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Statalismo ed economia di mercato. La polemica tra La Pira e Sturzo

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CATTOLICI IN POLITICA
Antonio Magliulo
Statalismo ed economia di mercato.
La polemica tra La Pira e Sturzo1
1. Introduzione
Ha scritto recentemente Gianfranco Morra: “Quello di La Pira
fu un progetto vincente-perdente, che ha permeato di i decenni
in cui, senza ch’egli l’abbia voluto, avviene la degenerazione eco-
nomica e morale del nostro Paese… Diverso fu il progetto, perden-
te-vincente, di Sturzo: un’alleanza delle due tradizioni europee di
libertà, quella cristiana e quella liberale (o, se si preferisce, della de-
stra democratica), per un disegno capace di far convergere la libertà
e la solidarietà, lo Stato nazionale e il federalismo, l’eguaglianza dei
diritti e la meritocrazia produttivistica”2.
Morra estremizza una tendenza in atto da tempo nella storio-
grafia.
Negli anni della lunga crisi del capitalismo e del liberalismo, La
Pira, insieme a tanti altri critici della società borghese, era un eroe
positivo a cui ispirarsi. Sturzo, al contrario, appariva come l’uomo
del passato, un sopravvissuto, l’apologeta di un mondo in declino,
“un liberista fuori stagione”.
1 Questo saggio è il testo rielaborato della relazione presentata al convegno che
si è svolto a Firenze il 23-24 maggio 2008 sul tema “La Pira, Don Milani, Padre
Balducci. Il laboratorio Firenze nelle scelte pubbliche dei cattolici dal fascismo
a fine Novecento”.
2 G. Morra, I tre liberalismi di Sturzo, in E. Guccione (a cura di), Luigi Sturzo e
la democrazia nella prospettiva del terzo millennio, Olschki, Firenze 2004, vol.
I, p. 485.
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La rivincita del mercato e la rinascita del liberalismo hanno ribal-
tato le posizioni. Sotto l’abile regia intellettuale di Novak e Antiseri,
La Pira diventa, a essere benevoli, un santo peccatore: santo perché
amico dei poveri ma peccatore perché illuso di poterli riscattare se-
guendo la via della perdizione statalista. Sturzo, al contrario, è il
profeta disarmato da riscoprire, proprio perché, nell’Italia cattolica
degli anni Cinquanta denuncia, contro La Pira e l’intera classe diri-
gente italiana, l’incipiente pericolo dello statalismo.
Sturzo e La Pira diventano così, secondo una storiografia oggi
in auge, gli autorevoli esponenti di due contrapposte tradizioni di
pensiero che albergano nel petto del cattolicesimo italiano: una glo-
riosa tradizione cattolico-liberale e una decadente tradizione catto-
lico-sociale. L’aspra polemica di cui i due illustri siciliani furono
protagonisti, alla metà degli anni Cinquanta, sarebbe anzi la prova
storica più evidente dell’esistenza di una doppia anima del cattoli-
cesimo italiano che, da allora a oggi, non ha cessato di manifestarsi.
Insomma, e per esser chiari, Sturzo dovrebbe essere collocato, a
pieno titolo, nel pantheon dei moderni cattolici liberali, mentre La
Pira dovrebbe essere trasferito nella più umida soffitta dei riformisti
cattolici sconfitti dalla storia3.
Morra non fa che esplicitare e radicalizzare un’interpretazione
presente nella storiografia. La Pira è un vincente-perdente: vincen-
te nella cronaca politica dell’Italia degli anni Cinquanta, un Paese
ammorbato dal mito dello Stato onnipotente, ma poi sconfitto dalla
storia del Novecento che ha mostrato tutte le degenerazioni di quel
mito. Sturzo un perdente-vincente: perdente nella cronaca, riscatta-
to dalla storia.
Ma è davvero così? Davvero La Pira e Sturzo possono essere
considerati gli autorevoli esponenti di due contrapposte tradizioni
di pensiero politico ed economico che dividono il cattolicesimo ita-
liano? Davvero nel petto del cattolicesimo italiano albergano due
anime?
3 Lopera di riferimento di questa letteratura è: D. Antiseri, Cattolici a difesa del
mercato, SEI, Torino 1995, nuova edizione a cura di F. Felice, Rubbettino, Soveria
Mannelli (CT) 2005.
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Per tentare di rispondere in modo compiuto dovrei ricostruire
i paralleli percorsi che conducono i duellanti al luogo della sfida.
Dovrei risalire alla fine dell’Ottocento e descrivere la battaglia di
Sturzo contro il liberalismo antisindacale, e poi ridiscendere lungo
il Novecento per mostrare la coraggiosa denuncia di La Pira dello
statalismo fascista. Non posso farlo. Manca il tempo, lo spazio e
forse l’energia necessaria. Ma quella “preistoria” rafforzerebbe e
non smentirebbe la storia che sto per raccontare. Posso solo accen-
nare a un preludio. Negli anni immediatamente precedenti e suc-
cessivi alla catastrofe della guerra, nella quiete forzata dell’esilio
e della clandestinità, i due siciliani esprimono un comune giudizio
sulla crisi del capitalismo. Poi il ritorno alla libertà. Per Sturzo, an-
che il ritorno in patria dopo un lungo esilio. Il 1946 rappresenta per
entrambi un nuovo inizio. La Pira viene eletto all’Assemblea Costi-
tuente e diventa un autorevole esponente della corrente dossettiana.
Sturzo sceglie, o è costretto a scegliere, la parte dell’acuto e severo
giornalista che osserva e valuta la politica italiana. Nel primo set-
tennato repubblicano (dal 1946 al 1952) i due quasi si ignorano. O
meglio, polemizzano a distanza: il primo impegnato, con gli amici
della corrente dossettiana, nell’ambizioso progetto di costruire una
“democrazia sostanziale”; il secondo attento a cogliere e denuncia-
re nell’intera politica economica della ricostruzione i germi di una
degenerazione statalista. La polemica latente deflagra nel biennio
1953-54. L’episodio scatenante è quasi un pretesto: l’annuncio di
settanta licenziamenti in una fabbrica fiorentina. Ma subito la po-
lemica si allarga e investe i principi che dovrebbero regolare l’in-
tervento pubblico in economia, con Sturzo che accusa La Pira (e la
classe dirigente italiana) di statalismo.
Seguirò dunque questo percorso: il comune giudizio sulla cri-
si del capitalismo alla vigilia della fondazione della Repubblica; la
polemica a distanza sulla politica economica della ricostruzione nel
primo settennato repubblicano (1946-52), la polemica frontale sul-
lo statalismo nel biennio 1953-54. Nelle conclusioni risponderò al
quesito iniziale4.
4 Sulla vita e l’opera di Sturzo mi limito a segnalare: G. De Rosa, Sturzo, Utet,
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2 Un comune giudizio sulla crisi del capitalismo
Roma, 25 ottobre 1924: Luigi Sturzo sale sul vagone letto desti-
nato a Londra. Ufficialmente parte per intervenire a un congresso
internazionale di studi. Di fatto, è l’inizio di un lungo esilio che lo
terrà lontano dall’Italia per ventidue anni: prima in Inghilterra, poi
negli Stati Uniti. Gli anni londinesi sono intellettualmente proficui.
Qui osserva e studia le trasformazioni di una società avanzata. In
una serie di scritti, pubblicati originariamente negli anni Trenta su
varie riviste europee e poi raccolti nel volume Del metodo sociolo-
gico, descrive la crisi del moderno capitalismo.
Roma, 8 settembre 1943: il generale Badoglio annuncia l’armi-
stizio con gli Stati Uniti. L’Italia esce unilateralmente dalla guerra.
La Pira entra nella clandestinità. Trova rifugio a Fonterutoli, vicino
Siena, nella villa dei Mazzei. Poi si trasferisce a Roma, ospite di
amici, tra cui la famiglia Montini. Nella clandestinità, “come dono
consolatore di Dio”, fiorisce la meditazione sulla crisi del capitali-
smo e della civiltà occidentale esposta nel volume del 1945 Premes-
se della politica.
La Pira e Sturzo, dalle opposte sponde della Manica, pervengono
a un comune giudizio. Il male del capitalismo è la contrapposizione
di classe tra capitale e lavoro scaturita dall’individualismo illumi-
nista. La cura è la libertà organica: è necessario favorire la graduale
ricomposizione dell’unità tra capitale e lavoro. Scrive Sturzo: “L’in-
dividualismo è al fondo del problema: per esso furono sciolti i vin-
coli economici e politici dei gruppi umani (famiglia-classi-città e
così via) dando un valore prevalente e spesso assoluto all’iniziativa
privata”5. Ripete La Pira: “Dalla libertà di Rousseau derivano – pur
Torino 1977 e G. Fanello Marcucci, Luigi Sturzo. Vita e battaglie per la libertà del
fondatore del Partito popolare italiano, Mondadori, Milano 2004. Su La Pira, cfr.
P. Roggi, I cattolici e la piena occupazione, Giuffrè, Milano 2004 (III ed.). Sulle
grandi scelte di politica economica del dopoguerra, cfr. P. Barucci, Ricostruzione,
pianificazione, Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 1978 e F. Malgeri, La stagione
del centrismo. Politica e società nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1960),
Rubbettino, Soveria Mannelli (CT) 2002.
5 L. Sturzo, Capitalismo e corporativismo, in Id., Del metodo sociologico, Rub-
bettino, Soveria Mannelli (CT) 2005 (ed. orig. 1938), p. 169.
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senza sottovalutarne certe crescite preziose, sul tema dell’uomo – i
massimi mali di cui soffre la civiltà e la società nostra: la libertà eco-
nomica – cioè l’economia sottratta al controllo e alla guida dell’etica
– ha prodotto la scissione sociale tra capitalismo e proletariato”6.
Sturzo svolge un’analisi storico-sociologica. Tutto comincia alla
fine dell’ancien régime. Le corporazioni medievali di arti e mestie-
ri sono ormai gabbie dorate: splendide ma soffocanti. Per tutti. I
padroni reclamano libertà dalle gilde, dalle concessioni regie, dai
prezzi amministrati che limitano e distorcono l’espansione delle
nuove industrie. I commercianti reclamano libertà dalle dogane, dai
dazi e dai pedaggi che ovunque ostacolano e deviano i traffici com-
merciali. Gli stessi operai e contadini chiedono la libertà di poter-
si muovere senza vincoli giuridici nello spazio delle professioni e
dei territori alla ricerca della migliore occupazione. La Rivoluzione
francese concede l’agognata libertà. Ma è una libertà individuali-
sticamente concepita. Lo Stato riconosce e tutela solo gli individui.
La legge la famosa Legge Le Chapelier del 1791 sopprime gli
ordini corporativi e vieta ogni forma di associazione tra lavoratori.
Gli operai sono soli – per usare una famosa espressione della Rerum
Novarum recepita da Sturzo – in balìa di una sfrenata concorrenza.
La reazione è la formazione di sindacati operai contrapposti alle
organizzazioni padronali. L’individualismo illuminista genera cioè
la marxiana lotta di classe. Scrive Sturzo: “Questo individualismo
porta nell’economia alla sfrenata concorrenza, e quindi allo sfrutta-
mento del lavoro operaio sia circa i salari sia circa le ore di lavoro.
Come contropartita e rimedio, si svilupparono le trade unions, che
unendo gli operai fecero fronte allo sfruttamento e crearono l’inte-
resse di classe opposta a quella capitalistica. L’individualismo fu
rotto; ma furono create due classi di fronte. La teoria che ne nacque
fu quella della lotta di classe”7.
Il rimedio è la libertà organica. Non esistono solo individui. O
meglio: la libertà individuale si esprime anche nella costruzione di
6 G. La Pira, Premesse della politica e Architettura di uno Stato democratico,
Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1978 (ed. orig. 1945), p. 116.
7 L. Sturzo, Capitalismo e corporativismo, cit., p. 169.
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comunità naturali – dalla famiglia, alle unioni professionali (o clas-
si), agli enti locali – che lo Stato deve riconoscere e tutelare. Sturzo
immagina una grande riforma del capitalismo che mira a ricompor-
re la frattura tra capitale e lavoro. Pensa a tre livelli di intervento:
dentro l’impresa (l’arto fratturato), negli assetti proprietari (l’arti-
colazione colpita), nell’allocazione globale delle risorse (l’intero
organismo).
Nell’impresa si tratta di favorire lo sviluppo di un sentimento di
“cointeresse” (così lo chiama) tra capitalisti e lavoratori, vale a dire
un senso di appartenenza a un comune destino. Come? Da un lato
colpendo i proprietari assenteisti, per esempio con l’abolizione delle
azioni al portatore. Dall’altro chiamando i lavoratori a partecipare
alla proprietà dell’impresa con l’azionariato operaio (già proposto
dal Partito Popolare Italiano nel 1920) e cioè con la trasformazione
di una parte del salario in utili distribuiti.
Nella società si tratta di favorire la diffusione della proprietà tra
tutti i ceti del popolo. Accanto alla tradizionale proprietà capitalisti-
ca dovrebbero svilupparsi, con gli opportuni incentivi, nuove forme
proprietarie come la cooperazione o la municipalizzazione/naziona-
lizzazione di imprese o settori di particolare interesse pubblico.
Infine si tratta di interferire, attraverso l’organizzazione cor-
porativa, sulla produzione, l’occupazione e i prezzi determinati
dal mercato. Le corporazioni sono intese da Sturzo come libere
unioni professionali tra lavoratori e datori di lavoro; l’organizza-
zione corporativa come l’insieme delle libere associazioni miste.
La libertà di associazione marca la differenza sostanziale tra il
corporativismo fascista e quello di ispirazione cattolica. Il corpo-
rativismo fascista risolve, infatti, il conflitto sociale scaturito dal-
l’individualismo illuminista sopprimendo la libertà individuale:
vieta il diritto di sciopero affidando alla magistratura la risoluzio-
ne delle controversie tra lavoratori e datori di lavoro e riconosce
ai soli sindacati di regime il diritto (e il potere) di siglare i contrat-
ti collettivi di lavoro con validità erga omnes. Il corporativismo
cattolico intende invece suscitare, accanto alle tradizionali trade
unions, nuove e libere forme di associazione tra capitale e lavoro.
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La corporazione moderna unisce e veicola gli interessi delle cate-
gorie professionali. L’organizzazione corporativa, secondo Sturzo,
modificherebbe l’equilibrio del mercato rendendolo più conforme
alla giustizia sociale.
La Pira svolge un’analisi storico-filosofica. Tutto comincia anco-
ra alla fine dell’ancien régime. Ma è la traumatica fine di un positi-
vo ordine sociale. L’Illuminismo e la Rivoluzione francese sono il
frutto politico caduto dalla pianta avvelenata dell’eresia protestante.
Lutero e Calvino spezzano l’armonioso equilibrio tra natura e grazia
scoperto dagli scolastici e sperimentato nella società medievale, con
la libertà individuale ancorata alla legge naturale e gli individui pro-
tagonisti delle comunità naturali: dalla famiglia, alla corporazione,
al Comune. Rousseau infrange l’armonioso equilibrio (medievale)
tra ragione e rivelazione, libertà e legge, individuo e società, Stato
e Stati. L’uomo nasce libero e si corrompe nella società. Il proble-
ma storico-filosofico è come preservare la libertà individuale nella
società. La soluzione di Rousseau è il contratto sociale che gli indi-
vidui tacitamente stipulano per garantirsi reciprocamente una sfera
di diritti inviolabili: la vita, la proprietà, la libertà d’agire. Le conse-
guenze politiche sono per La Pira epocali: in positivo e in negativo.
La conquista storica della rivoluzione francese è il riconoscimento
della sacralità della persona umana; il suo limite, aver trasforma-
to l’individuo nell’assoluto e intoccabile sovrano della società. La
reazione è prevedibile. Il pendolo della storia, urtato violentemente,
comincia a oscillare. Lo statalismo nazionalistico e il comunismo,
che incarnano la filosofia hegeliana, sono il tentativo, errato, di rein-
tegrare l’individuo nella società politicamente organizzata. Si arriva
così alla formula hegeliana – “tutto nello Stato, nulla fuori dello Sta-
to” – che trova attuazione nella tragica esperienza dei totalitarismi e
che La Pira coraggiosamente denuncia.
L’auspicata riforma del capitalismo mira a ristabilire, come in
Sturzo, una nuova sintesi tra capitale e lavoro, tra individuo, società
e Stato. Scrive La Pira: “Non eliminazione della proprietà privata,
ma diffusione della proprietà privata: bisogna tendere a quel limite
ideale, che caratterizzò in qualche modo l’economia dei comuni me-
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dioevali: il capitale torni al lavoro, il lavoro sia di nuovo associato
al capitale”8.
Alla vigilia del nuovo inizio repubblicano i due pensatori sicilia-
ni pervengono così a una comune conclusione. Il capitalismo è un
organismo malato, il veleno è l’individualismo illuminista, l’antido-
to la libertà organica.
3 La polemica a distanza sulla democrazia sostanziale
Il settennato 1946-52 è quello delle grandi scelte politiche. Nel
campo istituzionale l’Italia diventa una Repubblica. Nella politica
internazionale aderisce al processo di cooperazione occidentale e
di integrazione europea. Nella politica interna perviene, dopo gli
anni dei governi di unità nazionale, a un modello bipolare con un
centro che aspira a essere riformista e una sinistra che si proclama
rivoluzionaria. Nella politica economica procede al rapido e cruento
risanamento monetario e finanziario, premessa indispensabile per
stare nell’Occidente capitalistico.
Nella Democrazia Cristiana, e di riflesso nel governo, il setten-
nato è dominato dalla disputa tra degasperiani e dossettiani intorno
alla possibilità, e opportunità, di costruire una “democrazia sostan-
ziale” che oltrepassi la democrazia liberale senza cadere nel fossato
delle democrazie socialiste. La disputa si svolge nelle aule dell’As-
semblea chiamata a scrivere la costituzione repubblicana e nelle
sedute dei governi deputati a scegliere la politica economica della
ricostruzione.
Il 2 giugno 1946 La Pira è eletto deputato all’Assemblea Co-
stituente. Il 6 settembre Sturzo sbarca a Napoli dopo il lungo esi-
lio. Per entrambi un nuovo inizio: il primo intraprende un’inattesa
carriera politica, il secondo prosegue, forse con lo stesso stupore,
un’imprevista carriera giornalistica.
La Pira si impegna nel progetto dossettiano di democrazia so-
stanziale. Avverte la responsabilità di concorrere, da politico, a
8 G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 167.
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quella riforma del capitalismo che, da studioso, aveva delineato.
Sturzo, da influente giornalista, osserva e valuta. Nella politica ita-
liana del dopoguerra coglie e denuncia il pericolo di una deriva
statalista.
I lavori dell’Assemblea Costituente iniziano il 25 giugno 1946.
Viene nominata una Commissione di 75 membri incaricata di predi-
sporre una bozza di progetto. La Commissione, a sua volta, si divide
in tre Sottocommissioni: la I si occupa dei principi generali e dei
“diritti e doveri dei cittadini”; la II dell’“organizzazione costituzio-
nale dello Stato”; la III dei “lineamenti economici e sociali”.
La costituzione, nella sua parte economica, può essere intesa
come l’insieme delle regole superiori che definiscono le finalità e
gli strumenti dell’azione pubblica in economia.
La I Sottocommissione affronta il tema dei “fini”. A La Pira e
Basso vengono affidate le relazioni generali sui “principi dei rap-
porti civili”. Il 9 settembre 1946 La Pira presenta la sua relazione.
Sostiene che la Costituzione italiana dovrà andare oltre le tradizio-
nali carte liberali, che avevano riconosciuto e tutelato i fondamen-
tali diritti civili e politici individuali. La personalità dell’uomo si
esplica, infatti, attraverso il lavoro e all’interno di organismi inter-
medi come la famiglia e la comunità locale. I diritti civili e politici,
senza i diritti sociali e comunitari, perdono valore e non garantisco-
no pienamente la dignità e la libertà della persona umana: “Senza la
tutela dei diritti sociali diritto al lavoro, al riposo, all’assistenza,
ecc. la libertà e l’indipendenza della persona non sono effettiva-
mente garantite”; inoltre “è necessario tener conto delle comunità
fondamentali, nelle quali l’uomo si integra e si espande, cioè dei
diritti delle comunità”.
La relazione suscita una vivace reazione. Il deputato Mastrojanni
si dichiara contrario all’inclusione dei diritti comunitari nella carta
costituzionale ritenendo sufficiente il riconoscimento del tradizio-
nale diritto (individuale) di associazione. Altri svolgono critiche
analoghe: Togliatti afferma che la relazione è viziata da un “eccesso
di ideologia”. Emerge una preferenza per la relazione Basso, meno
problematica e più facilmente traducibile in un testo costituzionale.
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Dossetti difende La Pira: occorre introdurre nella costituzione un
principio-cardine antifascista o afascista, che segni una cesura col
passato regime. Questo principio non può che essere quello che ri-
conosce l’anteriorità della persona umana rispetto allo Stato, che si
realizza nelle comunità intermedie: “Fatta l’affermazione di questa
anteriorità, non si vorrà riconoscere che questa anteriorità della per-
sona si completa nelle comunità in cui la persona si integra, e cioè
nella famiglia, nelle associazioni sindacali...?”. Togliatti è persuaso:
“È d’avviso – si legge nel rendiconto della seduta – che le espressio-
ni dell’onorevole Dossetti offrano un ampio terreno di intesa”.
In Sottocommissione e in aula il duello dialettico continua, ma
alla fine l’Assemblea approva i primi quattro articoli della Costitu-
zione che attribuiscono alla Repubblica Italiana il compito di tutela-
re, oltre ai fondamentali diritti civili e politici, anche i diritti sociali
e comunitari e in particolare il diritto al lavoro. L’art. 2, grazie al
determinante apporto di La Pira e Dossetti, recepisce di fatto (anche
se non nominalmente) il principio di sussidiarietà già enunciato con
enfasi nei documenti sociali della Chiesa.
Il tema degli “strumenti” dell’azione pubblica è affrontato soprat-
tutto in III Sottocommissione. Taviani, Pesenti e Fanfani svolgono
le relazioni quadro e contribuiscono maggiormente a definire il te-
sto, articolato in 17 articoli, sottoposto all’esame dell’Assemblea.
Nel dibattito parlamentare vi sono numerosi tentativi di con-
notare in senso liberista o dirigista la costituzione economica. Il 9
maggio 1947 il deputato comunista Montagnana presenta un emen-
damento all’art. 31 (poi art. 4) che prevede l’esplicita adozione di
un piano economico per garantire il diritto al lavoro. La proposta è
respinta. Il 13 maggio Einaudi presenta un emendamento all’art. 37
(poi 41) che impegna lo Stato a rinunciare a tutti quei provvedimenti
(brevetti, dazi, controllo degli investimenti) che favoriscono la for-
mazione dei monopoli. La proposta è respinta.
L’Assemblea, per garantire i fondamentali diritti della persona e
delle comunità intermedie, approva una serie di articoli che legitti-
mano tre principali strumenti di azione pubblica. Lo Stato può limi-
tare il diritto di proprietà per renderla accessibile a tutti e per conci-
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liare l’interesse privato con quello generale (artt. 41-44); riconosce e
promuove la funzione sociale della cooperazione (art. 46) e il diritto
dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende (art. 46) per
favorire, accanto e dentro l’impresa capitalistica, la ricomposizione
della frattura tra capitale e lavoro; tutela la formazione del risparmio
assicurando la stabilità monetaria (art. 47) e finanziaria (art. 81), ma
esercita un controllo sul credito (art. 47) per influire sulla distribuzio-
ne geografica e settoriale degli investimenti. La Costituzione affida
allo Stato il compito di regolare e proteggere il mercato concorrenzia-
le, predisponendo gli strumenti legislativi più efficaci per impedire
la formazione di monopoli. Lo fa in modo implicito, senza indicare
uno schema di legislazione antitrust e rinviando genericamente a “i
programmi e i controlli opportuni” (art. 41). Ciò che esplicitamente
respinge è l’idea liberista che imputa la formazione dei monopoli a
una politica economica attiva. La Costituzione prefigura invece uno
Stato che protegge, orienta e se necessario sostituisce il mercato.
I “fini” e gli “strumenti” connotano la costituzione economica
italiana differenziandola dalle tradizionali carte di matrice liberale
e socialista. Nelle prime sono tutelati soltanto o prevalentemente i
diritti civili e politici individuali con uno Stato minimo che non in-
terferisce sul funzionamento del mercato. Si ritiene anzi che solo la
tutela di un’intangibile sfera di libertà individuali possa assicurare
la massima estensione dei diritti sociali. Solo in uno Stato liberale si
avranno piena occupazione e benessere diffuso. Nelle costituzioni
socialiste, al contrario, sono tutelati soltanto o prevalentemente i
diritti sociali con uno Stato che invade la società civile. Si ritiene in-
fatti che, proprio per tutelare i diritti sociali, sia necessario limitare
o sopprimere alcune fondamentali libertà individuali.
La Costituzione italiana ambisce a tutelare, insieme ai tradizio-
nali diritti civili e politici, i nuovi diritti sociali e comunitari con uno
Stato interventista che recepisce, di fatto, il principio di sussidiarie-
tà. I dossettiani la chiamano “democrazia sostanziale”9.
9 Mi sono occupato più ampiamente di questo tema in A. Magliulo, La costituzione
economica dell’Italia nella nuova Europa. Un’interpretazione storica, in “Studi
e Note di Economia”, 1999, n. 3, pp. 161-189.
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Il 1° gennaio 1948 la costituzione entra in vigore. La democrazia
sostanziale diventa, se non un obbligo giuridico, almeno un impe-
gno morale e politico.
Sturzo è scettico. Vede il pericolo di una smisurata fiducia nello
Stato. In un articolo, pubblicato su «Il popolo» il 19 gennaio 1947
col titolo Statalismo, scrive: “Dopo ventidue anni di assenza, nel
mio laborioso adattamento mentale alle condizioni presenti della
nostra Italia, non posso sopportare l’aria greve e soffocante dello
statalismo. Una triste eredità che ci viene, è vero, dal periodo del-
l’unificazione, ma che è stata intensificata nel periodo fascista e che
ora incombe su tutti noi come una necessità fatale”10.
Lo statalismo si manifesta innanzitutto nella pervicace decisione
di non dismettere gli inutili e costosi enti pubblici creati dal fascismo
e custoditi in gran parte nell’IRI. La classe dirigente italiana sembra
anzi cullarsi nell’idea di uno Stato che tutto controlla e dispone.
Scrive Sturzo: “Quando ho sentito che per nominare un direttore
musicale alla Fenice di Venezia si doveva interessare il sottosegre-
tario di Stato alla presidenza, e che per aumentare il capitale a un
ente cinematografico in crisi ci volevano gli aiuti del tesoro, e che
ci siano persino sale cinematografiche di Stato, mi sono domandato
se gli italiani non abbiano perduto la testa e se lo statalismo non sia
diventato una mania”11.
Lo spettro dello Stato onnipotente s’aggira anche nelle aule del-
l’Assemblea Costituente. Nel febbraio 1947 Sturzo commenta e cri-
tica il progetto di costituzione, che a suo giudizio prefigura e legitti-
ma la presenza di una miriade di organismi burocratici preposti, con
l’unica eccezione del diritto di sciopero, al controllo e alla limitazio-
ne delle libertà individuali. Scrive: “Questa dello sciopero è l’unica
eccezione all’intervento statale; lo Stato onnipotente è sempre invo-
cato come il provveditore di tutto e di tutti. L’ingerenza dello Stato
(cioè, burocrazia, partiti, deputati, commissari del popolo e chi ne
10 L. Sturzo, Statalismo, in «Il Popolo», 19 gennaio 1947, ora in Id., Politica di
questi anni. Consensi e critiche (1946-1948), Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma 2003, n. 43 e anche in Id., Le profezie dimenticate, Atlantide Editoriale,
Roma 1996, p. 85.
11 Ibidem.
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ha più, più ne metta) sarà tale che il cittadino dovrà cominciare a
pensare come difendersi dallo Stato che si va creando”12.
Insomma sull’orizzonte della democrazia sostanziale incombe la
nube dello statalismo.
Il 18 aprile 1948 si svolgono le elezioni politiche generali: ini-
zia la prima legislatura repubblicana. L’11 maggio Luigi Einaudi,
l’artefice del risanamento monetario e finanziario, sale sul colle più
alto. Il 23 maggio si forma il V governo De Gasperi: comincia la
stagione del centrismo. Fanfani è Ministro del Lavoro, La Pira il suo
Sottosegretario.
I dossettiani respingono la logica dei due tempi scelta da Pella:
prima lo sviluppo economico, poi una maggiore giustizia sociale.
Vogliono lo sviluppo economico insieme alla giustizia sociale. Il
progetto di una democrazia sostanziale non può attendere: occorre
garantire subito la massima estensione possibile dei diritti sociali
sanciti nella costituzione. Il problema è: come?
Nella DC sembra emergere la comune consapevolezza che quella
italiana è un’economia di trasformazione con disoccupazione strut-
turale e squilibri geografici. Di trasformazione significa che ha bi-
sogno di importare considerevoli quantità di materie prime e beni
primari e che è dunque esposta a persistenti e consistenti disavanzi
commerciali che richiedono, per essere fronteggiati, la disponibilità
di valute pregiate (dollari e sterline). Con disoccupazione strutturale
significa che, anche quando il sistema economico opera al massimo
della capacità produttiva, permane un elevato numero di disoccupati
a causa dell’eccesso di popolazione rispetto alle risorse disponibili.
Con squilibri geografici si intende che la disoccupazione e l’arretra-
tezza sono localizzate principalmente a sud. Per usare un’immagine,
è come se in un Paese vi fosse una sola grande impresa localizzata a
nord che si approvvigiona largamente all’estero. Al massimo l’im-
presa può occupare un milione di lavoratori. Gli altri sono disoc-
12 L. Sturzo, Note sul progetto di Costituzione, in «Il Giornale d’Italia», 4 marzo
1947, ora in Id., Politica di questi anni, cit., n. 58 ed anche in N. Antonietti, U. De
Siervo, F. Malgeri, a cura di, I cattolici democratici e la Costituzione, Il Mulino,
Bologna 1998, tomo III, p. 1025.
165
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
cupati strutturali. Se lo Stato pensasse di ridurre la disoccupazione
con una commessa pubblica – e cioè con una politica keynesiana di
stimolo alla domanda aggregata produrrebbe soltanto inflazione:
l’impresa non sarebbe infatti in grado di incrementare la produzione
per soddisfare l’accresciuta domanda. Potrebbe aumentare soltanto i
prezzi. Per accrescere la produzione e l’occupazione sarebbe neces-
sario costruire una nuova fabbrica. Ma ciò richiederebbe la disponi-
bilità di un flusso di beni di consumo in eccesso (e cioè di risparmio)
da destinare ai lavoratori impegnati nella costruzione della fabbrica.
La nuova fabbrica sarebbe localizzata nella regione più avanzata del
Paese, e cioè a nord, dove esistono adeguate infrastrutture.
Questa immagine aiuta forse a capire perché i governi centristi
si rifiutarono di attuare sia politiche liberiste sia politiche keyne-
siane. Il liberismo avrebbe accentuato gli squilibri tra nord e sud
(e forse il disavanzo commerciale). Il keynesiano, anziché ridurre
la disoccupazione, avrebbe accelerato la crescita dei prezzi. Ecco
perché il Ministro del Tesoro Pella delinea una strategia di politica
economica che mira a favorire, attraverso la stabilità monetaria, la
formazione di risparmio con cui finanziare anche gli investimenti
pubblici nel mezzogiorno.
Fanfani e La Pira accettano il vincolo monetario posto da Pella.
Ma si rifiutano di attendere che il mercato automaticamente (e lenta-
mente) assorba i due milioni di disoccupati. Nel lungo periodo, ave-
va detto Keynes, siamo tutti morti. I dossettiani devono aver pensa-
to: cominciando dai disoccupati. Fanfani e La Pira propongono e De
Gasperi e Pella accettano una politica dell’occupazione compatibile
con la stabilità monetaria. Nell’estate del 1948 varano il cosiddetto
Piano Case: il governo dispone che sia obbligatoriamente accanto-
nata una quota della tredicesima mensilità dei lavoratori, impone un
prelievo forzato ai datori di lavoro e stanzia un proprio contributo.
Il fondo così costituito serve a finanziare un programma settennale
di costruzione di alloggi popolari per lavoratori a opera di giovani
disoccupati. Un programma di investimenti pubblici finanziato con
risparmio, obbligatorio ma reale, e dunque compatibile con l’obiet-
tivo della stabilità monetaria.
166 Anno XX - Luglio/Settembre 2008
Pochi mesi dopo, nel febbraio del 1949, gli amministratori ame-
ricani del Piano Marshall accusano il governo italiano di eccessiva
prudenza nella gestione dei fondi ERP: a loro giudizio vi sarebbero
in Italia le condizioni per attuare una politica keynesiana di investi-
menti pubblici. Al congresso democristiano del giugno 1949 i dos-
settiani, forti anche di questa critica, rilanciano la richiesta di una
più aggressiva politica della massima occupazione. Pella acconsen-
te e Dossetti si dichiara soddisfatto. L’intesa sembra raggiunta. Ma
i dossettiani sono esclusi dalla direzione del partito e la polemica
si riapre. Il governo entra in crisi. Fanfani tenta una mediazione:
propone l’istituzione di un ente di spesa pubblica per il sud. La Pira
sollecita un’estensione del Piano Case. Tutto inutile. Nel marzo del
1950 si forma il VI governo De Gasperi, dal quale sono esclusi i
dossettiani. Il paradosso è che De Gasperi annuncia la costituzione
della Cassa per il Mezzogiorno e l’avvio di quella politica di inve-
stimenti pubblici che i dossettiani avevano tanto a lungo atteso.
Nell’aprile del 1950 La Pira pubblica su «Cronache Sociali», la
rivista della corrente dossettiana, L’Attesa della povera gente. Il
saggio rappresenta forse la prima esplicita e integrale proposta di
una politica keynesiana di piena occupazione. Dal punto di vista
politico, serve a ricompattare la DC: Dossetti viene nominato vice-
segretario nazionale e coordinatore dei gruppi parlamentari. Inizia
quello che è stato chiamato il sussulto riformatore del centrismo,
che in breve tempo porta all’approvazione della Cassa per il Mez-
zogiorno e della duplice riforma: agraria e tributaria. La stagio-
ne riformista, però, dura poco: la guerra di Corea, con il connesso
pericolo che i fondi stanziati per l’occupazione vengano destinati
alla difesa, la confermata fiducia a Pella nonostante una sconfitta
elettorale della DC, e probabilmente fattori extrapolitici, inducono
Dossetti a lasciare la politica e a chiudere l’esperienza di «Crona-
che Sociali». Lo stesso La Pira accetta di candidarsi e di essere elet-
to Sindaco di Firenze abbandonando, almeno temporaneamente, la
scena nazionale13.
13 Per maggiori dettagli sulla disputa tra degasperiani e dossettiani e sulla
politica economica del centrismo rinvio a due miei precedenti lavori: A.
167
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
Si chiude così una lunga fase del dopoguerra dominata dalla
disputa tra dossettiani e degasperiani. Sarebbe riduttivo interpre-
tare la disputa come una contrapposizione tra liberisti e keynesia-
ni. In realtà l’intera classe dirigente democristiana è alla ricerca
di una politica della massima occupazione possibile nelle con-
dizioni storicamente determinate dell’economia italiana. I dos-
settiani, e tra questi La Pira, propongono una politica del lavoro
appropriata alle mutevoli condizioni dell’Italia del dopoguerra:
prima il Piano Case, poi una manovra keynesiana, infine un ente
di spesa pubblica per il sud. I degasperiani recepiscono la prima e
l’ultima proposta mentre considerano impraticabile una manovra
keynesiana.
Sturzo resta scettico. In questi anni non rinnega la riforma corpo-
rativista del capitalismo che aveva delineato negli anni Trenta. Ma
il pericolo rimane lo statalismo, un accentuato statalismo che si ma-
nifesta, più che in una sfiducia nei confronti dell’iniziativa privata,
in una sconfinata fiducia nello Stato.
Sturzo pensa che gli obiettivi di riforma sociale del capitalismo
debbano essere perseguiti aggiornando gli antichi strumenti della
politica economica. Gli obiettivi della massima occupazione e del
riscatto meridionale possono e debbono essere perseguiti con uno
Stato che sostiene e orienta ma non si sostituisce all’iniziativa pri-
vata. La disoccupazione si cura con l’aumento della produttività
e cioè con la crescita economica, la questione meridionale con
un sistema di incentivi pubblici che attragga le imprese private a
sud e cioè con una nuova forma di interferenza pubblica. Scrive:
“Il metodo migliore è quello della concorrenza; l’ho detto per il
commercio, lo dico per l’industria. Se certe fabbriche non reggo-
no ai prezzi di concorrenza, è meglio che si trasformino o che si
chiudano; altrimenti resteranno a peso della comunità sia per le
Magliulo, Concordia discors. La disputa tra degasperiani e dossettiani sul-
la politica economica della ricostruzione”, in D. Ivone, a cura di, Alcide De
Gasperi nella storia dell’Italia repubblicana a cinquant’anni dalla morte,
Napoli, Editoriale Scientifica, 2006, pp. 627-651; La politica economica di
Ezio Vanoni negli anni del centrismo, in «Studi e Note di Economia», 2007,
n. 1, pp. 77-114.
168 Anno XX - Luglio/Settembre 2008
sovvenzioni e protezioni statali, sia per la ripercussione sui consu-
matori”14. Schumpeter la chiamava “distruzione creatrice”.
Sturzo attenua anche il negativo giudizio pronunciato sul proget-
to di costituzione, auspicando che gli italiani sappiano ancorare la
ritrovata libertà individuale alla suprema legge dello Stato, e propo-
ne un Senato economico delle unioni professionali da affiancare alla
Camera politica dei deputati. La cura del capitalismo resta insomma
la libertà organica15. L’Italia ha invece imboccato la strada della per-
dizione statalista.
Sturzo non si schiera, come sarebbe forse lecito attendersi, con
i degasperiani contro i dossettiani. Critica tutti. Salva solo il quin-
quennio 1944-48 quando De Gasperi seppe imporre una guida libe-
rale. Poi anch’egli divenne vittima di una giovane classe dirigente
formatasi negli anni del fascismo.
Per Sturzo, lo statalismo è la sistematica e progressiva erosione
da parte del governo di spazi vitali che appartengono all’iniziativa
privata. La prova più evidente è la sopravvivenza degli enti pubblici
ereditati dal fascismo e l’illimitata fiducia verso ogni forma di inter-
vento statale16.
Nel primo settennato repubblicano, dominato dalla disputa tra
dossettiani e degasperiani, La Pira si spende per realizzare il progetto
di una democrazia sostanziale che riconosca insieme ai tradizionali
diritti civili e politici individuali i nuovi diritti sociali e comunitari, a
cominciare dal diritto al lavoro. Sturzo coglie in quel tentativo, e più
14 L. Sturzo, Protezionismo visibile e protezionismo invisibile, in «Il Popolo», 3
novembre 1948, ora in Id., Politica di questi anni. Consensi e critiche (1948-1949),
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003, p. 92.
15 Cfr. L. Sturzo, Libertà politica e Costituzione, in «Il Popolo», 20 marzo 1949,
ora anche in N. Antonietti, U. De Siervo, F. Malgeri (a cura di), I cattolici de-
mocratici e la Costituzione, Il Mulino, Bologna 1998, tomo III, pp. 1183-85 e gli
articoli sulla libertà organica: Unioni, sindacati e corporazioni (18 novembre
1950), Corporativismo e libertà (30 dicembre 1950), “Libertà e organicità” nella
società cristiana (5 gennaio 1951), Democrazia e sindacati di classe (20 gennaio
1951) tutti raccolti in L. Sturzo, Politica di questi anni. Consensi e critiche (1950-
1951), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003.
16 Su questo tema Sturzo polemizza anche con Ernesto Rossi ed Eugenio Scal-
fari.
169
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
in generale nella politica economica della ricostruzione, il rischio
di una deriva statalista. I due siciliani personalmente si ignorano17.
Appartengono, per età e cultura, a generazioni diverse. La loro è una
polemica a distanza.
4 La polemica frontale sullo statalismo
Il 7 giugno 1953 si svolgono le elezioni politiche generali. La
coalizione centrista non raggiunge, per pochi voti, il quorum neces-
sario a far scattare il premio di maggioranza. La sconfitta elettorale
della DC segna il tramonto politico di De Gasperi.
Il 25 giugno si riunisce il parlamento. Inizia la seconda legislatu-
ra repubblicana. Comincia la stagione del centrismo post-degaspe-
riano.
Nell’inverno del 1953 il Sindaco La Pira opera, con il deter-
minante aiuto del Presidente dell’ENI Mattei e del Ministro del-
l’Interno Fanfani, il salvataggio della Pignone. Un intervento ad
hoc, microeconomico, che, oltre a salvare centinaia di posti di
lavoro, preserva per l’intero Paese un apparato industriale di ec-
cellenza18.
Nella primavera del 1954 a Firenze si respira ancora aria di
crisi. Un’importante fabbrica cittadina, la Manetti & Roberts,
annuncia circa settanta licenziamenti. Il Sindaco interviene nuo-
17 L’unico scambio epistolare di questi anni è una lettera del 23 dicembre 1947
che Sturzo invia a La Pira per manifestare apprezzamento e solidarietà dopo la
bocciatura della proposta, avanzata da La Pira, di inserire il nome di Dio nel
preambolo della Costituzione. La Pira risponde, ringraziando, con una missiva
del 25 dicembre. Queste e altre lettere inedite sono raccolte in un volume di pros-
sima pubblicazione curato da Letizia Pagliai e intitolato Lintervento dello Stato
in campo economico nel pensiero di Giorgio La Pira. Ringrazio sinceramente la
dott.ssa Pagliai non solo per avermi consentito di consultare la documentazione,
ma anche per avermi autorizzato a pubblicare un brano di una lettera (inedita)
scritta da La Pira a Sturzo.
18 Sulla vicenda Pignone, cfr. P. Roggi, La Pignone nel carteggio La Pira-Fan-
fani, in Caro Giorgio… Caro Amintore…”, Edizioni Polistampa, Firenze 2003,
pp. 77-113.
170 Anno XX - Luglio/Settembre 2008
vamente accusando i vertici confindustriali di aver sollecitato i
licenziamenti. La polemica con Sturzo nasce intorno a questo
episodio, ma subito si allarga e investe i principi ispiratori che
dovrebbero disciplinare il ruolo economico dello Stato. La Pira
e Sturzo si scambiano lettere e articoli ad alta tensione morale.
Una corrispondenza che svela chiaramente la natura e la portata
del loro dissidio e che conviene riprodurre nel modo più fedele (e
sintetico) possibile19.
Il 16 aprile 1954, dunque, il Sindaco La Pira invia alle autorità
governative un telegramma in cui accusa la Confindustria di aver
ispirato i nuovi licenziamenti alla Manetti & Roberts e invoca, sul-
l’esempio della Pignone, un intervento politico per fronteggiare la
pesante situazione occupazionale. Scrive: “Situazione fiorentina
diventa ogni giorno più seria. Ancora non chiuse ferite Pignone,
ancora totalmente aperta vertenza Richard Ginori con 1.000 licen-
ziamenti, si aggiungono ora licenziamenti Manetti et altri licenzia-
menti sono preannunciati altrove. Disoccupati iscritti ufficio lavoro
sono ben oltre 10.000”20.
Il 22 aprile replica il Presidente nazionale della Confindustria,
Angelo Costa, utilizzando un argomento classico: negli ultimi anni,
in Italia, vi sono state più assunzioni che licenziamenti. Il mercato
ha cioè creato più occupazione di quanta ne ha distrutta (una di-
struzione creatrice appunto). Interventi ad hoc come quello della
Pignone servono soltanto a dare lavoro ad alcuni togliendolo ad al-
tri, con un saldo finale spesso negativo: “Se operai della ‘Pignone’
potranno trovare lavoro producendo bombole per l’AGIP, non è che
si faranno più bombole, ma altri operai di altre industrie sanno già
che perderanno il proprio lavoro. Al lavoro procurato agli uni fa
riscontro il lavoro tolto agli altri: questi trasferimenti non creano
ricchezza, ma di solito ne distruggono e con questo si diminuiscono
le possibilità di lavoro”21.
19 I testi della polemica, dispersi in varie edizioni, sono stati raccolti nel volume
di D. Antiseri, a cura di, Cattolici e mercato. La grande polemica, Ideazione,
Roma 1996.
20 Ivi, p. 10.
21 Ivi, p. 17.
171
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
La Pira risponde il 30 aprile. Rivendica la validità dell’intervento
a favore della Pignone che ha permesso di salvare un patrimonio
industriale fatto di manodopera qualificata e impianti tecnologica-
mente avanzati. Poi solleva un duplice quesito. Costa immagina
un’economia concorrenziale che istantaneamente raggiunge l’otti-
mo sociale. Ma, primo, quale concorrenza può esistere in un’eco-
nomia, come quella italiana, in cui i 3/4 del sistema produttivo rica-
dono sotto il controllo, diretto o indiretto, dello Stato? E, secondo,
è giusto che la Confindustria si scagli contro l’intervento pubblico
quando la “spina dorsale” della sua organizzazione è costituita da
aziende statali o parastatali? Scrive: “Libera concorrenza; iniziativa
privata; legge della domanda e dell’offerta e così via: in uno Stato,
come il nostro, nel quale la quasi totalità del sistema finanziario è
statale e in cui i 3/4 circa del sistema produttivo è, direttamente o
indirettamente, statale!”. E, con riferimento ai soci pubblici dell’as-
sociazione privata: “Ecco un problema serio: forse il più serio della
vita economica, sociale e politica del nostro Paese!22.
Costa replica il 7 maggio. Contesta le cifre. Da esse trae anzi la
convinzione che La Pira non conosca a fondo la realtà economica:
in Italia forse il 90% dell’attività economica è gestita da privati in
una logica di mercato, mentre le imprese pubbliche associate alla
Confindustria non superano la soglia del 10%.
A questo punto interviene Sturzo. Il 13 maggio del 1954 pubblica
sul «Giornale d’Italia» un articolo intitolato Statalista, La Pira? Il
punto di domanda lascia aperto uno spiraglio al dialogo, ma l’accu-
sa è pesante. La Pira è lo statalista della povera gente. Si illude di
poter riscattare i poveri statizzando l’economia nazionale.
Sturzo riproduce i brani della lettera indirizzata da La Pira a Co-
sta relativi ai 3/4 di economia italiana sotto il controllo statale e alle
imprese pubbliche spina dorsale della Confindustria, e li interpreta
così: la Pira sembra ritenere che il problema principale da risolvere
sia quello di pervenire alla totale statizzazione dell’economia italiana
abolendo il residuo quarto di iniziativa privata. Aggiunge anzi che
certe espressioni gli ricordano il mussoliniano motto “Tutto nello Sta-
22 Ivi, pp. 28-29.
172 Anno XX - Luglio/Settembre 2008
to e per lo Stato”. Scrive: “Se mal non interpreto il pensiero, La Pira
crede che il problema da risolvere sarebbe quello di arrivare alla tota-
lità del sistema finanziario in mano allo Stato, togliendo quel piccolo
quasi che egli vi ha premesso; e di abolire il quarto del sistema pro-
duttivo che ancora sarebbe in mano ai privati per potere avere fortuna
(o sfortuna) di un’economia tutta statale. In sostanza si tratterebbe di
instaurare in Italia un socialismo di Stato al cento per cento”. E ag-
giunge: “Mi pare di sentire l’eco del motto mussoliniano: ‘tutto per lo
Stato e nello Stato; nulla sopra, fuori e contro lo Stato’23.
Le economie dirette sono invece destinate a implodere nella po-
vertà. Per due ragioni sostanziali: perché la mancanza del rischio
imprenditoriale indebolisce il senso della responsabilità persona-
le e perché l’interferenza governativa attenua o annulla i caratteri
dell’impresa capitalistica. Lo Stato può sostituirsi ai privati solo in
situazioni di eccezionale emergenza. Nella normalità dei casi può
solo orientare le scelte dei privati, per esempio approvando una leg-
ge che colpisca gli utili non reinvestiti. Scrive Sturzo: “Non nego
la necessità di interventi statali di eccezione per casi eccezionali,
interventi temporanei e adeguati; nego che lo Stato debba annullare
la libertà economica sotto il pretesto della socialità… Ad ovviare il
pericolo che gli utili esagerati degli imprenditori o degli azionisti
vadano in spese voluttuarie o passino il confine a scopo di evasione
e di tesoreggiamento, lo Stato ha l’arma fiscale. Basta una legge che
colpisca gli utili superiori a un certo limite del reddito, quante volte
non vengano tali utili impiegati in nuovi impianti industriali, in nuo-
ve aziende agrarie o commerciali, in miglioramenti e ampliamenti
degli impianti e delle aziende esistenti”24.
La Pira si difende con una lettera del 20 maggio (che Antiseri ha
definito “di una travolgente forza morale”). La polemica, sostiene
La Pira, nasce da un equivoco. I brani estrapolati da Sturzo dalla
lettera indirizzata a Costa non giustificano affatto l’ipotesi di un’in-
tegrale statizzazione dell’economia italiana. Ma una cosa è il rifiu-
to del totalitarismo, un’altra l’accettazione del liberismo. Lo Stato
23 Ivi, pp. 41-42.
24 Ivi, pp. 44-45.
173
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
deve intervenire in modo organico e proporzionato ai problemi da
risolvere. Nel caso dell’economia italiana si tratta di coordinare il
complesso delle imprese pubbliche, che esistono e non possono es-
sere liquidate, per attuare un’organica politica della piena occupa-
zione. Riascoltiamo le “travolgenti” parole di La Pira.
La polemica nasce da un equivoco:
E, anzitutto, permetta che, con filiale franchezza, io Le do-
mandi: – ma Lei ha letto veramente, per intero, la lettera da
me mandata al dott. Costa e pubblicata per intero soltanto dal
«Mattino» di Firenze? (I giornali “indipendenti” che aveva-
no pubblicato la lettera del dott. Costa non hanno pubblicato
la mia risposta).
Le faccio questa domanda perché tutto il Suo articolo è basa-
to su una premessa errata: esso è costruito infatti sopra una
tesi che Lei mi attribuisce, ma che io non ho in nessun modo
affermato nella mia lettera.
La mia proposizione che Lei cita – “ecco un problema serio:
forse il più serio della vita economica, sociale e politica del
nostro Paese” – si riferiva alla contraddizione esistente nel-
la struttura e nella “politica” della Confindustria: e precisa-
mente al fatto che la Confindustria, pur traendo tanta parte
del suo “peso” dalla presenza in essa delle aziende statali e
parastatali (basti l’IRI), svolge una politica non certo bene-
vola – per non dire altro – verso quell’intervento statale di cui
in modo così vasto e determinante – diretto e indiretto – essa
beneficia!
Altro io non dicevo: quell’altro che Lei mi fa dire non risulta
in nessun modo né dal contesto integrale della lettera, né dal-
le preposizioni singole, prese a una a una.
Non si allarmi, caro Don Sturzo: la frase di Mussolini:
“Tutto per lo Stato, ecc…” fu da noi amaramente speri-
mentata durante gli ultimi anni della tirannia fascista.
Lei forse non lo sa: noi si prese posizione pubblicamente
174 Anno XX - Luglio/Settembre 2008
– anche con una rivista scritta quasi tutta in latino e greco
e soppressa proprio quando uscì il numero sulla libertà:
gennaio 1942! contro questo stato tutto di hegeliana fat-
tura. Pensi, quindi, se non conosciamo per esperienza e
per sofferenza amara cosa sia lo Stato totalitario: Lei era
in America, in esilio, e certo soffriva, ma consentirà che
Le dica che le nostre pene non erano più piccole delle Sue:
quali e quante!
Stia tranquillo: siamo stati ben vaccinati; Lei è contro lo Stato
totalitario soprattutto per persuasione: noi lo siamo in virtù
di una persuasione autenticata da una terrificante esperienza
che ci brucia ancora!25.
Il rifiuto dello Stato totalitario non equivale all’accettazione del-
lo Stato liberista:
Non vorrei che con la scusa di non volere lo Stato totalitario
non si voglia in realtà lo Stato che interviene per sanare le
strutturali iniquità del sistema finanziario, economico e so-
ciale, del c.d. Stato “liberista” (che sta “a vedere” con olim-
pica contemplazione la dolorosa zuffa che la privazione del
pane quotidiano procura, fra deboli e potenti)26.
E a conferma cita la parabola del buon Samaritano (“intervenire
si deve”) e un famoso brano della Quadragesimo Anno in cui si
afferma che la giustizia sociale e non la concorrenza è il timone
dell’economia.
Infine, occorre coordinare le imprese pubbliche esistenti per
orientarle verso il traguardo della piena occupazione:
Scusi, è vero o non è vero che le banche e, quindi, l’intero
sistema monetario e finanziario sono direttamente (in gran
parte) o indirettamente statali o parastatali? Sì, non c’è dub-
bio. È vero o non è vero che lo Stato influisce direttamente o
indirettamente attraverso l’IRI, l’IMI, l’ENI, la Cassa del
25 Ivi, pp. 57-58, corsivi nell’originale.
26 Ivi, p. 59.
175
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
Mezzogiorno; attraverso le aziende municipalizzate, attra-
verso i dazi di protezione, mediante gli investimenti pubbli-
ci, ecc. ecc. – sull’intero sistema produttivo (si capisce, oltre
l’influenza profonda che esercita mediante la manovra della
moneta e del credito)?
E allora: cosa si aspetta – senza, per questo, “statalizzarla”
a dare ordine, regola e nalità a tutta l’economia italia-
na, orientandola verso quella “stabilità” che costituisce il
traguardo ormai raggiunto da tutte le economie sane? Cosa
si aspetta a creare gli strumenti adatti per un’economia ca-
pace di affrontare la congiuntura e di operare il pieno im-
piego?27.
Sturzo risponde con un articolo del 23 maggio. Chiarisce che il
dissenso non è sul piano dei principi. Entrambi, seguendo la dot-
trina sociale della Chiesa, auspicano uno Stato che interviene nel-
l’economia in modo integrativo e sussidiario rispetto all’iniziativa
privata per accrescere la giustizia sociale. Il dissenso riguarda l’ec-
cessiva estensione del settore pubblico, che La Pira sembra accet-
tare e che Sturzo vuole invece contrastare. Scrive:
Ma non è questo il punto controverso fra me e La Pira.
Non nego l’interessamento per i disoccupati, gli operai, i
contadini, gli artigiani, i piccoli ceti rurali e cittadini. E
neppure la controversia fra me e La Pira verte sull’inter-
vento di Stato. Nel mio discorso al Senato del 20 febbraio
dissi: “Non nego un misurato intervento nelle varie bran-
che dell’attività privata, specialmente a scopo integrativo,
e dove l’iniziativa privata non possa da corrispondere
adeguatamente alle esigenze pubbliche”… La Pira nega
di essere statalista e cita i precedenti antifascisti: gliene
do atto, ricordando con quanta ansia leggevo all’estero
la sua rivista che amici mi facevano arrivare dalla Sviz-
zera28.
27 Ivi, p. 65.
28 Ivi, pp. 69-70.
176 Anno XX - Luglio/Settembre 2008
E ancora:
La Pira nella sua replica parla di intervento statale “in modo
proporzionato e organico nella soluzione dei problemi econo-
mici e sociali” e cita fra parentesi: casa, assistenza, cultura;
non è questo il punto di dissenso fra me e La Pira; no, il punto
di dissenso è quando contesta la posizione preminente della
iniziativa privata nella economia di un Paese moderno... Gli
esempi che porta La Pira dell’ e dell’ provano la mia,
non la sua tesi; ne ho scritto più volte, ne tornerò a scrivere,
visto che certi cattolici detti di sinistra preferiscono chiudere
gli occhi e seguire le iniziative socialcomuniste o socialde-
mocratiche per creare enti su enti, corrodere o distruggere
l’economia privata e ridurre il Paese a un livello economico
inferiore a quello attuale29.
La polemica frontale termina qui. Subito dopo riprende quella a
distanza. La Pira continua la sua battaglia per una democrazia sostan-
ziale, Sturzo non si stanca di denunciare il rischio di una deriva stata-
lista. In un articolo del 1957 esplicita con chiarezza i principi che do-
vrebbero regolare il rapporto tra libertà individuale e autorità statuale.
Sono tre principi cardine: la libertà è unica e indivisibile, gli eccessi
della libertà si correggono anzitutto con l’autodisciplina, lo Stato ha
una funzione primaria fornire ai privati i beni pubblici essenzia-
li (ordine, difesa, stabilità monetaria) – e una funzione secondaria e
sussidiaria: integrare temporaneamente l’iniziativa privata. Scrive:
Il mio grido di libertà è basato su tre principi:
1 la libertà è unica e indivisibile; si perde la libertà politica
e culturale se si perde la libertà economica, e viceversa;
2 la libertà è espressione di verità e di ordine; il correttivo
contro gli eccessi della libertà è, anzitutto, l’autodisciplina e
l’autolimitazione…
3 lo Stato ha per funzione principale e propria quella della
garanzia e vigilanza dei diritti collettivi e privati, il manteni-
29 Ivi, pp. 71-72.
177
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
mento dell’ordine pubblico, la difesa nazionale, la tutela e vi-
gilanza del sistema monetario e creditizio; la finanza pubblica
e la buona amministrazione dei servizi pubblici nazionali; in
via secondaria e sussidiaria lo Stato interviene, in forma inte-
grativa, in quei settori di interesse sociale e generale nei quali
l’iniziativa privata sia deficiente, fino a che sia in grado di ri-
prendere il proprio ruolo. I casi di emergenza impongono allo
Stato altri compiti; ma questi sono temporanei e si esercitano
nel rispetto dei diritti politici del cittadino, la cui libertà deve
essere tutelata, la cui personalità deve essere rispettata30.
L’enunciazione di principi, che pure appartengono alla dottrina
sociale della Chiesa, non convince La Pira. Il dissenso, a suo giudi-
zio, nasce alla sorgente dei principi. In una lettera inedita, inviata il
3 marzo 1959, quasi cinque anni dopo la polemica frontale, scrive:
Caro Don Sturzo,
vede: il problema non concerne le intenzioni (la questione non
è neanche proponibile!), concerne i principî: non è volitivo,
è intellettivo: dove il nostro dissenso è radicale, è nella con-
cezione stessa dei rapporti che esistono fra il cristianesimo e
la “città”.
Per noi secondo, cioè, la dottrina che la Chiesa ci ha in-
segnato (S. Tommaso, Leone XIII, Pio XI, Pio XII ecc.) il
cristianesimo è un lievito destinato a lievitare non solo la per-
sona, ma anche la “città” (le istituzioni, cioè, dei popoli e
delle civiltà): a trasformarla sempre più profondamente da
città “pagana” in città “cristiana”.
Da qui la funzione essenziale, trasformatrice, del diritto e del-
lo Stato: perché allora la stessa commissione giustinianea
(presieduta da Triboniano ebbe cura di adattare al cristiane-
simo (già nel VI secolo) il diritto romano pagano?
Come vede il problema è di fondo, il dissenso fra di noi è ra-
30 L. Sturzo, Paura della libertà, in «Il Giornale d’Italia», 29 dicembre 1957, ora
in Id., Politica di questi anni. Consensi e critiche (dal gennaio 1957 all’agosto
1959), a cura di C. Argiolas e con Introduzione di G. De Rosa, Gangemi Editore,
Roma 1998, p. 159.
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dicale: non concerne le volontà, concerne gli intelletti nostri
che sono orientati (in ordine alla vita sociale) in modo oppo-
sto: Lei è un liberale, io no!31
La chiusa di La Pira – “Lei è un liberale, io no!” – sembra elimi-
nare ogni incertezza interpretativa. La Pira e Sturzo sono davvero
gli autorevoli esponenti di due contrapposte tradizioni di pensiero
interne al cattolicesimo italiano. Eppure lo storico è portato a diffi-
dare dalle autorappresentazioni che i protagonisti, magari in assolu-
ta buona fede, danno di se stessi. Si fida più dei documenti.
La polemica frontale sullo statalismo nasce da un equivoco: in
questo ha ragione La Pira. Ma non è pretestuosa: un dissenso esiste
davvero ed è latente da anni. Il dissenso riguarda la presenza effetti-
va dello Stato nell’economia italiana. La Pira ne prende atto e chiede
che i molteplici e potenti strumenti della politica economica siano
meglio orientati al fine della giustizia sociale. Sturzo invece giudica
quella presenza eccessiva, ingombrante, sostitutiva dell’iniziativa
privata, e ne reclama un rapido contenimento. In questo senso ha
ragione Sturzo: la polemica nasce da un diverso giudizio della realtà
italiana. Ora il problema è capire se il discorde giudizio scaturisca
da un comune sistema di principi e sia dunque circoscrivibile a un
contingente momento storico o se, al contrario, fluisca da una diver-
sa sorgente culturale e dimostri dunque l’esistenza di un’originaria e
permanente divisione del cattolicesimo italiano. Prima di risponde-
re, può essere utile ricordare brevemente il percorso fatto.
5 Conclusioni
Negli anni immediatamente precedenti e successivi alla catastro-
fe della seconda guerra mondiale Sturzo e La Pira riflettono sulla
crisi e il destino del capitalismo e pervengono a una comune conclu-
sione. Il capitalismo è un organismo avvelenato dall’individualismo
illuminista che ha generato prima la dissociazione e poi la contrap-
31 Lettera di G. La Pira a L. Sturzo, [Firenze], 3 marzo 1959, in L. Pagliai, a cura
di, Lintervento dello stato, cit.
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posizione violenta tra capitale e lavoro. La cura è la libertà orga-
nica e cioè una nuova associazione tra capitale e lavoro attraverso
la partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa, la diffusione
della proprietà tra tutti i ceti del popolo, l’interferenza pubblica su-
gli equilibri del mercato.
Nel primo settennato repubblicano, dal 1946 al 1952, La Pira
si impegna nella costruzione di una democrazia sostanziale che ri-
sani le ferite aperte del capitalismo, con uno Stato che interviene
nell’economia al fine di assicurare la massima estensione dei diritti
sociali nel rispetto dei diritti delle comunità intermedie e dunque,
implicitamente, nei limiti del principio di sussidiarietà. Sturzo rive-
de e denuncia nei propositi della nuova Repubblica le illusioni e gli
errori dei vecchi statalisti.
Nel biennio 1953-54 la polemica a distanza diventa frontale. La
Pira, dopo aver salvato la Pignone dal fallimento, vuole scongiu-
rare i licenziamenti alla Manetti & Roberts. Sturzo coglie nelle ar-
gomentazioni che il Sindaco di Firenze rivolge al Presidente della
Confindustria l’ennesima prova di una radicata mentalità statalista
che legittima un’impropria espansione del settore pubblico a danno
di quello privato. La polemica nasce da un equivoco (perché Sturzo
fraintende, non so quanto volutamente, il pensiero di La Pira) ma
non è pretestuosa, perché un dissenso esiste davvero. Sturzo ritiene
che il dissidio non riguardi i principi ma la “posizione preminente”
dell’iniziativa privata nell’economia del Paese che La Pira contesta
e lui difende. La Pira, a distanza di qualche anno, sostiene invece
che la polemica investe il piano alto dei principi.
A mio giudizio ha ragione Sturzo. Il dissenso non è sui principi.
Sturzo e La Pira non possono essere considerati gli autorevoli espo-
nenti di due contrapposte tradizioni di pensiero economico e poli-
tico che solcano, separandolo, il cattolicesimo italiano. Entrambi si
alimentano all’unica fonte della dottrina sociale della Chiesa, dalla
quale traggono i principi ispiratori per valutare la società contem-
poranea. Entrambi considerano il capitalismo un sistema malato da
curare. Formulano la stessa diagnosi: la malattia è stata contratta
con la Rivoluzione francese che, sopprimendo in nome delle libertà
180 Anno XX - Luglio/Settembre 2008
individuali gli organismi comunitari, ha provocato la scissione e il
conflitto tra capitale e lavoro. Anche la terapia è sostanzialmente
comune: occorre ricomporre, con un’iniziativa pubblica, la frattura
tra capitale e lavoro nell’impresa, negli assetti proprietari, nell’eco-
nomia globale.
L’analisi del capitalismo allontana Sturzo dalla tradizione li-
berale ancorandolo ancor di più al cattolicesimo sociale. Esistono
due grandi tradizioni liberali: quella razionalista francese e quella
evoluzionista anglosassone, che hanno prodotto ciò che Hayek ha
chiamato il “vero” e il “falso” individualismo. Il primo valorizza la
presenza delle formazioni sociali come l’esito, spesso inintenziona-
le, di libere azioni individuali. Il secondo nega invece i diritti delle
comunità intermedie in nome di un’astratta e abusata idea di ragione
che riconosce soltanto l’individuo e lo Stato.
Sturzo si allontana da entrambe le tradizioni liberali. Dalla
tradizione razionalista francese per le colpe che imputa all’indi-
vidualismo illuminista e dunque al capitalismo. Dalla tradizione
evoluzionista anglosassone per i rimedi che propone: l’azionaria-
to operaio, la cooperazione e l’interferenza pubblica nel mercato
hanno incontrato l’ostilità dei grandi liberali. Solo per citare al-
cuni autorevoli nomi: Mises disapprova la partecipazione operaia
agli utili d’impresa, Pantaleoni disconosce la funzione sociale della
cooperazione, Hayek condanna ogni ingerenza pubblica nel merca-
to approvando soltanto le azioni esterne volte ad assistere gli esclu-
si. Forse si potrebbe cogliere una qualche affinità con Einaudi. Ma
in Assemblea Costituente l’economista piemontese si batte soprat-
tutto per affermare l’idea di uno Stato minimo che non altera gli
equilibri del mercato.
Come spiegare allora la polemica frontale sullo statalismo? Con
una diversa valutazione della realtà italiana. La Pira pensa che, nella
povera Italia del dopoguerra, il settore privato non sia in condizio-
ne di assicurare, da solo, gli obiettivi di massima occupazione e di
equità distributiva inscritti nella carta costituzionale. Pensa anche
che l’azione delle imprese pubbliche debba essere meglio orientata
agli stessi obiettivi di giustizia sociale. Sturzo, al contrario, ritie-
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Rivista di Studi Politici - S. Pio V
ne che l’Italia repubblicana, appesantita dal fardello fascista, abbia
imboccato la via sbagliata dello statalismo. La Pira teme più i falli-
menti del mercato, Sturzo più quelli del governo. Ma nella dottrina
sociale della Chiesa sono contemplati entrambi. Lo Stato può sosti-
tuirsi ai privati quando siano incapaci di assolvere ad alcune basilari
funzioni sociali ma deve essere pronto a restituire a essi l’iniziati-
va economica anche attraverso azioni di sostegno e promozione
– non appena siano in grado di svolgere quelle stesse funzioni. Lo
Stato deve cioè ispirarsi al principio di sussidiarietà.
Certo, sarebbe sbagliato censurare o negare le differenze tra i
due grandi cattolici. Nell’Italia del dopoguerra La Pira giustifica
una forma di azione pubblica che Sturzo invece deplora. Ma forse
sarebbe ancora più sbagliato contrapporli. C’è da imparare dall’uno
e dall’altro. Sturzo e La Pira ci lasciano una grande lezione di lai-
cità. Laici, cioè cristiani: invasi da una fede che diventa cultura e
illumina ogni angolo della realtà.
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Protezionismo visibile e protezionismo invisibile
  • L Sturzo
L. Sturzo, Protezionismo visibile e protezionismo invisibile, in «Il Popolo», 3 novembre 1948, ora in Id., Politica di questi anni. Consensi e critiche (1948-1949), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003, p. 92.
Libertà e organicità" nella società cristiana (5 gennaio 1951), Democrazia e sindacati di classe (20 gennaio 1951) tutti raccolti in L. Sturzo
  • . L Cfr
  • Libertà Sturzo
  • Politica E Costituzione
Cfr. L. Sturzo, Libertà politica e Costituzione, in «Il Popolo», 20 marzo 1949, ora anche in N. Antonietti, U. De Siervo, F. Malgeri (a cura di), I cattolici democratici e la Costituzione, Il Mulino, Bologna 1998, tomo III, pp. 1183-85 e gli articoli sulla libertà organica: Unioni, sindacati e corporazioni (18 novembre 1950), Corporativismo e libertà (30 dicembre 1950), "Libertà e organicità" nella società cristiana (5 gennaio 1951), Democrazia e sindacati di classe (20 gennaio 1951) tutti raccolti in L. Sturzo, Politica di questi anni. Consensi e critiche (1950-