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Ivan Briz I Godino Etnoarcheologia: che cosa, come, verso dove?
XXXI Convegno Internazionale di Americanistica - Perugia 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11maggio 2009 549
Etnoarcheologia: che cosa, come, verso dove?
Ivan Briz i Godino
Institució Catalana de Recerca i Estudis Avançats – Institució Milà i Fontanals, Consell Superior
d’Investigacions Científiques, Espanya
Un’introduzione
Indipendentemente dalle diverse posizioni che emergono al momento di definire il tipo di ricerca che si sta
realizzando (KARLIN et al. 1992; HERNANDO A. 1995; ESTÉVEZ J. - VILA A. 1996; VÁZQUEZ J.M. 2000;
POLITIS 2002; GONZÁLEZ-RUIBAL A. 2003; tra gli altri…), il panorama offerto dall’etnoarcheologia continua
ad essere problematico per ciò che riguarda una chiarezza di fondo, non tanto delle sue finalità ma quanto
delle sue caratteristiche individuanti (AGORSAH K. 1990: 192; BRIZ I.-VILA A. 2006: 7).
Due sono le cause, a seconda delle posizioni teoriche (LUMBRERAS L. 1981; ESTÉVEZ J. - VILA A. 1996), che
fanno sì che questo panorama risulti fondamentalmente disordinato: in primo luogo le dinamiche di
specializzazione accademica hanno portato a far dimenticare l’unità dell’obiettivo – e oggetto – delle scienze
sociali, problema questo condiviso da altri ambiti di ricerca prossimi, come nel caso dell’etnostoria (DE ROJAS
J.L. 2008). In secondo luogo – e in parte frutto della causa appena menzionata – la necessità di accentuare le
peculiarità che differenziano la propria ricerca dalle altre allo scopo di ottenere maggiore visibilità all’interno
di un’arena accademica che frequentemente esige di confondere la diversità delle posizioni teoriche – che
rende più efficiente e competitiva qualsiasi disciplina scientifica – con la rivalità.
Nonostante la presenza di una pratica etnoarcheologica maggioritaria ben definita (AAVV 1992; BÉYRIES S. -
PÉTREQUIN P. 2001; KUZNAR L. 2001; BRIZ I. et al. 2006), che però non ingloba tutta l’etnoarcheologia,
quella che si riscontra è una grave carenza quanto a una sua definizione operativa e coerente, così come nel
caso delle ricerche realizzate in passato. È per questo motivo che considero più adeguato denominarla pratica
piuttosto che prassi, nel senso più operativo e chiaro del concetto (GRAMSCI A. 1970).
Sebbene la sua lunga storia risalga agli inizi del XX secolo (DAVID N. - KRAMER C. 2001), è solamente a
partire della seconda metà di questo stesso secolo – e soprattutto in ambito europeo tra la metà degli anni ’60
e l’inizio degli anni ’70 – che l’etnoarcheologia comincia a presentarsi come una delle strategie essenziali per
cercare di potenziare le capacità esplicative di un’archeologia, il cui sviluppo si era definitivamente bloccato.
Lo sbocciare delle ricerche etnoarcheologiche è pienamente parte della “nuova” (GÁNDARA M. 1982a,
1982b) archeologia processuale che, mettendo da parte le impostazioni storico-culturali oltremodo
classificatorie, sincronicamente e diacronicamente, volgeva il suo sguardo verso le possibilità offerte da una
riduzione di distanze rispetto all’antropologia. E si è giunti addirittura a considerarla come una sottodisciplina
dell’antropologia stessa (WILLIAMS E. 2003: 15).
L’etnoarcheologia, intesa e assunta come l’analisi attuale delle società con forme di vita e organizzazione
similari ad altre società identificate unicamente a livello archeologico, realizzata utilizzando metodologie e
obiettivi archeologici, è una delle linee di ricerca di massima potenzialità dell’archeologia dei nostri giorni
(AGORSAH K. 1990; DAVID N. - KRAMER C. 2001). Scrivo consapevolemente “analisi attuale delle società
con forme di vita e organizzazione similari ad altre identificate unicamente a livello archeologico” per dare
spazio sia allo studio di quelle che comunemente vengono denominate “società vive”, sia allo studio delle
società già estinte, delle quali però possediamo abbondanti informazioni etnologiche, etnografiche,
antropologiche e anche archeologiche.
Indipendentemente dal maggiore o minore grado di validità e di risoluzione raggiunto, la ricerca
etnoarcheologica si prefigge, nella stragrande maggioranza dei casi, di ottenere delle strategie di
miglioramento metodologico a favore dell’archeologia: o perché viene utilizzata per ottenere un corpus di
ipotesi più solido e antropologicamente sostentato, o perché offre alternative interpretative, o perché
permette uno sviluppo concreto in termini tecnico-metodologici (DAVIDSON I. 1980; BORRERO L. -
YACOBACCIO H. 1989; AMBRUSTER B. 1993; BÉYRIES S. 1997; BARTRAM L. - MAREAN C. 1999; BIRD D. -
BIRD R. 2000; MAIGROT Y. 2001; PÉTREQUIN et al. 2001; VÁZQUEZ J.M. 2004; ARNOLD D. 2005; BARCELÓ
J.A. et al. 2006; …). L’etnoarcheologia nasce dall’archeologia per ritornare al suo punto di partenza:
l’archeologia.
Etnoarcheologia, antropologia, etnografia...L’etnoarcheologia dalle ricerche nelle Americhe
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E in ogni caso nasce dall’archeologia in base a due circostanze ben precise: da un lato la necessità di
abbandonare un’archeologia classificatoria per passare a un’archeologia interpretativa, dall’altro perché
costretta dall’evidenza che l’antropologia aveva posto sotto gli occhi dell’archeologia, un’evidenza costituita
dalle società umane che nel corso della storia moderna comparivano allo sguardo occidentale, frutto
dell’accelerazione moderno-contemporanea che aveva creato la nuova economia-mondo (WALLERSTEIN I.
1979). Le possibilità offerte dai nuovi esempi erano pertanto difficilmente ignorabili.
È importante delineare qui una premessa essenziale riguardante il conflitto di concezioni circa
l’etnoarcheologia, conflitto che si produce con il coincidere di un’archeologia europea – erede della
commistione tra antiquariato e preistoria – con una linea di sviluppo nordamericana, dove “il primitivo” è
palesemente attuale e appartiene alla sfera dell’antropologia. In linea di principio il Vecchio Mondo conferisce
alla sua archeologia una visione storica, mentre il Nuovo Mondo la considera come una disciplina
antropologica. Molto probabilmente entrambe le visioni, anche se incomplete, sono corrette.
Nel caso dell’ambito di cui si occupano queste pagine – l’America – i privilegiati contesti antropologici attuali
dell’America Latina hanno comportato un’importante profusione di sforzi verso questo tipo di ricerca e verso
questo contesto socio-geografico (come esempi: KUZNAR L. 2001; POLITIS G. 2007; WILLIAMS E. 2005a). A
volte, sulla base di un criterio di “emergenza” di fronte all’imminente scomparsa di gruppi sociali, considerati
come ancora lontani dai processi di acculturazione che inevitabilmente li avrebbe resi inutili come referenti
etnoarcheologici (GONZÁLEZ-RUIBAL A. 2003: 9, 2006c; HERNANDO A. 2006). In altre molteplici occasioni,
come strategie di incremento della capacità esplicativa di questa disciplina per quanto riguarda il “sociale”,
ammettendo, con lo stesso ragionamento, l’incapacità da parte dell’archeologia di raggiungere gli stessi livelli
esplicativi (VILA A.-PIANA E. 1993; PÉTREQUIN P. et al. 2001; LÓPEZ VARELA S. 2005; YACOBACCIO H. -
MADERO C. 2001 – tra i molti esempi). E, in qualsiasi caso, anche riconoscendola come una disciplina al
margine dell’archeologia e – sorprendentemente per la visione teorico-metodologica sulla quale si basano
queste pagine (ESTÉVEZ J. - VILA A. 1996) – al margine dell’etnografia e/o antropologia, e quindi come una
disciplina con un’entità propria (GONZÁLEZ-RUIBAL A. 2003). E sempre e comunque, in quanto situata tra
archeologia e antropologia – o, in alcuni casi, nell’archeologia e nell’antropologia (POLITIS G. 2002: 68). In
ognuno dei casi citati la ricchezza dei contesti che segnalavamo sopra implicava un’elevata capacità di
risoluzione e di miglioramento dei risultati da ottenersi nelle differenti discipline che studiano le società
umane.
Queste proposte predominanti nell’etnoarcheologia, applicate nei contesti latinoamericani da équipe
americane, europee oppure miste, possiedono una serie di peculiarità che potremmo considerare quasi
definitorie.
In primo luogo il nucleo della proposta si articola in base all’applicazione di una metodologia archeologica di
analisi dello studio di società “vive”, con forme di vita cui viene attribuita una capacità rappresentativa
rispetto a modi di vita pre-capitalisti (questi alcuni esempi in America: NIELSEN A. 2001; WILLIAMS E. 2003,
2005a; RAMOS M. 2005; POLITIS G.-JAIMES A. 2005; LÓPEZ MAZZ J.M. 2006). Analisi che si concentrerà
sullo studio della cultura materiale, categoria basilare della ricerca che però si dimostrerà poco collaborativa
quanto a una sua autodefinizione e che potrebbe articolarsi, in maniera generica, sulla base dell’idea che
riconosce come propri tutti quegli elementi che la ricerca antropologica, proprio a causa della propria
tradizione, ha tralasciato. Vale a dire, essendosi concentrata l’antropologia sugli elementi materialmente
intangibili delle forme di vita di una società, quali parentela, ideologia, ecc., questo tipo di entnoarcheologia si
avvicina, partendo dall’archeologia, agli elementi materiali – residuali? – generati dalle attività sociali di queste
formazioni. Ci sarebbe però da domandarsi quanto “intangibili” siano degli elementi materiali – molto
materiali – come le persone, che conducono la propria esistenza all’interno di condizioni sociali storicamente
determinate e che conformano una società (RUIZ G. - BRIZ I. 1998).
Questa articolazione, concentrata esclusivamente sulla cultura materiale delle società vive, ha provocato,
soprattutto nella ricerca di lingua spagnola, una segmentazione di questo tipo di studio combinato etnologico-
archeologico tra etnoarcheologia – vicina all’antropologia culturale – ed etnostoria – basata sull’utilizzo di
fonti etnologiche, etnografiche, antropologiche e storiche, però non sull’analisi di società vive (POLITIS G.
2002; DAVIDSON I. 2006; DE ROJAS J.L. 2008)(1). Nonostante tutto, se analizziamo ciò che viene realizzato
dalle ricercatrici e dai ricercatori che affermano di fare etnostoria (BOIXADÓS R. 2000; STENBORG P. 2003;
DE ROJAS J.L. 2008;…), la prassi etnoarcheologica con società non attuali non si conforma alla proposta. E la
soluzione proposta da I. Davidson (2006: 257-258), che la articola come «Archeologia etnostorica», è una
classificazione formalmente corretta ma che per il momento non incrementa le nostre capacità di ricerca.
Etnoarcheologia, antropologia, etnografia...L’etnoarcheologia dalle ricerche nelle Americhe
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Questa segmentazione tra l’etnoarcheologia sensu stricto e quella che non realizza un avvicinamento
archeologico a società vive è il prodotto della stessa visione dell’archeologia che è presente (TRIGGER B.
1992; HODDER I. 1998; POLITIS G. - ALBERTI B. 1999) al momento di generare una proposta
etnoarcheologica.
E cioè, coerente con una archeologia basata sui postulati anglosassoni che identificano l’archeologia a partire
dall’antropologia, con una forte influenza del processualismo anglosassone e con notevoli apporti della New
Archaeology binfordiana. «Archaeology is anthropology» è l’elemento predominante della più importante
scuola di influenza estera che è giunta nel continente sudamericano. Cosa succede, quindi, con l’arrivo
dell’archeologia postmoderna? La risposta più significativa a questa domanda è che non nasce alcun tipo di
conflitto tra le origini di questa prassi processuale e, curiosamente, la ricerca postprocessuale (HERNANDO A.
1997). L’approssimazione diretta, la relazione diretta con l’oggetto di studio – la società da studiare, la
persona, l’altro – permette di realizzare lo stesso tipo di ricerca secondo uno sguardo antropologico ma,
presumibilmente, senza incorrere negli errori fondamentali – etnocentrici – dell’antropologia. Questa nuova
etnoarcheologia (GONZÁLEZ-RUIBAL A. 2003, 2006a) si concentra sul vissuto, sull’identità, sul pensiero
dell’altro in via di estinzione nell’acculturazione, e che viene definito come “altro”(2), curiosamente, da parte
di quella ricerca che si definisce come postcoloniale (GONZÁLEZ-RUIBAL A. 2006b). E, addirittura, non è da
escludersi lo sviluppo congiunto di entrambe le ricerche (GONZÁLEZ-RUIBAL A. 2005, 2006a).
Abbiamo, dunque, un’etnoarcheologia definita sulla base del suo studio delle società vive e il cui scopo è
quello di incrementare e migliorare le capacità esplicative dell’archeologia. E la sua caratteristica essenziale è
l’approssimarsi all’osservazione antropologica con domande e metodi archeologici. In ultima istanza,
l’osservazione antropologica su quegli elementi del costrutto sociale che non sono stati oggetto di analisi
antropologica. L’oggetto di studio, secondo questa proposta, è ciò che definisce l’etnoarcheologia (POLITIS
G. 2002: 68 y ss).
Sempre per lo sviluppo metodologico, la generazione di ipotesi, incremento interpretativo nella/della
archeologia (BÉYRIES S. et al. 2001; DAVID N.-KRAMER C. 2001; MAIGROT Y. 2001; WILLIAMS E. 2005b: 21,
che la articola all’interno della generazione delle teorie di “rango medio” in antropologia in un postulato
nettamente binfordiano; in questa stessa prospettiva va anche il lavoro di ALDENFENDER M. 2001; non così
quello di POLITIS G. 2007).
De Rojas, che si concentra sull’etnostoria(3) e si colloca al margine della discussione su cosa sia
l’etnoarcheologia, nota: «Sin embargo una ciencia no se define únicamente por su objeto, sus límites pueden
ser fijados también por la naturaleza propia de sus métodos. Queda por preguntarse si las técnicas de la
investigación no son fundamentalmente distintas según se aproxime uno o se aleje del presente (BLOCH 1988:
41)». (DE ROJAS J.L. 2008: 20).
Una questione di logica
Se esiste uno strumento della logica privilegiato per il suo uso in archeologia questo è l’analogia in quanto
costitutiva dell’inferenza archeologica (GÁNDARA M. 1990a). E, in quanto costitutiva dell’inferenza
archeologica, essa è strettamente legata al procedimento logico che avvalora la proposta etnoarcheologica.
(GÁNDARA M. 2006: 14-15). Questa osservazione, realizzata a partire da una posizione teorica condivisa da
queste pagine (LUMBRERAS L. 1981; VARGAS I. - SANOJA M. 1999; BATE L. 1998), stabilisce delle condizioni
basilari da assumere al momento di delineare il profilo dell’etnoarcheologia. Perché esiste un elemento
comune a praticamente tutti i postulati della ricerca etnoarcheologica, ed è il riconoscimento dell’uso
dell’analogia nell’etnoarcheologia. Uso che, secondo la concezione della ricerca etnoarcheologica che avalla
queste pagine (ESTÉVEZ J. - VILA A. 1996; GÁNDARA M. 2006), non deve essere realizzato direttamente e
senza controllo. Non deve essere utilizzato senza una chiara immagine delle sue possibilità e delle sue
limitazioni.
Politis (2007: 55) afferma: «Within the framework of ethnoarchaeology the key concept is that of analogy,
which can be broadly defined as the thansferal of information from one object or phenomenon to another
based on certain relations of compatibility between then. In the words of Wylie (1985: 92), “analogical
inference consists of the selective transportation of information from source to subject on the basis of a
comparaison that, fully developed, specifies how the ‘terms’ compared are similar, different or of unknow
likeness». E più in là aggiunge: «I suscribe to this point of view and believe that the argument of analogy is a
central element in archaoelogical interpretation. I believe analogical reasoninig is necessary in every step of
the investigation, especially in the formulation of hypoyheses and interpretation of data; it is even part of the
process of the (always provisional) verification of hypotheses» (POLITIS G. 2007: 56).
Etnoarcheologia, antropologia, etnografia...L’etnoarcheologia dalle ricerche nelle Americhe
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Molte sono le voci che coincidono nel considerare l’analogia come l’elemento essenziale della ricerca
etnoarcheologica (AGORSAH K. 1990; ALDENFENDER, E. 2001; GARCÍA L. 2001; POLITIS, G. 2002, 2007;
WILLIAMS E. 2003; DAVID N. - KRAMER C. 2001; VÁZQUEZ J.M. 2000; …). Di conseguenza – e riprendendo
l’osservazione di J. L. De Rojas – dobbiamo iniziare a postulare apertamente che il metodo di ricerca deve
essere la caratteristica che definisce la nostra disciplina. E non l’oggetto di studio.
Rivendicare questa delimitazione e basta non incrementa la nostra capacità di ricerca. Le proposte hanno una
loro rilevanza solo se migliorano ciò che già facevamo, altrimenti rimangono fini a sé stesse. Secondo la
posizione teorica che dà luogo a queste pagine, esistono motivi operativi reali per fare propria e utilizzare
questa accezione di etnoarcheologia. In primo luogo perché così si incrementano le possibilità interpretative
dell’etnoarcheologia dando spazio a tutte quelle fonti di informazione che forniscono nuovi insiemi di dati sui
gruppi sociali che sono già scomparsi(4). Ciò che risulta essere veramente rilevante è se i dati etnografici,
antropologici, etnografici sono utilizzati da e verso l’archeologia, e con metodi archeologici, critici. In
secondo luogo riconoscere il nucleo della prassi etnoarcheologica in base alla sua metodologia permette di
porre in primo piano ciò che, secondo il mio punto di vista, è più importante nello sviluppo della ricerca
etnoarcheologica: il ciclo archeologia-etnologia/etnografia/antropologia-archeologia. E tracciare delle linee
chiare all’interno della discussione che, dall’inizio, ha prodotto la presenza dell’analogia in etnoarcheologia: M.
Gándara (2006) commenta come, già a partire da Binford, si può constatare una preoccupazione circa le
modalità di utilizzazione dell’analogia in etnoarcheologia.
L’Archeologia Sociale Latinoamericana (GÁNDARA M. 1990a, 1990b, 1993, 2006; BATE L. 1998) ha realizzato
una fondamentale osservazione critica al riguardo, che condivido pienamente: la necessità di un controllo
adeguato quanto all’uso del ragionamento analogico. E questa osservazione si basa sull’uso che si fa a volte
dell’analogia diretta e che porta a ovviare la realtà, storicamente concreta, sia del caso etnografico, sia di quello
archeologico da utilizzare. Tuttavia questa necessità, questo riconoscimento dei limiti della applicabilità del
metodo etnoarcheologico non implica una contraddizione rispetto alle basi logiche della sua stessa natura. E
questo fatto mette in evidenza quelle proposte che, da posizioni postmoderne(5), dichiarano di fare
etnoarcheologia. «En efecto, cualquier teorización que piense que es imposible construir o encontrar
generalidades en la conducta humana, se niega a sí misma la posibilidad de hacer analogías, dado que la
proyección inductiva a la que hacíamos referencia arriba no es otra cosa que la utilización de un principio
general [ ]» (GÁNDARA M. 2006: 19). La necessità di un riconoscimento della specificità storica (in ultima
istanza, socio-storica) di ciascun gruppo umano non implica l’impossibilità di determinare leggi generali per il
sociale. Articolare una documentazione “enciclopedica” relativa alle manifestazioni della diversità e della
variabilità sociale umana non dota di maggiori capacità esplicative sulla stessa. Esse sono un registro di questa
realtà alla sua stessa scala. Ma non una interpretazione.
L’analogia che ci interessa ai fini della nostra ricerca etnoarcheologica è quella che si focalizza sulla
generazione di nuove ipotesi, di nuove metodologie ad esse associate, inseparabili – le prime – dal loro
elemento chiave: la “contrastazione”, intesa nel senso di mutua comparazione (VÁZQUEZ J.M. 2000: 12; VILA
A. - ESTÉVEZ J. 2001; ESTÉVEZ J. et al. 2007).
La concezione di etnoarcheologia che si vuole delineare in queste pagine si riferisce alla stessa come un
elemento inseparabile dall’archeologia, con il fine di completare l’algoritmo all’interno dell’ambito in cui la
stessa archeologia fu creata. Come già esposto in precedenza, un’etnoarcheologia che nasce dall’archeologia
per ritornare ad essa sotto forma di “contrastazione”.
Se la ricerca etnoarcheologica deve servire a una corretta generazione di ipotesi e di metodologie di maggiore
qualità da impiegare in archeologia – e questa è la sua finalità esplicita – è difficile capire qual è la ragione per
la quale la si considera al margine dell’archeologia. E per maggiore qualità intendo capacità esplicativa in
termini quantitativi e qualitativi. Se, al contrario, ciò che produce l’etnoarcheologia è valido di per sé e al
margine di una seconda sfera di ricerca strettamente archeologica, ci si viene a trovare di fronte al problema di
cercare di determinare cosa distingue l’etnoarcheologia dall’antropologia sensu stricto.
L’osservazione di gruppi attuali con criteri archeologici, con finalità etnoarcheologiche ma senza una
successiva “contrastazione” delle ipotesi e dei metodi utilizzati, è un percorso non concluso. Che gli obiettivi
prioritari dell’antropologia non si siano concentrati – principalmente e nella tradizione della disciplina – sulla
cultura materiale ma, al contrario, sulla vita spirituale/ideologica o le relazioni di parentela, non impedisce alla
scienza antropologica di non sviluppare queste analisi. Né, ancora con meno ragioni, giustifica il sorgere di
nuove discipline. Esempi simili esistono in archeologia: le ultime, necessarie linee di evidenziazione da parte
della materialità archeologica – prima ovviate o considerate irragiungibili – a livello di resti vegetali, spesso
associate al lavoro delle donne (ZURRO D. 2002), non si sono sviluppate al margine dell’archeologia.
Etnoarcheologia, antropologia, etnografia...L’etnoarcheologia dalle ricerche nelle Americhe
Ivan Briz I Godino Etnoarcheologia: che cosa, come, verso dove?
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Però non si può fare etnoarcheolgia al margine dell’archeologia.
Per il gruppo di lavoro al quale appartengo, la “contrastazione” dialettica tra entrambe le sfere di
informazione (ESTÉVEZ J. - VILA A. 1996) è il movimento nel quale il metodo e i risultati archeologici
mettono alla prova l’informazione antropologica/etnografica – che sia essa di prima mano oppure no – e
l’informazione antropologica/etnografica mette alla prova il metodo e i risultati archeologici. In condizioni
controllate, riconoscendo la specificità socio-storica di ogni singolo caso, concentrandosi sulle ipotesi e sui
metodi. I gruppi dediti alla caccia-raccolta-pesca del Grande Nord canadese dell’epoca dei viaggi di Franklin
non posso essere trasposti nel tardoglaciale europeo. Ciò non implica un condizionamento neocoloniale dello
studio delle società etnografiche o antropologiche per gli obiettivi di studio di una archeologia o preistoria
altra, in risposta alle possibili critiche da parte di quella che è stata denominata etnoarcheologia postcoloniale.
E precisamente, un’etnoarcheologia concentrata sulla generazione di metodologie e di ipotesi sulla base di
un’analogia controllata adeguatamente, i cui risultati vengono successivamente “contrastati”, si vincola
direttamente alla determinazione di principi generali così come li articola M. Gándara (2006: 19) e in base
all’obiettivo di leggi generali (LUMBRERAS L. 1981). E questo elemento non è incompatibile con un
riconoscimento specifico delle peculiarità socio-storiche dei casi studiati, riconoscimento specifico che deve
permettere di ricalibrare metodi e ipotesi, che deve permettere un corretto sviluppo delle ricerche. Peculiarità
socio-storiche che paiono non essere tanto importanti nell’analizzare società etnografiche immerse in un
processo di globalizzazione fuori controllo (POLITIS G. 2007: 56-57) e che obbligano a sviluppare una grande
cautela nell’utilizzarle in etnoarcheologia. Indipendentemente dalla necessità del loro studio e della loro analisi
etnografica come forma di salvezza di fronte all’imminente pericolo di estinzione.
L’etnoarcheologia che considero rilevante è un metodo dell’archeologia (che si basa sull’unità dell’oggetto
della conoscenza delle scienze sociali) basato sulla “contrastazione” dialettica (DE GORTARI E. 1965, 1970)
tra la conoscenza e la metodologia etnografica-antropologica e la conoscenza e la metodologia archeologica.
Questa mutua “contrastazione” tra metodi, fonti e risultati deve permettere sia di comprovare e correggere le
informazioni etnografiche di inevitabile taglio soggettivo – le prospettive etiche e emiche (PIKE K. 1967;
HARRIS M. 1980), sia di disporre di ambiti di ampliamento e di sviluppo dell’archeologia mediante la
creazione di nuove metodologie.
Etnoarcheologia in Terra del Fuoco, un esempio.
Anche se il nostro obiettivo prioritario è lo sviluppo metodologico, è necessario sottolineare che la finalità dei
progetti di ricerca realizzati a questo scopo (ESTÉVEZ J. et al. 2007) possiede una morfologia multiforme.
Questa “contrastazione” tra fonti deve permetterci di ottenere dei miglioramenti sostanziali in differenti
ambiti. Il primo, lo sviluppo propriamente detto dell’archeologia come scienza: sia mediante nuove
applicazioni metodologiche e tecniche, sia mediante lo sviluppo di ipotesi per nuove situazioni di ricerca (la
proposta, in questo ultimo punto, coincide con le pratiche etnoarcheologiche “maggioritarie”). In entrambi i
casi lo sviluppo coerente del progetto di ricerca deve portarci a trasferire, con le necessarie correzioni e i
dovuti adattamenti, i nostri metodi a nuove problematiche e nuovi contesti. Un esempio di questa
applicazione passa per lo sviluppo di una metodologia di analisi dei materiali litici a partire dalle dinamiche
forma-funzione nei contesti di caccia-raccolta-pesca del Canale Beagle della Terra del Fuoco (BRIZ I. 2004).
Metodologia che può essere utilizzata, di nuovo, nei contesti mesolitici del Nord dell’Inghilterra (BRIZ I. et al.
in stampa), incrementando la nostra capacità esplicativa, come per esempio all’interno dell’importante
discussione sulla prospettiva “boys and arrows” relativa al Mesolitico britannico (CONNELLER C. 1995;
FINLAY N. 2000, 2003; CONNELLER C. - WARREN G. 2006).
L’ambito di sviluppo e di applicazione di questa proposta etnoarcheologica sono le società dedite alla caccia-
raccolta-pesca che, a partire dal 7000 b.p., abitarono le isole e i canali situati tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano
Pacifico, tra il Canale Beagle e Capo Horn (ORQUERA L. - PIANA E., 1999a). Queste società furono
riconosciute in epoca storica come Yámana o Yaghán e le loro forme di vita persistettero fino ai primi anni
del XX secolo (VILA A. et al. 2007).
Grazie a un’elevata capacità di gestione delle risorse del litorale, questi gruppi umani svilupparono strategie
sociali basate su un’elevata mobilità dovuta alla loro tecnologia nautica, con la rioccupazione ricorrente degli
spazi dove situavano i loro insediamenti. Le reiterate accumulazioni di resti di consumo dei molluschi,
insieme ad altri resti di alimentazione, processi di lavoro ed aree di combustione hanno generato la
caratterizzazione del paesaggio archeologico attuale: i concheros (ORQUERA L.-PIANA E. 1999a). Accumuli
antropogenici la cui morfologia, fondamentalmente, può avere forma di monticolo o essere a struttura
Etnoarcheologia, antropologia, etnografia...L’etnoarcheologia dalle ricerche nelle Americhe
Ivan Briz I Godino Etnoarcheologia: che cosa, come, verso dove?
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anulare, dove la depressione centrale corrisponderebbe all’ubicazione della capanna al momento del suo uso
come habitat (BRIZ I. et al. 2009).
Il prolungarsi delle forme di vita proprie fino a cronologie quasi attuali fu il prodotto del tenue interesse
iniziale dimostrato dal mondo industriale-capitalista verso la Terra del Fuoco. Un esempio significativo: sarà
solo nel 1830 che il Canale Beagle (chiamato Ona-shaga in lingua yámana) verrà scoperto da Fitz-Roy nel suo
primo viaggio come capitano del H.M.S. Beagle. Ciò ci offre un quadro di eccellente qualità per la ricerca
etnoarcheologica sulla società Yámana. In primo luogo per l’ampia offerta, sia qualitativa che quantitativa, di
informazione etnografica, che va dalle descrizioni dei primi viaggiatori sino all’opera enciclopedica di Martin
Gusinde, già pubblicata nella seconda metà del XX secolo, passando per la documentazione della Missione
della South American Missionary Society, responsabile del primo insediamento del mondo industriale nel
Canale Beagle (ORQUERA L. - PIANA E. 1999b).
In secondo luogo ci offre un registro archeologico di alta risoluzione, sia per le cronologie recenti e sia per la
stessa natura sedimentaria di questo tipo di sito archeologico. Il carbonato di calcio delle conchiglie dei
molluschi consumati elimina ogni attività di decomposizione per i contesti acidi, così come l’articolazione
fisica delle stesse unità (ORQUERA L. - PIANA E. 1999a) conferisce a questo tipo di siti archeologici una
speciale rilevanza ai fini di un’interpretazione stratigrafica di alta risoluzione.
Etnoarcheologia della cooperazione
I processi di aggregazione sociale sono stati uno dei temi privilegiati dell’archeologia che si è occupata dei
gruppi cacciatori-raccoglitori durante gli anni ’80 del secolo scorso (CONKEY M. 1980; HOFMAN J. 1994).
Lentamente, però, il tema è andato perdendo di importanza all’interno delle priorità della ricerca archeologica.
Questo tipo di episodi sono invece di particolare rilevanza per lo studio delle società cacciatrici-raccoglitrici
poiché implicano la riunione di gruppi generalmente dispersi sul territorio e permettono lo sviluppo di attività
cooperative, interazione sociale di ampio rango, svolgimento di rituali e reciproco scambio di informazioni.
La problematica essenziale che si presenta all’archeologia è relativa al come identificare questo tipo di
insediamenti e quali sono gli indicatori archeologici che li identificano.
Gli scavi archeologici realizzati nel corso degli anni 1995, 1996 e 2005 nel sito di Lanashuaia, che si trova nella
Baia di Cambaceres Interior sulla costa settentrionale del Canale Beagle (Provincia della Terra del Fuoco,
Argentina), hanno messo in evidenza lo sfruttamento e il consumo di un esemplare di balena Minke,
Balaenoptera bonaerensis. Secondo le fonti etnografiche (GUSINDE M. 1986) il consumo di cetacei si produceva,
fondamentalmente, grazie allo spiaggiamento sulla costa di uno di questi esemplari (esiste solamente un unico
caso documentato di caccia di una balena malata). A causa della disponibilità di ingenti resti alimentari si
verificava pertanto un episodio di aggregazione di differenti unità famigliari e si creava l’opportunità di
effettuare diversi rituali e cerimonie, così come di realizzare differenti tipi di lavoro cooperativo.
Già nella presentazione dei risultati da parte del gruppo di lavoro che diresse gli scavi del 1995 e del 1996
(PIANA E. et al. 2000) si faceva notare che la combinazione della presenza di resti di balena Minke e del
singolare allineamento dei differenti “concheros” permetteva di ipotizzare che le unità abitative di Lanashuaia
fossero vincolate al processo di consumo del cetaceo.
Con il presente progetto (BRIZ I. et al. – in corso di valutazione) di ricerca etnoarcheologica si vorrebbe
verificare se siamo veramente di fronte a un processo di aggregazione sociale e, tramite l’analisi delle forme di
organizzazione sociale lì implementate, si vorrebbero riconoscere archeologicamente l’interazione sociale e le
forme di interrelazione tra le persone. Ottenere quindi gli indicatori archeologici (WILLIAMS E. 2005c) che
permettano di comprendere i processi di interazione sociale umana in chiave di cooperazione.
Riflessioni
Questo lavoro non pretende di realizzare un grande avanzamento teorico. Quella che si postula è la necessità
di riflettere in ogni momento sul perché la ricerca che realizziamo possieda questa determinata configurazione
e non un’altra. Con la costante revisione della coerenza tra quello che vorremmo e le forme che
implementiamo per ottenerlo.
Nel corso di queste pagine credo di aver chiaramente esposto la necessità di un’etnoarcheologia attenta alle
sue forme per ciò che riguarda la sua definizione e la sua applicazione in quanto ricerca scientifica. Se vi è
qualcosa che caratterizza l’etnoarcheologia, in base alla sua essenza logica – e, di conseguenza, come
strumento della ricerca scientifica – si tratta proprio dell’imperiosa necessità della “contrastazione” della
materialità archeologica.
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Queste peculiarità, logiche, di procedimento, di coscienza – e di coerenza – circa la natura socio-storica dei
contesti che analizziamo etnoarcheologicamente, sono ciò che caratterizza l’etnoarcheologia. L’identificazione
sulla base del lavoro antropologico o etnografico con società vive non è un referente adeguato – operativo –
per identificare l’etnoarcheologia. Segmentando quelle proposte che non sviluppano il loro lavoro tramite
questo modello – essenzialmente quelle che lavorano con fonti etnografiche, etnologiche o antropologiche –
otteniamo solamente l’effetto di sprofondare ancora di più in una iperspecializzazione che non produce un
miglioramento dei nostri risultati. Applichiamo il Rasoio di Occam a questa questione: che beneficio
comporta a livello di operatività esplicativa scientifica questa segmentazione? E forse, chissà, di Occam
dovremmo sfogliare anche il Breviloquium…
Ringraziamenti
A Luisa Vietri, por muchos intensos debates y mejores ideas sobre la etnoarqueología. Y por haber traducido
este artículo al italiano.
Note
(1) In relazione al lavoro di De Rojas è da notare come curiosamente i limiti tra etnostoria e etnoarcheologia non siano
così ben definiti dal momento che riconosce che, anche nel caso dell’etnostoria, il dibattito continua a essere aperto
quanto alla propria autodefinizione (DE ROJAS J.L. 2008: 120-123).
(2) «La etnoarqueología nos ofrece la posibilidad de conocer personalmente al Otro, de hacerle preguntas, de convivir
con él, algo con lo que cualquier arqueólogo habrá soñado alguna vez en su vida» (GONZÁLEZ-RUIBAL A. 2003: 9).
(3) La cui storia è altrettanto interessante come quella della disciplina della quale stiamo occupandoci qui: «Como ocurrió
con otros intentos similares de fundamentación de nuevas disciplinas, en realidad la independencia de la etnohistoria se
explica por la emergencia de proyectos gremiales, académicos y políticos, a veces opuestos y aun en pugna. Es decir, la
fundamentación teórica de la autonomía de la Etnohistoria ha respondido a la necesidad de racionalizar situaciones de
hecho, justificando – de esta manera – el agrupamiento y las actividades concretas de personas, grupos e instituciones
(GARCÍA MORA C. 1987: 73). En realidad, García Mora postula la unidad de la antropología y la necesidad de integrar en
ella la etnohistoria sin escindirla (GARCÍA MORA C. 1987: 72-73)».
(4) «Es importante remarcar que en América del Sur hubo toda una tradición etnográfica austro-alemana que prestó
mucha atención a la cultura material y realizó detalladas colecciones de objetos junto a datos detallados sobre sus uso
(GUSINDE M. 1982; SCHMIDT W. 1914). La inmensa mayoría de esta información está actualmente desaprovechada por
los arqueólogos y los objetos recogidos descansan en los museos sin ser estudiados sistemáticamente desde una
perspectiva contemporánea» (POLITIS G. 2002: 65). Come esempio di coincidenza con questa linea: ESTÉVEZ J.-VILA A.
2006.
(5) In lingua spagnola uno dei casi più evidenti di questo tipo di discorso lo possiamo trovare in: HODDER I. 1987.
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