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Capitolo 1. L’efficacia delle terapie dinamiche:
lo stato dell’arte della ricerca empirica1
Vittorio Lingiardi, Francesco Gazzillo, Federica Genova
In questo lavoro passeremo in rassegna gli studi più rilevanti
sull’efficacia delle terapie psicodinamiche e delle psicoanalisi vere e
proprie. Con il termine psicoterapie psicodinamiche intendiamo
psicoterapie di derivazione psicoanalitica condotte a una frequenza di una
o al massimo due sedute a settimana e dalla durata limitata. Con
psicoanalisi vere e proprie intendiamo invece terapie di matrice
psicodinamica dalla frequenza di due-cinque sedute a settimana e dalla
durata non stabilita a priori.
E’ evidente una certa sovrapposizione tra i due tipi di terapie, che a
volte si distinguono non tanto per caratteristiche “esterne” (durata,
frequenza di sedute, uso del lettino o del vis-a-vis ecc.), quanto per
“caratteristiche interne”, come la centralità dell’interpretazione del
transfert o di interventi esplorativi contrapposta alla centralità di interventi
supportivi o di tecniche di natura più direttiva. Nonostante queste aree di
sovrapposizione, i diversi studi che passeremo in rassegna ci permettono di
distinguere le psicoterapie dinamiche dalle psicoanalisi vere e proprie.
Non sfuggirà al lettore che i criteri che abbiamo scelto per differenziare
psicoanalisi e psicoterapie psicoanalitiche sono piuttosto semplicistici e
risentono della necessità di operazionalizzazione di qualsiasi ricerca
empirica. In ambito teorico e clinico, la differenziazione tra i due tipi di
trattamenti è stata ed è oggetto di complessi dibattiti (Kernberg, 2004;
Lingiardi, De Bei, 2011; Kachele, 2010).
Nella prima parte di questo lavoro passeremo in rassegna gli studi
empirici sull’efficacia delle psicoterapie dinamiche e delle psicoanalisi
rispetto a disturbi specifici. Questi studi sono prevalentemente di due tipi:
studi randomizzati controllati (randomized controlled trial, RCT) o meta-
analisi. Con il primo termine si intendono studi sperimentali in cui si
seleziona un ampio campione di soggetti che condividono una stessa
diagnosi secondo le categorie del DSM-IV-TR (APA, 2000) o dell’ICD-10;
(WHO, 2007); i soggetti di questo campione generale vengono poi
assegnati, in modo casuale, a due sottogruppi: uno riceve la terapia
manualizzata che si intende valutare e un secondo un’altra terapia attiva o
nessuna terapia. I risultati di queste terapie devono essere poi valutati con
misure obiettive ed empiricamente validate, e le differenze tra le
condizioni dei pazienti prima, durante e dopo la terapia devono essere
quantificate per mezzo di una misura chiamata effect-size (dimensione
1 © Vittorio Lingiardi, Francesco Gazzillo
2
dell’effetto)2. Le terapie utilizzate in questi studi in genere hanno la stessa
frequenza di sedute e la stessa durata.
Gli studi meta-analitici, invece, accorpano i risultati di più studi
condotti su terapie analoghe, permettendo così di quantificare la loro
efficacia sulla base dei risultati di più ricerche.
Nella seconda parte di questo lavoro abbiamo discusso alcuni limiti
degli RCT, soffermandoci in particolare sulla rilevanza dei loro risultati
per la pratica clinica reale.
Abbiamo cercato quindi di sintetizzare i principali risultati degli studi
descritti, e di rispondere, sia pure in modo provvisorio, a tre grandi
domande: le psicoterapie dinamiche e le psicoanalisi sono efficaci? Per
quale tipoogia di pazienti rappresentano il trattamento d’elezione? Quali
sono i loro fattori attivi? E quali sono le differenze – se ci sono – tra gli
outcome di una psicoterapia dinamica e quelli delle terapie brevi di
orientamento teorico diverso?
1. Le psicoterapie dinamiche per i Disturbi dell’Umore
1. Le psicoterapie per la depressione
I dati di ricerca disponibili sembrano suggerire che esistono vari tipi di
psicoterapie brevi efficaci nel favorire la remissione dei sintomi depressivi
e che non vi sono differenze significative tra l’efficacia di quelle a
orientamento dinamico e di quelle cognitivo-comportamentali.
Nello specifico, i risultati emersi dalla rassegna di Churchill e
collaboratori (2001) hanno evidenziato una probabilità due volte superiore
di ottenere miglioramenti con una terapia cognitivo-comportamentale
(CBT) che non con una terapia dinamica, entrambe di una durata massima
di 20 sedute. Tuttavia, da un’analisi dettagliata di questi dati emerge che,
nei casi in cui erano disponibili rilevazioni di follow-up, non si
evidenziava alcuna superiorità della CBT rispetto alla terapia dinamica; in
gruppi di pazienti gravemente depressi, poi, le differenze tra CBT e altre
terapie sembrano limitate anche al termine del trattamento e, che alcune
terapie identificate come dinamiche in questa rassegna, però, non erano
effettivamente dinamiche (Wampold, 1997).
2 Senza addentrarci in tecnicismi, possiamo dire che in genere l’effect-size di uno studio viene
calcolato dividendo la differenze tra le medie di due gruppi per la deviazione standard media dei
due gruppi. Un effect-size attorno a .05 è considerato di media dimensione, mentre un effect size
uguale o superiore a .08 si può considerare ampio.
3
Dalla meta-analisi di Leichsenring3 (2001), nella quale sono stati inclusi
sei RCT che hanno paragonato CBT e STPP manualizzate (Barkham, Rees,
Shapiro et al., 1996; Elkin, 1994; Gallagher-Thompson, Steffen, 1994;
Hersen, Bellack, Himmelhoch, Thase, 1984; Shapiro et al., 1994; Shapiro
et al., 1995; Shea et al., 1992; Thompson, Gallagher, Breckenridge, 1987),
emerge che la STPP raggiunge un ampio effect-size (d>0.80) rispetto a
numerosi indici di outcome. In tutti gli studi, fatta eccezione per i risultati
riportati al follow-up del National Institute of Mental Health Study (Shea
et al., 1992)4, viene rilevata una riduzione stabile della sintomatologia
depressiva a seguito del trattamento con STPP. Non sono state rilevate
differenze statisticamente significative tra STPP e CBT sia in termini di
efficacia sia rispetto al numero di pazienti in remissione, migliorati e ai
tassi di successo. I risultati di questa rassegna suggeriscono però una
possibile superiorità della CBT rispetto alla STPP: la CBT, infatti, ha il 9%
di probabilità in più di produrre remissioni sintomatiche rispetto alla STPP
al termine della terapia, ma al follow-up la STPP incrementa le possibilità
di remissione stabile di circa il 20%. Tuttavia, gli studi inclusi valutano
l’efficacia di forme specifiche di STPP (Horowitz, 1976; Rose & Del
Maestro, 1990), ragion per cui i risultati non possono essere generalizzati a
tutti i tipi di STPP.
Due importanti lavori di ricerca si presentano invece come paragoni più
specifici tra l’approccio psicodinamico e cognitivo-comportamentale nel
trattamento dei disturbi dell’umore.
Il primo, lo Sheffield Psychotherapy Project (Barkham, Rees, Stiles et
al., 1996), è stato condotto su un campione originario di 169 pazienti con
diagnosi di disturbo bipolare, assegnati in modo randomizzato a una CBT o
a una STPP di 8 o 16 sedute a frequenza settimanale. Questo studio ha
evidenziato che, a distanza di un anno, i pazienti che avevano fatto 8
sedute di STPP stavano peggio di quelli che avevano fatto 8 sedute di
CBT, mentre i risultati delle STPP e delle CBT di 16 sedute erano
equivalenti.
Il secondo studio, l’Helsinki Psychotherapy Study (Knekt, Lindfors,
2004) è stato condotto su un campione di 326 pazienti (84.7%: disturbo
3 I criteri di selezione degli studi della rassegna di Liechsenring (2001) erano: a) studi con
almeno 13 sedute di trattamento; b) almeno 20 pazienti assegnati a ogni braccio
sperimentale.
4 Il NIMH Study sulla depressione (Shea et al., 1992) ha evidenziato che solo il 24% del
campione totale mostrava una remissione dei sintomi dopo 8 settimane dalla fine della
terapia e al follow-up a 18 mesi senza rilevare, però, differenze statisticamente
significative in termini di efficacia tra CBT, farmacoterapia e terapia interpersonale.
4
depressivo; 43.6%: disturbo d’ansia), assegnati in modo randomizzato a
una terapia di problem solving (SFT)5, a una STPP6 e a una psicoterapia
psicodinamica a lungo termine (LTPP)7 e seguiti al follow-up fino a 3 anni
dopo la rilevazione della baseline. Relativamente all’efficacia dei
trattamenti a breve termine (STPP e SFT), i risultati hanno rilevato
miglioramenti evidenti e stabili nella sintomatologia depressiva e ansiosa e
un tasso di guarigione dei disturbi di personalità in comorbilità con quelli
di Asse I pari al 20% già a partire dal settimo mese di terapia. A 12 mesi, il
tasso di guarigione dei disturbi di personalità è giunto al 46% per la STPP
mentre è rimasto stabile per la SFT (20%); viceversa in entrambi i gruppi è
stata rilevata una riduzione dei punteggi di depressione e di ansia.
In sintesi, dai risultati di questo studio non sono emerse differenze
statisticamente significative nell’efficacia delle terapie a breve termine
(STPP e SFT), le quali sembrerebbero agire più rapidamente rispetto alla
LTPP (in 7 mesi); nel lungo periodo (follow-up a 3 anni), invece, le LTPP
si mostrano più efficaci delle terapie brevi. L’assenza di un gruppo di
controllo è però un limite importante di questo studio.
Relativamente al confronto tra la psicoterapia dinamica breve in
associazione o meno con una farmacoterapia8 segnaliamo due studi che
hanno valutato la STPP associata o meno all’assunzione di antidepressivi.
Uno studio olandese (de Jonghe, Kool, van Aslst, Dekker, Peen, 2001),
che ha assegnato 57 pazienti a un trattamento con antidepressivi e 72 a una
terapia combinata (farmacoterapia + terapia supportiva breve
analiticamente orientata), ha rilevato un tasso di remissioni
sintomatologiche nel trattamento combinato pari al 37%, a fronte del 15%
per il campione trattato con la sola farmacoterapia, e un tasso di successo,
dopo 24 mesi di terapia, rispettivamente del 60% e del 40%.
Il secondo studio (Burnand, Andreoli, Kolattw, Venturini, Rosset,
2002), condotto su un campione di 95 pazienti assegnati in modo casuale a
una combinazione di farmacoterapia e STPP oppure alla sola terapia
farmacologica, ha evidenziato che, nonostante non siano state rilevate
differenze nei punteggi della HDRS e nel tasso di miglioramento
dell’intero campione (22%), i pazienti assegnati al trattamento combinato
presentavano punteggi migliori di adattamento al lavoro, tassi inferiori di
ospedalizzazioni e un numero inferiore di giorni di lavoro perduti. Questo
5 Una seduta ogni 2/3 settimane per un massimo di 12 sedute.
6 20 sedute a frequenza settimanale per un periodo di 5/6 mesi.
7 2/3 sedute a settimana per 3 anni.
8 In questo lavoro tralasiciamo i complessi risultati degli studi in cui si paragonano gli outcome
della sola farmacoterapia con quelli della sola psicoterapia.
5
studio individua quindi chiaramente i benefici di un trattamento combinato,
farmacologico e dinamico, della depressione.
In sintesi: le terapie dinamiche brevi e quelle cognitivo-
comportamentali sembrano ugualmente efficaci nel trattamento dei disturbi
dell’umore, in particolare della depressione; il trattamento combinato,
farmacoterapia e psicoterapia, sembra più efficace della sola
farmacoterapia nel trattamento di queste sindromi e terapie più lunghe
sembrano avere risultati migliori; alcuni dati sembrano infine suggerire che
le terapie dinamiche a lungo termine favoriscano mutamenti più stabili e ad
ampio raggio nei pazienti che presentano una comorbilità tra disturbi
dell’umore e disturbi di personalità.
2. Le terapie per i disturbi d’ansia
1. Le psicoterapie per il disturbo d’ansia generalizzato (GAD)
Le rassegne meta-analitiche sulle psicoterapie brevi per il disturbo
d’ansia generalizzato (GAD) non permettono di trarre conclusioni
definitive sull’efficacia delle terapie psicodinamiche, anche perché gli
studi condotti sono finora troppo pochi.
La meta-analisi di Fisher e Durham (1999), ad esempio, ha messo in
evidenza che, dopo 6 mesi di trattamento, il 36% dei pazienti non sembrava
cambiato, il 24% era migliorato e il 38% non presentava più il disturbo.
Uno studio ha evidenziato che il 4% dei pazienti sembra guarito dopo una
terapia psicodinamica (Durham et al., 1994) a fronte del 60% di guarigioni
con terapie individuali di rilassamento, del 51% con CTB e del 38% con
terapie non direttive. Le terapie dinamiche non sarebbero dunque efficaci
nel trattamento del DAG.
Un certo numero di studi individuali di psicoterapia psicodinamica
sembra però supportare l’efficacia di questo tipo di approccio.
Nello specifico, il primo (Crits-Christoph e al., 1996) ha evidenziato
che, su 26 pazienti seguiti per un anno, alla fine della terapia 20 pazienti
non presentavano più il disturbo.
Un secondo studio di Durham et al. (1999) ha assegnato casualmente 99
pazienti, affetti da GAD da almeno 6 mesi, a una CBT a bassa frequenza di
sedute (quindicinali), a una CBT a frequenza di sedute più elevata
(settimanali) o a una psicoterapia analitica alla frequenza di una seduta a
6
settimana, tutte con durata media di 30 mesi. Dai risultati è emerso che, al
follow-up di un anno, i benefici ottenuti con la psicoterapia analitica erano
inferiori e meno stabili di quelli ottenuti con la psicoterapia cognitivo-
comportamentale (14% vs 60%) e che una frequenza maggiore di sedute di
CBT era associata a un miglior mantenimento dei benefici per entrambe le
terapie. Tuttavia, un follow-up a dieci anni dal termine del trattamento ha
evidenziato che la metà dei pazienti che a 6 mesi erano guariti aveva
mantenuto i benefici a lungo termine e che dopo un’intervallo di tempo
così ampio non vi erano differenze di outcome tra le due terapie.
I dati a nostra disposizione sono relativamente scarsi, ma nel complesso
sembrano di nuovo suggerire che sul lungo periodo STPP e CBT sono
ugualmente efficaci nella terapia del disturbo d’ansia generalizzato e che
terapie a maggior frequenza di sedute sono più efficaci di terapie a
frequenza ridotta. E’ però evidente la necessità di ulteriori studi.
2. Le psicoterapie per il disturbo di panico
Le ricerche finora effettuate sull’efficacia della STPP per il trattamento
del disturbo di panico (DP) sembrano dimostrare l’efficacia delle terapie
dinamiche in termini sia di attenuazione dei sintomi sia di stabilità dei
risultati.
Milrod e collaboratori (2001) hanno effettuato un trial clinico in aperto
e un trial clinico randomizzato sull’efficacia della Psicoterapia
Psicodinamica Focalizzata sul Panico (PFPP) (Milrod et al., 2000, 2001),
sottoponendo 21 pazienti affetti da disturbo di panico a 24 sedute di PFPP
per un periodo di 12 mesi (2 sedute settimanali).
Dai risultati è emerso che, al termine del trattamento, 17 pazienti
presentavano una riduzione del 40% nel livello di gravità del disturbo
(valutata con la Panic Disorder Severity Scale, PDSS; Shear et al., 1997) e
nella sintomatologia ansiosa, in associazione a un significativo
miglioramento nelle misure relative al funzionamento psicosociale
(Sheehan Disability Scale, SDS; Sheehan, 1983), all’ansia correlata al
panico e alla sintomatologia depressiva.
In sintesi, i miglioramenti clinici emersi si sono mantenuti anche al
follow-up a 6 mesi e, nello specifico, è emerso che il 93% del campione ha
riportato una guarigione dal disturbo al termine della terapia che si è
dimostrata stabile al follow-up nel 90% dei casi.
In una seconda fase dello studio, Milrod et al. (2007) hanno effettuato
un trial controllato randomizzato allo scopo di paragonare l’efficacia della
PFPP e di un trattamento psicoterapeutico basato su tecniche di
7
rilassamento (ART)9 su un campione di 49 soggetti affetti da disturbi di
panico. Dai risultati è emerso che i pazienti in PFPP hanno ottenuto una
significativa riduzione del livello di gravità del disturbo di panico (PDSS)
e un significativo miglioramento nelle capacità di funzionamento
psicosociale (SDS) rispetto al gruppo in ART.
Isolando il campione di soggetti con diagnosi di disturbo di panico
(n=34) e disturbo d’ansia generalizzato (n=37) dal campione totale
dell’Helsinki Psychotherapy Study, Knekt e Lindfors (2004) hanno
evidenziato che il 62% dei pazienti con disturbo d’ansia dopo 7 mesi di
STPP non soddisfaceva più i criteri per la diagnosi a fronte del 52% dei
pazienti trattati con una terapia di problem solving (SFT); a 12 mesi, le
differenze si erano ridotte rispettivamente al 57% e al 42%. Nello
specifico, la STPP ha determinato una riduzione del 34% nei punteggi alla
HDRS e una riduzione del 28% per la SFT.
In sintesi, stando agli studi riportati, la psicoterapia dinamica breve
sembra efficace nel trattamento dei disturbi di panico e la sua aggiunta alla
terapia farmacologica sembra favorire outcome migliori.
3. Le psicoterapie per il disturbo post-traumatico da stress e
le reazioni di lutto complicato
Anche per il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e le reazioni di
lutto complicato la terapia dinamica sembra mostrare una qualche
efficacia.
Un RCT condotto in Olanda (Brom, Kleber, Defares, 1989) ha
confrontato gli outcome di psicoterapia psicodinamica, ipnoterapia e
desensibilizzazione sistematica su un campione di 114 soggetti con PTSD e
un gruppo di controllo in lista d’attesa. Dai risultati è emerso che tutti i
trattamenti erano più efficaci della condizione di controllo e, che mentre al
termine del trattamento la terapia psicodinamica mostrava scarsi risultati,
al follow-up i cambiamenti conseguiti con questo tipo di approccio
raggiungevano o superavano quelli ottenuti con le altre terapie.
Scarvalone e collaboratori (Scarvalone, Cloitre, Difede, 1995) hanno
paragonato una terapia psicodinamica di gruppo con un gruppo di controllo
in lista d’attesa su un campione di 40 soggetti con storie di abuso sessuale,
9 Il trattamento prevede sedute psicoeducative durante le quali: vengono fornite al paziente
spiegazioni sul disturbo e sul trattamento e sono insegnate tecniche di rilassamento
muscolare che il soggetto deve mettere in pratica per gestire le situazioni ansiogene.
8
evidenziando che al termine della terapia dinamica solo il 39% dei soggetti
soddisfaceva ancora i criteri diagnostici per il disturbo post-traumatico da
stress (PTSD) a fronte dell’83% del gruppo di controllo.
Un altro trial ha paragonato l’efficacia di una terapia dinamica di
gruppo basata sulle interpretazioni rispetto a quella di una terapia
supportiva in un campione di individui con reazioni di lutto complicato
(Ogrodniczuk, Piper, McCallum, Joyce, Rosie, 2002; Piper, McCallum,
Joyce, Rosie, Ogrodniczuk, 2001). Entrambi i trattamenti si sono rivelati
efficaci rispetto a vari indici di outcome relativi ai sintomi generali, a
quelli di lutto e alla qualità delle relazioni oggettuali rilevata attraverso il
Quality of Object Relations (QOR; Piper et al., 1991). Dai risultati è
emerso, però, che i pazienti con relazioni oggettuali più mature sembrano
beneficiare maggiormente di una terapia interpretativa (STPP), mentre
quelli con relazioni oggettuali più primitive sembrano trarre maggiori
benefici da una terapia di sostegno.
Dalla rassegna della letteratura sembrerebbe emergere che per il PTSD e
le reazioni di lutto complicato la terapia dinamica sia più efficace di altre
forme di terapia. E, di nuovo, sembrebbe che l’efficacia delle terapie
dinamiche cresca con il passare del tempo: in altri termini, le terapie
dinamiche sembrano favorire mutamenti stabili nel lungo periodo.
4. Le psicoterapie dinamiche per i disturbi del
comportamento alimentare (DCA)
Le psicoterapie dinamiche per l’anoressia nervosa
Gowers e collaboratori (Gowers, Norton, Halek, Crisp, 1994) hanno
paragonato gli outcome delle terapie ambulatoriali con quelli di un
trattamento “minimale” di gruppo a due anni dalla fine della terapia,
evidenziando che, nelle pazienti ambulatoriali, il recupero ponderale era
due volte superiore rispetto al gruppo di controllo e che il 60% delle
pazienti che avevano ricevuto una psicoterapia stava bene o quasi a fronte
del 20% del gruppo di controllo. Nell’insieme, lo studio suggerisce che le
pazienti anoressiche traggono maggiori benefici se la terapia dinamica
viene associata a quella familiare.
Kachele e collaboratori (1999; in press) hanno effettuato uno studio di
follow-up (1 anno e 2.5 mesi dopo la fine della terapia) allo scopo di
valutare l’efficacia del trattamento psicodinamico a breve e a medio
termine in un campione di 1171 pazienti ospedalizzati con DCA.
9
Dai risultati è emersa una correlazione tra il punteggio al GSI della
SCL-90, la diagnosi e la durata del trattamento; nello specifico, un
punteggio più alto al GSI in pazienti affetti da AN è risultato correlato con
una maggior durata del trattamento, mentre la stessa differenza si evidenzia
in pazienti affetti da BN con una durata inferiore di trattamento.
Al termine del trattamento, l’11% dei casi di AN e il 17% dei casi di
comorbilità AN/BN hanno riportato outcome positivi.
Al follow-up a due anni e mezzo queste percentuali crescono in modo
sostanziale, raggiungendo rispettivamente il 34.5% per l’AN e il 23.5% per
i casi di comorbilità AN/BN. Viceversa, per quanto riguarda la BN è
emersa una leggera riduzione nella percentuale di pazienti con outcome
positivi tra la rilevazione al termine del trattamento e il follow-up (45% e
31% al termine del trattamento vs 36% e 22% al follow-up). Inoltre,
esaminando l’interazione tra durata del trattamento ed età dei pazienti è
emerso che i pazienti con età compresa tra i 18 e i 20 anni presentano
outcome migliori con trattamenti a breve termine, mentre i pazienti adulti
traggono maggiori benefici da trattamenti a lungo termine.
In sintesi, i risultati di questo studio suggeriscono l’efficacia della
terapia dinamica breve nel trattamento dei DCA e la maggiore efficacia
del trattamento a lungo termine in pazienti adulti; tuttavia, a causa di
alcuni limiti metodologici (variabilità del setting clinico, assenza di un
campione di controllo, eterogeneità del campione ecc..) i risultati di questo
studio non consentono di trarre conclusioni definitive.
Un trial più ampio relativo alla STPP su un campione di 84 pazienti
(Dare, Eisler, Russell, Treasure, Dodge, 2001) ha paragonato l’efficacia di
una terapia psicodinamica breve (Malan, 1976), di una terapia familiare
(Dare, Eisler, 1997) e di una terapia cognitiva analitica (Ryle, 1990) alle
cure psichiatriche standard. I risultati hanno fornito dati a sostegno
dell’efficacia di tutti gli approcci specifici. Dopo un anno di terapia, circa
il 30% delle pazienti in psicoterapia non soddisfaceva più i criteri del DSM
per l’AN a fronte del 5% delle pazienti che ricevevano il normale
trattamento psichiatrico.
Il quadro che emerge dalla rassegna della letteratura relativa al
trattamento psicoterapeutico dell’anoressia sembra suggerire una
superiorità della terapia dinamica individuale breve rispetto ad altre forme
di trattamento, outcome migliori di trattamenti individuali e familiari
combinati e un tasso considerevole di pazienti che sembrano rispondere
poco a qualsiasi tipo di psicoterapia.
Le psicoterapie dinamiche per la bulimia
10
La maggior parte dei trial presenti in letteratura ha indagato l’efficacia
di tecniche comportamentali o cognitivo-comportamentali nel trattamento
della bulimia (Hay, Bacaltchuk, 2001; Thompson-Brenner et al., 2003);
non esistono meta-analisi sull’efficacia specifica delle terapie
psicodinamiche.
Garner e collaboratori (Garner, Rockert, Davis, Garner, 1993) hanno
evidenziato un’efficacia equivalente della STPP (secondo il modello
supportivo-espressivo di Luborsky, 1984) e della CBT nel ridurre la
frequenza delle abbuffate in un campione di 130 pazienti assegnate in
modo casuale alle due terapie. Tuttavia, la CTB sembra più efficace nel
ridurre la frequenza del vomito e la sintomatologia depressiva associata.
Walsh e collaboratori (1997) hanno paragonato una psicoterapia di
sostegno a orientamento analitico alla CBT e a una terapia farmacologica
con antidepressivi in un campione di 120 pazienti bulimiche assegnate in
modo casuale a cinque gruppi. I risultati suggeriscono che la CBT è
superiore alla psicoterapia psicodinamica nel ridurre i sintomi bulimici e
che, se combinata alla farmacoterapia, produce un miglioramento superiore
alla sola farmacoterapia; per contro, la terapia di sostegno sembra offrire
poco beneficio addizionale alla farmacoterapia configurandosi quindi come
un trattamento poco efficace per la bulimia.
Beutel e collaboratori (Beutel, Thiede, Wiltlink, Sobez, 2001) hanno
valutato l’efficacia del trattamento comportamentale o psicodimanico
ospedaliero (sia individuale che di gruppo) su un campione di 98 pazienti
obesi, assegnati in modo casuale ai due trattamenti. Gli indici di outcome
presi in considerazone erano: perdita di peso, comportamento alimentare,
rappresentazione corporea e livello di soddisfazione. Dai risultati è emerso
che entrambi i trattamenti erano associati a benefici sostanziali.
Nell’insieme i risultati, ancora preliminari a causa del numero esiguo di
studi presenti in letteratura, sembrerebbero suggerire una sostanziale
equivalenza di CBT e STPP, anche se alcuni studi sembrano supportare
maggiormente l’efficacia della CBT. Ricerche recenti (Thompson-Brenner,
Westen, 2005; Thompson-Brenner et al., 2008; Gazzillo et al., submitted)
hanno però messo in evidenza come il tipo di personalità associato ai DCA
sia una variabile fondamentale per prevedere l’outcome delle terapie: in
particolare, qualsiasi tipo di psicoterapia sembra poco efficace con i
pazienti che presentano un DCA e una personalità caratterizzata da
disregolazione emotiva.
11
5. Le psicoterapie dinamiche per pazienti con abuso e
dipendenza da sostanze
Le psicoterapie dinamiche per l’abuso e la dipendenza da alcol
Il report di Miller sull’efficacia clinica di una serie di trattamenti
psicosociali per la dipendenza da alcol (Miller, Wilbourne, 2002; Miller,
Wilbourne, Hettema, 2003) ha messo in evidenza che gli interventi brevi e
mirati a rafforzare la motivazione dei pazienti sembrano quelli più efficaci,
seguiti dalle tecniche di rinforzo e da vari interventi comportamentali. Le
prove a favore dell’efficacia della psicoterapia, invece, sono molto
limitate.
In uno dei primi studi sulle terapie dinamiche (Levinson, Sereny, 1969),
alcuni pazienti ospedalizzati per abuso di alcol sono stati assegnati a una
terapia generica orientata all’insight associata a sedute educative, a
trattamenti psichiatrici di routine o a terapie ricreative e occupazionali;
nessuno di questi approcci sembrava favorire outcome migliori e tutti
determinavano outcome leggermente superiori a quelli raggiunti dai
soggetti del gruppo di controllo.
C’è solo un trial che fornisce dati a favore di un approccio
psicodinamico (Sandahl; Herlitz, Ahlin, Ronnberg, 1998): 49 pazienti sono
stati assegnati in modo casuale a una terapia di gruppo di tipo
psicodinamico o a una terapia di gruppo di tipo cognitivo-
comportamentale, entrambe brevi. I risultati non hanno rilevato differenze
statisticamente significative tra i gruppi sia alla fine della terapia sia al
follow-up a 15 mesi, ma hanno evidenziato un miglior mantenimento dei
benefici nel gruppo di pazienti che seguivano la psicoterapia
psicodinamica.
In sintesi, sembrerebbe che l’efficacia della terapia dinamica nel
trattamento di pazienti con dipendenza da alcol sia piuttosto limitata
rispetto ad altri tipi di trattamento non psicoterapeutici. Tuttavia, se
paragonata ad altre forme di psicoterapia, sembrerebbe che i trattamenti
dinamici determinino outcome più stabili nel tempo. Anche in questo caso,
però, gli studi a nostra disposizione sono decisamente pochi.
Le psicoterapie dinamiche per la dipendenza da cocaina
Gli studi sull’outcome delle psicoterapie dinamiche per l’abuso di
cocaina forniscono risultati simili a quelli che hanno indagato gli outcome
delle terapie per l’abuso di alcol.
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Kang e collaboratori (1991) hanno paragonato il trattamento
ambulatoriale di 168 pazienti assegnati in modo casuale a una psicoterapia,
a una terapia familiare e a una terapia di gruppo, tutte della frequenza di
una seduta a settimana. 122 di questi pazienti sono stati intervistati a 6 e a
12 mesi dall’inizio della terapia e sono stati confrontati gli indici di gravità
della loro dipendenza. Le percentuali di abbandono della terapia da parte
dei pazienti sono state molto elevate: il 50% circa del gruppo iniziale ha
partecipato a più di una seduta e il 22% a più di sei sedute. Il 90% dei
pazienti che ha partecipato a più di tre sedute riferiva un regime di
astinenza dalla cocaina della durata di 6 mesi. Al follow-up, il 19% dei 122
soggetti non faceva più uso di cocaina, evidenziando una correlazione tra
astinenza e miglioramento dei sintomi psichiatrici e familiari. I risultati di
questo studio sembrano suggerire che la terapia ambulatoriale una volta a
settimana è inefficace per il trattamento della dipendenza da cocaina, che
può essere affrontata meglio con terapie ospedaliere o più intensive.
Un secondo trial (Crits-Christoph et al., 1997, 1999, 2001) ha assegnato
in modo randomizzato 487 pazienti con grave dipendenza da cocaina a 4
trattamenti della durata di sei mesi per un totale di sedute variabile da 24 a
36: counseling di gruppo sulla droga (GDC), GDC combinato con un
counseling individuale sulla droga (IDC), GDC combinato con CBT e
GDC combinato con STPP. Anche in questo caso, i tassi di abbandono
sono stati elevati. A sei mesi, il 40% dei pazienti trattati con IDC, il 58%
dei pazienti in CBT, il 50% dei pazienti in STPP e il 52% dei pazienti in
GDC hanno riferito di fare ancora uso di cocaina. Al follow-up a 12 mesi
queste percentuali erano rispettivamente del 40%, 46%, 48% e 47%. Dai
risultati non emerge una differenza statisticamente significativa, in termini
di astinenza, tra IDC e altre terapie, e non sono state rilevate differenze tra
i trattamenti in termini di miglioramento nelle capacità psicologiche,
sociali e interpersonali dei soggetti (Crits-Christoph et al. 2001).
In sintesi, non emerge una superiorità di alcun tipo di approccio nel
trattamento di pazienti con dipendenza da cocaina e i risultati evidenziano
tassi di drop-out e ricadute molto alti, a prescindere dal tipo di intervento
effettuato.
Le psicoterapie dinamiche per la dipendenza da oppiacei
Le meta-analisi dei trattamenti della dipendenza da oppiacei (Brewer,
Catalano, Haggerty, Gainey, Flemig, 1998; Prendergast, Podus, Chang,
Urada, 2002) rilevano effect-size relativamente piccoli (.03), e in genere
13
non riescono a identificare uno specifico tipo di trattamento come
particolarmente efficace.
Woody e collaboratori (Woody, McLellan, Luborsky, O’Brien, 1987;
Woody et al., 1983; Woody, LcLellan, Luborsky, O’Brien, 1990; Woody,
McLellan, Luborsky, O’Brien, 1995) hanno paragonato gli outcome di 12
sedute di terapia espressivo-supportiva breve, 10 sedute di CBT e 17
sedute di counseling (tutte della frequenza di una volta a settimana) in un
campione di 110 pazienti con dipendenza da oppiacei che assumevano
metadone. Al follow-up a 7 mesi, tutti i trattamenti si mostravano efficaci
in termini di riduzione delle sostanze assunte, comportamenti
delinquenziali e funzionamento psicologico più efficiente. Tuttavia, nei
due gruppi che avevano ricevuto la terapia sono stati rilevati miglioramenti
superiori. Al follow-up a 12 mesi questi risultati sono stati confermati
evidenziando che il 44% del gruppo in STPP, il 26% del gruppo in CBT e
il 18% del gruppo in counseling aveva smesso di assumere metadone.
Da una replica parziale di questo studio (Woody et al., 1995) effettuato
su un campione di 84 soggetti assegnati casualmente a un counseling
associato a una consulenza sulla droga e a un counseling associato a una
psicoterapia espressiva-supportiva, per una durata di 24 settimane, è
emerso che al follow-up a 1 mese dalla fine del trattamento i due gruppi
non mostravano differenze statisticamente significative. Tuttavia, al
follow-up a 6 mesi il gruppo che riceveva il solo counseling sulla droga
mostrava un peggioramento mentre quello in STPP continuava a
migliorare. Pertanto, i risultati emersi da questo studio sembrerebbero
suggerire una buona efficacia del counseling nel breve termine a fronte di
una maggiore efficacia della psicoterapia espressivo-supportiva nel lungo
periodo.
I risultati, nell’insieme, non consentono di trarre conclusioni definitive
a causa del numero esiguo di studi; tuttavia, il quadro che emerge dalla
letteratura sembra suggerire una maggior efficacia della STPP rispetto ad
altre forme di terapia nel trattamento della dipendenza da oppiacei,
soprattutto nel lungo periodo.
6. Le psicoterapie dinamiche per i disturbi somatici,
psicosomatici e somatoformi
Rad, Senf e Brautigam (1998) hanno realizzato uno studio naturalistico
per valutare l’efficacia di tutti i tipi di trattamento realizzati presso la
Clinica Psicosomatica dell’Università di Heidelberg. Nella fase di
14
pianificazione dello studio, per tutti i pazienti sono stati stabiliti tre
obiettivi (remissione sintomatologica, soddisfazione del paziente e
miglioramento psicologico globale) da raggiungere alla fine della terapia
individuale (Goal Attainment Scale). L’efficacia dei trattamenti è stata
valutata sia al termine della terapia sia al follow-up (3.5 anni dopo). Lo
studio ha coinvolto un campione totale di 208 pazienti valutati in base alla
loro diagnosi e al tipo di trattamento ricevuto. Nello specifico, dei 69
pazienti ambulatoriali, 36 sono stati sottoposti a un trattamento
psicoanalitico (3 volte a settimana) e 33 a una psicoterapia dinamica (una
volta a settimana); viceversa, dei 139 pazienti ricoverati, 63 a terapie di
gruppo, 60 a un trattamento combinato di terapia di gruppo e individuale e
16 alla sola terapia individuale.
Nell’insieme i risultati hanno evidenziato un raggiungimento dei tre
obiettivi prestabiliti che si è mantenuto stabile anche al follow-up. La
comparazione dei dati relativi al cambiamento sintomatologico tra la
baseline e la fine del trattamento ha evidenziato un successo in oltre la
metà del campione sottoposto a psicoanalisi a fronte di un terzo del
campione sottoposto al trattamento psicoterapeutico. Tuttavia, al follow-up
questa superiorità sembra ridursi.
I cambiamenti valutati in termini di obiettivi terapeutici individuali
hanno evidenziato una superiorità della psicoanalisi rispetto alla
psicoterapia. Tre quarti del campione sottoposto a psicoanalisi ha raggiunto
gli obiettivi terapeutici individuali che si sono mantenuti stabili anche al
follow-up, a fronte della metà dell’intero campione sottoposto a
psicoterapia.
Relativamente alla “soddisfazione personale” rispetto al trattamento, i
risultati hanno evidenziato una delusione relativa al trattamento
psicoanalitico a fronte di una notevole approvazione per il trattamento
psicoterapeutico, già una settimana dopo l’inizio della terapia.
L’analisi della correlazione tra la durata dei trattamenti) e l’outcome
(dose-response) ha evidenziato che i trattamenti della durata di almeno 2.5
anni sono più efficaci di quelli più brevi.
Questo studio prospettico naturalistico fornisce quindi risultati
interessanti a favore dell’efficacia della psicoterapia psicoanalitica e della
psicoanalisi nella terapia di pazienti psicosomatici e nevrotici.
Una meta-analisi recente (Abbass, Kisely, Kroenke, 2009) ha esaminato
l’efficacia della psicoterapia psicodinamica breve per i disturbi somatici
(condizioni mediche dermatologiche, neurologiche, cardiovascolari,
respiratorie, gastrointestinali, sindrome dell’intestino irritabile, disturbo da
dolore cronico ecc..) sulla base di 23 studi che hanno coinvolto 1870
pazienti. Lo studio riporta un effect-size di .69 in termini di miglioramento
nella sintomatologia psichiatrica generale e di .59 nella sintomatologia
15
somatica. Lo studio ha inoltre evidenziato una riduzione del 77.8% nel
ricorso ai servizi di cura mentale.
Nel complesso, il quadro che emerge dalla letteratura sembrerebbe
suggerire l’efficacia e la superiorità delle terapie dinamiche, soprattutto a
lungo termine, nel trattamento dei disturbi somatici, psicosomatici e
somatoformi rispetto ad altre forme di psicoterapia.
7. Le psicoterapie dinamiche per i Disturbi di Personalità
I disturbi di personalità rappresentano una sfida particolare per la
ricerca sull’outcome delle psicoterapie dinamiche, sia per l’elevato livello
di comorbilità tra le diagnosi di Asse I e Asse II (Swartz, Blazer, Winfield,
1990; Zimmerman, Coryell, 1990; Westen, Shedler 1999a/b) sia perché
questi disturbi sembrano il loro campo elettivo di applicazione.
Nella meta-analisi di Liechsenring e Leibing (2003) sono stati inclusi 14
studi di terapia psicodinamica e 11 studi di terapia cognitivo-
comportamentale. Nell’insieme, i risultati hanno evidenziato un effect-size
medio pre-post trattamento della psicoterapia dinamica di 1.46 (Cohen,
1988; Kazis et al., 1989).
Una seconda meta-analisi, pubblicata sull’Harward Review of
Psychiatry, ha esaminato l’efficacia della psicoterapia a lungo termine su
un campione di pazienti adulti con varie diagnosi DSM (de Maat, de
Jonghe et al., 2009). Dai risultati emerge che i benefici della psicoterapia
psicodinamica non solo durano nel tempo, ma aumentano con il passare del
tempo anche dopo la conclusione della terapia; risultato che, però, non
viene evidenziato dalle ultime 5 meta-analisi (Abbass et al., 2006;
Anderson, Lambert, 1995; de Maat et al., 2009; Leichsenring et al., 2004;
Leichsenring, Rabung, 2008). Viceversa, i benefici delle altre forme di
terapie non mostrano questa tendenza e si riducono nel tempo (Gloaguen,
Cottraux et al., 1998; Hollon, DeRubeis, Shelton et al., 2005; Maat, Dekker
et al., 2006; Westen, Novotny, Thompson-Brenner, 2004).
Una recente meta-analisi delle terapie dinamiche brevi per i disturbi
della personalità (Messer, Abbass, 2010) che include 7 RTC ha
evidenziato, al follow-up, un effect-size degli outcome di .91
relativamente al miglioramento della sintomatologia globale e di .97 nel
miglioramento del funzionamento interpersonale.
16
Due recenti meta-analisi hanno esaminato l’efficacia di un trattamento
psicodinamico a lungo termine (LTP>1 anno) (Liechsenring, Rabung,
2008) paragonandolo a una terapia breve nel trattamento di disturbi mentali
molteplici, cronici o di personalità. L’effect-size complessivo degli indici
di outcome è di 1.08. L’effect-size pre-post trattamento è di 1.03 con un
incremento a 1.25 al follow-up a lungo termine in tutti i domini e in tutti
gli indici di outcome presi in considerazione.
In sintesi, i dati a nostra disposizione sembrano evidenziare un’efficacia
della terapia dinamica, soprattutto a lungo termine e con più di una seduta
a settimana, nel trattamento dei disturbi della personalità in generale; i
benefici ottenuti con le terapie dinamiche mostrano una tendenza ad
aumentare con il passare del tempo anche dopo la fine della terapia.
Le psicoterapie dinamiche per il disturbo borderline di
personalità
Clarkin, Foelsch, Levy, Hull, Delaney e Kernberg (2001) hanno
pubblicato uno studio sugli outcome di 23 pazienti sottoposti a TFP
(Terapia Focalizzata sul Transfert; REFERENCE). I pazienti sono stati
valutati relativamente a numerosi indici di outcome sia all’inizio sia alla
fine del trattamento: tassi di suicidio, comportamenti autolesivi e utilizzo
di servizi medici e psichiatrici. Dai risultati è emerso che il 19,1% dei
pazienti ha abbandonato la terapia, ma dopo un anno di trattamento i
comportamenti suicidari, la gravità delle condizioni mediche e il tasso di
ricoveri psichiatrici dei pazienti che avevano terminato il trattamento si
erano significativamente ridotti.
Successivamente è stato pubblicato anche un altro RCT (Clarkin et al.,
2004a) volto a valutare l’efficacia della TFP, della Terapia Dialettica
Comportamentale (DBT, Lihehan, 1993)10 e della psicoterapia
psicoanalitica di sostegno (SPT, Rockland, 1987).
Questo studio, condotto su un campione di 90 pazienti ambulatoriali con
un punteggio baseline VGF di 50, assegnati in modo casuale alle tre
terapie, ha evidenziato che, a 12 mesi i punteggi VGF dell’intero campione
sono aumentati di circa 10 punti, i punteggi al BDI sono diminuiti in modo
significativo e i punteggi di adattamento sociale aumentati. Inoltre, nella
maggior parte dei pazienti sono stati rilevati miglioramenti nei livelli di
suicidarietà e solo pochi sembrano peggiorati; viceversa, non è stato
rilevato alcun mutamento significativo nei punteggi relativi all’ansia. I
10 A propostio della DBT, segnaliamo i due volumi delle nuova edizione del manuale di Marsha
Linehan pubblicati in Italia nel 2011 da Raffaello Cortina
17
punteggi relativi alla coerenza narrativa nell’Adult Attachment Interview
(AAI; Main, Goldwyn, 1998), indice della sicurezza dello stato mentale
rispetto all’attaccamento, sono migliorati in tutti e tre i gruppi; viceversa,
la funzione riflessiva valutata sui protocolli AAI (Fonagy, Target, Steele,
Steele, 1998) ha mostrato miglioramenti significativi solo nella TFP (Levy,
Clarkin et al., 2006). Nel complesso, non sono state rilevate differenze
statisticamente significative nei tre gruppi, fatta eccezione per la funzione
riflessiva e i livelli di suicidarietà (ridotti dalla TFP e dalla DBT) e il tasso
di interruzioni precoci del trattamento (superiore nel gruppo DBT).
Infine, un recente studio (Clarkin et al., 2007) su pazienti con disturbo
borderline di personalità trattati con la TFP sembra dimostrare che questo
tipo di trattamento ha effetti positivi che equivalgono o eccedono i benefici
associati ad altre forme di terapia (DBT, Linehan, 1993), e determina
anche cambiamenti in alcune dimensioni psichiche, quali funzione
riflessiva e stato della mente rispetto all’attaccamento (Levy et al., 2006),
che mediano il cambiamento sintomatologico. Questi mutamenti sono stati
rilevati solo nei pazienti sottoposti a TFP.
Bateman e Fonagy (1999, 2001, 2003) hanno pubblicato uno studio
controllato randomizzato su un campione di 38 pazienti assegnati a un
trattamento ospedaliero dinamicamente orientato (MBT11 della durata di 18
mesi)12 e a cure psichiatriche di routine.
I risultati di questo studio evidenziano che, dopo 18 mesi di terapia, i
pazienti in day hospital mostravano miglioramenti significativamente
superiori rispetto a quelli del gruppo di controllo trattati con cure
psichiatriche standard relativamente a vari indici di outcome: misure di
suicidarietà, comportamenti automutilanti e ricoveri. Questi risultati
diventavano evidenti dopo 6 o 12 mesi di terapia.
Un follow-up a 18 mesi (Bateman, Fonagy, 2011) ha dimostrato che i
pazienti in terapia non solo mantenevano i miglioramenti raggiunti, ma
miglioravano ulteriormente. Inoltre, un’analisi dei costi e dei benefici
(Bateman, Fonagy, 2003) ha evidenziato che i costi addizionali del
programma sono stati compensati dalla riduzione dei costi associati a
11 Il trattamento comprendeva: 1. Una seduta settimanale di psicoterapia individuale; 2.
Tre sedute di psicoterapia di gruppo (1 ora ciascuna); 3. Una seduta settimale di terapia
espressiva (tecnica dello psicodramma); 4. Un incontro settimanale di comunità; 5. Un
incontro con lo psichiatra per la revisione del trattamento farmacologico una volta al mese.
Il trattamento psicoanalitico era basato sull’ipotesi che il disturbo borderline di personalità
sia un disturbo dell’attaccamento connesso a deficit nella funzione riflessiva.
12 Non tutti sarebbero concordi nel definire la MBT come una terapia “dinamica”; Gabbard
(2009), ad esempio, la considerata una terapia eclettica. In questo lavoro la consideriamo
dinamica per le sue chiare origini analitiche (Bateman e Fonagy sono due analisti della Società
Psicoanalitica Britannica) e perché tale la considerano i suoi autori, anche se con alcune
specifiche (vedi, ad es., Bateman e Fonagy, 2010 p.173).
18
ricoveri, interventi di pronto soccorso e farmaci, differenza che è diventata
ancor più evidente al follow-up. Uno studio recente (Bateman, Fonagy,
2008) mostra infine che i benefici del trattamento basato sulla
mentalizzazione possono durare fino a cinque anni dopo la fine di una
terapia: l’87% dei pazienti che hanno ricevuto un trattamento diverso dalla
psicoterapia psicodinamica continuavano a soddisfare i criteri per il
disturbo borderline di personalità, rispetto al 13% dei pazienti in
psicoterapia psicodinamica.
Bateman e Fonagy (2008) hanno effettuato un altro RCT su un
campione di 41 soggetti con disturbo borderline di personalità assegnati
casualmente a MBT in day-hospital (18 mesi di terapia individuale una
volta a settimana più una seduta a settimana di terapia di gruppo e altri 18
mesi di terapia di gruppo alla frequenza di due volte a settimana) o a un
trattamento psichiatrico di routine (con ricoveri o ospedalizzazioni parziali,
se necessario). Gli indici di outcome presi in considerazione erano: il
numero di TS, l’utilizzo di servizi di cure mentale (visite di emergenza), la
lunghezza e la frequenza delle ospedalizzazioni, l’assunzione di farmaci, la
frequentazione di comunità di sostegno e la partecipazione a terapie
psicologiche extra. Tutti gli indici di outcome sono stati valutati al
momento dell’assegnazione ai due gruppi sperimentali, al termine dei primi
18 mesi di terapia, al termine del secondo ciclo di trattamento (36 mesi) e a
18, 36 e 60 mesi dalla dimissione.
Dai risultati è emerso che il gruppo in MBT ha ottenuto miglioramenti
statisticamente significativi a partire dalla fine del secondo ciclo di
trattamento che si sono mantenuti in tutte e tre le rilevazioni post-
dimissione (18, 36 e 60 mesi) nel numero dei TS; il medesimo risultato è
stato rilevato rispetto ai tassi di ospedalizzazione, alla frequenza di visite
di emergenza e all’assuzione di farmaci. Nello specifico, il gruppo in
MBT ha mostrato una riduzione statisticamente significativa sia nei
tassi di ospedalizzazione a partire dal termine del secondo ciclo di
trattamento, sia nella frequenza di visite di emergenza a fronte di
ridotti cambiamenti nel gruppo di controllo. Al follow-up a 8 anni
dall’inizio della terapia, il gruppo sottoposto a cure psichiatriche di
routine aveva ricevuto 3.6 anni di cure psichiatriche post-trattamento
(dopo i 36 mesi previsti dal protocollo di trattamento dello studio) e
aveva frequentato comunità terapeutiche di sostegno per 2.7 anni a
fronte di 2 anni e 5 mesi per il gruppo in MBT. Inoltre, è stata
rilevata una differenza significativa tra i due gruppi anche in merito
all’utilizzo di farmaci e, nello specifico, il gruppo sottoposto a cure
psichiatriche di routine ha assunto farmaci in media per 3 anni a
fronte di una media di 2 mesi per il gruppo in MBT.
19
Al follow-up a 8 anni, il 13% dei pazienti in MBT soddisfaceva ancora i
criteri per un BPD a fronte dell’87% del gruppo in trattamento psichiatrico
generale. Infine, è stata rilevata una differenza statisticamente
significativa nei punteggi GAF tra i due gruppi con effect-size di 0.8:
il 46% dei pazienti in MBT a fronte dell’11% dei pazienti in
trattamento psichiatrico di routine presentava un punteggio GAF
superiore a 60. Il funzionamento sociale generale di questi pazienti
rimaneva comunque problematico.
In sintesi, i risultati di questo studio suggeriscono la superiorità della
terapia basata sulla mentalizzazione rispetto alle cure psichiatriche di
routine nel trattamento dei pazienti BPD ed evidenziano un mantenimento
nel lungo periodo e un miglioramento continuo dei benefici ottenuti dal
gruppo in MBT anche a trattamento terminato. Tuttavia, la ridotta
numerosità del campione e l’ampio periodo che intercorre tra le rilevazioni
di baseline e il follow-up a 8 anni pongono dei limiti alla generalizzabilità
di questi risultati e non consentono di trarre considerazioni definitive.
Bateman e Fonagy (2009) hanno condotto un secondo RCT su un
campione di 134 pazienti ambulatoriali con disturbo borderline di
personalità assegnati casualmente a MBT (sedute individuali e di gruppo a
frequenza settimanale per 18 mesi) o a una terapia di gestione clinica
strutturata (SCM protocol)13. Gli indici di outcome presi in considerazione
allo scopo di testare l’efficacia dei due interventi erano: la frequenza dei
tentativi di suicidio, dei comportamenti automutilanti e delle
ospedalizzazioni (valutati ogni sei mesi in termini di presenza/assenza); il
funzionamento sociale (SAS self-report; Weissman, Bothwell, 1976) e
interpersonale (Inventory of Interpersonal Problem-circumflex versione;
Horowitz et al., 1988; Alden et al., 1990),, il funzionamento globale del
soggetto (GAF), la gravità della sintomatologia depressiva (BDI) e di
quella globale (SCL-90-R) e l’assuzione di farmaci. L’intero campione è
stato valutato all’inizio del trattamento, a 6 mesi dall’inizio della terapia, a
12 mesi dall’inizio della terapia e al termine della terapia (18 mesi).
Dai risultati è emerso che, dopo i primi 6 mesi di trattamento, il gruppo
in MBT ha riportato un miglioramento maggiore nella frequenza dei
comportamenti parasuicidari, nella gravità dei comportamenti auto-
mutilanti e nel numero di ospedalizzazioni rispetto al gruppo in SCM (73%
vs 43%). Tuttavia, la differenza tra i due gruppi è diventata statisticamente
significativa solo dopo 12 mesi di trattamento, evidenziando così una
maggiore efficacia della MBT rispetto alla SCM nel lungo periodo.
13 SCM protocol: trattamento psichiatrico e psicologico combinato basato su tecniche di
sostegno e su interventi finalizzati a migliorare le capacità di problem solving.
20
Nello specifico, negli ultimi 6 mesi di terapia il gruppo in MBT ha
riportato tassi di miglioramento superiori e statisticamente
significativi rispetto al gruppo in SCM nella frequenza dei
comportamenti parasuicidari e la stessa tendenza è stata rilevata
rispetto alla gravità dei comportamenti auto-mutilanti. Infatti, sei
mesi prima del termine del trattamento solo il 24% dei pazienti in
MBT riportava comportamenti automutilanti a fronte del 43% dei
soggetti in SCM. Rispetto alla frequenza di ospedalizzazioni, il
gruppo in MBT ha riportato un numero inferiore di ricoveri già a
partire dai primi sei mesi di terapia rispetto al gruppo in SCM,
mostrando un declino progressivo e una differenza progressivamente
maggiore a 12 e a 18 mesi di terapia. I punteggi GAF hanno
evidenziato un incremento sostanziale (da 41 a 57) per entrambi i
gruppi al termine della terapia, anche se superiore per il gruppo in
MBT. Anche relativamente alla gravità della sintomatologia
depressiva, al grado di adattamento sociale e al funzionamento
interpersonale sono stati rilevati miglioramenti per entrambi i gruppi;
tuttavia, il miglioramento è stato significativamente superiore per il
gruppo in MBT.
Nello specifico, la differenza tra i due gruppi al termine del
trattamento è stata sostanziale in merito alla riduzione dello stress
interpersonale, moderata per l’adattamento sociale e leggermente
inferiore per la sintomatologia depressiva. In linea col
miglioramento sintomatologico, l’assuzione di farmaci si è
sostanzialmente ridotta per entrambi i gruppi: la proporzione di
pazienti che ha smesso di assumere farmaci è aumentata dal 27% di
inizio terapia al 57% al termine della stessa e, allo stesso modo, il
numero di soggetti che ricevevano due o più differenti tipologie di
farmaci si è ridotto dal 30% all’8%. Anche in questo caso, il gruppo
in MBT ha riportato miglioramenti superiori rispetto al gruppo in
SMC.
In sintesi, sebbene i risultati di questo studio suggeriscano che entrambi
i trattamenti sono associati a tassi di miglioramento sostanziali e superiori
alle stime di remissione spontanea della sintomatologia borderline
(Zanarini et al., 2004; Skodol et al., 2005), è emersa una superiorità
statisticamente significativa della MBT rispetto alla SCM in tutti gli indici
di outcome presi in considerazione dopo i primi 12 mesi di trattamento.
Tuttavia, non abbiamo dati rispetto all’andamento della sintomatologia
dopo 36 mesi che permettano di testare la stabilità dei benefici ottenuti.
La meta-analisi di Liechsenring e Rabung (2008) prende in
considerazione 8 studi che valutano l’efficacia di varie tipologie di terapia
psicodinamica nel trattamento di pazienti con disturbo borderline di
21
personalità (Antikainen et al., 1995; Bateman, Fonagy, 1999; Karterud et
al., 1992; Liberman, Eckman, 1981; Munroe-Blum, Marziali, 1995;
Stevenson, Meares, 1992; Tucker et al., 1987; Wilberg et al., 1998).
L’effect-size medio raggiunto dalla psicoterapia psicodinamica è stato di
1.31 (1.00 per le misurazioni self-report e 1.45 per le misure observer-
rated). Quattro studi hanno valutato gli effetti della CBT in pazienti con
BPD (Bohus et al., 2000; Liberman, Ekman, 1981; Linehan, Tutek, Heard,
Amstrong, 1994; Linehan et al., 1999) rilevando un effect-size medio
rispettivamente di 0.95, 0.97 e 0.81. I risultati di queste ricerche,
nell’insieme, indicano che entrambe le terapie sono efficaci nel trattamento
del disturbo borderline di personalità; tuttavia, le differenze relative alla
durata dei trattamenti, ai campioni coinvolti e alle misure di outcome
considerate non hanno consentito una comparazione diretta tra le due
terapie, ragion per cui non possiamo affermare che CBT e terapia
psicodinamica siano “ugualmente” efficaci nel trattamento del BPD
Gregory e collaboratori (2008) hanno effettuato un RCT su un campione
di 30 soggetti adulti con disturbo borderline di personalità in comorbilità
con disturbo da abuso di alcol, assegnati a una psicoterapia dinamica
decostruttiva14 (DDP) e a trattamenti standard15 (TAU), entrambi a
frequenza settimanale e della durata di 12 mesi, con rilevazioni in fase pre-
trattamento, a 3 mesi, a 6 mesi e alla fine della terapia.
Gli indici di outcome presi in considerazione erano: condotte
parasuicidarie, abuso di alcol, utilizzo dei servizi di cura mentale,
sintomatologia depressiva, sintomi dissociativi, sostegno sociale e gravità
del BPD. L’intero campione è stato valutato con la Structured Clinical
Interview for DSM-IV Axis II (SCID-II; First et al., 1997), la Structured
Clinical Interview for DSM-IV Axis I (SCID-I; First et al., 2002) e
un’ampia batteria di test psicologici: Borderline Evaluation of Severity
Over Time (BEST; Blum et al., 2002); Dissociative Experiences Scale
(DES; Bernstein, Putnam, 1986); Treatment History Interview (THI;
Linehan, 1987); Social Provisions Scale (SPS; Cutrona, Russell, 1987).
Inoltre, è stata indagata la frequenza dei comportamenti maladattivi quale
assunzione di droghe e di alcol (Addiction Severity Index; ASI, McLellan
14 La psicoterapia dinamica decostruttiva (DDP) è basata su tecniche di intervento mirate
a: 1. creare e mantenere l’alleanza terapeutica (altro ideale); 2. favorire le capacità di
associazione; 3. favorire l’attribuzione, ossia la capacità di vedere se stessi e gli altri in
modo sfaccetato e complesso; 4. Promuovere l’alterità (ossia la capacità di riflettere su se
stessi e sugli altri in modo oggettivo, e la differenziazione del paziente dal terapeuta (altro
reale) (Gregory, Remen, 2008).
15 La condizione di controllo (Treatment As Usual, TAU) prevedeva una combinazione di
psicoterapia individuale, gestione farmacologica, counseling sull’alcol e sulla droga e
gruppi di autoaiuto.
22
et al., 1992), comportamenti parasuicidari e tentativi di suicidio (Lifetime
Parasuicide Count; LPC, Linehan, Comtois, 1996) negli ultimi sei mesi.
Dei 30 partecipanti del campione iniziale, 24 soggetti hanno
partecipato al trattamento per almeno 6 mesi e solo 19 hanno completato il
trattamento. Dai risultati è emerso che, a 12 mesi, la DDP era associata a
una riduzione statisticamente significativa della frequenza delle condotte
parasuicidarie, dell’abuso di alcol e dell’utilizzo dei servizi di cura
mentale. Lo stesso risultato è emerso in relazione alla gravità della
patologia borderline, della sintomatologia depressiva e del livello di
dissociazione. Anche l’indice di outcome relativo al sostegno sociale ha
evidenziato miglioramenti, anche se non significativi, nel gruppo in DDP.
Viceversa, il miglioramento ottenuto dai pazienti in TAU in tutti gli indici
di outcome presi in considerazione nel corso dei 12 mesi non si è rivelato
statisticamente significativo.
In una seconda fase dello studio (Gregory et al. 2010), condotta sul
medesimo campione di soggetti, sono stati confrontati gli outcome delle
due terapie a un follow-up a 30 mesi.
Dai risultati è emerso che, al follow-up a 30 mesi, il 24% dei pazienti in
DDP partecipava a gruppi di autoaiuto a fronte del 38% dei pazienti in
TAU. Relativamente al cambiamento sintomatologico, quasi tutti i soggetti
in DDP mostravano miglioramenti statisticamente significativi rispetto al
38% dei soggetti in TAU.
In sintesi, i risultati di questo studio confermano l’efficacia e la
superiorità della psicoterapia dinamica decostruttiva (DDP) nel trattamento
dei pazienti BPD con abuso di alcol rispetto ai trattamenti standard (TAU),
evidenziando un miglioramento statisticamente significativo e continuo nel
tempo anche a terapia terminata. Infatti, sebbene il gruppo in TAU mostri
qualche miglioramento in tutti gli indici di outcome presi in
considerazione, solo rispetto ai comportamenti parasuicidari è emerso un
cambiamento statisticamente significativo tra le rilevazioni baseline e il
follow-up a 30 mesi. Tuttavia, alcuni difetti metodologici (terapeuti
inesperti, campione piccolo, misure self-report per rilevare i tassi di abuso
di alcol, trattamenti non standardizzati per il gruppo di controllo ecc.) ne
limitano la validità.
Per determinare se il miglioramento nella sintomatologia borderline
fosse associato all’utilizzo di specifiche tecniche di intervento, Gregory e
collaboratori hanno effettuato un secondo studio sui dati relativi al sotto-
campione di 10 pazienti in DDP che hanno terminato il protocollo di
intervento nel precedente trial controllato randomizzato (Gregory et al.,
2008).
Dai risultati è emersa una correlazione positiva e significativa tra
l’utilizzo della tecnica associativa (aiutare il paziente a costruire narrazioni
sulle proprie esperienze interpersonali e a etichettare le emozioni vissute
23
durante questi incontri) e il miglioramento nella sintomatologia
dissociativa e borderline, nella percezione del sostegno sociale da parte del
paziente e nella frequenza di abuso di alcol. Allo stesso modo, la tecnica di
attribuzione (aiutare il paziente a integrare le rappresentazioni di sé e degli
altri affettivamente polarizzate) sembra associata a miglioramenti nella
sintomatologia borderline e depressiva e a una riduzione nella frequenza di
utilizzo dei servizi di cura. La tecnica altro-ideale (funzione
psicoeducative di un terapeuta empatico e definizione di un contratto
terapeutico basato sulla fiducia tra paziente e clinico) si è rivelata molto
efficace nel favorire lo stabilirsi di una forte alleanza terapeutica valutata
attraverso il Working Alliance Inventory-Short form (WAI-O-S; Tichenor,
Hill, 1989; Tracey, Kokotovic, 1989). Inoltre, dall’analisi delle
correlazioni è emersa un’associazione positiva tra la qualità dell’alleanza
terapeutica e la riduzione dell’utilizzo di servizi di cura mentale, della
gravità della sintomatologia borderline, dell’abuso di alcol e dello stress
globale del soggetto. Infine, la tecnica alterità-altro reale (promuovere la
differenziazione sé-altro e la capacità di instaurare relazioni autentiche e
adattative) ha determinato un significativo miglioramento nella percezione
del sostegno sociale da parte dei pazienti. I risultati di questo studio
suggeriscono quindi che sarebbe meglio pensare alla patologia bordeline in
modo complesso, come un disturbo dalla manifestazione clinica eterogenea
che necessita di trattamenti “su misura”.
In sintesi, sembrerebbe che terapie dinamiche come la TFP, la MBT e la
DDP siano efficaci quanto e più di altri tipi di terapia per i pazienti con
disturbo borderline di personalità BDP.
Le terapie per il disturbo antisociale di personalità
Sono pochissimi gli studi presenti in letteratura sui trattamenti
psicodinamici per il disturbo antisociale di personalità (ASPD) e, per
questo motivo, non abbiamo dati che consentano alcun tipo di
generalizzazione. In generale, comunque, sembra che le terapie dinamiche
non siano i trattamenti d’ elezione per pazienti con ASPD.
Saunders (1996) ha paragonato la CBT (trattamenti cognitivo-
comportamentale di un gruppo femminista) con la STPP su un campione di
136 soggetti che avevano esercitato violenza sui partner, di cui il 40%
affetti da ASPD. I tassi di recidiva sono stati calcolati sul 79% del
campione totale, cioè sui soggetti che hanno fornito dati sul
comportamento violento e aggressivo per due anni dal termine del
trattamento. I risultati non hanno riportato alcuna differenza tra i due
gruppi in termini di recidive. Anche se i tassi di violenza non differivano
24
significativamente tra i pazienti che si sono sottoposti ai due tipi di
interventi, l’assenza di un gruppo di controllo rende difficile giudicare la
loro efficacia. Tuttavia, questo studio ha evidenziato che i soggetti con
disturbo dipendente di personalità traevano benefici maggiori dalla STPP
rispetto ai soggetti con diagnosi di ASPD, che invece traevano maggiori
benefici dalla terapia cognitivo-comportamentale.
Taylor (2000) ha valutato l’outcome dell’ospedalizzazione di 700
detenuti in una comunità terapeutica del servizio carceraio di Grendon
(Regno Unito), gestita secondo principi psicodinamici, paragonandoli a
quelli di un gruppo di controllo appaiato in lista d’attesa e alle condizioni
di 1400 soggetti che facevano parte della popolazione carceraria generale.
La frequentazione della comunità terapeutica sembra associata a una
riduzione del tasso di nuovi atti delinquenziali e sembra vi sia un nesso tra
lunghezza della permanenza e outcome.
Le psicoterapie per i disturbi di personalità del cluster C
Un trial in aperto (Barber, Morse, Krakauer, Crittams, Crits-Christoph,
1997) ha valutato l’efficacia di una terapia psicodinamica espressivo-
supportiva (Luborsky, 1984) a tempo determinato (52 sedute nell’arco di
16 mesi) su un campione di 38 soggetti con disturbo di personalità evitante
e 14 soggetti con disturbo di personalità ossessivo-compulsivo, secondo i
criterio del DSM-III-R, in comorbilità con un disturbo depressivo (71%) e
con un disturbo d’ansia (63%). L’intero campione è stato valutato all’inizio
della terapia, a 4 e a 8 mesi e al termine della stessa.
Dai risultati è emerso che i pazienti con AVPD tendevano a mantenere
la propria diagnosi più a lungo rispetto ai pazienti con OCPD; questi ultimi
restavano in trattamento più a lungo e tendevano a migliorare
maggiormente nel tempo, seppur in modo non significativo, rispetto ai
pazienti con AVPD.
In sintesi, i risultati emersi sembrerebbero suggerire un’efficacia
superiore della terapia espressiva-supportiva breve per pazienti con OCPD
rispetto ai pazienti con AVPD; tuttavia, alcuni limiti metodologici dello
studio, come l’eterogeneità del campione, il numero ridotto di partecipanti
e l’assenza di un gruppo di controllo, limitano la validità e la
generalizzabilità dei risultati di questo studio.
Svartberg, Stiles e Seltzer (2004) hanno valutato l’outcome a 6, 12 e 24
mesi di follow-up di 51 pazienti con diagnosi di cluster C assegnati in
modo casuale a una STPP e a una CBT, entrambe della durata di 40 sedute
a frequenza settimanale, evidenziando che l’intero campione mostrava
miglioramenti che continuavano anche dopo la fine del trattamento, sia dal
25
punto di vista sintomatologico (SCL-90) sia dal punto di vista del profilo
di personalità (Millon Clinical Multiaxial Inventory, MCMI; Millon,
Millon, Davis, Grossman, 2006). Alla fine del trattamento, alla SCL-90 il
38% dei pazienti in STPP e il 17% di quelli in CBT presentavano una
condizione asintomatica e queste percentuali aumentavano in modo
statisticamente significativo, giungendo rispettivamente al 54% vs 42% al
follow-up a due anni. Sono stati rilevati cambiamenti anche nel profilo di
personalità dei soggetti ,anche se la differenza tra i due gruppi non si è
mostrata statisticamente significativa.
Un RCT (Winston et al., 1994) ha paragonato l’efficacia di una STPP
che seguiva i modelli di Malan (1976) e Davanloo (1978), di una
psicoterapia breve tesa a favorire l’adattamento (BAP) in un gruppo di 63
soggetti con disturbi di cluster C paragonati con un gruppo di controllo in
lista d’attesa di 26 soggetti. A un follow-up di lunghezza variabile, che ha
coinvolto i due terzi del campione totale, i pazienti mostravano
cambiamenti significativi al GSI della SCL-90 di circa una deviazione
standard e alcuni cambiamenti alla Social Adjustment Scale (SAS;
Weissman, Klerman, Paykel, Prusoff, Hanson, 1974), senza mostrare
differenze significative tra le varie terapie.
Nel complesso, il quadro che emerge dagli studi relativi all’efficacia
della terapia dinamica nel trattamento dei disturbi di personalità di cluster
C sembrerebbe suggerire la superiorità della STPP rispetto ad altre forme
di terapia breve, soprattutto per il disturbo di personalità ossessivo-
compulsivo
8. Due meta-analisi sull’efficacia delle psicoterapie
dinamiche brevi per disturbi psichiatrici specifici
La meta-analisi di Leichsenring e Rabung del 2008 prende in
considerazione gli studi più recenti (n=17) sull’efficacia della STPP con
durate variabili da 7 a 40 sedute e con un follow-up della lunghezza media
di un anno nel trattamento di disturbi psichiatrici specifici. Gli indici di
outcome presi in considerazione indagano differenti funzioni
psicopatologiche (Rosenthal, Rubin, 1986), i sintomi target delle patologie
(SLC-90), i sintomi depressivi (BDI) e il funzionamento sociale (SAS).
Per i problemi specifici è stato rilevato un effect-size di 1.39 alla fine
della terapia e di 1.57 al follow-up. Relativamente ai sintomi psichiatrici
generali, è stato rilevato un effect-size di 0.90 alla fine della terapia e di
0.95 al follow-up. Infine, il funzionamento sociale ha mostrato
26
cambiamenti caratterizzati da un effect-size di 0.80 alla fine della terapia e
di 1.19 al follow-up (Liechsenring, Rabung, Leibing, 2004).
Rispetto alla stabilità degli effect-size nel tempo è emerso che, per la
STPP, l’effect-size pre-post trattamento era stabile e tendeva ad aumentare
nel tempo (problemi target = 1.44 vs 1.57; sintomi psichiatrici generali =
0.91 vs 0.95; funzionamento sociale = 0.89 vs 1.19); viceversa, per la CBT
l’effect size, sebbene fosse tendenzialmente stabile, non mostrava un
aumento nel tempo (1.37 vs 1.33; 1.01 vs 0.97 e 0.97 vs 1.05).
Anche gli effect-size relativi al paragone tra STPP e condizioni di
controllo e STPP e altri trattamenti (TAU) evidenziano una superiorità
della STPP.
In sintesi, 15 studi su 17 hanno rilevato una differenza significativa
rispetto a ognuno dei tre indici di outcome presi in considerazione (sintomi
target, problemi psichiatrici in generale, adattamento sociale) in merito al
confronto sia tra effect-size pre-post trattamento sia tra rilevazioni pre-
trattamento e follow-up. In tutti i casi le psicoterapie dinamiche si sono
rivelate più efficaci.
Una recente meta-analisi sulla psicoterapia psicodinamica breve,
effettuata su 23 RCT per un campione totale di 1.431 pazienti con diversi
disturbi psichici (Abbass, Hancock et al., 2006), ha evidenziato un
miglioramento statisticamente significativo della sintomatologia (effect-
size pre-post trattamento di .97) nel gruppo sottoposto al trattamento
rispetto al gruppo di controllo. Al follow-up, effettuato 9 mesi dopo il
termine del trattamento, l’effect-size è salito a 1.51. Gli effect-size relativi
alla sintomatologia somatica, ansiosa e depressiva presentano il medesimo
andamento (rispettivamento .81; 1.08 e .59 alla fine del trattamento e 2.21;
1.35 e .98 al follow-up).
I risultati mostrano come la psicoterapia psicodinamica tenda a produrre
cambiamenti nei processi psicologici dei pazienti che aumentano al passare
del tempo, anche dopo la fine della terapia.
Da questa rassegna degli studi sull’efficacia delle psicoterapie
dinamiche, perlopiù, ma non sempre, brevi (≥ 30 mesi) e a bassa frequenza
di sedute (1 o 2 a settimana) per specifici disturbi emerge un quadro
abbastanza coerente: le psicoterapie brevi analiticamente orientate
sembrano efficaci almeno quanto altre forme di terapia nel trattamento
della maggior parte dei disturbi passati in rassegna, ed esiste un certo
numero di prove a sostegno dell’idea che terapie dinamiche più lunghe e
con maggior frequenza di sedute favoriscano outcome di più ampio spettro
(cioè che trascendono la semplice remissione sintomatica) e più stabili nel
tempo. Infine, alcuni studi (Bateman, Fonagy, 1999; 2000; 2008; Gregory
27
et al. 2008; 2010; Abbass, Hancock et al., 2006) suggeriscono che i
risultati delle terapie psicodinamiche tendono a migliorare nel corso del
tempo anche dopo la fine della terapia. Dati che lasciano pensare che i
processi psichici che si attivano nel corso delle terapie dinamiche
continuino anche dopo la fine del trattamento, determinando un ulteriore
miglioramento nelle condizioni di vita dei pazienti.
A questo punto, crediamo sia opportuno affrontare brevemente due
ordini di questioni:
(1) Cosa ci dice la ricerca empirica rispetto all’efficacia dei fattori
terapeutici propri delle psicoterapie dinamiche?
(2) In che misura le ricerche sui trattamenti empiricamente validati ci
danno informazioni utili a comprendere l’efficacia dei trattamenti della
pratica clinica reale?
9. L’efficacia dei fattori terapeutici psicodinamici
Gli ingredienti attivi di una psicoterapia non necessariamente sono
quelli ipotizzati dalla teoria o dal modello di trattamento che il clinico
crede di applicare; detto in altri termini, è possibile che un clinico applichi
un modello X di trattamento pensando che funzioni grazie ai fattori Y e Z
che gli sono propri, ma il tipo di terapia che in realtà mette in pratica
assomiglia di più a un modello W di trattamento e implica i fattori A e B,
che si potrebbero rivelare quelli effettivamente terapeutici.
Queso tipo di possibilità è stata seriamente presa in considerazione in
seguito alla scoperta del famoso “verdetto del Dodo”: uno dei dati più
rilevanti della ricerca sulle terapie brevi è che tutti i trattamenti,
indipendentemente dal modello teorico che li caratterizza, favoriscono
mutamenti sintomatici che vanno oltre le remissioni spontanee, ma nessuno
è più efficace degli altri (Luborsky, 1975).
Di conseguenza – come sostenuto da molti ricercatori – è possibile
ipotizzare che le psicoterapie esercitino i loro effetti grazie a un insieme di
fattori aspecifici o comuni a tutti i modelli. Finora, il fattore terapeutico
aspecifico più indagato è stato l’alleanza terapeutica (Bordin, 1979;
Luborsky, 1994; Safran, Muran, 2000; Horvath, Bedi, 2002; Lingiardi,
2002; Colli, Lingiardi, 2009; Norcross, 2011), forse il migliore predittore
degli outcome delle terapie brevi.
Ciò implica, però, che gli RCT che valutano l’efficacia della
psicoterapia potrebbero non dirci nulla rispetto alla bontà delle premesse
teoriche sottostanti le terapie che cercano di valutare (Wachtel, 2010).
Cosa resa ancor più probabile dal fatto che ci sono molte differenze nel
modo in cui diversi terapeuti applicano lo stesso modello terapeutico,
differenze che riflettono la qualità e lo stile individuale di ogni terapeuta,
28
la necessità dei singoli pazienti e i pattern relazionali peculiari di ogni
coppia paziente-terapeuta.
Per ovviare a questo problema, alcuni studi hanno applicato una
strategia “bottom-up”16 per valutare le caratteristiche di processo di
psicoterapie di diverso orientamento, utilizzando lo Psychotherapy Process
Q-Sort (PQS; per ulteriori approfondimenti si invita il lettore a consultare
Jones, 1985, 2000), uno strumento Q-sort che permette di descrivere cosa
accade in una terapia a partire dall’analisi dei trascritti delle sue sedute, e
non a partire dall’aderenza dichiarata del terapeuta a un particolare
modello teorico.
In un primo studio (Ablon, Jones, 1998), 11 terapeuti esperti nel
trattamento psicoanalitico e in quello cognitivo-comportamentale hanno
descritto con il PQS i prototipi “ideali” di una psicoterapia analitica e di
una psicoterapia cognitiva. Hanno quindi valutato l’aderenza delle prassi di
diversi terapeuti a questi prototipi ideali e hanno correlato il livello di
sovrapposizione tra le terapie condotte e i diversi prototipi con gli outcome
dei trattamenti. Questo studio ha rilevato che l’aderenza al prototipo
psicodinamico predice con successo l’outcome di entrambi i tipi di terapie;
viceversa, l’aderenza al prototipo ideale di CBT non sembra correlato con
l’outcome (Jones, Pulos, 1993).
Anche altri team di ricercatori hanno rilevato che gli elementi
psicodinamici presenti nelle CBT predicono con successo l’outcome di
queste terapie, in particolare rispetto alla sintomatologia depressiva
(Hollon et al., 1992; Hayes, Castonguay, Goldfried, 1996).
Ulteriori studi empirici hanno evidenziato l’associazione positiva tra
processo psicodinamico e outcome (Barber, Crits-Christoph, Luborsky,
1996; Diener, Hilsenroth, Weinberger, 2007; Gaston et al., 1998; Hayes,
Strauss, 1998; Hilsenroth et al., 2003; Hoglend et al., 2008; Norcross,
2002; Pos et al, 2003; Vocisano et al., 2004), sottolineando come anche i
terapeuti CBT utilizzino di fatto interventi di natura dinamica - come le
chiarificazioni e gli interventi centrati su conflitti e difese - e questi
interventi sembrano avere effetti positivi sulla capacità dei pazienti di
partecipare in modo produttivo alla terapia (Waldron, Helm, 2005).
In sintesi, alcuni studi, pur se non in modo inequivacabile, sembrano
suggerire che i fattori terapeutici di natura dinamica favoriscano outcome
positivi anche in psicoterapie che non si definiscono dinamiche. La
somiglianza di ciò che in pratica fanno terapeuti che in teoria credono e /o
affermano di applicare modelli di intervento diversi potrebbe quindi
spiegare, almeno in parte, il “verdetto di Dodo”.
16 Con questo termine, che significa “dal basso verso l’alto”, si indica una strategia di ricerca che
cerca di descrivere cosa “realmente” accade in uno specifico processo terapeutico a partire da
una sua descrizione empirica e a prescindere dal modo in cui quel processo viene definito “a
priori”.
29
10. Il paradosso di Dodo è ancora sostenibile?
Ci potrebbero essere anche altre ragioni per cui gli studi sugli outcome
delle psicoterapie brevi in genere non rilevano differenze tra i risultati dei
diversi modelli di trattamento. Secondo Alla Gordon (2010), ad esempio,
una delle cause di questo “paradosso” va individuata nella scelta degli
indici di outcome utilizzati per verificare l’efficacia dei diversi trattamenti;
scelta influenzata dal modello teorico alla base delle varie tecniche di
intervento. Nello specifico, gli studi sull’efficacia della CBT prendono in
considerazione prevalentemente misure relative alla remissione sintomatica
e raramente indici di outcome tesi a rilevare i cambiamenti nei tratti di
personalità e il miglioramento nelle capacità mentali del soggetto;
viceversa, gli studi sull’efficacia delle terapie psicodinamiche (PDT)
tendono a valutare sia la remissione sintomatica sia i cambiamenti nei tratti
di personalità e nelle capacità mentali del soggetto.
Allo scopo di testare questa ipotesi, Gordon ha condotto una ricerca su
PsycoInfo volta a individuare gli studi pubblicati tra il 1998 e il 2007
relativi all’efficacia di CBT e PDT. Dai risultati è emerso che gli studi
sull’efficacia delle PDT si focalizzano più spesso su indici di outcome tesi
a rilevare i cambiamenti nei tratti e nella struttura di personalità, nelle
capacità mentali, nel funzionamento globale e nel grado di adattamento del
soggetto e che, viceversa, gli studi sull’efficacia della CBT si focalizzano
più spesso su misure volte a rilevare i cambiamenti nella sintomatologia
dei soggetti.
In sintesi, i risultati di questo studio suggeriscono che le ricerche sulla
CBT individuano il focus della psicoterapia prevalentemente nei sintomi,
mentre quelli sulle PDT lo individuano nella struttura di personalità, nei
deficit, nei conflitti e nelle capacità mentali dell’individuo; l’eccessiva
attenzione per la remissione sintomatica può introdurre un bias negli studi
sull’efficacia delle PDT che ne porta a sottostimare gli effetti.
Gli effect-size riportati dagli studi sull’outcome delle PDT forniscono
un quadro distorto del cambiamento ottenuto con trattamenti
dinamicamente orientati e non consentono di discriminare l’efficacia di
differenti forme di trattamento; gli effect-size relativi ai cambiamenti nella
struttura di personalità, nelle capacità mentali ecc., infatti, non dovrebbero
essere paragonati a quelli relativi ai cambiamenti nella sintomatologia dal
momento che questi cambiamenti sono più stabili e hanno un impatto
maggiore sulle qualità della vita del paziente. Per paragonare in modo equo
i risultati conseguiti dai diversi approcci terapeutici è dunque necessario
prendere in considerazione diverse misure di outcome (sintomatologiche e
30
strutturali) e distinguere i domini e gli indici di outcome valutati dalle
diverse ricerche17.
Anche Shedler (2010) sottolinea la presenza di un mismatching tra gli
obiettivi della psicoterapia psicodinamica e gli indici di outcome presi in
considerazione dalla maggior parte degli RCT, perché gli obiettivi di una
terapia dinamica non si limitano alla riduzione della sintomatologia e i
professionisti dinamicamente orientati sostengono da sempre che la salute
mentale non può essere definita soltanto in termini di assenza di sintomi,
ma anche in termini di presenza di capacità e risorse che permettono
all’individuo di condurre una vita più ricca e appagante. E’ dunque
possibile che il paradosso di Dodo sia almeno in parte una conseguenza del
fatto che i ricercatori non sono riusciti a valutare in modo adeguato le
funzioni psichiche su cui agiscono le psicoterapie dinamiche.
Un single-case effettuato su una donna con disturbo borderline di
personalità valutata con la Shedler-Westen Assessment Procedure-200
(SWAP-200; Westen, Shedler, 1999a/b) all’inizio del trattamento e dopo
due anni di terapia (Lingiardi, Shedler, Gazzillo, 2006), ad esempio, ha
evidenziato sia una riduzione nei punteggi relativi ai tratti di personalità
patologici, sia un incremento di capacità come quella di provare empatia,
essere sensibili nei confronti dei bisogni e dei sentimenti altrui, riconoscere
punti di vista alterativi anche in presenza di emozioni forti, essere
consapevole delle conseguenze delle proprie azioni, saper descrivere sé
stessa, apprezzare l’umorismo e trovare significato e apprendere dalle
esperienze dolorose del passato.
Risultati analoghi sono stati evidenziati anche da uno studio
sistematico, clinico ed empirico, su processo ed outcome di una
psicoterapia psicoanalitica di una paziente con organizzazione di
personalità nevrotica (Lingiardi, Gazzillo, Waldron, 2010).
Un terzo studio condotto con la SWAP ha poi paragonato il
funzionamento psichico di 26 pazienti all’inizio e al termine di una terapia
psicodinamica (Cogan, Porcerelli, 2005) evidenziando che il gruppo che
17 E’ possibile che questo tipo di bias spieghi almeno in parte il noto effetto allegiance
evidenziato da Luborsky et al. (1999) secondo cui la fedeltà dei ricercatori al modello teorico di
una delle terapie valutate crea una distorsione dei risultati degli studi comparativi. Nello
specifico, Luborsky e coll. hanno evidenziato un’associazione significativa tra l’allegiancy dei
ricercatori (valutata sia con il metodo reprint, sia da clinici che conoscevano bene i ricercatori sia
sulla base delle dichiarazioni dei ricercatori stessi) e le conclusiooni delle loro ricerche. E dai
risultati è emerso che l’allegiancy spiega circa il 60% dei risultati degli studi. In altri termini 6
volte su 10 possiamo prevedere i risultati delle ricerche sugli outcome delle psicoterapie a partire
dall’aderenza dei ricercaatori al modello teorico di una delle terapie valutate. O, detto in altri
termini, 6 volte su 10 un ricercatore scopre “empiricamente” che la sua terapia di elezione è più
efficace delle altre. E, per amore di verità, è bene che il lettore sappia che gli autori di questo
lavoro sono tutti di orientamento dinamico!
31
aveva terminato la terapia mostrava punteggi più bassi negli item volti a
valutare depressione, ansia, colpa, vergogna, sentimenti di inadeguatezza e
paura del rifiuto, e punteggi significativamente più alti negli item che
descrivono le risorse e le capacità dell’individuo: dalla capacità di
utilizzare i propri talenti al senso di soddisfazione provato per le attività
della propria vita quotidiana; dalla capacità di provare empatia nei
confronti degli altri all’assertività interpersonale; dalla capacità di
utilizzare informazioni minacciose sul piano emotivo a quella di scendere a
patti con esperienze dolorose del proprio passato.
I limiti metodologici insiti in questi studi single case non consentono di
trarre conclusioni definitive, ma suggeriscono che la psicoterapia
psicodinamica è efficace non solo nel determinare una riduzione dei
sintomi, ma anche nel favorire lo sviluppo di capacità e risorse sane.
Dimensioni di cui bisogna tener conto quando si valutano gli outcome di
questo tipo di trattamenti.
11. Alcuni limiti degli Studi Randomizzati Controllati (RCT)
sui Trattamenti Supportati Empiricamente (EST)
Molti studi sull’efficacia delle psicoterapie passati in rassegna nei
paragrafi precedenti presentano poi alcuni limiti piuttosto rilevanti alla loro
validità esterna ed ecologica (vedi Westen et al., 2004; Gazzillo, Lingiardi,
2007; Wachtel, 2010).
Le esigenze della ricerca e il tipo di epistemologia e modellistica
terapeutica cui fanno riferimento gli RCT di validazione delle psicoterapie,
infatti, pongono dei vincoli metodologici specifici che rendono i loro
risultati difficilmente generalizzabili alla pratica reale (Chambless,
Ollendick, 2000; Kendall, Mrrs-Garcia, Nath, Shedlrick, 1999; Nathan,
Stuart, Dollan, 2000):
1) da questi studi devono essere esclusi i soggetti che minano
l’omogeneità dei campioni sperimentale e di controllo; questo vuol dire
che nei campioni delle ricerche sui trattamenti empiricamente supportati
(EST) dovrebbero essere inclusi solo soggetti che hanno uno e lo stesso
disturbo diagnosticabile con i manuali diagnostici internazionali. Le
eventuali comorbilità vanno controllate o escluse dall’analisi;
2) i trattamenti da valutare devono essere brevi, o comunque devono
avere una durata prefissata, perché il protocollo di ricerca deve essere
standardizzato e il quadro clinico presentato dai pazienti all’inizio, alla fine
della terapia e al follow-up deve essere valutabile a parità di tutte le altre
condizioni (numero di sedute settimanali, durata ecc.);
3) i trattamenti devono essere mirati alla cura di un unico disturbo
clinico o set di disturbi clinici diagnosticabili con i manuali
psicopatologici accettati dalla comunità internazionale (Goldfried, 2000) e
32
dovrebbero essere specifici per quel/i disturbo/i (Wilson, 1998) e
manualizzati; il livello di aderenza dei professionisti coinvolti negli studi
alle prescrizioni del manuale va inoltre verificato empiricamente.
In sintesi, il movimento EST cerca di elaborare trattamenti
psicoterapeutici brevi, manualizzati e finalizzati alla cura di disturbi
specifici diagnosticabili in DSM o in ICD, e di valutarli per mezzo di
campioni di soggetti omogenei trattati (e/o valutati) in modo identico e per
la sola patologia bersaglio.
Numerose ricerche indicano, però, che in genere non si inizia una
psicoterapia per un singolo disturbo diagnosticabile in DSM, e che anzi
circa la metà dei pazienti con un disturbo diagnosticabile in Asse II
presenta anche disturbi di Asse I e viceversa (Newman, Moffit, Caspi,
Silva, 1998; Zimmermann, McDermut, Mattia, 2000) e molti pazienti
presentano disturbi di Asse I o di Asse II sotto-soglia (Howard et al., 1996;
Messer, 2001), e dunque a rigore non diagnosticabili. Infine, non abbiamo
prove empiriche a sostegno dell’ipotesi secondo cui persone diverse cui è
diagnosticato uno stesso disturbo possano beneficiare ugualmente dello
stesso tipo di trattamento.
Un ulteriore assunto degli studi sugli EST non confermato dai dat