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Un difficile accordo tra prevenzione e promozione secondo il modello biopsicosociale della disabilità

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Il modello di disabilità proposto alla comunità internazionale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità [OMS] e diffuso attraverso la Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute [ICF] (WHO, 2001), apre nuove prospettive sulla ridefinizione dell’intervento preventivo. Definito come modello di tipo biopsicosociale, in quanto integra le varie dimensioni del funzionamento umano proposte da due modelli dicotomici che per anni hanno caratterizzato opposte fazioni all’interno del dibattito internazionale sulla disabilità (il modello medico e il modello sociale), il modello biopsicosociale risulta dirompente per il concetto di “prevenzione terziaria che ha come scopo limitare le disabilità connesse al disturbo”, come ricorda Ammaniti nell’intervento che inaugura questo dibattito, ed apre una serie di problemi e di prospettive che vorremmo tentare qui di richiamare.
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Un difficile accordo tra prevenzione e promozione
secondo il modello biopsicosociale della disabilità
1
Stefano FEDERICI Marta OLIVETTI BELARDINELLI
Dipartimento di Scienze Umane e della
Formazione – Università degli Studi di Perugia
Email: sfederic@unipg.it
Dipartimento di Psicologia – Università degli
Studi di Roma “La Sapienza”
Email: marta.olivetti@uniroma1.it
Il modello di disabilità proposto alla comunità internazionale
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità [OMS] e diffuso attraverso la
Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute [ICF]
(WHO, 2001), apre nuove prospettive sulla ridefinizione dell’intervento
preventivo. Definito come modello di tipo biopsicosociale, in quanto integra
le varie dimensioni del funzionamento umano proposte da due modelli
dicotomici che per anni hanno caratterizzato opposte fazioni all’interno del
dibattito internazionale sulla disabilità (il modello medico e il modello
sociale), il modello biopsicosociale risulta dirompente per il concetto di
“prevenzione terziaria che ha come scopo limitare le disabilità connesse al
disturbo”, come ricorda Ammaniti nell’intervento che inaugura questo
dibattito, ed apre una serie di problemi e di prospettive che vorremmo tentare
qui di richiamare.
Come l’evoluzione storica dei modelli di classificazione e degli strumenti di
misurazione della disabilità mette in evidenza, proprio sul terreno della
prevenzione terziaria si evidenziano le difficoltà di integrazione del modello
medico e del modello sociale. Infatti, sebbene già nel 1976 l’OMS avesse
approvato l’introduzione del modello sociale nella classificazione delle
disabilità, il primo tentativo di una classificazione internazionale della
disabilità (WHO, 1980, [ICIDH]) non riuscì a superare il modello medico,
sequenziale e causale (cfr. Bickenbach, Chatterji, Badley, e Üstün, 1999), che
faceva della disabilità (e/o handicap) l’esito diretto di una menomazione
dell’individuo che «limita o impedisce il compimento di una funzione che è
normale (rispetto all’età, al sesso e ai fattori sociali e culturali) per
quell’individuo» (ICIDH, p. 29).
Già un anno dopo la pubblicazione dell’ICIDH, la connessione causale tra
menomazione e handicap veniva messa in crisi da Disabled People’s
International, sulla base della distinzione avanzata dall’Union of the Physically
Impaired Against Segregation [UPIAS] tra: menomazione come limitazione
funzionale in un individuo causata da una particolare condizione fisica,
mentale e/o sensoriale, e disabilità come perdita o limitazione di opportunità
alla partecipazione di una vita normale della comunità al pari livello degli
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In corso di pubblicazione su Psicologia clinica dello sviluppo. Non è autorizzata dagli autori la
riproduzione.
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altri, dovuta alle barriere fisiche e sociali. Veniva così affermato un principio
fondamentale del modello sociale, ovverosia che «è la società che rende
disabili le persone con menomazione fisica. La disabilità è qualcosa di
imposto sopra le nostre menomazioni, ovverosia [i menomati vengono] isolati
ed esclusi come inutili dalla piena partecipazione alla vita della società».
Solo nel 2001 la nuova classificazione delle disabilità promossa dall’OMS,
l’ICF, è riuscita ad integrare questi principi con le condizioni di salute di un
individuo, cioè la dimensione “corporea” e “individuale” legata al concetto di
disabilità. La disabilità dunque non è più intesa come una conseguenza
manifesta di una condizione di salute patologica, ma come una specifica,
momentanea o permanente, modalità di “funzionamento” di un individuo in
un determinato contesto. Per questo si può sostenere che l’ICF «non classifica
le persone, ma descrive le situazioni di ciascuna persona nella forma dei
domini della Salute e ad essa connessi» (ICF, 3.3).
Il passaggio dal modello dell’ICIDH al modello dell’ICF ha conseguenze non
piccole sul concetto stesso di prevenzione. Infatti, la successione lineare che
ancora caratterizza il modello dell’ICIDH comporta un intervento di
prevenzione di tipo medico-psichiatrico come quello di G. Caplan (1964)
secondo il quale la prevenzione è rivolta e graduata rispetto al
disturbo/sintomo e quindi principalmente definita e misurata sull’individuo
portatore del disturbo (v. fig. 1).
malattia
menomazione
disabilità
handicap
Prevenz.
PRIMARIA
Prevenz.
PECONDARIA
Prevenz.
TERZIARIA
Figura 1: Integrazione del modello di disabilità dell’ICIDH (WHO, 1981) e del modello
preventivo di Caplan (1964).
Nella prima riga è riportato il diagramma dell’ICIDH mentre nella seconda riga
la successione dei livelli preventivi secondo il modello di Caplan.
Tutti i livelli di prevenzione, la primaria che tende a contenere la
menomazione, e la secondaria che mira a limitare le disabilità connesse al
disturbo, nonché la terziaria che agisce prima che una limitazione
nell’esecuzione di una attività, nel modo o nella misura considerato normale
per un essere umano, comprometta il compimento di quelle funzioni
considerate rilevanti per la sopravvivenza di un individuo in un determinato
contesto socioculturale (orientamento, indipendenza fisica, mobilità,
occupazione, integrazione sociale, autonomia economica [cfr. ICIDH, sez. 4]).
sono comunque graduati, nel modello medico, rispetto all’individuo e al
“suo” sintomo.
Diversamente il modello biopsicosociale promosso dall’ICF considera la
disabilità come l’esito complesso e multiderminato di tre principali fattori: le
condizioni di salute di un individuo, i fattori personali e i fattori ambientali.
La reciproca triadica causazione dei fattori supera la prospettiva eziologica a
sviluppo lineare che da alterate condizioni di salute conduce alla disabilità.
Nel nuovo modello biopsicosociale la disabilità, intesa sia come limitazione
delle abilità individuali, sia come restrizione nella partecipazione sociale, è
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certamente connessa ad uno stato di salute, considerato convenzionalmente
patologico, ma non per questo si considera causata necessariamente dallo
stesso stato di salute come nel modello lineare dell’ICIDH (v. fig: 2).
Condizioni di salute
Fattori ambientali
Fattori personali
Condizioni di salute
Fattori ambientali
Fattori personali
Figura 2: Adattamento delle interazioni tra le componenti dell’ICF (cfr. ICF, p. 23).
La triadica circolarità dei fattori che influenzano la disabilità nel modello
biopsicosociale mette in questione gli attuali modelli di prevenzione alla
salute in quanto non permette di predire l’effetto causativo, proprio perché il
tempo stesso è una variabile del modificarsi delle relazioni causative.
Pertanto, è possibile stabilire solo ciò che in questo momento e in queste
condizioni ambientali determina una condizione di disabilità; viceversa, la
restrizione alla partecipazione ad attività considerate normali per
quell’individuo, limita o compromette l’esercizio di tali attività, determinando
un malfunzionamento dell’individuo e lasciando emergere la disabilità solo
nel qui e nell’ora del contesto in cui le barriere si manifestano.
Ne consegue che, poiché ogni modello preventivo che si fondi su una
concezione eziopatologica di disturbo deve descrivere aprioristicamente, in
un qui e in un’ ora pre-visti, ogni condizione di disabilità, intesa come
manifestazione del malfunzionamento di un individuo, secondo il modello
biopsicosociale, la prevenzione, quale riduzione delle cause che determinano
l’insorgere di un sintomo e della sua morbosità, non può essere applicata alla
disabilità, non essendo possibile prevedere quali restrizioni emergeranno in
un determinato momento ed in un determinato contesto socioculturale.
Quando N. Groce si recò nell’Isola di Vineyard, di fronte alle coste del
Massachusetts, per svolgere un’indagine sulla popolazione udente, abituata al
bilinguismo (Inglese e la Lingua dei Segni), essendo stata l’isola popolata da
un maggioranza di sordi, trovò che nessuno degli anziani udenti intervistati
identificava i sordi come un gruppo a sé, come “i sordi”. L’integrazione tra gli
udenti e i sordi era stata così perfetta che con difficoltà riuscivano ad elencare
più di uno o due loro conoscenti come sordi.
Ora, supponiamo che la Groce fosse stata inviata come responsabile di un
progetto governativo di prevenzione della sordità, e che avesse previsto un
piano generale di informazione sulle malattie geneticamente trasmissibili e
sui vantaggi che si sarebbero ottenuti nella salute degli isolani se i giovani si
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fossero accoppiati con altri provenienti dal continente. Immaginiamo ancora
che la Studiosa, sempre in qualità di rappresentate governativo, avesse
garantito a tutti i genitori con bambini sordi di poter ricevere finanziamenti
per il trapianto cocleare dei loro figli.
Ebbene, potremmo chiamare certamente questo un piano preventivo a favore
della salute generale della popolazione, ma certo non lo avremmo potuto
chiamare preventivo di una disabilità sensoriale. Infatti, pur non essendoci
dubbi che i sordi dell’Isola di Vineyard, come i sordi in ogni altra parte del
globo, soffrano di una disfunzione sensoriale, secondo uno standard medico,
pur tuttavia non possiamo dire che si sarebbe fatta una prevenzione alla
disabilità. Nell’Isola di Vineyard, infatti, nessun individuo sordo era un
disabile perché sordo. Quel tipo di prevenzione socio-sanitaria non avrebbe
rappresentato di certo un piano preventivo alla disabilità secondo il modello
biopsicosociale.
Questo non vuol dire che non si dovrebbe affrontare e prevenire il rischio che
correrebbe uno di quegli isolani sordi se, per esempio, già solo a poche miglia
di distanza dall’Isola Vineyard, si trovasse a transitare in una stazione
ferroviaria o in un aeroporto del Massachusetts, dove non solo la lingua dei
segni non è parlata dalla maggioranza delle persone, ma la gran parte delle
informazioni necessarie al funzionamento dei servizi è affidata alla lingua
parlata o a segnali acustici.
Quello che vogliamo affermare è che, se il modello medico di prevenzione
fosse applicato alla disabilità, esso non garantirebbe necessariamente un
miglioramento delle condizioni di integrazione individuale e sociale.
Alcune comunità di sordi, soprattutto francesi, stanno oggi combattendo
affinché non vengano stanziati fondi per la ricerca e la diffusione
dell’impianto cocleare (considerando anche, non solo la sua invasività in età
precoce ma anche i danni permanenti che provoca ai residui uditivi nella
percentuale di casi di insuccesso), quanto piuttosto vengano impiegati per
l’utilizzo sempre più diffuso nella comunicazione sociale, della lingua dei
segni, non invasiva per gli udenti, e con percentuali di insuccesso pari a
quelle dell’apprendimento di una qualsiasi seconda lingua. Un intervento
preventivo che tenesse conto di queste richieste non modificherebbe in alcun
modo le cause prossime o remote del sintomo sordità, ma la modalità di
comunicazione all’interno della comunità, tra udenti e sordi, non più
considerati questi ultimi come “malati”, “insani”, “non udenti”, venendo in
linea di principio considerato “normale” o “sano” ciascun individuo
appartenente alla popolazione o al gruppo di riferimento.
Il modello biopsicosociale ci offre anche una prospettiva sul concetto di salute
che non sempre collima con quella medica. Come detto sopra, l’ICF definisce
la disabilità come l’esito complesso e multideterminato della relazione tra la
condizione di salute di un individuo, i fattori personali e i fattori ambientali
che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo (ICF, 4.4) e, stabilita la
circolarità causativa tra queste tre determinanti, anche il concetto di salute
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proposto dal modello biopsicosociale viene ad essere modificato, non
collimando più con quello improntato al modello medico. Dal momento che
ambienti diversi possono avere un impatto molto diverso sullo stesso
individuo con una certa condizione di salute, come fa notare l’ICF «due
persone con la stessa malattia possono avere diversi livelli di funzionamento e
due persone con lo stesso livello di funzionamento non hanno
necessariamente la stessa condizione di salute» (ICF, p. 12). Ma non è tutto:
sulla base dell’interazione biunivoca e circolare tra le componenti, «la
presenza di una disabilità può anche modificare la stessa condizione di
salute» (ICF, p. 22). Le interconnessioni tra fattori di tipo biologico,
strutturale, funzionale, delle abilità, della partecipazione sociale, dei vari
contesti e delle varie dimensioni psicologiche e personali non concedono
eziologie semplici, centrate solo sui livelli fisiopatologico, neurologico ed
anatomico.
La salute resta un concetto discusso ed ampio resta il dibattito sollevato da
quanti hanno dimostrato quanto spesso le decisioni pubbliche riguardanti la
salute offrono risposte assai poco adeguate alla comprensione della propria
malattia e della sofferenza dei singoli pazienti (Kleinman, 1988; 1995). In un
ben noto studio riportato da A. Sen (2002) sulle differenze di autopercezione
della propria condizione patologica (morbidità) risulta, ad esempio, che gli
statunitensi hanno un punteggio di morbidità circa 10 volte maggiore di
quello percepito dagli abitanti di uno dei più poveri stati dell’India.
Figura 2: Incidenza della morbidità dichiarata in India, nella metà degli anni ‘70,
comparata con gli Stati Uniti, nella metà degli anni ‘80 (Murray & Chen, 1992; Drèze & Sen
2001).
Secondo i risultati di questa indagine dovremmo concludere
che le condizioni di salute della popolazione dello stato
indiano del Bihar sono migliori di quelle della popolazione
degli Stati Uniti d’America. In base a questi risultati ogni
progetto mondiale di intervento a favore della salute e della
qualità della vita delle popolazioni in via di sviluppo sembra
difficile da giustificare.
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Ma se si considera il fatto, difficile da contestare, che la salute di una persona
è qualcosa che sopravanza di molto la sua condizione medico-sanitaria,
comprendiamo anche l’importante contributo che il modello biopsicosociale
di disabilità può offrire sul piano della prevenzione: integrare la prevenzione
della salute con la promozione del benessere.
Quel che ci ha insegnato questa nuova prospettiva sulla disabilità è che la
salute e gli stati ad essa correlati non sono circoscrivibili ai soli indici che la
medicina può offrire. Dato il suo carattere difficilmente pre-vedibile, la salute
non può essere semplicemente programmata anticipatamente e garantita
preventivamente. Il funzionamento e la salute di un individuo possono
certamente giovarsi della prevenzione mirante a garantire standard di
vivibilità e prevenire condizioni di malessere. Ma non basta. La salute ha
bisogno di essere promossa. A differenza della prevenzione la promozione
non pre-vede uno standard di normalità a cui tendere, né una sindrome da
circoscrivere o eliminare. La promozione fa sue le condizioni ritenute
favorevoli nel qui e nell’ora e le diffonde attivamente.
Promuovere la disabilità non significa eliminare la disabilità, quanto piuttosto
abbattere le condizioni disabilitanti un individuo. Eliminare la disabilità può
spettare alla prevenzione, con tutti i rischi che ciò può comportare, mentre
abbattere le barriere sociali spetta alla promozione della disabilità, intenta a
promuovere la diversità.
Sul terreno della Psicologia cognitiva l’adozione del modello biopsicosociale
offre nuove prospettive, disancorando i paradigmi sperimentali dal
pregiudizio della “normalità” del funzionamento della mente umana.
I diversi e molteplici funzionamenti, anche quelli che una psicofisiologia
classificherebbe come anomali e menomati, possono essere considerati come
modi diversi di costruzione della realtà. Questa diversità di prospettive sul
mondo, quale risultato di processi diversi di elaborazione dell’informazione
da parte di ogni singolo individuo non più di per sé indicativa di deficit o
carenze, può rivelarsi foriera di inaspettati sviluppi.
L’originalità della costruzione individuale del rapporto circolare tra salute,
ambiente ed individuo svuota di significato l’uso corrente del termine
disabilità, mettendo piuttosto in evidenza la novità del risultato prodotto da
tale agire diversamente umano.
La promozione più che la prevenzione della disabilità anche nel campo della
ricerca scientifica è una sfida, che spesso sconvolge alcuni assunti
correntemente accettati, alla ricerca di mondi possibili.
Riferimenti bibliografici
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Federici-Olivetti Belardinelli (2006).
Psicologia Clinica Dello Sviluppo,
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... Se Nora Groce fosse stata la responsabile di un progetto governativo sulla prevenzione della sordità e avesse dovuto programmare un intervento per ridurne l'incidenza in quel territorio, ad esempio predisponendo un piano di sovvenzioni finanziarie ai genitori per favorire l'impianto di protesi cocleari nei bambini non udenti, avrebbe certamente operato secondo un'ottica di promozione della salute all'interno dì un modello medico di disabilità, ma è difficile sostenere che il suo intervento sarebbe stato efficace in termini di prevenzione, o di promozione del benessere della popolazione non udente dì Marthàs Vineyard (Federici, Olivetti Belardinelli, 2006). 1'.impianto di protesi cocleari, infatti, è fortemente osteggiato da molte comunità di non udenti nel mondo, sia per il suo essere un intervento invasivo, sia per non garantire affatto un'alta percentuale di successo, ma, al contrario, per il rischio di danni permanenti nel caso di insuccesso. ...
... La risposta a questa domanda è inevitabilmente connessa con il modello di salute, di benessere e di qualità della vita cui si sceglie di aderire e con il concetto di cura che di quel modello è espressione. Se la cura è intesa come il complesso di prescrizioni mediche e di strumenti terapeutici che hanno lo scopo di guarire una malattia o di migliorare uno stato patologico, non vi è alcun dubbio che, nel caso dell'isola di Martha Vineyard, gli incentivi economici all'impianto cocleare o, anche, una politica in grado di stimolare il flusso migratorio da e verso l'isola, favorendo la mescolanza genetica e impedendo l'isolamento della popolazione, avrebbero pienamente rappresentato quel modello di tutela della salute e di promozione del benessere (Federici, Olivetti Belardinelli, 2006). Tuttavia, quanto può essere efficace un intervento sulla salute che si basi unicamente sulla valutazione oggettiva del funzionamento di un individuo senza tenere in alcun conto della dimensione soggettiva, ovvero della percezione del suo funzionamento a un livello psicologico esistenziale? ...
Chapter
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Health is a complex and multifactorial construct that coincides with a state of complete physical, mental and social well-being and does not merely consist of the absence of disease, impairment, or infirmity. For this reason, pharmacological treatments alone cannot achieve well-being in the person to whom they are being administered. A growing body of studies on the placebo effect and unconventional treatments are testing the effectiveness of tools, techniques, and alternative procedures in pharmacological treatment, with more and more encouraging results. As a consequence of these findings, a new concept of care is emerging, which is pushing the specific techniques of each approach, pharmacological or not, into the background by focusing on the factors which are common to all treatments. The element that can summarize the majority of these factors is, in all likelihood, a helping relationship, within which techniques, medications, and placebos acquire meaning and significance as useful tools to achieve personal well-being.
... In other words, objective and subjective dimensions are concerned from the different points of view of individual functioning: On the side of the professional, most of the ICF's dimensions can be viewed as objective dimensions, for a codifiable and measurable individual functioning; on the side of the user, most of the ICF codes are relevant insofar as they are elements of subjective individual functioning or disability experience. Because the goal of the ATA process is user wellbeing, by providing the best match of user and AT solution, with human well-being as an outcome of a subtle equilibrium between the subjective and objective dimensions of health (Federici and Olivetti Belardinelli, 2006;Sen, 2002; see Chapter 2), the psychologist should pay significant attention to balancing the subjective and objective factors by mediating between the user's request and the multidisciplinary team's AT solution provision. ...
Chapter
The present chapter deals with the role and the competencies of the psychologist in a center for technical aid. The lapse of the psychologist’s role in assistive technology (AT) assessment is probably due to the non-coding of personal factors in the ICF. In viewing the psychologist as the “specialist” on personal factors, the authors call for a revision of the ICF, so that in the biopsychosocial model, “psycho” does not continue as merely a prefix. The psychologist in a center for AT evaluation and provision has the goal of supporting the user’s request in the user-driven process, as well as acting as a mediator for users. The psychologist also acts to build a team spirit and enhance the relationship between the client and the home environment. Finally, an original study closes the chapter, focusing on the psychologists’ and professionals’ representations of disabled users and AT.
... [14,15] In this case, a disability assessment tool designed to evaluate restrictions on participation would register little evidence of disability in the bilingual context and, in contrast, much greater disability in the monolingual context, despite the similar epidemic diffusion of deafness in the two contexts. [16] In recognition of this context dependency, the ICF does not prescribe specific measurement tools; as Zola argued, [17] any attempt to identify standard indices of disability represents a futile attempt to define disability as a fixed, dichotomous concept rather than as the fluid, continuous experience it is in practice. Although disability is neither a fixed nor dichotomous concept, this does not mean it cannot be measured: the clearness of the purpose of the measurement ensures identification of the most suitable tools. ...
Article
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Purpose: This systematic review examines research and practical applications of the World Health Organization Disability Assessment Schedule (WHODAS 2.0) as a basis for establishing specific criteria for evaluating relevant international scientific literature. The aims were to establish the extent of international dissemination and use of WHODAS 2.0 and analyze psychometric research on its various translations and adaptations. In particular, we wanted to highlight which psychometric features have been investigated, focusing on the factor structure, reliability, and validity of this instrument. Method: Following Preferred Reporting Items for Systematic reviews and Meta-Analyses (PRISMA) methodology, we conducted a search for publications focused on “whodas” using the ProQuest, PubMed, and Google Scholar electronic databases. Results: We identified 810 studies from 94 countries published between 1999 and 2015. WHODAS 2.0 has been translated into 47 languages and dialects and used in 27 areas of research (40% in psychiatry). Conclusions: The growing number of studies indicates increasing interest in the WHODAS 2.0 for assessing individual functioning and disability in different settings and individual health conditions. The WHODAS 2.0 shows strong correlations with several other measures of activity limitations; probably due to the fact that it shares the same disability latent variable with them. Implications for Rehabilitation WHODAS 2.0 seems to be a valid, reliable self-report instrument for the assessment of disability. The increasing interest in use of the WHODAS 2.0 extends to rehabilitation and life sciences rather than being limited to psychiatry. WHODAS 2.0 is suitable for assessing health status and disability in a variety of settings and populations. A critical issue for rehabilitation is that a single “minimal clinically important .difference” score for the WHODAS 2.0 has not yet been established.
... For a close analysis of the revision path that led from ICIDH in 1980 to current ICF, we suggest the excellent work by Bickenbach, Chatterji, Badley, and Üstün [7]. Lastly, for a critical work about ICF's biopsychosocial model and about models of health prevention, see Federici and Olivetti Belardinelli [8]. spectives, except the work by Adams, Swain and Clark that is dedicated to the teachers' point of view about the meaning of 'specialness' (referred to English 'special' schools) in theory and practice. ...
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Representations of disability shaping the opinions, attitudes, and behaviour of 90 participants (teachers, parents, and special needs educators) are investigated in order to better evaluate the spread of the biopsychosocial model proposed by the ICF. The quasi-experimental purpose was investigated through both qualitative analyses and by quantitative analyses. The results demonstrate a richness of perspectives on disability much broader than the medical, social, and biopsychosocial ones. The limited diffusion of the biopsychosocial model among parents shows the lack of an ‘open view’ towards personal empowerment, social growth, and improvement of the quality of life. This suggests a priority: The need to further involve parents in the educational actions, in order to promote an effective management of personal and environmental resources to better face the disability of their own children. In such a way it would be possible to develop and promote a new ‘culture of diversities’.
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It has been widely recognized that a gap in the series of existing classifications in health was the absence of one dealing with impairments, disabilities and resulting handicaps. The International Conference for the Ninth Revision of the International Classification of Diseases (ICD) which met in Geneva in 1975 considered draft proposals for a scheme to remedy this deficiency. In May 1976, the Twenty-ninth World Health Assembly in resolution WHA 29.35 accepted the recommendation that a classification of impairments and handicaps should be published for trial purposes as a supplement to the ICD. The manual is now available, and its potential implications for health and social policy development could be considerable. It provides a clarification of the concepts and terminology relating to the consequences of chronic and disabling conditions, and offers a medium for the better description of the different planes of experience that result from disease.