATROCLEIA” DI RUPERTO
NELLA GERUSALEMME CONQUISTATA
Il modello omerico e la riscrittura del poema tassiano
Federico Di Santo
1. È sorprendente la facilità e la disinvoltura con cui talvolta il giudizio critico
di chi si rapporta all’opera d’arte in qualità di interprete intervenga a modificare
le scelte e la volontà dell’autore riguardo alla sua stessa creazione, persino quando
si abbia a che fare con dei capolavori assoluti e con i massimi geni artistici di tutti
i tempi. L’opinione di alcuni grandi direttori d’orchestra e musicologi – fra cui
nomi del calibro di Mahler e Adorno – che si dovesse tagliare il sestetto finale
nelle esecuzioni del Don Giovanni di Mozart, sulla base di criteri estetici – nean-
che molto condivisibili, a dire il vero – giustificati con il pretesto di un presunto
avallo del compositore ad omettere il brano nella rappresentazione viennese, ha
finito per dare legittimità alla questione se esso vada effettivamente eseguito o
meno. Simili operazioni, se dal punto di vista teorico devono essere considerate
delle ingerenze del tutto indebite nel campo dell’autorialità, non è detto però che
per questo portino sempre a risultati necessariamente negativi. Un caso ancora più
clamoroso, in quanto coinvolge la sorte di un’intera opera, in questo caso lettera-
ria, è quello del poema di Torquato Tasso sulla liberazione di Gerusalemme e del
Santo Sepolcro dall’occupazione musulmana. Appare come un fatto totalmente
scontato, oggi, che tutti leggano e considerino il capolavoro del poeta la Gerusa-
lemme Liberata, e non certo la successiva rielaborazione pubblicata col titolo di
Gerusalemme Conquistata. Ciò, tuttavia, avviene in aperto contrasto con la scelta
dell’autore, il quale voleva – sulla base di un giudizio di carattere essenzialmente
estetico – che la seconda versione del poema sostituisse la prima, e che fosse la
sola in cui lo si continuasse a leggere. Le cose non andarono però come il poeta si
auspicava: la Conquistata non ebbe il grande successo editoriale che aveva avuto
la Liberata, fu presto dimenticata e comunque sempre giudicata unanimemente
molto inferiore alla prima versione. E se il successo di pubblico è un dato di fatto,
perfettamente comprensibile, l’atteggiamento della critica che lo ha avallato e fa-
vorito, invece, anche quando lo si condivida nel risultato a cui ha dato esito, non è
affatto aproblematico. Scrive giustamente a questo riguardo Laura Benedetti:
«Qualora si consideri la Conquistata come una variante del poema del 1581, la preferenza
accordata da un giudizio secolare alla Liberata si configura come una singolare violazione
di un principio fondamentale della filologia, che decreta come testo base quello che rispec-
chia l’ultima volontà dell’autore. La posizione opposta, e più diffusa, fa rientrare la Libe-
rata e la Conquistata nella categoria delle redazioni plurime. […] Anche in questa prospet-
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tiva, il caso di Tasso rimane una singolare circostanza di mancato controllo di un autore
sulle proprie creature»1.
Di questo problema, tuttavia, la tradizione degli studi non sembra essersi af-
fatto preoccupata: si è consolidata la vulgata critica di considerare la Conquistata
con troppa facilità – un altro poema rispetto alla Liberata, e di poterla così rele-
gare sbrigativamente nel limbo delle opere minori, liquidandola con un giudizio
negativo tanto sommario quanto stereotipato sotto l’etichetta di un “ultimo Tasso”
inaridito nella sua vena poetica, ossessionato del tema religioso e ormai neppure
troppo padrone delle sue facoltà mentali. Poco convincenti i rari tentativi di qual-
che voce fuori dal coro, che ha tentato di riabilitare l’opera solo come reazione
polemica al tradizionale giudizio negativo, ma senza fornirne un vero approfon-
dimento critico; bisogna aspettare uno studioso del rilievo di G. Getto per avere
un giudizio più equilibrato, che non a caso si basa proprio sulla posizione secondo
cui «non è possibile leggere la Conquistata [...] considerandola, com’è stato sug-
gerito da qualcuno, opera nuova»2. È proprio sulla scorta di questa parziale riva-
lutazione di Getto e di pochi altri contributi fra cui soprattutto quello di A. Di Be-
nedetto3 che nel periodo a noi più vicino la Conquistata ha cominciato ad essere
studiata in modo più approfondito, con l’intento di evidenziare le sue specificità
rispetto alla Liberata, fino ad arrivare proprio in questi ultimi anni alla pubblica-
zione delle prime monografie dedicate interamente all’argomento4. Il principale
merito di questi lavori più recenti è appunto quello di aver intrapreso un’analisi
approfondita del poema riformato, la quale, senza rinunciare al tradizionale con-
fronto – in una certa misura imprescindibile – con la prima redazione, non è più
finalizzata a servire, nella migliore delle ipotesi, da mero strumento critico volto a
contribuire retrospettivamente alla «comprensione delle tensioni e i valori in gioco
nella Liberata»5, oppure, come accade ben più di frequente, ad evidenziare i co-
stanti peggioramenti che comprometterebbero l’impianto e l’equilibrio della Libe-
rata; essa è finalizzata, invece, ad esaminare i cambiamenti strutturali della riscrit-
tura, le novità a livello tematico e ideologico e insomma quegli elementi che ne
fanno quasi un’opera nuova, dotata di un’autonomia quantomeno parziale rispetto
al suo illustre ed ingombrante precedente.
Com’è noto, la revisione dell’opera è finalizzata, nel complesso, a conferirle
una fisionomia pienamente conforme all’idea di poema epico eroico, che pure,
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1 L. Benedetti, La vis abdita della Liberata e i suoi esiti nella Conquistata, «Lingua e stile» 30
(1995), p. 466.
2 G. Getto, Gerusalemme Conquistata, in AA.VV., Torquato Tasso. Atti del convegno di Fer-
rara, Milano 1958, p. 476, rielaborato da Id., Interpretazione del Tasso, Napoli 1951.
3 A. Di Benedetto, L’elaborazione della «Gerusalemme Conquistata», in Id., Tasso, minori e
minimi a Ferrara, Pisa 1970, pp. 105-149.
4 C. Gigante, «Vincer pariemi più sé stessa antica». La Gerusalemme Conquistata nel mondo
poetico di Torquato Tasso, Napoli 1996; M.T. Girardi, Tasso e la nuova «Gerusalemme». Studio
sulla “Conquistata” e sul “Giudicio”, Napoli 2002; M. Residori, L’idea del poema. Studio sulla Ge-
rusalemme Conquistata di Torquato Tasso, Pisa 2004.
5 L. Benedetti, La vis abdita della Liberata e i suoi esiti nella Conquistata, cit., p. 467.
332 Federico Di Santo
naturalmente, occupava un ruolo centrale nella speculazione teorica tassiana e
nella sua attuazione poetica già dai tempi dei giovanili Discorsi dell’arte poetica
e dell’elaborazione della Liberata: secondo la vulgata critica, la dialettica fra po-
larità epica e polarità romanzesca, che nella Liberata aveva trovato una eccellente
soluzione nell’accogliere il romanzo entro sistema epico attraverso la sua caratte-
rizzazione come errore, devianza da condannare e superare, eppure ricca di un suo
ambiguo fascino, nella Conquistata viene risolta del tutto a vantaggio dell’ele-
mento epico, che finisce per marginalizzare se non rimuovere quello romanzesco,
determinando così «la fine di un difficile equilibrio»6. Questa trasformazione si
attua in una serie di modifiche che interessano l’opera a tutti i livelli. Lasciando
da parte la pervasiva revisione stilistica, volta ad innalzare il livello dell’espres-
sione per conformarla alla “magnificenza” propria dello stile eroico, i cambia-
menti più vistosi e rilevanti sono senz’altro quelli che riguardano la struttura
complessiva e i suoi equilibri. Tale trasformazione strutturale è realizzata soprat-
tutto attraverso aggiunte nuove, concentrate in particolare nella parte finale del-
l’opera, che passa così da venti a ventiquattro canti aumentando complessiva-
mente di circa un terzo. La struttura ne risulta pertanto radicalmente modificata, e
secondo il giudizio pressoché unanime stravolta e rovinata: le parti nuove convi-
vono con quelle ereditate dalla Liberata senza che ci si curi della loro effettiva
compatibilità, sovvertendo – e secondo i più alterando irrimediabilmente – gli
equilibri del vecchio poema. La rielaborazione dell’opera si sviluppa principal-
mente su due grandi versanti, che si riflettono soprattutto nelle ampie aggiunte
della sezione finale del poema: da una parte assistiamo ad un massiccio apporto di
materiale biblico o comunque desunto da testi di carattere religioso, con l’intento
di un approfondimento della narrazione in senso allegorico; dall’altra ad una mar-
cata accentuazione del modello omerico, e in particolare iliadico, strettamente con-
nessa con l’irrigidimento in senso epico della Conquistata. Due autorevolissimi
modelli, dunque, – la Bibbia e l’Iliade – presiedono alla riscrittura del poema, de-
lineandone le due tendenze più rilevanti e pervasive: la prima vede la sua più
compiuta realizzazione nel sogno di Goffredo, che occupa per intero il XX libro;
la seconda determina la parte più cospicua delle aggiunte, dilatando vistosamente
la sezione finale del poema attraverso l’inserimento di una serie di scene di batta-
glia interamente modellate su materiale iliadico e disposte fra la metà del XVII li-
bro e la fine dell’opera. La valutazione negativa che da sempre accompagna la
Conquistata ha portato al paradossale risultato, negli studi critici, che proprio
queste grandi sezioni nuove fossero quelle meno considerate, dal momento che
non permettevano un diretto confronto con la Liberata, la quale restava sempre il
reale punto di riferimento, nell’intento di mettere in rilievo i suoi pregi in una
sorta di argomentazione e contrario. Soltanto i più recenti e approfonditi contri-
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6 Il riferimento è a un articolo di B. Porcelli, Dalla Liberata alla Conquistata, ovvero la fine di
un difficile equilibrio, «Studi e problemi di critica testuale» 36 (1988), pp. 115-138. Per il rapporto
fra epica e romanzo in Tasso si veda S. Zatti, L’ombra del Tasso. Epica e romanzo nel Cinquecento,
Milano 1996.
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 333
buti sulla Conquistata hanno iniziato ad analizzare realmente questa imponente
quantità di materiale nuovo, ma l’attenzione si è concentrata sulla tendenza all’al-
legoria e all’immagine biblica. Lo studio dell’omerizzazione del poema, invece, si
è risolto quasi esclusivamente in un confronto condotto a livello del sistema dei
personaggi nella loro evoluzione dalla Liberata alla Conquistata7, con il risultato
di banalizzare fortemente l’operazione compiuta dal Tasso: con un errore fre-
quente nella critica rinascimentalista, si è adeguato il nostro livello di analisi cri-
tica a quello, inevitabilmente più semplice e superficiale, della nascente critica
letteraria cinquecentesca, ricorrendo a categorie neo-aristoteliche come quella del
“carattere” (ethos) del tutto inadeguate a rendere conto dello spessore dei capola-
vori poetici coevi, quand’anche siano i poeti stessi a ragionare in base ad esse.
Se neppure gli studi più recenti riescono ad emanciparsi dalla generale con-
danna della Conquistata e dalla monocorde tendenza a sottolineare il suo carattere
peggiorativo rispetto al capolavoro, tanto più permangono i pregiudizi nei con-
fronti di un’imitazione omerica così pervasiva da mutare la fisionomia comples-
siva del poema, e tanto fedele all’ipotesto da ridursi a volte fin quasi alla tradu-
zione e al travestimento, avvicinando l’opera ai tanto vituperati tentativi di epica
“integrale” del Trissino e dell’Alamanni. Dietro simili giudizi semplificativi sem-
bra celarsi in realtà una sostanziale incomprensione delle motivazioni profonde
che inducono Tasso a riscrivere il suo capolavoro alla luce di Omero, a introdurre
un rapporto intertestuale tanto stretto ed evidente con un unico modello privilegia-
to. Naturalmente è del tutto lecito dare un giudizio negativo di tale operazione
letteraria, ma ciò dovrebbe risultare non dalla generica impressione derivata da un
superficiale raffronto con l’Iliade, e rassicurata dalla conformità ad una vulgata
critica sostanzialmente unanime, quanto piuttosto dal bilancio conclusivo, a po-
steriori, di un’analisi dettagliata del fenomeno, che non può che compiersi – a
differenza di quanto è stato fatto finora – su un piano strettamente testuale. Lo
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7 In ciò si è seguito, travisandolo, uno spunto fornito dal poeta stesso quando nel Giudicio
sovra la Gerusalemme riformata, a proposito del ricorso alla “imitazione d’Omero” nella riscrittu-
ra, conduce un preciso raffronto fra i personaggi della Conquistata e quelli dell’Iliade su cui sono
modellati. Fra gli studi sull’evoluzione dei personaggi nella riscrittura del poema ricordiamo: D.
Boillet, Clorinde, de la «Jérusalem délivrée» à la «Jérusalem Conquise», «Revue des Etudes Ita-
liennes» 42 (1996), pp. 7-53; D. Della Terza, Armida dalla «Liberata» alla «Conquistata». Genesi
ed evoluzione del personaggio, in Id. (ed.), Dal Rinaldo alla Gerusalemme. Il testo, la favola, Sor-
rento 1997, pp. 257-271; D. Foltran, Dalla «Liberata» alla «Conquistata». Intertestualità virgiliana
e omerica nel personaggio di Argante, «Studi Tassiani» 55-56 (1992-1993), pp. 89-134; C. Moli-
nari, Erminia e Nicea. Metamorfosi tassiane, in D. De Robertis - F. Gavazzeni (ed.), Operosa parva.
Studi offerti a Gianni Antonini, Verona 1996, pp. 189-196; L. Olini, Dalla «Gerusalemme Terrena»
alla «Gerusalemme Celeste». Rinaldo e Armida vs Armida e Riccardo, «Studi Tassiani» 33 (1985),
pp. 69-87; G. Picco, «Or s’indora or verdeggia». Il ritratto femminile dalla «Liberata» alla «Con-
quistata», Firenze 1996. Un’impostazione simile hanno anche il capitolo La parabola di Riccardo
in M.T. Girardi, Tasso e la nuova «Gerusalemme», cit., pp. 21-84 e le sezioni Riccardo e Achille e
La “Dolonea” di Vafrino in M. Residori, L’idea del poema, cit., pp. 201-234 e 235-252 (d’altronde
la tesi centrale di tutta la parte terza della monografia di Residori, dedicata al modello omerico, è
basata sul livello dei personaggi e dei “costumi”).
334 Federico Di Santo
stesso si può dire delle modifiche che il fenomeno determina a livello macrostrut-
turale: invece di continuare a ripetere come esse compromettano gli equilibri della
Liberata sarebbe opportuno esaminare se ne creano di nuovi8. Il mancato appro-
fondimento della questione spesso sembra anche originarsi, francamente, da una
carenza di strumenti esegetici appropriati nel confronto con un autore antico che
in genere esula dagli orizzonti di studio dell’italianistica, e con la cui sterminata
bibliografia critica è arduo rapportarsi anche per uno specialista. Indicativo è il
fatto che le rare citazioni dal testo dell’Iliade ricorrano di norma ad una più ma-
neggevole traduzione latina piuttosto che all’originale greco, dietro il pretesto per
cui il Tasso si sarebbe servito correntemente di traduzioni latine (quelle del Valla
e di Andrea Divo) per una certa difficoltà a rapportarsi con la lingua greca9: viene
da chiedersi se tale difficoltà non riguardi piuttosto chi sostiene questa ipotesi.
Una più equilibrata valutazione della Conquistata non può dunque prescindere da
un esame approfondito e dettagliato delle modalità in cui l’imitazione omerica si
realizza effettivamente a livello testuale – o meglio intertestuale –, e in tal senso
intende muovere la breve analisi che sarà proposta nel presente studio, prendendo
in esame un episodio centrale nei nuovi equilibri strutturali del poema riformato,
una di quelle aggiunte di carattere bellico strettamente modellate su scene iliadi-
che che si concentrano nella sezione finale dell’opera e che la critica ha sempre
trascurato. La scelta ricade volontariamente proprio su una sequenza che non ha
alcun corrispettivo nella Liberata, per cercare di mettere in luce le specificità del
rapporto intertestuale con Omero senza dover necessariamente passare per il tra-
mite del confronto con la precedente versione del poema. L’omerizzazione nella
riscrittura è il risultato di una riflessione teorica a lungo meditata e altamente con-
sapevole da parte di un grande poeta che non ha affatto perso la lucidità nella va-
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8 Su tali modifiche macrostrutturali nella riscrittura, cfr. l’articolo di B. Porcelli, Dalla Li-
berata alla Conquistata, cit.
9 L’afflato filologico che porta a voler citare il testo nella forma in cui lo leggeva il Tasso non
appare molto giustificato: non c’è dubbio che il Tasso leggesse l’Iliade anche in lingua greca all’epo-
ca della rielaborazione del poema. Residori, che tratta brevemente la questione (L’idea del poema,
cit., pp. 198-199), estende in maniera del tutto arbitraria il fatto rimarcato da C. Gigante che le cita-
zioni dal greco nell’autografo del Giudicio siano inserite in un momento successivo rispetto alle
corrispondenti traduzioni latine, in spazi appositamente lasciati in bianco, e ne trae l’indebita con-
clusione per cui il Tasso si sarebbe servito della traduzione latina ad versum di Andrea Divo durante
l’elaborazione della Conquistata; egli travisa il suggerimento di Gigante, che invece scrive: «Il ri-
trovamento dell’autografo ha infatti consentito di appurare che Tasso nel Giudicio, non diversa-
mente dai Discorsi del poema eroico, riportava, con frequenza imprevedibile, anche l’originale
greco accanto alla versione latina» e subito dopo afferma che «non sussistono dubbi [...] sulla vo-
lontà da parte del Tasso di citare i brani in greco» (T. Tasso, Giudicio sovra la Gerusalemme rifor-
mata, a cura di C. Gigante, Roma 2000, pp. 202-203; d’ora in poi Giudicio). Ciò dimostra, al con-
trario, che Tasso: 1. Aveva a disposizione il testo greco dell’Iliade al tempo dell’elaborazione della
Conquistata, e se ne serviva. 2. Sentiva l’esigenza di rapportarsi con l’originale greco anche nei suoi
trattati teorici: tanto più doveva sentirla nella rielaborazione del poema, che sul modello dell’Iliade
in gran parte si basa. Alla traduzione latina egli ricorreva, com’è naturale, in funzione di ausilio alla
comprensione del testo greco.
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 335
lutazione estetica. Ciò, ovviamente, non garantisce di per sé un risultato di grande
valore artistico nell’effettiva attuazione poetica del progetto teorico, ma dovrebbe
quantomeno impedire di banalizzare l’operazione tassiana, svalutando la Conqui-
stata ad una sorta di autolesionistico disfacimento del proprio capolavoro. Natu-
ralmente è del tutto impensabile, oggi, che si possa modificare l’esito di quell’ar-
bitrio della critica che contro l’esplicita volontà dell’autore ha avallato e incorag-
giato la svalutazione del nuovo poema, tuttavia una riconsiderazione dell’opera
non solo come oggetto di interesse esegetico ma anche in rapporto al suo valore
estetico è legittima e forse dovuta, anche sul piano dell’imitazione omerica. E ciò
tanto più se si considera che la preferenza accordata dal Tasso alla Conquistata si
fondava, essenzialmente, proprio su un giudizio di natura estetica, che non può es-
sere ignorato con leggerezza. Non ha torto Brand quando dice, con una semplicità
al limite del candore: «If we did not have the Liberata we should I think consider
the Conquistata a great poem»10.
2. Un’indicazione fondamentale della modalità in cui nella Conquistata viene
attuata l’ “imitazione d’Omero” ci è fornita dallo stesso Tasso nelle pagine autoese-
getiche del Giudicio. Partendo dal dato fondamentale, desunto da Aristotele, che
«è migliore quel che più s’assomiglia a l’ottimo, laonde, essendo [...] ottimo poe-
ma l’Iliade, quel dovrà essere estimato migliore che più l’è somigliante»11, l’autore
marca subito una distinzione importante asserendo che però «non è sempre vero
che ’l simile a l’eccellentissimo sia più eccellente». Egli dunque procede nell’ana-
lisi del rapporto del suo nuovo poema con il modello omerico, e lo fa precisando
in partenza il modo in cui il confronto sarà svolto, conformemente a tale distin-
zione generale enunciata a livello teorico: l’esame sarà condotto, come dice,
«considerando la similitudine e la dissimilitudine del mio poema con l’Iliade».
Tale modo di procedere, che in sé potrebbe sembrare ovvio, deriva in realtà da
una precisa volontà di distinguere la propria operazione di riscrittura da una ben
determinata tendenza letteraria individuabile nel contesto storico-letterario in cui
egli viene a collocarsi:
«Alcuni, adunque, han voluto assomigliare Omero in quelle cose ne le quali Omero è men
lodato: né perciò dico che ragionevolmente possano meritar biasimo da giudice simile ad
Aristarco o almeno da non indotto lettore; nondimeno, in alcune cose più lodo il giudicio
ed il decoro di Virgilio e la maestà de la romana elocuzione, ma ne l’invenzione e ne la di-
sposizione de la favola ancora, ne la quale Omero non fu superato peraventura aguaglia-
to, l’esser similissimo ad Omero è peraventura con qualche difetto del proprio artificio».
Il riferimento è a quella tendenza epica “integrale” iniziata mezzo secolo pri-
ma da Trissino con la sua Italia liberata dai Goti12, da cui già nei giovanili Discor-
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10 C.P. Brand, Torquato Tasso, Cambridge 1965, p. 130.
11 Per questa e le successive citazioni, cfr. Giudicio, cit., pp. 124-126.
12 Gli studi principali sul poema del Trissino sono: A. Quondam, La poesia duplicata. Imita-
zione e scrittura nell’esperienza del Trissino, in N. Pozza (ed.), Convegno di Studi su Giangiorgio
336 Federico Di Santo
si dell’arte poetica Tasso aveva energicamente preso le distanze, e che anche ora,
pur in un parziale riavvicinamento ad essa, rimane comunque un punto di riferi-
mento in negativo, dal quale egli si è volutamente discostato in alcuni aspetti di
rilievo. L’impostazione dell’analisi nel Giudicio corrisponde dunque a una ben de-
terminata scelta di poetica seguita nell’elaborazione della Conquistata: «Io, ancora,
ad imitazione di Virgilio, ma con un altro modo, volsi avere alcune cose comuni
con Omero, altre proprie e da proprio artificio formate». Il confronto con l’Iliade
prosegue quindi nel merito della questione, seguendo questa linea, con l’esame
della favola e delle parti di cui essa si compone secondo le indicazioni della Poe-
tica aristotelica, con particolare attenzione al piano del “costume” e del “decoro”,
in una presa di coscienza del distacco che separa le forme socio-culturali del pro-
prio periodo da quelle riflesse in Omero, distacco che la poesia non deve ignorare,
in una ripresa acritica di elementi culturali “altri” rispetto all’attualità13.
Ma ciò che più ci interessa per ora è proprio l’impostazione stessa dell’ana-
lisi che Tasso fornisce, a posteriori, delle scelte da lui compiute nella rielabora-
zione del poema, alle quali naturalmente essa intende corrispondere. Vero è che
un’opera come il Giudicio ha in parte anche una finalità apologetica che può ren-
dere l’operazione autoesegetica non sempre obiettiva (un aspetto che comunque
non deve essere ingigantito), ma in un certo senso ciò può contribuire al nostro di-
scorso più che complicarlo. Quello che all’autore interessa sottolineare è non solo
la similitudine nel rapporto del suo poema con il modello omerico, ma anche la
dissimilitudine. Non è un dato banale e quasi tautologico nell’esprimere le fun-
zioni essenziali implicite nell’idea stessa di confronto, quelle funzioni di cui si
sostanzia ogni operazione di questo tipo, che voglia mettere in rapporto un’opera
con un suo modello letterario, e ciò appare proprio se si considera la modalità di
un’imitazione che è stata definita persino in termini di «volontà di annullamento
completo della Gerusalemme nell’Iliade»14: Tasso intende mettere in evidenza
l’originalità che anima il processo di omerizzazione su cui si fonda la riscrittura
del poema, la strategia di somiglianze ma anche di differenze rispetto al modello,
in questo prendendo le distanze – come abbiamo detto – da una tendenza non ge-
nerica ma storicamente ben determinata e con cui il poeta si confronta da vicino
(e assimilando la propria operazione, per contro, a quella compiuta da Virgilio
nell’Eneide, il cui omerismo è pervasivo ma non per questo giudicato svilente: è
al contrario un arricchimento di senso, per quanto poi spesso trascurato dalla cri-
tica specialistica, di fatto, nell’analisi).
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Trissino, Vicenza 1980, pp. 67-109; S. Zatti, L’ombra del Tasso, cit. (cap. 3, L’imperialismo epico
del Trissino, pp. 59-110); C. Gigante, «Azioni formidabili e misericordiose». L’esperimento epico
del Trissino, in «Filologia e Critica» 23 (1998), pp. 44-71.
13 Implicita in ciò la polemica con il Trissino, che nell’Italia riprendeva con fedeltà dall’Iliade
anche elementi ormai culturalmente inappropriati ad un contesto moderno. Sull’argomento, cfr. G.
Baldassarri, Il sonno di Zeus. Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale e tradizione
omerica, Roma 1982.
14 M. Residori, L’idea del poema, cit., p. 172.
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 337
Ancor prima che la considerazione nel merito delle similitudini e dissimilitu-
dini che l’autore propone nel prosieguo della trattazione, il dato di rilievo è pro-
prio l’autoconsapevolezza di un’operazione letteraria che è caratterizzata anche in
sede teorica in termini di complessità, di non linearità del rapporto, tanto più se
l’autoesegesi ha il carattere parzialmente tendenzioso di uno scritto apologetico e
vuole privilegiare un certo indirizzo di lettura.
Ben lungi dall’essere meramente un ossequio a un modello di perfezione, il
rapporto con Omero si concretizza in una strategia significativa che si fa tanto più
rilevante se sottolineata come dato fondamentale di fronte a un tipo di imitazione
che si conforma al modello in modo così evidente a tutti i livelli del testo. Ciò non
vuol dire che l’analisi debba necessariamente privilegiare le differenze, trascuran-
do invece i punti di contatto: anche le affinità sono parte della strategia significa-
tiva, non foss’altro proprio per il loro peso nell’elaborazione del testo, e anch’esse
necessitano di una spiegazione.
Tutto ciò, naturalmente, è valido non solo nel considerare l’opera nel suo com-
plesso, come fa Tasso, ma anche analizzando singole sequenze di narrazione in sé
compiute, quali scene ed episodi. La sequenza che prendiamo ora in esame si col-
loca, abbiamo detto, in una delle grandi sezioni del tutto nuove della parte finale
della Conquistata, la serie di scene di carattere bellico che narrano – riprendendo
materiale narrativo dai libri dell’Iliade che vanno dal XIII al XVII gli scontri pres-
so il porto di Joppe, nelle immediate vicinanze di Gerusalemme. L’inserimento di
tali scene ha la finalità, anch’essa esplicitata nel Giudicio, di accentuare le diffi-
coltà dell’esercito cristiano fin quasi alla rovina, per rendere poi più marcato il
rovesciamento della fortuna con la “peripezia” realizzata dal ritorno in campo di
Riccardo. Il culmine negativo di questo processo si verifica con la sequenza di cui
ci occuperemo ora, che narra la morte in battaglia di Ruperto al termine di quella
che può essere considerata una sua breve aristia. Essa è desunta essenzialmente
dal XVI libro dell’Iliade, designato dalla tradizione col titolo di “Patrocleia”; ma
la partizione di età alessandrina, pur individuando un’azione in sé conclusa, ne
esclude da una parte gli immediati presupposti narrativi (gli incontri di Patroclo
con Nestore e poi Euripilo, smembrati fra Iliade XI e XV), dall’altra, inevitabil-
mente, le fondamentali conseguenze, che d’altronde determinano l’intera vicenda
fino alla conclusione del poema: la vicenda di Patroclo, intesa in senso lato, tra-
valica ampiamente i confini del libro XVI, soprattutto in avanti, attraverso gli svi-
luppi direttamente innescati dalla sua drammatica conclusione.
Il personaggio stesso di Ruperto, senz’altro il principale fra i personaggi nuovi
della Conquistata, è d’altra parte modellato nel suo complesso sulla figura iliadica
di Patroclo, di cui riprende anche la funzione essenziale a livello del sistema di
personaggi e dell’intreccio, determinando un recupero complessivo della sua vicen-
da in senso ampio, comprensiva del suo antefatto e soprattutto delle sue conse-
guenze. L’inserimento di Ruperto nel nuovo poema, infatti, è funzionale – e anzi
ne costituisce l’elemento più rilevante – al complessivo avvicinamento del perso-
naggio di Rinaldo/Riccardo ad Achille nella rielaborazione dell’opera. L’opera-
zione è motivata a un duplice livello, tematico e narrativo. Da una parte, la pre-
338 Federico Di Santo
senza del nuovo personaggio è volta a introdurre il tema dell’amicizia, visto come
particolare declinazione del tema dell’amore:
«E perch’io estimava che nel poema eroico l’amore fosse convenevole soggetto, non ho
mutata opinione; ma oltre tutti gli altri ho estimato convenevole e degno di maraviglia
l’amore de l’amicizia, del quale il primo poema era quasi privo: però con le persone di
Riccardo e di Roberto d’Ansa ho voluto imitare quella d’Achille e di Patroclo, tanto lodata
da Platone nel Fedro, dialogo de la bellezza»15.
Già nei Discorsi del poema eroico, dove la pertinenza dei temi dell’amicizia
e dell’amore al poema eroico sono discussi diffusamente, l’autore sosteneva che
«l’amore e l’amicizia sono convenevolissimo soggetto del poema eroico; e se vogliam
chiamare amicizia quella d’Achille e di Patroclo, niun’altra potea dar materia di poetar più
eroicamente»16.
Se dunque già nella Liberata il tema dell’amore era ampiamente presente, la
carenza del tema dell’amicizia viene ora colmata proprio corredando Rinaldo/Ric-
cardo di un suo Patroclo. Dall’altra parte, l’inserimento del personaggio di Ruperto
porta con anche delle fondamentali modifiche nell’impianto narrativo della nuo-
va Gerusalemme: viene ripresa anche la funzione che Patroclo aveva nella trama
dell’Iliade, ossia determinare, attraverso la sua morte per mano nemica, il ritorno
sul campo di battaglia del compagno “irato”.
Nella Liberata Tasso aveva basato la molto meno marcata analogia di Rinaldo
con Achille essenzialmente sulla sua contesa con Goffredo per l’uccisione di Ger-
nando, che ripeteva la funzione narrativa di quella fra Achille e Agamennone (con
la forte mediazione della medesima ripresa iliadica nell’Italia del Trissino, per la
contesa fra Corsamonte e Belisario), innescando l’elemento fondamentale del ri-
tiro dal combattimento dell’eroe “necessario” a causa della sua ira contro il capo
dell’esercito (parallela alla menis di Achille); come si è visto, attraverso la figura
dell’eroe “necessario” il poeta riprendeva, anche con un certo grado di consapevo-
lezza, quel grande modello narrativo che negli studi della moderna omeristica sarà
individuato – significativamente attraverso un metodo prettamente comparatisti-
co – nelle tre fasi di «withdrawal, devastation and return»17. Il modello è molto
evidente nelle parole che Tancredi rivolge a Rinaldo subito prima del suo ritiro.
Nella Conquistata il modello dell’eroe “necessario”, rispetto al precedente poe-
ma, viene naturalmente accentuato e soprattutto maggiormente connotato in senso
epico: in negativo, attraverso la parziale marginalizzazione a livello strutturale
dell’episodio romanzesco di Armida, e in positivo, appunto con la morte di Ru-
perto, che si sostituisce, come causa innescante il ritorno di Rinaldo/Riccardo, al
sogno di Goffredo e al conseguente viaggio di Carlo e Ubaldo per riportarlo indie-
–––––––––––––––––
15 Giudicio, cit., p. 151. Il passo di Platone a cui Tasso fa riferimento si trova in realtà nel
Simposio.
16 T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di L. Poma, Bari 1964, p. 107.
17 Cfr. A.B. Lord, The Singer of Tales, Cambridge Mass. 1960.
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 339
tro. Viene introdotto così l’altro grande tema della vendetta, che come nell’Iliade
si innesta sul modello di “withdrawal, devastation and return”. Sarà proprio per
vendicare l’uccisione di Ruperto che Riccardo acconsentirà alla richiesta dell’am-
basceria di Tancredi, Loffredo ed Eustazio, che da parte di Goffredo lo invitano a
tornare a combattere. Significativo il rovesciamento della risposta negativa data da
Achille ad Aiace, Fenice e Odisseo in Iliade IX – evidente modello della scena –
permesso proprio dalla ricollocazione dell’ambasceria in coincidenza della morte
del compagno: nella strategia del Tasso la vendetta non deve essere più motiva-
zione esclusiva del ritorno, ma piuttosto congiunta con quella causa cristiana che
Riccardo non può ignorare come Achille ignora le motivazioni “private” della
spedizione voluta dagli Atridi contro i Troiani, verso i quali non ha motivo di ran-
core; il patto che unisce gli Achei presenta un carattere circostanziale che nulla ha
da spartire con l’unità del campo cristiano in vista del «glorïoso acquisto» (G.L.
I, 1, 4b = G.C. I, 1, 4b).
Possiamo partire proprio da questo dato finale, l’effetto determinato dalla vi-
cenda tragica dopo la sua conclusione. La necessità dello spostamento testuale del-
l’ambasceria tradisce, nella diversità strutturale da Omero, anche una più profonda
identità tematica: la centralità della causa cristiana non può evitare di essere margi-
nalizzata, di fronte al dolore di Riccardo per Ruperto, se non attraverso il ricorso a
una coincidenza temporale, a una sovrapposizione. E se anche Tasso sottolinea,
nel Giudicio, la sua presa di distanza dai modi eccessivi della rappresentazione
del dolore di Achille in Omero, che vengono da lui ricondotti nell’ambito del
“decoro” per la rappresentazione del corrispondente dolore di Riccardo, ciò non
muta nella sostanza il carattere parimenti totalizzante ed “infinito” dell’emozione
da lui provata per la morte del compagno: questo aspetto, che Tasso coglie perfet-
tamente nel modello e da cui lo desume, trova ampia espressione nel colloquio
dell’eroe con la madre (ricalcato su quello di Achille e Teti in Iliade XVIII) attra-
verso la combinazione del confronto con un altro lutto e della connotazione tem-
porale iperbolica:
Cosí diss’ella; e con dolenti note:
– Non conobbi (ei rispose) il male e ’l danno,
quando i’ gemea con lagrimose gote
de la morte paterna il primo affanno;
ma questo colpo in guisa ’l cor percuote,
ch’a pianto eterno il mio dolor condanno.
Conosco, ahi lasso, la prevista piaga,
ma di sempre languir l’alma s’appaga.
Sempre dorrommi; e sempre amore e sdegno
mi roderan quest’alma afflitta ed egra.
Dove era l’ardir mio, l’onor, l’ingegno,
quando egli [Ruperto] cadde, e la mia forza integra?
Non potria d’Asia, e d’Orïente il regno,
darmi del suo morir vendetta allegra,
340 Federico Di Santo
ch’io devea ritenerlo e seco armarme:
ei morí col mio nome, o pur con l’arme.
(G.C. XXI, 36-37)
Affine il carattere totalizzante del dolore di Achille per Patroclo18: termine di
confronto per questo elemento, ancor più vicino che la scena di Iliade XVIII, è il
momento in cui per Achille, anche dopo l’impossibile consolazione della vendetta
su Ettore, l’eternità del ricordo implica l’eternità del dolore:
Pavtroklo~: tou` d∆ oujk ejpilhvsomai, o[fr∆ a]n e[gwge
zwoi`sin metevw kaiv moi fivla gouvnat∆ ojrwvrh/:
eij de; qanovntwn per katalhvqont∆ eijn ∆Ai?dao
aujta;r ejgw; kai; kei`qi fivlou memnhvsom∆ eJtaivrou.
(Il. XXII 387-390)
Comune è anche il confronto in termini quantitativi con un lutto che colpisca
nel cuore degli affetti familiari, dove anzi la cautela di Achille in rapporto a un
evento solo ipotetico cede addirittura di fronte all’esplicita inferiorità di un dolore
già esperito nel caso di Riccardo:
ouj me;n gavr ti kakwvteron a[llo pavqoimi,
oujd∆ ei[ ken tou` patro;~ ajpofqimevnoio puqoivmhn,
o{~ pou nu`n Fqivhfi tevren kata; davkruon ei[bei
chvtei> toiou`d∆ ui|o~: o} d∆ ajllodapw`/ ejni; dhvmw/
ei{neka rJigedanh`~ ÔElevnh~ Trwsi;n polemivzw:
hje; to;n o}~ Skuvrw/ moi e[ni trevfetai fivlo~ uiJov~,
ei[ pou e[ti zwvei ge Neoptovlemo~ qeoeidhv~.
(Il. XIX 321-327)
D’altra parte, se la morte di Ruperto è il motivo d’innesco della peripezia rea-
lizzata dal ritorno a combattere di Riccardo, essa è anche esplicitamente indicata
dall’autore proprio come il culmine di un altro elemento fondamentale della fa-
vola: la perturbazione, appunto, ossia il pathos della Poetica di Aristotele:
«in questo modo, come ho detto, ne la perturbazione, ch’è la terza parte de la favola, ho
ricercata la compassione da’ principi infedeli e da’ fedeli – sì come Omero la cercò da’
Greci e da’ barbari – ma più da’ fedeli: e più che da tutte l’altre persone e da gli altri
avenimenti, da la morte di Roberto d’Ansa laudata e lacrimata poeticamente quanto ho
giudicato esser conveniente»19.
Ma in Tasso, abbiamo detto, l’aspetto totalizzante dell’interiorità del singolo
personaggio non può permettersi di informare di sé tutta la vicenda fin nella sua
conclusione, come avviene nell’Iliade: un fondamentale scarto ideologico impe-
disce al poeta di subordinare l’esito complessivo della favola al dato emotivo di
colui che non deve e non può essere il suo “protagonista”. Ancora nel Giudicio, il
–––––––––––––––––
18 Cfr. G. Paduano, Le scelte di Achille, in Omero, Iliade, Torino 1997, pp. IX-XLIX.
19 Giudicio, cit., p. 179.
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 341
poeta sottolinea come la scelta di narrare nel suo poema «l’azione una di molti»20
lo porti a ridurre il ruolo di Riccardo nel determinare la vittoria cristiana e la con-
quista di Gerusalemme, che deve essere impresa collettiva proprio in quanto ideo-
logicamente connotata. In questa prospettiva si comprende come necessariamente
anche l’aspetto del dolore per la morte di Ruperto dovrà subire una drastica ridu-
zione nel suo peso narrativo e strutturale, una progressiva marginalizzazione nel fi-
nale dell’opera che nell’Iliade, invece, dove la prospettiva della conquista di Troia
non implica minimamente un conflitto di valori fra le due collettività contrapposte
dall’evento bellico, non aveva ragion d’essere. Gli sviluppi della morte di Ruperto
non possono dunque avere affatto il rilievo di quelli determinati dalla morte di Pa-
troclo: dopo il lamento “privato” con la madre (G.C. XXI, 35 ss.) e quello “pubbli-
co” al funerale di Ruperto (G.C. XXI, 61 ss.), il dolore di Riccardo sarà esplicita-
mente superato, se non nell’interiorità del personaggio, almeno in una inevitabile
ricomposizione sociale e spirituale che reintegra l’eroe nell’impresa collettiva, at-
traverso le parole di Pietro l’eremita:
– Quanto déi, figlio, al Re ch’il mondo regge!
Tratto egli t’ha da l’incantate soglie:
ei te smarrito agnel fra care gregge
or riconduce e ne l’ovile accoglie:
te il pio duce sovran campione elegge
e pronto esecutor di giuste voglie.
Tu, pria ch’ardito muova al fèro assalto,
vesti, invitto signor, virtú da l’alto.
(G.C. XXI, 86; cfr. G.L. XVIII, 7)
In questo non potrebbe essere più marcata la distanza dall’Iliade, dove la
reintegrazione sociale di Achille, lungi dal ripristinare la sua adesione alle finalità
dell’impresa collettiva, è permessa unicamente da una sovrapposizione della ven-
detta personale con gli obiettivi della guerra che si realizza solo sul piano della sua
mera attuazione pratica. Proprio il tema della vendetta finirà invece, nella Conqui-
stata, per essere rimosso nella sostanza al momento del suo effettivo compimento:
il breve duello in cui nell’ultimo libro Riccardo uccide Solimano, per mano del
quale Ruperto è morto, contiene solo due rapidissimi e generici cenni alla vendetta
(G.C. XXIV, 99, 6 e 87, 3-4), mentre il ricorso al modello virgiliano di Mezenzio e
Lauso per Solimano e suo figlio Amoralto al momento della loro morte intende
esplicitamente spostare l’attenzione piuttosto sulla volontà di «muover compassio-
ne ancora da’ nemici». Evidentissima la distanza dall’uccisione di Ettore, in cui il
movente della vendetta resta assolutamente centrale.
3. La vicenda di Ruperto, dunque, nonostante la marcata identità a livello te-
stuale e tematico, si colloca in una prospettiva del tutto diversa da quella di Patro-
clo, nel quadro dell’ideologia dell’opera e del rapporto profondamente mutato fra
–––––––––––––––––
20 Giudicio, cit., p. 146. Cfr. p. 136: «Quella unità, adunque, sarà lodevolissima nel poema
epico, la quale sarà composta di molte azioni e di molte persone».
342 Federico Di Santo
il compagno che compie la vendetta e la collettività sociale di cui egli è membro.
Chiarita questa fondamentale diversità di esiti nella macrostruttua dell’opera, tor-
niamo ora indietro a vedere invece lo sviluppo della vicenda narrata in sé, venendo
alla vera e propria analisi dell’episodio. Cercheremo, in questa breve lettura di
una sezione di testo in sé compiuta, di mettere in luce le modalità in cui si realizza
la ripresa dall’episodio omerico che funge da ipotesto, evidenziando naturalmente
non solo i principali punti di contatto ma anche le divergenze e le rielaborazioni,
in quanto apportatrici di senso.
La “Patrocleia” di Ruperto è distribuita nell’arco di due libri, il XVIII e il XIX,
ed è suddivisa in due grandi tronconi dall’inserimento al suo interno, nella prima
parte del XIX libro, dell’ampia sequenza che narra l’arrivo dell’esercito egiziano a
dare man forte agli assediati. Questo tipo di organizzazione della vicenda di Ruper-
to riprende il simile inserimento dei “fatti di Patroclo” entro la narrazione bellica
generale attraverso una ripartizione fra Iliade XI, XV e XVI; ma la materia effetti-
vamente narrata in queste sezioni di testo, pur nella sostanziale affinità, presenta
una evidente rielaborazione prima di tutto nella sua sistemazione, nell’ordine in
cui si susseguono le singole sequenze narrative in cui l’episodio si articola. Un pri-
mo e più rilevante cambiamento si mostra proprio nell’avvio della vicenda, che non
è più innescato dagli incontri con Nestore ed Euripilo – incontri che hanno pure
un corrispondente, ma collocato più avanti nell’azione –, bensì direttamente dalla
visione, da parte di Riccardo e Ruperto, dell’incendio appiccato da Argante/Ettore
alla nave di Guglielmo (corrispondente a quella di Protesilao anche nella colloca-
zione e nel dato biografico del capo militare cui apparteneva):
Quella [la nave] il proprio signore or piú non guarda,
che giá Guglielmo espose a’ lidi Eoi;
quel d’Italia dich’io, ch’a’ primi assalti
tinse l’arene di sanguigni smalti.
Giaceva estrema ne la terra aprica,
e ’l legno di Tancredi avea vicino,
pur con l’insegna de’ Normandi antica,
che Lilibeo, Peloro, e ’l gran Pachino
onora. Argante allor l’alta e nemica
proda prese con man del curvo pino,
là dove ancor tra questa parte e quella
si facea guerra impetuosa e fella.
[...]
né rilassò, né rallentò l’impresa,
sin che a quel legno fu la fiamma appresa.
(G.C. XVIII, 116-118)
oi; d∆ e[mbalon ajkavmaton pu`r
nhi÷ qoh`/: th`~ d∆ ai\ya kat∆ asbevsth kevcuto flovx.
w}~ th;n me;n prumnh;n pu`r a[mfepen:
(Il. XVI 122-24)
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 343
La vicenda di Guglielmo/Protesilao è desunta dal catalogo iliadico delle navi,
mentre il gesto di Argante nell’appiccare il fuoco ripete fedelmente quello di Ettore
alla fine del libro precedente:
tw`n au\ Prwtesivlao~ ajrhvi>o~ hJgemovneue
zwo;~ ejwvn: tovte d∆ h[dh e[cen kavta gai`a mevlaina.
tou` de; kai; ajmfidrufh;~ a[loco~ Fulavkh/ ejlevleipto
kai; dovmo~ hJmitelhv~: to;n d∆ e[ktane Davrdano~ ajnh;r
nho;~ ajpoqrwv/skonta polu; prwvtiston ∆Acaiw`n.
(Il. II 698-702)
”Ektwr de; prumnh`~ neo;~ h{yato pontopovroio
kalh`~ wjkuavlou, h} Prwtesivlaon e[neiken
ej~ Troivhn, oujd∆ au\ti~ ajphvgage patrivda gai`an.
(Il. XV 704-706)
Lo spostamento in avanti degli incontri che in Omero costituiscono la causa
innescante la vicenda di Patroclo determina un cambiamento di rilievo: nel suo
dialogo con Riccardo, Ruperto non si limita ad avanzare una proposta suggeritagli
da qualcun altro, come faceva Patroclo nel ripetere alla lettera – formularmente –
le parole di Nestore, ma prende spontaneamente l’iniziativa di agire. A Riccardo
che, battendosi il fianco nella concitazione del momento (mhrw; plhxavmeno~, come
Achille alla vista del fuoco: Il. XVI, 125), gli chiede di rimandare indietro i soccor-
si venuti per mare dall’Italia «sin che veggiam quel che d’incerta guerra, / oggi o
domani, in questo lido avviene», Ruperto risponde prospettando l’alternativa di
poter invece intervenire lui stesso in battaglia. Il dato è coerente con la caratteriz-
zazione del personaggio anche nella parte precedente della Conquistata: se infatti
Patroclo è pressoché assente nell’Iliade prima che la sua vicenda abbia inizio, e
nei rari casi in cui compare in scena si limita per lo più ad eseguire un ordine di
Achille, mostrando una passività che sarà superata solo nella sua aristia, Ruperto
mostra tutt’altra capacità d’iniziativa autonoma. Egli, d’altronde, ha un ruolo ben
più rilevante nella prima parte del poema, soprattutto nell’essere protagonista, in-
sieme ad Araldo, del viaggio al castello di Armida sul monte Libano per liberare
Riccardo, che si sostituisce al romanzesco viaggio di Carlo e Ubaldo alle isole
Fortunate nella Liberata; anche in questo caso, l’iniziativa del viaggio è di Ru-
perto, intenzionato a ritrovare a tutti i costi il suo amico, e non più di Goffredo,
come avveniva nel primo poema.
Un dato rilevante è che la preghiera di Ruperto a Riccardo non si articola più,
come quella di Patroclo, in due richieste, ma si riduce fondamentalmente a un’uni-
ca richiesta: poter guidare in battaglia le «animose schiere» degli Italiani. Traccia
dell’originaria articolazione binaria resta, ma più nella forma che nella sostanza,
nel riferimento alle «vittorïose insegne» di Riccardo che basterebbero da sole a
garantire la vittoria. Questo secondo elemento appare fortemente desemantizzato
rispetto al modello: viene infatti rimosso il motivo – centrale nella “Patrocleia” –
del prestito delle armi appartenenti al compagno e del conseguente scambio di
identità, volto ad ingannare, almeno momentaneamente, i nemici. La spiegazione,
344 Federico Di Santo
a livello narrativo, è immediata: Riccardo non è in possesso delle sue armi, in
precedenza riportate al campo cristiano tutte insanguinate (come nella Liberata),
e tuttora custodite da Goffredo. È chiaro, tuttavia, che l’assenza di un elemento
tanto rilevante nel modello omerico non può mancare di risvolti tematici: venendo
meno lo scambio delle armi, viene meno anche quello scambio dell’identità nelle
apparenze per cui Patroclo si caratterizza sin dal principio delle sua aristia come
sostituto di Achille, ma sostituto inadeguato e inconsapevolmente votato alla mor-
te. È vero che in effetti, come vedremo, anche Ruperto vestirà in seguito le armi
di Riccardo, nella seconda parte della sua impresa; anche lì, però, il motivo della
dissimulazione dell’identità verrà sostanzialmente rimosso. E d’altra parte il dato
fondamentale è che l’impresa di Ruperto non si caratterizzi nel segno della sosti-
tuzione, sin dall’inizio. Come prima l’individualità del personaggio si evidenziava
nell’autonomia d’iniziativa, ora si mostra anche nel suo essere pienamente prota-
gonista della propria vicenda, che non si svolge più all’ombra dell’ingombrante
personalità del compagno.
Anche le motivazioni addotte da Ruperto per la sua richiesta, coerentemente,
cambiano. Di fronte al pericolo estremo corso dall’esercito cristiano, egli non fa
più leva sulla crudeltà che Patroclo rinfacciava ad Achille, e che non può più ave-
re luogo per il campione cristiano verso il suo esercito (tanto più in quanto il suo
ritiro si origina proprio dall’uccisione di un commilitone, fatto a cui un rimprove-
ro di crudeltà verso i cristiani risulterebbe un’inopportuna allusione), ma appunto
sul proprio disonore qualora non intervenisse:
Se non vuoi che de l’arme oggi mi spogli,
per non cinger mai piú la spada al fianco,
non far ch’io soffra i barbareschi orgogli,
e lo strazio crudel d’Inglese o Franco:
non celerian deserte arene o scogli
il mio disnor cui non fu pari unquanco,
ma ne risoneriano i lidi e l’onde:
ché nulla al tempo, e nulla al Ciel s’asconde.
(G.C. XVIII, 126)
nhleev~, oujk a[ra soiv ge path;r h\n iJppovta Phleuv~,
oujde; Qevti~ mhvthr: glaukh; dev se tivkte qavlassa
pevtrai t∆ hjlivbatoi, o{ti toi novo~ ejsti;n ajphnhv~.
(Il. XVI 33-35)
Riccardo acconsente subito alla giusta richiesta di Ruperto, senza mostrare
quello sdegno iniziale con cui esordiva la risposta di Achille, e pone la stessa con-
dizione che veniva posta a Patroclo, di limitarsi a un’azione difensiva e non tentare
un pericoloso contrattacco:
Tacque; e l’altro soggiunse: – Or va, combatti,
e i cari amici, e l’onor tuo co ’l nostro
difendi: e questi al rischio omai sottratti,
e ’n sí grand’uopo il tuo valor dimostro,
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 345
poscia non trapassar (sien fermi i patti)
ma fa ritorno a me nel verde chiostro,
senza irritar dal fier soldán la forza,
ch’a contender con lei piú forti sforza.
(G.C. XVIII, 127)
peivqeo d∆ w{~ toi ejgw; muvqou tevlo~ ejn fresi; qeivw,
wJ~ a[n moi timh;n megavlhn kai; ku`do~ a[rhai
pro;~ pavntwn Danaw`n, ajta;r oi} perikalleva kouvrhn
a]y ajponavsswsin, poti; d∆ ajglaa; dw`ra povrwsin.
ejk nhw`n ejlavsa~ ijevnai pavlin: eij dev ken au\ toi
dwvh/ ku`do~ ajrevsqai ejrivgdoupo~ povsi~ ”Hrh~,
mh; suv g∆ a[neuqen ejmei`o lilaivesqai polemivzein
Trwsi; filoptolevmoisin: ajtimovteron dev me qhvsei~:
(Il. XVI 83-90)
Ma la condizione, come nell’Iliade, non sarà rispettata:
Cosí diss’egli; e parte al cor profondo
di tai parole il buon Ruperto inscrisse:
parte obliò, ch’il suo valor secondo
non stimò ad altro che d’Europa uscisse,
trattone lui che par non ebbe al mondo
d’intrepida virtú, mentr’ egli visse:
felice pria con poche spade e lance;
ma non librò l’ardir con giusta lance.
(G.C. XVIII, 129)
Evidente la ripresa del modulo in cui è articolato l’adempimento solo parziale
da parte di Zeus della duplice richiesta a lui rivolta dalla preghiera di Achille:
’W~ e[fat∆ eujcovmeno~, tou` d∆ e[klue mhtiveta Zeuv~.
tw`/ d∆ e{teron me;n e[dwke pathvr, e{teron d∆ ajnevneuse:
nhw`n mevn oiJ ajpwvsasqai povlemovn te mavchn te
dw`ke, sovon d∆ ajnevneuse mavch~ ejxaponevesqai.
(Il. XVI 249-251)
Significativo il passaggio dal piano della decisione divina a quello della di-
mensione psicologica del personaggio, che riconduce a una delle sue funzioni fon-
damentali (quella di rappresentazione psicologica, appunto) la costante duplicazio-
ne omerica del processo decisionale fra l’ambito umano e quello divino. Lo stesso
avverrà al termine dell’aristia di Ruperto, quando la decisione di affrontare Soli-
mano sarà di nuovo ricondotta alla diretta esplicitazione del dato psicologico,
senza la corrispondenza per cui nell’Iliade l’ardire eccessivo di Patroclo che lo por-
terà alla morte – secondo il consueto procedimento narrativo – ha il suo parallelo
all’accecamento da parte di Zeus: ajll∆ aijeiv te Dio;~ kreivsswn novo~ hjev per ajn-
drw`n (Il. XVI 688). Il fatto di ricondurre l’intervento divino alla effettiva funzione
psicologica cui spesso adempie testimonia una sostanziale comprensione del pro-
346 Federico Di Santo
cedimento omerico e un volontario discostamento da esso; il che è forse un dato
meno ovvio di quanto potrebbe sembrare: basti considerare la diversità della con-
sapevole scelta tassiana dal trattamento del “meraviglioso” nell’Italia del Trissino,
dove gli interventi degli angeli riproducono in modo ben più fedele e acritico quella
stessa partecipazione degli dei all’azione che il poeta vicentino trovava nell’Iliade.
Le scelte “moderate” del “meraviglioso” in Tasso restano in fondo le stesse della
ben nota posizione già elaborata per la Liberata: ciò che è più interessante è la so-
stanziale coerenza con quelle scelte anche nel diretto confronto con Omero nella
Conquistata, che si concretizza in nuove soluzioni, elaborate per rispondere alla
diversa situazione venutasi a creare nell’imitare il modello iliadico così da vicino.
In questo importante prologo all’azione che riprende la scena iniziale della
“Patrocleia”, Tasso, pur senza introdurre scarti netti rispetto all’ipotesto, lo adegua
alla sua diversa strategia di senso. Se Ruperto appare più consapevole di Patroclo
nel suo maggiore spirito di iniziativa, Riccardo, per contro, risulta meno intransi-
gente di Achille: il suo rifiutarsi di combattere non può essere altrettanto drastico
quanto quello dell’eroe iliadico, non può spingersi fino all’estraniamento da una
collettività che non è più solo il luogo di definizione dell’identità sociale attra-
verso il pubblico riconoscimento della timé, ma che si fa portatrice di un sistema
di valori positivi impossibili da mettere in discussione; il dato sociale viene cioè
sostituito dal dato ideologico. L’ira di Riccardo, d’altronde, non si estende affatto,
come la menis di Achille, all’intera collettività, non più colpevole di avallare col
suo silenzio l’oltraggio del capo. Per questo l’eroe della Conquistata, alla vista
del fuoco, può mostrare il desiderio di prestare soccorso di persona a quelli che
definisce «i cari amici», ed è impedito in ciò solo dal non avere le sue armi21; per
questo, ancora, non può esserci più traccia della paradossale immagine di annul-
lamento che coinvolge indistintamente il proprio gruppo sociale e quello nemico
nelle parole di Achille in Il. XVI 97-100.
L’episodio prosegue con la rassegna dei sette contingenti che Ruperto guiderà
in battaglia, riprendendo il catalogo dei Mirmidoni in Il. XVI 168-197. Affine la
strutturazione per cui ad un primo verso che enuncia il nome del “duce” di ciascun
reparto segue la sua genealogia, la quale in Tasso dà adito a brevi cenni encomia-
stici verso famiglie nobili italiane. Da rilevare il fatto che la rassegna si apra e si
chiuda con l’esplicitazione del modello omerico attraverso la menzione del nome
di Achille, che qui è sia il condottiero del primo reparto, sia il paradigma mitico di
un’iperbole relativa ai destrieri dell’esercito, i quali «il sol medesmo di portar son
degni, / non che in battaglia il troppo irato Achille» (G.C. XVIII, 138, 6-7). Simili
–––––––––––––––––
21 Chiara la rifunzionalizzazione di un tema che nell’Iliade è conseguenza e non premessa
della “Patrocleia”: in Omero la spedizione sostitutiva del compagno è determinata appunto dall’in-
transigenza dell’eroe; in Tasso tale intransigenza non può essere altrettanto radicale, e l’impedi-
mento diventa materiale, un’impossibilità ad esercitare l’azione bellica che in Omero era origina-
riamente connessa con la vendetta (Il. XVIII). Riccardo riprende anche la necessità di avere armi
adatte al suo valore dal colloquio di Achille e Iri: «Né potrei, s’io volessi ancora, armarme, / perché
angusti sarian gli arnesi e l’arme» (G.C. XVIII, 122, 7-8), cfr. a[llou d∆ ou[ teu oi\da teu` a]n kluta;
teuvcea duvw, / eij mh; Ai[antov~ ge savko~ Telamwniavdao (Il. XVIII 192-193).
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 347
esplicitazioni del modello omerico sono quasi una costante nella Conquistata22, e
certo non hanno la finalità di evidenziare una derivazione fin troppo evidente ed
esibita: piuttosto, nell’insistere su ciò che è evidente, sembrano voler evidenziare
l’artificialità del procedimento compositivo, l’autoconsapevolezza di un’opera-
zione di derivazione letteraria che, lungi dall’essere uno stanco appiattimento sul
modello, è invece fortemente sperimentale. E appunto la rivalutazione, seppur cri-
tica, della linea di sperimentazione omerizzante inaugurata dal Trissino trova an-
ch’essa espressione metaletteraria in questo brano, attraverso una chiara allusione
all’Italia nella genealogia di un altro dei condottieri:
L’altro è Giustin, da quel Giustin disceso
che giá passò con Belisario invitto,
quando scosse l’Italia il grave peso
del suo giogo crudel, sí come è scritto.
(G.C. XVIII, 135, 1-4)
Dopo il catalogo, come nell’Iliade segue l’esortazione di Riccardo/Achille
all’esercito, che fonde insieme le due distinte esortazioni di Achille prima e Pa-
troclo poi, riprendendo dalla prima le parole di incitamento, dalla seconda il suo
argomento centrale:
A vincere o morir ognun s’affretti,
perché l’ora opportuna a voi sen porge
(G.C. XVIII, 140, 5-6)
nu`n de; pevfantai
fulovpido~ mevga e[rgon, e{h~ to; privn g∆ ejravasqe.
e[nqav ti~ a[lkimon h\tor e[cwn Trwvessi macevsqw.
(Il. XVI 207-209)
Fate ch’omai conosca il pio Goffredo,
ch’in partirlo [Ruperto] da lui gran torto ei fece;
né sol lodi virtú matura e lenta,
ma d’averne incolpati alfin si penta.
(G.C. XVIII, 141, 5-8)
mnhvsasqe de; qouvrido~ ajlkh`~,
wJ~ a]n Phlei?dhn timhvsomen, o}~ mevg∆ a[risto~
∆Argeivwn para; nhusi; kai; ajgcevmacoi qeravponte~,
–––––––––––––––––
22 Lo stesso procedimento è molto evidente nella “Teichoscopia” di Nicea/Erminia, in modo
più velato, attraverso un’allusione in negativo, kat’antiphrasin, proprio all’Elena omerica: vedendo
Nicea, come nell’Iliade i vecchi ne ammirano la bellezza, e dicono: «Quand’ebber mai gli antichi
imperi e i regni / d’amor cari e prezïosi pegni?» (G.C. VII, 39, 7-8); più avanti sono citati Astianatte
e il fiume Sangario (anch’esso citato proprio nella “Teichoscopia” iliadica); Argante, modellato
sull’Ettore omerico, combatte «quasi nuovo Ettorre» (G.C. VII, 34, 5). Clamoroso è il caso di G.C.
XIX, 61, 7-8: Giovanni/Nestore, dopo aver proposto in consiglio di richiamare Riccardo, conclude:
«e (se dir lece il vero) ei val per mille; / né fu da' Greci piú bramato Achille».
348 Federico Di Santo
gnw`/ de; kai; ∆Atrei?dh~ eujru; kreivwn ∆Agamevmnwn
h}n a[thn, o{ t∆ a[riston ∆Acaiw`n oujde;n e[tisen.
(Il. XVI 270-274)
Anche l’inizio degli scontri è simile, con Ruperto/Patroclo che uccide Irca-
no/Pirecme, provocando la fuga dei suoi compagni (cfr. Il. XVI 284-292), e subito
spegne il fuoco, lasciando la nave semibruciata: in questo punto cruciale dell’azio-
ne l’aderenza al testo omerico diviene quasi traduzione (si noti, ad esempio, la per-
fetta corrispondenza ejk ... e[lasen – «rispinse» e hJmidah;~ ... nhu`~ livpet∆ aujtovqi
«mezza accesa ivi restò la nave»):
Egli da’ curvi legni allor rispinse
la fiamma che stridea di trave in trave;
e mal grado di tutti il foco estinse,
e mezza accesa ivi restò la nave
(G.C. XVIII, 148, 1-4)
ejk nhw`n d∆ e[lasen, kata; d∆ e[sbesen aijqovmenon pu`r.
hJmidah;~ d∆ a[ra nhu`~ livpet∆ aujtovqi
(Il. XVI 293-294)
Si mantiene allo stesso livello di fedeltà al dettato omerico pure un’ampia
similitudine immediatamente seguente, che marca il cambiamento provocato sul-
l’andamento della battaglia dall’arrivo dei rinforzi. Il comparatum sviluppa la stes-
sa immagine presente nell’Iliade, e dall’eccellente traduzione letterale dei primi
due versi muove verso una maggiore libertà nei particolari del seguente amplia-
mento descrittivo, che trasferisce il tratto del “fulmine” dalla divinità – alla quale
non è più pertinente, avendo frattanto il cielo cambiato padrone – al monte, che
dal fulmine viene colpito; la conseguente modificazione della descrizione in senso
più lugubre permette di variare in maniera più sostanziale il comparandum: l’im-
magine positiva del riprendere fiato dalla guerra, prima auspicata da Patroclo ad
Achille con le parole di Nestore (ojlivgh dev t∆ ajnavpneusi~ polevmoio, Il. XVI, 43 =
Il. XI 801), è rovesciata a rimarcare, cristianamente, l’orrore della guerra:
Qual dal sommo talor d’eccelso monte
l’orride nubi il re del ciel disgombra,
e scopre in lui la fulminata fronte,
e i tronchi i quai lasciâro i rami e l’ombra,
e i nudi gioghi, e ’l conturbato fonte,
e tutto ciò ch’una ruina ingombra:
tal ne l’aria serena è quivi apparso
orror di morte, e foco, e sangue sparso.
(G.C. XVIII, 149)
wJ~ d∆ o{t∆ ajf∆ uJyhlh`~ korufh`~ o[reo~ megavloio
kinhvsh/ pukinh;n nefevlhn sterophgerevta Zeuv~,
e[k t∆ e[fanen pa`sai skopiai; kai; prwvone~ a[kroi
kai; navpai, oujranovqen d∆ a[r∆ uJperravgh a[speto~ aijqhvr,
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 349
w}~ Danaoi; nhw`n me;n ajpwsavmenoi dhvi>on pu`r
tutqo;n ajnevpneusan, polevmou d∆ ouj givgnet∆ ejrwhv:
(Il. XVI 297-302)
L’esempio di questa similitudine mostra chiaramente come anche i punti di
maggiore aderenza al testo omerico, fino alla traduzione, possano essere in realtà
occasione di un’operazione di rielaborazione poetica decisamente creativa, artisti-
ca, pur attraverso mutamenti all’apparenza minimi. In questo caso persino l’ele-
mento che genera la variazione – che poi qui non è altro che il tertium compara-
tionis – viene desunto dall’originale e rifunzionalizzato; il risultato che ne deriva,
però, arriva a coinvolgere addirittura le differenze di natura culturale e ideologica
che separano il poema cristiano dall’epica greca arcaica.
Ruperto riesce a risollevare le sorti dello scontro, lanciandosi – come Patro-
clo – in una androktasia che, pur tornando a discostarsi dalla “traduzione”, è co-
munque scritta in pieno stile omerico nell’accumulo onomastico delle vittime, in-
terrotto occasionalmente ad introdurre qualche particolare descrittivo o “biografi-
co”23; anche il passaggio dall’azione del protagonista dell’aristia all’azione dei
suoi compagni coglie un dato tipico dello stile omerico, presente appunto nella
scena della “Patrocleia” che Tasso sta imitando24:
Ma Ruperto non cessa; e ’n breve spazio
ancide Clodo, Ireo, Lorfin, Meganto,
Orson, Pardin, Ramarrio; e fèro strazio
fa d’Arispa, di Serga e di Lofanto:
e leon di sua fame ancor non sazio
sembra chi ’l segue, o chi guerreggia accanto.
Achille atterra Cauro; Amon, Corindo;
Giustino, Brunellon; Corispo, Olindo.
Cosso abbatte Arifal; Sorano, Idargo;
Metello, Orimael; Notturo Argeste,
lo qual con nave piú veloce d’Argo,
sprezzato avea del mar mille tempeste;
parte Afflitto d’Armenio il petto largo,
di Baldano e d’Ormeo l’orride teste:
Belprato a Jarda, a Jaspi, a Bocco adusto;
toglie a Cirneo la vita ’l piú vetusto.
(G.C. XVIII, 151-152)
Un’altra androktasia si avrà subito prima del duello finale con Solimano,
questa volta ad opera del solo Ruperto – secondo la progressiva concentrazione
dell’attenzione sul protagonista dell’aristia che è anch’essa dato tipico di questo
–––––––––––––––––
23 L’androktasia come caratteristica dello stile omerico è stata individuata da Strasburger e
studiata poi da B. Fenik, Typical Battle Scenes in the Iliad. Studies in the Narrative Techniques of
Homeric Battle Description, Wiesbaden 1968, pp. 23 e 68 ss.
24 Ibi, p. 195 parla a proposito di «“interruption” of an aristeia».
350 Federico Di Santo
genere di sequenze narrative omeriche: Tasso ne trova sì l’esempio nel testo della
“Patrocleia” che sta imitando direttamente, ma comunque lo coglie nella sua qua-
lità di carattere peculiare dello stile omerico. Così pure il verso formulare tipica-
mente introduttivo del catalogo di uccisioni25 viene individuato come tratto stilisti-
co e dunque coerentemente ripreso (certo non è irrilevante, nel motivare la ripresa,
anche la possibilità di sviluppo patetico, già parzialmente sfruttata nell’ipotesto e
da Tasso ulteriormente ampliata):
Ma qual prima, qual poscia, o buon Ruperto,
col ferro micidial di morte affligi,
mentre con alto suon d’eterna fama
t’invita il ciel ch’i buoni accoglie e chiama?
Pria, varcato il torrente, Erode ancise,
Nigran, Tenebricante e Lucifuga;
poscia il corso vital d’Eumene incise,
di Sifon, di Smeriglio e di Felluga
(G.C. XIX, 90-91)
“Enqa tivna prw`ton tivna d∆ u{staton ejxenavrixa~
Patrovklei~, o{te dhv se qeoi; qavnaton de; kavlessan…
“Adrhston me;n prw`ta kai; Aujtovnoon kai; “Eceklon
kai; Pevrimon Megavdhn kai; ∆Epivstora kai; Melavnippon,
aujta;r e[peit∆ “Elason kai; Mouvlion hjde; Pulavrthn:
tou;~ e{len: oi} d∆ a[lloi fuvgade mnwvonto e{kasto~.
(Il. XVI 692-697)
Grazie all’intervento di Ruperto i nemici vengono momentaneamente respinti
e ci si accampa per la notte. In questo modo l’azione del compagno di Riccardo
viene interrotta dal sopraggiungere delle tenebre alla fine del libro XVIII e sarà ri-
presa solo dopo 62 ottave: questa ampia parentesi che divide l’episodio in due
grandi blocchi, pur avendo un precedente nella dislocazione degli episodi di Ne-
store ed Euripilo in due canti precedenti (Iliade XI e XV), si discosta fortemente
dal modello nell’interrompere l’azione bellica nel suo svolgersi. La sequenza in-
serita narra l’arrivo improvviso dell’esercito egiziano e la battaglia presso i fonti.
Al momento di riprendere la narrazione delle imprese di Ruperto tutto ciò porta a
dei cambiamenti, a un riassetto strutturale rispetto a Omero.
4. Abbiamo già accennato alla ricollocazione degli elementi che riprendono
le scene di Nestore ed Euripilo, i quali vengono spostati all’inizio di questa secon-
da parte, nel canto XIX, per dare a Ruperto quell’autonomia d’iniziativa che Patro-
clo non aveva. Ma se della lunga scena di Nestore in Iliade XI viene ripreso solo il
dato essenziale della proposta, rivolta per altro non a Ruperto ma al consiglio di
guerra («tal che render conviene (e tardi parme) / l’arme a Ruperto, o ’l gran Ric-
–––––––––––––––––
25 “Enqa tivna prw`ton tivna d∆ u{staton ejxenavrix[en] (Il. V 703 = XI 729 = XVI 962).
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 351
cardo a l’arme», G.C. XIX, 60, 7-8), l’incontro fra Patroclo ed Euripilo è invece
imitato per esteso in quello fra Ruperto e Guglielmo: anche qui i punti di contatto
tornano a infittirsi quasi in un continuo controcanto, molto evidente soprattutto
nella sezione iniziale:
Ruperto d’Ansa era frattanto accorso
da quella via la qual conduce a’ mari,
sin lá ’ve hanno i cavalli il campo al corso,
e i giudici alto seggio, e Dio gli altari.
Qui il fratel di Lutoldo al primo occorso,
scorge venir con tardi passi e rari,
con l’armi rotte e polveroso e stanco,
traendo a pena il mal piagato fianco.
Spargea sudor dal viso, e sangue misto,
ma pur non si smarriva il cor gentile;
n’ebbe pietá quel d’Anzio, allor che visto
l’ha cosí concio d’empia mano ostile:
e pianse i morti in quel famoso acquisto,
e la fortuna che mutato ha stile:
– Ahi, duci Franchi, come in lutto e ’n polve
la vostra gloria si tramuta e volve?
Cosí morir tanti guerrieri egregi
dovean senza sepolcro in terra estrana.
Ma tu, che, vivo ancor, sí degni pregi
d’onor riporti e di virtú sovrana,
dimmi, o Guglielmo: incontra i negri regi
fragil sará la nostra forza e vana?
O sostener potrem l’arme nemiche,
dopo sí glorïose aspre fatiche? –
(G.C. XIX, 62-64)
bh` de; qevein para; nh`a~ ejp∆ Aijakivdhn ∆Acilh`a.
ajll∆ o{te dh; kata; nh`a~ ∆Odussh`o~ qeivoio
i|xe qevwn Pavtroklo~, i{nav sf∆ ajgorhv te qevmi~ te
h[hn, th`/ dh; kaiv sfi qew`n ejteteuvcato bwmoiv,
e[nqav oiJ Eujruvpulo~ beblhmevno~ ajntebovlhse
diogenh;~ Eujaimonivdh~ kata; mhro;n oji>stw`/
skavzwn ejk polevmou: kata; de; novtio~ rJeven iJdrw;~
w[mwn kai; kefalh`~, ajpo; d∆ e{lkeo~ ajrgalevoio
ai|ma mevlan kelavruze: novo~ ge me;n e[mpedo~ h\en.
to;n de; ijdw;n w[/kteire Menoitivou a[lkimo~ uiJov~,
kaiv rJ∆ ojlofurovmeno~ e[pea pteroventa proshuvda:
a\ deiloi; Danaw`n hJghvtore~ hjde; mevdonte~
w}~ a[r∆ ejmevllete th`le fivlwn kai; patrivdo~ ai[h~
a[sein ejn Troivh/ taceva~ kuvna~ ajrgevti dhmw`/.
ajll∆ a[ge moi tovde eijpe; diotrefe;~ Eujruvpul∆ h{rw~,
352 Federico Di Santo
h[ rJ∆ e[ti pou schvsousi pelwvrion ”Ektor∆ ∆Acaioiv,
h\ h[dh fqivsontai uJp∆ aujtou` douri; damevnte~…
(Il. XI 805-821)
La risposta di Guglielmo si discosta lievemente dal testo omerico nell’intro-
durre, di nuovo, il dato ideologico – l’alterità del nemico, di quell’esercito che
prima era definito «oste, di turba orribil mista, / e varia d’armi e d’abiti e di voce»
(G.C. XIX, 7, 3-4), e che ora sta sopraffacendo i crociati: «vane (risponde) fian di-
fese e schermi, / contra i giganti de la valle inferna [gli elefanti] / e ’ncontra i mo-
stri anco i ripari infermi, / se non piace al Signor che ’l ciel governa / che la sua
aita il nostro ardir confermi» (G.C. XIX, 65, 2-6) –, per tornare subito alla “tradu-
zione” nella richiesta di cura medica avanzata del ferito.
La ricollocazione della scena di Guglielmo/Euripilo all’interno della “Patro-
cleia” determina inevitabilmente una parziale duplicazione degli elementi di inne-
sco dell’azione: di nuovo Ruperto prova compassione per i suoi compagni cristiani
e desiderio di vendetta, di nuovo è ribadito il suo parziale oblio della raccoman-
dazione fattagli da Riccardo. Ma questa duplicazione, in realtà, esprime una di-
versità fra i due momenti che è forse la principale differenza esibita dall’episodio
della Conquistata rispetto al suo modello omerico, quella in cui in qualche modo
trovano una loro composizione, in una strategia coerente di senso, gli altri ele-
menti di discostamento rispetto modello che abbiamo già brevemente evidenziato.
Dividendo in due blocchi distinti la “Patrocleia” di Ruperto, Tasso separa netta-
mente le due fasi dell’azione quella difensiva e quella offensiva che nell’Iliade
erano contigue, marcate nel passaggio dall’una all’altra solo dalla duplicazione
delle scelte del personaggio sul piano divino: prima, nella decisione di Zeus di con-
cedere ulteriore gloria a Patroclo dopo l’uccisione di Sarpedone (Il. XVI 652 ss.),
poi, nel suo esplicito “accecamento” che lo porta, dimentico delle parole di Achille,
a spingersi fin sotto le mura di Troia:
Pavtroklo~ d∆ i{ppoisi kai; Aujtomevdonti keleuvsa~
Trw`a~ kai; Lukivou~ metekivaqe, kai; mevg∆ ajavsqh
nhvpio~: eij de; e[po~ Phlhi>avdao fuvlaxen
h\ t∆ a]n uJpevkfuge kh`ra kakh;n mevlano~ qanavtoio.
ajll∆ aijeiv te Dio;~ kreivsswn novo~ hjev per ajndrw`n:
o{~ te kai; a[lkimon a[ndra fobei` kai; ajfeivleto nivkhn
rJhi>divw~, o{te d∆ aujto;~ ejpotruvnh/si mavcesqai:
o{~ oiJ kai; tovte qumo;n ejni; sthvqessin ajnh`ken.
(Il. XVI 684-691)
Questo passaggio ha anch’esso il suo corrispettivo nel testo della Conquista-
ta. Ma la a[th di Patroclo è qualcosa di molto diverso dall’oblio di Ruperto: per
quanto anche quest’ultimo sia mosso da un’eccessiva fiducia in se stesso (cfr. già
prima, ad esempio: «ma non librò l’ardir con giusta lance», G.C. XIX, 7, 3-4), la
sua decisione di proseguire l’azione con una contrattacco non ha affatto quella
connotazione negativa di incoscienza, di inconsapevolezza che è nel personaggio
omerico; al contrario, il suo desiderio di “gloria immortal” nasce dal proposito
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 353
giusto e pienamente consapevole di vendicare i compagni sugli infedeli, ma so-
prattutto mostra un ben diverso rapporto col piano divino che sta dietro di esso,
come sottolinea l’epanortosi dalla quale è introdotto il distico finale:
Parte del suo signore oblia l’impero,
ch’egli guerra non faccia e sol rispinga,
e del soldán, ch’è si possente e fèro,
schivi l’incontro, ove s’avanzi e spinga:
tanto nel petto giovinile altero
può di gloria immortal dolce lusinga,
o quasi forza è pur d’eterna luce
questo nobil desio ch’a morte induce.
(G.C. XIX, 69)
La «gloria immortal» di cui Ruperto sente il desiderio viene ricondotta nel-
l’ambito di un progetto divino, che la trasforma in modo sostanziale rispetto alla
«lusinga» di «gloria immortal» che animava Riccardo nel primo libro (G.C. I, 13, 6)
e che non aveva ancora alcun riflesso sul piano divino; tanto più essa si discosta,
allora, dal colpevole desiderio di gloria da cui sono animate le schiere pagane.
Siamo ormai molto lontani da quel klevo~ a[fqiton che pure, infondo, l’espressio-
ne traduce: il concetto omerico di una gloria che, conseguita attraverso l’impresa
eccellente, si riflette sul piano della considerazione sociale e soprattutto della fama
che travalica i confini della morte, se ha ancora dei punti di contatto con la «gloria
immortal» che Riccardo desidera all’inizio del poema, non può che evolvere, nel
percorso spirituale dell’opera, verso le concezioni specifiche della cultura cristia-
na, ed essere così risemantizzata nel senso di una gloria la cui dimensione di eter-
nità non si realizza più su un piano umano e letterario (quello del klevo~ il cui vei-
colo è il canto epico stesso), ma su un piano divino, religioso.
In quest’ottica si comprende come, diversamente dal suo modello omerico, la
vicenda di Ruperto possa configurarsi come un vero sacrificio di sé, un sacrificio
consapevole, frutto di una propria scelta. Il carattere di consapevolezza, che abbia-
mo visto essere fin dall’inizio dell’episodio una notevole differenza rispetto a Pa-
troclo, è alla base dell’esplicita scelta della morte operata dal personaggio di fron-
te ad un’alternativa del suo destino, scelta all’origine della sua stessa vicenda, che
ora si sta consumando: l’alternativa ci viene prospettata dal personaggio stesso
al momento del suo viaggio insieme ad Araldo per liberare Riccardo da Armida,
quando egli ricorda la profezia parlando a Filagliteo/Mago di Ascalona:
– Padre (rispose) io tardo mossi, e tardo
tu non spiasti giá gli affetti miei:
ma de la vita e di famose palme
non curo omai, tanto di lui sol calme.
Allor fia in vece a me d’alta vittoria
la morte, che per lui quest’alma io versi.
Solamente ch’ei torni a quella gloria
ch’invidïaro i suoi nemici avversi.
354 Federico Di Santo
Perda ogni altro di me grata memoria:
pur ch’ei la serbi, e mostri i lumi aspersi
ne la mia morte, come giá vid’io
il dí ch’ei disse a’ dolci amici ’a Dio.
Egli piangea, tanto di me gl’increbbe,
a cui ’l proprio fratello appena adegua.
Io prima nacqui, ed egli in prima crebbe:
e sol temo morir, perch’ei non segua.
Ben ti sovvenne, e sovvenir ti debbe
(che la memoria in te non si dilegua)
quando mi predicesti, in dubbio caso,
òrto immortal dopo il mortale occaso:
dicendo ch’a me fine era prescritto
immaturo ne l’Asia, e morte acerba,
s’io liberava il cavaliero invitto
da la dolce prigion ch’amor gli serba:
pur n’avrei lunga fama oltra l’Egitto,
ed oltra Babilonia empia e superba.
Ma, lui lasciando, e l’altre imprese e l’armi,
poteva al duro fato anch’io sottrarmi.
Allor morir elessi: or non mi pento,
né viver sí ozïoso in pace io sceglio,
né se vivessi ancor cent’anni e cento,
sazio sarei di vita, infermo veglio.
Ma ne’ suoi rischi neghittoso e lento
son troppo, e tardi al mio dover mi sveglio:
or fa’ ch’io sappia ove si trovi, e come,
o domito d’amore, o d’altre some.
(G.C. XII, 48-52)
Evidente la derivazione iliadica di questa scelta fra due alternative del desti-
no: quello che in Omero era un tratto di Achille, viene qui trasferito non già al suo
corrispettivo, Riccardo, bensì a Ruperto, operando in tal modo, nella derivazione
dalla coppia di personaggi omerici, una contaminazione che ha un suo precedente,
seppur diversamente realizzato, nell’Italia del Trissino26. La scelta del sacrificio
di sé è dunque un tratto caratterizzante del personaggio di Ruperto, ed è alla luce
di questa scelta che va letta la sua morte. Si tratta di un sacrificio compiuto in
nome dell’amicizia verso Riccardo, ma in una prospettiva più generale volto al-
tresì a permettere il compimento dell’impresa cristiana, attraverso la liberazione
–––––––––––––––––
26 Questo già a livello onomastico: se Corsamonte riprende l’Achille omerico, il corrispettivo
di Patroclo si chiama Achille; l’operazione non è così banale come sembra in quanto, appunto, se-
gnala non solo la derivazione, ma anche il suo carattere contaminato: a morire sarà Corsamonte, e
sarà invece il suo compagno Achille (cioè il suo “Patroclo”) a piangerlo e vendicarlo.
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 355
dell’eroe “necessario” dal suo romanzesco “errore” amoroso, così da riportarlo sul
luogo del conflitto epico.
Da una parte, dunque, il rapporto di amicizia fra Riccardo e Ruperto è ben
evidente ed esplicitamente rappresentato nel poema sin dall’inizio, a differenza di
quanto avviene nell’Iliade, dove il legame emerge in tutta la sua forza solo dopo
la morte di Patroclo; nella Conquistata, il tema dell’amicizia assume anzi una di-
mensione sacrificale, tragica, che lo innalza ad essere materia del tutto degna
della poesia epica. Ciò fa sì che la morte di Ruperto sia anche culmine della per-
turbazione, del pathos aristotelico, che scatena in Riccardo quella “emozione infi-
nita” conciliabile con le necessità dell’azione e dell’ideologia soltanto, come si è
visto, attraverso una loro sovrapposizione.
Dall’altra parte, la scelta di morte di Ruperto determina anche la peripezia
del poema, provocando il ritorno in campo di Riccardo e permettendo così la vit-
toria cristiana e il compimento dell’impresa. In questo, il sacrificio assume una
dimensione che trascende quella dell’amicizia e che rientra in un piano più ampio,
volto a garantire il compimento del «glorïoso acquisto»: egli viene ad essere vir-
gilianamente vittima di un progetto provvidenziale, un progetto che, pur essendo
giusto, non per questo risulta meno drammatico nel suo affermarsi27.
Naturalmente di tutto questo non c’è traccia nell’Iliade. Il carattere sacrificale
che alcuni hanno voluto vedere nell’irrealizzabile sostituzione di Patroclo ad Achil-
le, spesso basando la loro interpretazione su elementi della solidità di un’etimolo-
gia28 o di un gesto come il battersi le cosce29, non ha in realtà alcun fondamento,
tanto più di fronte all’inconsapevolezza del personaggio che non sa di andare in-
contro alla morte. E proprio all’inconsapevolezza, alla mancanza di autonomia
d’iniziativa di Patroclo si contrappongono invece la consapevolezza delle proprie
scelte e lo spirito d’iniziativa di Ruperto, in vista di quel volontario sacrificio – in
nome dell’amicizia e della causa cristiana – che lo differenzia nettamente dalla
morte “accidentale” di Patroclo.
Questo elemento di sacrificio è alluso anche nella scena di vestizione delle
armi, che riprende quella di Patroclo. Seguendo il consiglio di Giovanni/Nestore,
di fronte alla grave situazione, i crociati decidono di consegnare a Ruperto le armi
di Riccardo, fino ad allora custodite da Goffredo. La struttura tipica della scena di
vestizione non viene imitata da Tasso, che si limita a desumere invece il partico-
lare significativo, atipico che differenzia la vestizione di Patroclo dal modulo tra-
dizionale: nell’Iliade, i versi formulari propri della scena tipica sono interrotti,
alla fine della sequenza consueta, da un elemento fortemente anomalo:
e[gco~ d∆ oujc e{let∆ oi\on ajmuvmono~ Aijakivdao
briqu; mevga stibarovn: to; me;n ouj duvnat∆ a[llo~ ∆Acaiw`n
–––––––––––––––––
27 In questa direzione “virgiliana” va il complessivo disegno, esposto nelle pagine finali del-
l’incompiuto Giudicio, di suscitare compassione anche verso i pagani sconfitti, più di quanto non
fosse già nella Liberata.
28 D.S. Sinos, Achilles, Patroklos and the meaning of fivlo~, Innsbruck 1980.
29 S. Lowenstam, The Death of Patroklos. A Study in Typology, Königstein 1981.
356 Federico Di Santo
pavllein, ajllav min oi\o~ ejpivstato ph`lai ∆Acilleu;~
Phliavda melivhn, th;n patri; fivlw/ povre Ceivrwn
Phlivou ejk korufh`~, fovnon e[mmenai hJrwvessin.
(Il. XVI, 140-144)
Il fatto che Patroclo non prenda la lancia di Achille, com’è stato spesso nota-
to, rimarca la sua inadeguatezza al compito di sostituire il suo ben più forte com-
pagno, contribuendo così insieme a numerosi altri segnali disseminati nel testo
a lasciar intendere l’esito funesto che avrà l’impresa. Tasso non solo riprende que-
sto particolare, ma lo raddoppia: Ruperto, delle armi di Riccardo, non prende né
la spada, troppo pesante, né la lancia, che in precedenza era stata rotta dal legit-
timo proprietario. Anche in questo si può vedere non tanto un’inadeguatezza di
Ruperto, che d’altra parte non intende sostituirsi a Riccardo, quanto piuttosto un’an-
ticipazione della sua morte, conforme all’intento patetico che muove il poeta in
tutto l’episodio. Di nuovo, però, l’elemento desunto da Omero subisce una rifun-
zionalizzazione coerente con la nuova strategia di senso che abbiamo cercato di
delineare: la spada che viene presa al posto di quella lasciata ha un evidente va-
lore simbolico:
Un’altra spada al fianco allor si cinge
Ruperto, in cui la guardia e ’l pomo è d’oro,
e vi riluce impressa alata sfinge,
che si corona di frondoso alloro
(G.C. XIX, 72, 1-4)
La sfinge può intendersi probabilmente come simbolo del destino o della
morte, mentre l’alloro allude verosimilmente alla gloria immortale; ad ogni modo,
è difficile dubitare che l’immagine non intenda anticipare l’«òrto immortal dopo
il mortale occaso» che era stato profetizzato a Ruperto se avesse scelto, fra le due
alternative del suo destino, quella di sacrificare la sua vita, permettendo in tal
modo la liberazione di Riccardo da Armida. E la gloria immortale, l’assunzione al
regno di Dio come compimento della sua scelta riguardo al proprio destino, è ap-
punto ciò che lo attende al momento della morte, come vedremo fra breve.
La nuova sequenza di battaglia del libro XIX riprende una serie di elementi
che nella “Patrocleia” iliadica erano collocati nella fase iniziale degli scontri: lo
smembramento dell’episodio in due blocchi, nella Conquistata, determina la ne-
cessità di ripetere alcuni elementi di innesco dell’azione bellica, come abbiamo già
visto. Ritroviamo dunque, a marcare l’irrompere in battaglia, la similitudine dei
lupi che si abbeverano con il muso ancora sporco di sangue, la stessa che anche
nell’Iliade seguiva subito la vestizione delle armi (G.C. XIX, 76; cfr. Il. 156 ss.);
anche il discorso d’esortazione rivolto da Ruperto ai suoi guerrieri riprende quello
di Patroclo all’arrivo sul campo di battaglia. Simile è pure l’effetto di sorpresa su-
scitato nei nemici dalla vista di quello che credono Riccardo, ingannati dall’arma-
tura. Ma questo particolare, rovesciando esplicitamente il senso che aveva nel-
l’Iliade, è ripreso proprio per sottolineare come Ruperto, pur vestito delle armi del
compagno, non intenda affatto sostituirsi a lui né ingannare alcuno («che nulla
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 357
mente»), coerentemente con le importanti diversità che abbiamo visto distinguerlo
dal modello di Patroclo:
Dicean gli Assiri, mossi al primo sguardo,
folgoreggiar veggendo e quasi a volo
l’angel sublime: - È questo il gran Riccardo
che riede in guerra, e con piú fèro stuolo.
Fu dunque un vano messaggier bugiardo
quel di Fenicia, e n’abbiam onta e duolo. -
Egli intanto giungea, che nulla mente,
piú di virtú che di fin’òr lucente
(G.C. XIX, 79)
Trw'e~ d∆ wJ~ ei[donto Menoitivou a[lkimon uiJo;n
aujto;n kai; qeravponta su;n e[ntesi marmaivronta~,
pa'sin ojrivnqh qumov~, ejkivnhqen de; favlagge~
ejlpovmenoi para; nau'fi podwvkea Phlei?wna
mhniqmo;n me;n ajporri'yai, filovthta d∆ eJlevsqai:
pavpthnen de; e{kasto~ o{ph/ fuvgoi aijpu;n o[leqron.
(Il. XVI 278-283)
La sequenza di combattimenti in cui si articola questa seconda fase della “Pa-
trocleia” di Ruperto è costruita secondo delle modalità affini a quelle che abbiamo
preso in considerazione per la prima fase. Ritroviamo lo stesso procedimento di
alternare sequenze in stile omerizzante, ma che riprendo il testo solo in maniera
generica, con altre sequenze in cui ci si avvicina di più al dettato del testo iliadico,
fino ad arrivare in alcuni punti isolati alla traduzione quasi letterale. Il punto di
massimo avvicinamento al testo omerico è la ripresa dell’uccisione di Testore e
della relativa similitudine, in cui l’immagine è duplicata sin nei dettagli:
Sedea raccolto in ben polita sella
Decher, e giá smarrito il viso e ’l core,
mentre mirò questa percossa e quella,
ch’empier potea di spaventoso orrore:
e la sinistra man, tremante anch’ella,
lasciava il freno: a lui, che tutto smore,
fra’ denti trapassò l’acuta lancia,
e gli trafisse la sinistra guancia.
Com’uom che siede curvo, e l’onde mira
da pietra che sovrasti al suol marino,
prende il pesce con l’amo e suso il tira
con la tremula canna avvinta al lino:
tal preso per la parte ond’ei respira,
con l’asta il leva, e gitta a capo chino
sovra l’aperta bocca, indi sen fugge
l’anima ch’al partir si lagna e mugge.
(G.C. XIX, 83-84)
358 Federico Di Santo
o} de; Qevstora “Hnopo~ uiJo;n
deuvteron oJrmhqeiv~: o} me;n eujxevstw/ ejni; divfrw/
h|sto ajleiv~: ejk ga;r plhvgh frevna~, ejk d∆ a[ra ceirw`n
hJniva hji?cqhsan: o} d∆ e[gcei> nuvxe parasta;~
gnaqmo;n dexiterovn, dia; d∆ aujtou` pei`ren ojdovntwn,
e{lke de; douro;~ eJlw;n uJpe;r a[ntugo~, wJ~ o{te ti~ fw;~
pevtrh/ e[pi problh`ti kaqhvmeno~ iJero;n ijcqu;n
ejk povntoio quvraze livnw/ kai; h[nopi calkw`/:
w}~ e{lk∆ ejk divfroio kechnovta douri; faeinw`/,
ka;d d∆ a[r∆ ejpi; stovm∆ e[wse: pesovnta dev min livpe qumov~.
(Il. XVI 401-411)
Questa seconda parte della narrazione bellica è interessata, tuttavia, anche dal
cambiamento strutturale più evidente rispetto al modello di Iliade XVI: in poche
ottave (12) di generici scontri in stile omerizzante viene liquidata una sezione
molto ampia dell’ipotesto, eliminando in tal modo tutte le rilevanti sequenze nar-
rative in cui si articola la parte centrale della “Patrocleia” (duello con Sarpedone,
intervento di Glauco, battaglia intorno al corpo di Sarpedone e suo trasporto in
Licia da parte di Hypnos e Thanatos ecc.)30, che mancano di un corrispettivo nella
Conquistata. La motivazione di questo vistoso discostamento dal modello è piut-
tosto ovvia: a Tasso non interessa più la progressione di imprese eccellenti che
scandisce in crescendo il percorso tipico dell’aristia, rappresentando narrativa-
mente quel valore in battaglia su cui si fonda l’affermazione sociale del guerriero
omerico; questa modalità narrativa è strettamente funzionale al sistema di valori
proprio dell’epica greca arcaica: fuori da quel contesto perde il suo senso. Ciò che
invece interessa a Tasso, come abbiamo visto, è il dato conclusivo della morte, sia
come causa che innesca la peripezia, sia come dato emozionale, come culmine del
pathos. Le sequenze non più funzionali al nuovo contesto vengono dunque sempli-
cemente abolite, in modo da arrivare in breve al nucleo fondamentale. D’altra parte
il rapporto in Omero imprescindibile che – nella conquista del kalòs thanatos e
del kleos – lega indissolubilmente la morte dell’eroe alla sequenza delle imprese,
nel contesto della cultura cristiana diviene molto più labile: la gloria in questione
è di tutt’altra natura, e il suo conseguimento discende da una scelta interiore – la
scelta del sacrificio – ben più che dal compimento dell’azione concreta.
5. Il duello finale con Solimano è dunque il termine verso il quale è indirizzata
l’intera strategia significativa proposta da Tasso, in tutte le sue differenze rispetto
al modello iliadico: non sorprende che esso abbia ben pochi punti di contatto,
nella sua strutturazione, con il duello fra Patroclo ed Ettore. Il percorso di disco-
stamento da Omero, il cui senso è venuto progressivamente delineandosi nel testo,
determina un allontanamento più marcato proprio nell’elemento finale, in relazio-
–––––––––––––––––
30 La struttura formale dell’aristia omerica in generale, dunque anche di quella di Patroclo, è
stata analizzata nelle sue sequenze tipiche, da T. Krischer, Formale Konventionen der homerischen
Epik (Zetemata, 56), München 1971.
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 359
ne al quale i tratti di differenziazione si compongono in un quadro coerente di si-
gnificato. I punti di contatto con l’Iliade a livello strettamente testuale continuano
ad essere numerosi, ma si innestano ora su uno sfondo situazionale sensibilmente
diverso: la coppia costituita da Solimano e suo figlio Amoralto non corrisponde
affatto alla sequenza dei tre agenti che determinano, in successione, la morte di
Patroclo. E d’altronde il personaggio che in generale, nella Conquistata, viene
plasmato sulla figura dell’Ettore omerico non è Solimano, bensì Argante. La fi-
gura di Solimano resta fuori da quel piano di omerizzazione dei personaggi nel
poema riformato che è esposto nel Giudicio31, e nella sua unione con il figlio
Amoralto, esplicitamente modellata su quella di Mezenzio e Lauso nell’Eneide in
vista della scena della loro morte, costituisce il più rilevante contributo virgiliano
al nuovo sistema dei personaggi32.
Se dunque il contatto con il modello omerico, prima del momento effettivo
della morte di Ruperto, dove le riprese tornano ad infittirsi, si limita sostanzial-
mente alla ripresa della similitudine fra il quadro generale della battaglia e l’infu-
riare di Euro e Noto:
Come in valle talor, che cinge e serra
d’alpestri monti oscura selva intorno,
fanno irati fra sé terribil guerra
Euro, e chi spira onde tramonta il giorno:
caggion con gran romore i rami a terra,
percotendosi insieme il faggio e l’orno:
cosí genti pugnâr di fé discordi,
né v’è chi pensi a fuga, o sen ricordi.
(G.C. XIX, 99)
ÔW~ d∆ Eu\rov~ te Novto~ t∆ ejridaivneton ajllhvloiin
ou[reo~ ejn bhvssh/~ baqevhn pelemizevmen u{lhn
fhgovn te melivhn te tanuvfloiovn te kravneian,
ai{ te pro;~ ajllhvla~ e[balon tanuhvkea~ o[zou~
hjch`/ qespesivh/, pavtago~ dev te ajgnumenavwn,
w}~ Trw`e~ kai; ∆Acaioi; ejp∆ ajllhvloisi qorovnte~
dhv/oun, oujd∆ e{teroi mnwvont∆ ojlooi`o fovboio.
(Il. XVI 765-71),
lo svolgimento del duello conclusivo è del tutto diverso: nell’Iliade non c’è neppu-
re un vero e proprio duello, e la morte coglie Patroclo inaspettatamente, e senza
che questi possa opporre alcuna resistenza ai colpi di Euforbo e di Ettore, dopo lo
stordimento provocato dal colpo alle spalle infertogli da Apollo. Ruperto, al contra-
rio, nel momento stesso in cui vede e «ben riconosce» Solimano, appare «quasi del
fin presago», e dopo un primo momento di esitazione decide di sua volontà, ben-
ché «obliando» la profezia riguardo alla sua morte, di andare incontro al nemico:
–––––––––––––––––
31 Giudicio, cit., pp. 137-138.
32 Giudicio, cit., pp. 174-179.
360 Federico Di Santo
Giovine incauto era trascorso, e vago
di vittoria, d’onor, d’eterna loda,
quand’ei scoprí, quasi del fin presago,
l’empio soldan che forza accoppia e froda;
come il pastor che scorga orribil drago
strisciar fra l’erba, ove s’avvinchia e snoda,
e sibilando alzar superba cresta
gonfio il ceruleo collo, ond’ei s’arresta:
cosí riflette dubbio; e ’l gran ribello
ben riconobbe a la famosa insegna,
con Amoralto, il cavalier novello,
la cui virtú d’iniqua legge è indegna.
[…]
Vide ch’era seguito, e nulla ei disse,
quasi d’indugio or si vergogni e penta;
e quel che di sua morte in cor descrisse
obliando, al destriero il freno allenta;
ma del suo ardir l’alte parole ha fisse,
in guisa d’uom ch’il suo dever rammenta:
e ’ncontra il re de la spietata turba
drizza prima il suo corso, e lui perturba.
(G.C. XIX, 92-93 e 95)
Anche la violenza dello scontro, di carattere ben più cavalleresco che epico,
non ha nulla a che fare con i colpi unilaterali dei tre uccisori di Patroclo, ai quali
questi neppure riesce a reagire:
Incominciâr l’impetüoso assalto
i duo guerrier, con cento colpi e mille:
ed ambe fiammeggiâr le spade in alto,
e risonâr siccome incudi o squille
quell’arme adamantine; e ’l verde smalto
non però tinser di sanguigne stille;
ma sovra gli elmi ogni crudel percossa
fu grave, e parve Pelio imposto ad Ossa.
(G.C. XIX, 97)
Di nuovo ritroviamo, portata alle sue estreme conseguenze, la contrapposi-
zione fra un Patroclo inconsapevole, che subisce la sua sorte, e un Ruperto ben
più consapevole, che invece la sua sorte ha scelto e accettato. Il compimento di
questa differenza sta, come abbiamo visto, nel carattere di sacrificio che contrad-
distingue la morte di Ruperto, e da cui dipende la necessaria diversità negli esiti
di rappresentazione di questo elemento conclusivo.
Nelle tre ottave in cui è rappresentato il momento vero e proprio della morte
di Ruperto tornano ad accumularsi le riprese dalla corrispondente situazione ilia-
dica, ma in questo caso esse non fanno che mettere ancor più in risalto la diversità
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 361
sostanziale dell’esito. Come Patroclo, Ruperto per tre volte fa strage dei nemici,
ma al quarto assalto va incontro alla sua fine (con traduzione quasi letterale del
verso formulare e[nq∆ a[ra toi Pavtrokle favnh biovtoio teleuthv, cfr. Il. VII, 104):
Ruperto si girò tre volte, ed anco
ferí tre volte, e fece alte ruine,
terribil piú che si mostrasse unquanco,
d’armi e di genti ch’incontrò vicine.
La quarta a lui, pur ruinoso e stanco,
de la sua morte apparve orrido fine
visibilmente, e ’n quel gravoso impaccio
Morte che per ferire alzava il braccio.
(G.C. XIX, 101)
tri;~ me;n e[peit∆ ejpovrouse qow`/ ajtavlanto~ “Arhi>
smerdaleva ijavcwn, tri;~ d∆ ejnneva fw`ta~ e[pefnen.
ajll∆ o{te dh; to; tevtarton ejpevssuto daivmoni i\so~,
e[nq∆ a[ra toi Pavtrokle favnh biovtoio teleuthv:
(Il. XVI 784-787)
Ripreso è anche il disarmo che Patroclo subiva per mano di Apollo:
Fu tratto l’elmo a la onorata testa,
ella di piaghe offesa e gravi ed empie,
disarmata la mano e ’l petto, e ’l tergo
del fino scudo e del lucente usbergo.
(G.C. XIX, 102, 5-8)
tou` d∆ ajpo; me;n krato;~ kunevhn bavle Foi`bo~ ∆Apovllwn:
h} de; kulindomevnh kanach;n e[ce possi;n uJf∆ i{ppwn
aujlw`pi~ trufavleia, miavnqhsan de; e[qeirai
ai{mati kai; konivh/si: pavro~ ge me;n ouj qevmi~ h\en
iJppovkomon phvlhka miaivnesqai konivh/sin,
ajll∆ ajndro;~ qeivoio kavrh cariven te mevtwpon
rJuvet∆ ∆Acillh`o~: tovte de; Zeu;~ ”Ektori dw`ken
h|/ kefalh`/ forevein, scedovqen dev oiJ h\en o[leqro~.
pa`n dev oiJ ejn ceivressin a[gh dolicovskion e[gco~
briqu; mevga stibaro;n kekoruqmevnon: aujta;r ajp∆ w[mwn
ajspi;~ su;n telamw`ni camai; pevse termiovessa.
lu`se dev oiJ qwvrhka a[nax Dio;~ uiJo;~ ∆Apovllwn.
(Il. XVI 793-804)
Neppure l’apostrofe al personaggio è tralasciata, ma trasportata al momento
dello sciogliersi dell’anima dal corpo. È qui che emerge in modo manifesto tutta
la distanza ideologica che separa il poeta cristiano dal suo modello omerico, mar-
cata di nuovo dal ricorso a un’evidente epanortosi:
Cosí moristi, o viva gloria o lume
del nobil regno, e festi eterno occaso,
spargendo d’un purpureo e caldo fiume
362 Federico Di Santo
il sol de l’armi, in quell’orribil caso:
anzi volasti al ciel con altre piume
che d’aquila, o di Fama, o di Pegáso,
le tue spoglie lasciando al fier nemico,
lagrimosa vendetta al fido amico.
(G.C. XIX, 102, 5-8)
L’ascensione dell’anima alla gloria celeste è inevitabilmente l’esito del sacri-
ficio di Ruperto, parte di una prospettiva cristiana che non può evitare di esibire la
propria diversità da una concezione della morte radicalmente “altra”. Ciò si riflet-
te, pertanto, in un riavvicinamento a quella tradizione poetica nei confronti della
quale, alla contrapposizione su un piano letterario, corrisponde invece una conti-
nuità sul piano ideologico: la commossa immagine dell’anima accolta in cielo al
momento della morte ricorda la morte di Orlando nella Chanson de Roland o quel-
la di Brandimarte nel Furioso ben più che la discesa all’Ade della psykhé di Patro-
clo, o{n povtmon goovwsa. Il riavvicinamento al modello iliadico si avrà invece nello
sviluppo successivo a cui porterà questa morte, nella centralità del dato emotivo
che abbiamo visto essere comune – pur nel suo diverso trattamento – all’Achille
omerico e al Riccardo della Conquistata.
6. Abbiamo analizzato un episodio esemplare per comprendere il rapporto
creativo di Tasso con Omero, evidenziando le nuove strategie di senso che emer-
gono dalle differenze fra i due testi. Ma la questione va affrontata anche da un altro
punto di vista, quello delle identità. Viene da chiedersi: perché “contaminare Ome-
ro con Omero”? – potremmo dire, parafrasando per l’ennesima volta Aristarco.
Perché riprendere interi episodi e scene dall’Iliade, e seguirli poi fin nel dettaglio,
fino alla traduzione? Perché, insomma, un’imitazione al contempo così esclusiva
e così pervasiva? Tasso stesso, abbiamo visto, poneva il rapporto della Conquistata
con Omero in termini di somiglianze e differenze: che le differenze intendano
contribuire ad una strategia di significato – per quanto la critica lo abbia messo in
luce molto poco – è in fondo un dato abbastanza ovvio. È il dato su cui si basa il
procedimento stesso per cui un testo interagisce con un altro. Ma le somiglianze?
Quando si fanno così evidenti, necessitano esse stesse di una spiegazione, proprio
nel loro complesso, nel loro fare sistema. Anch’esse devono avere un senso, non
foss’altro per la loro sistematicità, che tanto le allontana dai modi consueti del
rapporto intertestuale.
Matteo Residori, che ha fornito recentemente il contributo più valido e cospi-
cuo che abbiamo sulla Conquistata, ha anche tentato quello che è in fondo l’unico
approccio alla questione dell’imitazione omerica nel poema che intendesse dare
conto del fenomeno nel suo complesso. La sua tesi fondamentale è che a determi-
nare la massiccia imitazione dell’Iliade sia la volontà di desumerne elementi es-
senzialmente al livello del sistema dei personaggi, e più precisamente dei “costu-
mi”, di quello che nella Poetica di Aristotele è chiamato ethos. Scrive Residori:
«Nelle prossime pagine ci capiterà di osservare come l’imitazione omerica determini an-
che profonde, spesso rovinose alterazioni della struttura originaria della Gerusalemme; ma
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 363
in ognuno di questi casi sembra possibile dimostrare che tali trasformazioni non sono il
movente principale della ripresa, ma piuttosto una conseguenza – non calcolata, sottovalu-
tata, o ammessa come inevitabile – di interventi che mirano prima di tutto ad altro, cioè a
far ereditare al poema la ricchezza, la varietà, la forza icastica di quella formidabile galle-
ria di “costumi” [sic] che è l’Iliade»33.
A parte l’improbabile definizione dell’Iliade – che spero sia da intendersi,
quantomeno, riferita alla percezione che Tasso aveva del poema omerico –, è evi-
dente che una tesi di questo genere non rende minimamente conto della pervasività
nel testo dell’imitazione omerica, non solo in senso “orizzontale” – in quanto co-
stantemente presente in tutto il poema ma anche “verticale” in quanto coinvolge
tutti i livelli del testo. Lo studioso stesso se ne rende conto, probabilmente, e si
vede costretto a ricorrere pertanto ad un’altra spiegazione, aggiuntiva: rifacendosi
ad una categoria elaborata da Thomas M. Greene, che ha fornito la principale trat-
tazione sull’imitatio nella poesia umanistico-rinascimentale34, sostiene che ci tro-
veremmo di fronte ad un caso di imitazione “sacramentale”: si vede nel modello
imitato una tale dignità “sacrale” da non permettere altro tipo di imitazione se non
la riproduzione in termini di massima fedeltà all’originale; con tale procedimento
si cercherebbe di far partecipare anche la propria opera, quasi di riflesso, della
stessa dignità “sacrale” del modello.
Personalmente, ritengo che questa interpretazione dell’imitazione omerica
nella Conquistata sia fortemente riduttiva. Si tratta di una spiegazione facile, che
più che affrontare il problema lo liquida sbrigativamente. E anche se l’applicazio-
ne esplicita della categoria è di Residori, la valutazione negativa del procedimento
implicita nell’idea stessa di imitazione “sacramentale” esprime in fondo l’idea
condivisa un po’ da tutti gli studiosi: più che indagare in profondità le motiva-
zioni di questo tipo di rapporto con Omero, Residori fornisce un supporto teorico
al preconcetto comune. L’operazione compiuta da Tasso nell’omerizzazione del
poema, invece, presenta un carattere di forte autoconsapevolezza che non si può
liquidare in questo modo. Il poeta, sin dal suo giudizio sull’Italia del Trissino già
all’epoca dei Discorsi dell’arte poetica, è pienamente consapevole dei rischi che
un simile procedimento comporta proprio sul versante dell’originalità. Se nel pe-
riodo della rielaborazione del poema egli si riaccosta a quella tendenza, delineata
soprattutto da Trissino e poi Alamanni, che in precedenza aveva rifiutato in modo
netto, ciò non avviene certo per inaridimento e stanchezza, ma per una scelta a
lungo meditata. Tasso, d’altra parte, non rivaluta tanto le opere in sé di quei poeti
“omerizzanti”, quanto piuttosto l’operazione letteraria da essi compiuta. Come
loro, egli intende riportare in vita un genere letterario, il poema epico e più preci-
samente eroico. Sta qui, a mio parere, il senso dell’operazione compiuta da Tasso.
Il poema epico eroico rinascimentale presenta un’origine marcatamente “controge-
nerica”, nel suo nascere in aperta contrapposizione con il romanzo cavalleresco e
–––––––––––––––––
33 M. Residori, L’idea del poema, cit., pp. 179-180.
34 T.M. Greene, The Light in Troy. Imitation and Discovery in Renaissance Poetry, Yale
1982, cui si rimanda per una ulteriore bibliografia sull’imitatio rinascimentale (p. 312, nota 34).
364 Federico Di Santo
in particolare con il capolavoro di quella tradizione letteraria, l’Orlando Furioso.
Si vuole riportare in vita un genere, quello epico, presentandolo come una sorta di
“controgenere” alto da contrapporre al romanzo. L’operazione, dunque, presenta
un carattere fortemente artificiale e sperimentale, ed è proprio questo aspetto che
Tasso rivaluta. Un genere letterario è essenzialmente un modello teorico, un in-
sieme di forme e di temi. Di norma, queste forme e questi temi che lo compon-
gono arrivano all’autore che con esso si cimenta da una tradizione viva, vitale,
che fornisce un patrimonio in continua evoluzione, una continuità nella quale col-
locarsi. Riportare in vita un genere letterario del passato significa invece confron-
tarsi con una tradizione che è morta, che si è da tempo conclusa: bisogna colmare
quello iato temporale e letterario che separa il presente dal passato, che rompe la
continuità. Quelle forme e quei temi di cui si ha bisogno devono dunque essere
desunti artificialmente da una tradizione del passato. Questo è appunto il caso del
poema epico rinascimentale: esso non ha a disposizione, da una continuità lette-
raria, quel materiale di cui sostanziarsi che è indispensabile alla sua creazione, e
che invece il poema cavalleresco aveva. Viene a mancare quel diretto confronto
con le opere dei propri predecessori che permette di collocarsi in una continuità,
quand’anche fosse per contrapposizione, e che è indispensabile a ricevere “natural-
mente” un patrimonio di materiali dal rapporto con i quali, in una continua evolu-
zione, si determina nel tempo un genere letterario. Per rifondare il poema eroico,
dunque, le forme e i temi devono essere desunti artificialmente dalla tradizione
epica dell’antichità. Ma allora perché solo Omero? La risposta è a mio parere
proprio nel carattere artificiale dell’operazione: andare a desumere da opere del
passato del materiale che non viene trasmesso naturalmente, per via di una conti-
nuità, è un’operazione difficile e pericolosa. Si rischia di creare un monstrum, una
creatura informe che fa convivere elementi inconciliabili, i quali, per quanto siano
parte di una stessa tradizione di genere, sono però differenziati da una continua
evoluzione: questa evoluzione, benché attraverso una continuità, li trasforma ren-
dendoli inconciliabili con il sistema delle opere precedenti da cui derivano. L’Enea
virgiliano, insomma, non potrebbe stare nell’Iliade, così come il raffinato apparato
metaletterario del Furioso non potrebbe stare nei cantari toscani. C’è bisogno di un
sistema coerente, per operare una derivazione artificiale, e non lo si può trovare
che in una singola opera. Cercare di conciliare in sincronia gli elementi di una
diacronia sarebbe impossibile. Per questo per riportare in vita il genere epico ci si
confronta con quel modello autorevolissimo che può rappresentarlo appieno, e
solo con quello. Imitandolo da vicino, in modo costante e a tutti i livelli, si cerca
di dedurne quella coerenza di forme e temi che costituisce appunto un genere. La
tradizione non più vitale viene a coincidere con l’opera singola: l’Iliade, in questa
prospettiva, è il poema epico, diviene il repertorio coerente di derivazione.
Abstract: Example par excellence of rewriting, the reworking of Tasso’s masterpiece lead-
ing to the Gerusalemme conquistata represents a fundamental literary question on which
critical attention has been increasingly growing in the last few years. However, previous
La “Patroclea” di Ruperto nella Gerusalemme Conquistata 365
studies have always overlooked the core of the problem, that is the marked and pervasive
rapprochement to the archetypal epic model, Homer’s Iliad, where the sense of the rewrit-
ing lays. The present article takes thus into account in a comparative and intertextual per-
spective a central episode (significantly absent in the Liberata) within the reworked poem
new structural arrangements, which deals with the deeds and death of the new character of
Ruperto, constantly reading it in the light of Patroclus’s episode hypotext (Iliad XVI) in
order to detect its contribute to a new – not necessarily pejorative – meaning strategy.
From the analysis emerges how the rewriting constitutes definitely not a mere flattening
of the previous masterpiece on Iliad’s text, but rather, though massive, a certainly not
gratuitous reuse of the hypotext, always aimed at pursuing a clear and not banal meaning
strategy. On the whole, such an awkward presence of the Iliadic model – also relevant for
Homer’s Renaissance fortune – can be explained not as a homage to the illustrious model
but rather on the base of literary genres history considerations.
Keywords: Gerusalemme Conquistata, Gerusalemme Liberata, Tasso, Iliad XVI, Homer,
Renaissance Epic Poetry, Ruperto d’Ansa, Patroclus (Patroklos), Comparative Literature,
Intertextuality, Rewriting.
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The Light in Troy. Imitation and Discovery in Renaissance Poetry, Yale 1982, cui si rimanda per una ulteriore bibliografia sull'imitatio rinascimentale
  • T M Greene
T.M. Greene, The Light in Troy. Imitation and Discovery in Renaissance Poetry, Yale 1982, cui si rimanda per una ulteriore bibliografia sull'imitatio rinascimentale (p. 312, nota 34).